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Newsletter n. 232 del 28 settembre 2021
Se il papa annuncia il Vangelo
Care Amiche ed Amici,
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un singolare carteggio polemico si è scambiato in questi giorni tra due rabbini in rappresentanza dell’ebraismo mondiale e il cardinale Kurt Koch, presidente della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Materia del contendere è stata la catechesi sulla lettera di san Paolo ai Galati che papa Francesco sta tenendo ai fedeli nelle udienze generali del mercoledì. Per i cristiani la lettera ai Galati non è archeologia: come scrive il gesuita padre Giancarlo Pani nel presentarne un’edizione, “si tratta della prima riflessione sulla fede per la salvezza”, scritta prima ancora dei Vangeli, e in quanto chiarisce “in che cosa consista la salvezza donata da Cristo” “ è fondamentale anche per noi, per i cristiani di ogni generazione e di tutti i tempi”.
In particolare quella a cui i rabbini hanno reagito è la catechesi papale dell’11 agosto scorso sul tema del rapporto tra Legge e Vangelo che è al centro del messaggio paolino: i Galati, spinti da missionari rigidi e fondamentalisti stavano perdendo la libertà arrecata dal Vangelo per ricadere nel formalismo ipocrita dell’osservanza della Legge e Paolo, come fa Francesco con i fedeli di oggi, li esorta nella sua lettera a non tornare indietro per non finire di nuovo sotto le vecchie schiavitù.
I due rabbini sono Rasson Arussi, che a nome del Gran Rabbinato di Israele a Gerusalemme presiede la Commissione per il dialogo con la Santa Sede, e il rabbino David Sandmel che presiede il Comitato Ebraico per le Consultazioni Interreligiose a New York; i due rabbini hanno scritto una vibrata lettera al cardinale Koch riscontrando nelle affermazioni del papa sulla liberazione dalla Legge di Mosè operata da Gesù “un insegnamento sprezzante verso gli ebrei e verso l’ebraismo”. Papa Francesco aveva fatto riferimento all’immagine paolina della Torah come “pedagogo” per giungere a Gesù, immagine non certo denigratoria, ma i rabbini hanno ritenuto che in tal modo il Papa non solo avesse presentato la fede cristiana come un superamento della Torah (che secondo Paolo Cristo aveva portata a compimento nello Spirito Santo secondo il comandamento dell’amore) ma avesse sostenuto che quest’ultima non dà la vita, il che implica che la pratica religiosa ebraica nell’era attuale è obsoleta.
Questa protesta ufficiale dell’ebraismo è giunta come un fulmine a ciel sereno e del tutto imprevedibile perché mai come con papa Francesco i rapporti del cristianesimo con le altre religioni sono state presentate in modo più accogliente e meno esclusivo, mentre uno straordinario amore il papa ha manifestato in tutti i modi proprio nei riguardi degli ebrei. Degli stessi Comandamenti il papa non aveva affatto detto che non si dovessero osservare ma che anzi bisogna camminare sulla loro strada, senza però cadere nel fondamentalismo che distoglie dall’incontro con Gesù e quindi con il Padre. Né si può dire che Francesco avesse detto qualcosa di nuovo riguardo ai rapporti con l’ebraismo o vi avesse aggiunto qualcosa di suo; lui stesso ha espresso meraviglia per l’accusa che gli era stata rivolta quando in una successiva catechesi, quella del 1 settembre, senza arretrare dal suo insegnamento, ha detto che la sua spiegazione della Lettera di San Paolo ai Galati “non è una cosa nuova, una cosa mia; è quello che dice San Paolo, in un conflitto molto serio, ai Galati. Ed è anche Parola di Dio, perché è entrata nella Bibbia. Non sono cose che qualcuno si inventa, no. È una cosa che è successa in quel tempo e che può ripetersi”. Perché dunque i rabbini se l’erano presa?
Una risposta articolata è stata poi fornita ai due interlocutori in una lettera del cardinale Koch, scritta dopo aver sentito il papa stesso. In essa si dice che “la convinzione cristiana costante è che Gesù Cristo è la nuova via di salvezza. Tuttavia questo non significa che la Torah sia sminuita o non più riconosciuta come la ‘via di salvezza per gli ebrei’”. Come il Papa aveva detto in un discorso fatto in Vaticano nel 2015 al Consiglio internazionale dei cristiani e degli ebrei, che il cardinale richiama e conferma, “le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; il giudaismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fatta carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede trovano il loro fondamento nel Dio unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela attraverso la sua Parola”.
Questa controversia che si è accesa tra il papa e gli ebrei è sorprendente perché non ha altra causa che la predicazione del Vangelo, come se essa stessa fosse causa di offesa per gli ebrei; ma se così fosse sarebbe il Vangelo stesso a dover essere taciuto, non ci sarebbe rimedio all’inimicizia e tutti gli sforzi fatti per stabilire una vera comunione con gli ebrei dopo il Concilio sarebbero vani.
La pietra dello scandalo sarebbe la teologia di Paolo che più di ogni altro ha presentato la novità cristiana come una liberazione dalla legge mosaica. In effetti Paolo è sempre stato considerato un nemico dagli ebrei, che gli imputano di aver teorizzato il trasferimento dell’elezione divina da Israele alla Chiesa. Ma non tutti gli ebrei pensano così e qui va ricordata la rilettura di Paolo fatta dal grande intellettuale ebreo Jacob Taubes che nel suo seminario tenuto poco prima di morire a Heidelberg nel 1987 su “La teologia politica di san Paolo” , ha sostenuto che Paolo non è un “convertito” dall’ebraismo, non di questo si sarebbe trattato nel famoso episodio di Damasco; si trattò invece di una chiamata, di una vocazione, come quella di un altro grande profeta ebreo, Geremia, che, prima ancora di nascere era stato “stabilito profeta delle nazioni” (Ger. 1,5); è lo stesso Paolo, osservava Taubes, che si presenta come “chiamato” ad un compito, prescelto per vocazione ad essere apostolo (infatti non lo era, come gli altri dodici), “inviato dagli ebrei ai pagani”, restando, pertanto, ebreo. Né Paolo ha tradito l’ebraismo perché tutt’altro che affermare una revoca delle promesse di Dio al popolo eletto, ha sostenuto che la promessa di Dio al popolo d’Israele è irrevocabile; non si trattava per lui di trasferire l’elezione da un popolo a un altro, sia pure più grande, ma di estendere l’elezione a tutti i popoli in forza non più di un’obbedienza alla legge ma di una “obbedienza alla fede”; e la dialettica interna di questa posizione è quella espressa nel cap. 9 della lettera ai Romani, secondo cui si trattava di volgere gli stranieri alla fede per “ingelosire” Israele; e quando a causa dell’ “indurimento” di una parte d’Israele fosse entrata la totalità delle nazioni, allora tutto Israele (pás Israel) sarebbe stato salvato, come dice al cap. 11 la lettera ai Romani. Questa è la tesi di Taubes che fa di Paolo il grande profeta ebreo chiamato da Dio a passare il testimone dagli ebrei ai pagani, e perciò a tutti gli uomini, senza peraltro sottrarlo ai primi.
Che interesse ha ricordare questa interpretazione ebraica della figura di Paolo (che si può trovare in un capitolo del libro di Raniero La Valle “Prima che l’amore finisca”, e si può leggere ora nella terza sala – l’unità umana – del sito http://labibliotecadialessandria.costituenteterra.it/)? La sua attualità sta nel fatto che se i rabbini che hanno protestato col papa per la sua catechesi su Paolo l’avessero tenuta presente non avrebbero scritto la loro protesta; ma soprattutto è utile perché ristabilire attraverso lo stesso Paolo una continuità dell’economia salvifica divina tra l’ebraismo e il cristianesimo sarebbe un grande contributo alla costruzione dell’unità umana oggi così necessaria, non solo per le sorti politiche del mondo ma per la sua stessa continuità e sopravvivenza.
Una cronaca della crisi intervenuta tra Vaticano e ebrei si può trovare nella sezione “Dicono i fatti” del sito Chiesadituttichiesadeipoveri, dove è anche pubblicata una nota di Enrico Peyretti sul “Dio non teista”
Con i più cordiali saluti
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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