Sinodo, un cammino pastorale e missionario
Conversazione con il card. Matteo Maria Zuppi
Arcivescovo di Bologna
di Renzo Salvi, su Rocca n. 18 del 15 settembre 2021*
Auguri!: questa, fatti i convenevoli, è la prima parola dell’arcivescovo di Bologna rispetto all’intenzione dichiarata, da Rocca, di raccogliere elementi, interviste, conversazioni, pensieri «per cercar di capire questo Sinodo della Chiesa italiana». «Auguri!», appunto: ciò che vale come battuta, ovviamente, ma dice anche e dice subito quanto il percorso del Sinodo per la Chiesa italiana sia da immaginare e costruire e come, fatti salvi intenti e modi comunitari nell’operare, gli approdi non siano scritti né predeterminati.
Per avviare il discorso, allora, alcune sensazioni: pare che verso questo Sinodo ci si stia movendo per approssimazioni e per metafore: si legge di documenti o già di iniziative di «impronta» sinodale, o di sapore, orientamento, impianto, intenzione… sinodali. Il tutto intorno ad un termine che resta però non definito: cos’è o sarà questo sinodo di una Chiesa, particolare, cioè italiana, calata in un contesto sociale e storico determinato?
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Questo è il motivo per cui la Chiesa italiana ha scelto di parlare di cammino sinodale più che di Sinodo. Andare avanti, appunto, per approssimazione significa orientarsi ad un cammino «non definito», in cui ci si muove non per mostrare e dimostrare risposte che già si hanno e neppure per dispiegare un programma che già si possiede, compiuto. Si tratta anzi di cominciare accettando di non avere un programma tracciato e, per certi versi, accettando i rischi del cammino.
Questo per noi significa Cammino sinodale. Personalmente penso che occorre usare con castità il termine, per evitare che venga a noia – una castità di parola, spero proprio non di prassi! – che permetta al termine stesso di non essere svuotato, banalizzato, sminuito o, persino, di diventare altro da sé, in una eterogenesi dei fini tale per cui – questa è una paura vera – più si parla di sinodalità e più si rischia che ci siano invece alcuni che decidono per tutti.
Cammino sinodale, dunque, con alcune priorità, dentro una precisa situazione storica, non poco quella che la pandemia come una precisa radiografia ci ha mostrato, rivelando senza sconti le debolezze, le fragilità o addirittura quello che era inesistente a cui davamo ancora grande valore. Assieme a questo anche tante opportunità e tante energie. C’è da far attenzione – per tutti e quindi anche per la Chiesa un riferimento indispensabile, come grande presa di coscienza, come segno dei tempi da interpretare e da cui lasciarci interrogare.
Così è un itinerario non tracciato dall’inizio. Qualche volta per paura, per incertezza, per debolezza, per eccesso di fiducia nei propri strumenti e, in fondo, anche per un atteggiamento poco spirituale, abbiamo preferito e preferiamo un programma già ben definito; preferiremmo viaggiare con chiarezza verso un obiettivo già definito… La preoccupazione di papa Francesco che, con insistenza, sin dall’inizio, ha chiesto una sinodalità dall’alto e dal basso, cioè come essenza di essere Chiesa trova una risposta in questo cammino sinodale che ha molto di più di un programma: la conversione pastorale e missionaria della Chiesa. All’inizio sarà dedicato all’indispensabile ascolto tra noi (non è certo la stessa cosa se qualcuno arriva e dice quello che si deve fare o che assieme capiamo
e decidiamo cosa sia necessario fare) e del mondo, delle attese, delle opportunità, insomma dei segni dei tempi che dobbiamo sapere leggere.
Già nel 2018 come criteri per il Sinodo dei Vescovi venivano indicati due verbi: «accompagnare» e, comunque al primo posto, appunto «ascoltare». Aprendo ora il percorso del Sinodo della Chiesa, tutta, che si raduna in Italia, ci sono dei sostantivi da tenere in
attenzione? O qualcosa su cui portare l’attenzione da subito?
Forse all’inizio proprio, direi che ci deve essere un atteggiamento spirituale. Bisogna partire da un atteggiamento di preghiera, dall’ascolto della Parola e di quella Parola che è contenuta nei segni dei tempi. Solo così lo Spirito ci cambia. Il Sinodo non è un momento tattico o un laboratorio pastorale, sempre con tanto rispetto per i laboratori pastorali. Come (ci) è avvenuto nel corso della pandemia ci misuriamo con il grande laboratorio della vita stessa, della storia vera, così com’è, senza sconti e che richiede non indicazioni astratte, ma percorsi, cioè costruzioni attente, durevoli, che vadano oltre la soggettività. Immersi nella vita. La preghiera è ciò che ci aiuta anche a metterci in ascolto: in un ascolto vero, profondo, dell’altro. Maria è la Chiesa del futuro, Marta
rischia di essere quella del passato, anche se si agita per molte cose!
Direi proprio che all’inizio non può esserci altro atteggiamento che questo.
Ascoltare poi significa anche cercare sintonie e interlocuzioni «con»… Qui si incontrano i gruppi e le fasce sociali: i giovani, forse in parte smarriti ma nell’insieme migliori di quanto non ci meritiamo; gruppi sociali di età elevata che – io credo – non si capacitano di essere una parte preponderante della società; le caratterizzazioni del maschile e del femminile…
E una società, poi, fatta come un insieme mutevole e mutante: Gianni Baget Bozzo intuì i cambiamenti in corso quando arrivò a parlarne come di una «società desiderante».
Certamente… Ripartiamo un attimo dalla pandemia perché questa è stata una grande immersione nella storia e la storia che ha invaso il nostro interno. Per certi versi come una grande onda ci ha buttato in acqua. Tutti abbiamo capito (questo sì sarà da verificare!) come tanti deliri di onnipotenza, presunzioni di benessere, idee di «felicità individuali» non bastassero e non portassero ad una felicità collettiva.
Tutto viene de facto messo in discussione: anche ovviamente la Chiesa. Dobbiamo dire che ci ha messo di fronte duramente le nostre reali misure e forse ci ha costretto a capire che erano cambiati tanti parametri, riferimenti, automatismi. Insomma è come se dobbiamo cambiare la legenda delle mappe, perché altrimenti rischiamo di vedere una realtà che non c’è più oppure di perderci in una che non riconosciamo più e non sappiamo capire. Sempre con l’urgenza di realizzare oggi la visione proposta da Papa Francesco: la conversione pastorale e missionaria.
Quindi, direi, tanto ascolto, ricerca delle soluzioni sia che ad extra e ad intra, per non ripiegarsi e per non ridurre il Vangelo e la Chiesa ad intimismo spirituale oppure a museo, con le sue regole certificate e rassicuranti ma fuori dal mondo, dalla storia.
La Chiesa non rincorre il mondo e solo pieni della lingua dello spirito sapremo parlare tra noi e parlare, con la lingua di prima, la nostra, ma in modo che tutti capiscono.
Possiamo fare molti esercizi linguistici: il problema è lo Spirito! Il certificato della fine della cristianità facciamo fatica a leggerlo e soprattutto a capirlo in senso pastorale e missionario. Non mi sembra che stiamo, come si suol dire con linguaggio analitico, elaborando il lutto. A volte penso che continuiamo a vivere come se niente fosse successo oppure con rassegnazione invecchiata. Non credo si elabori così il lutto!
Finiamo per vedere con dovizia di particolari quello che non c’è più, che sta finendo, con nostalgia da fine epoca che però per chi ha paura è sempre una sicurezza o con soddisfazione per alcuni (quelli insomma del «te lo avevo detto io!» che in genere mi hanno sempre fatto antipatia e soprattutto non offrono soluzioni!) e paradossalmente non vediamo quello che c’è, che eppure è tanto, i campi che già germogliano.
Aggiungo una nota personale. Ho celebrato di recente, il funerale di un prete, un sant’uomo, missionario per tanto tempo in Brasile e missionario qui. Un paio di mesi fa, quando lo incontrai, insistette in maniera inusuale perché io leggessi un libro di Mazzolari: «Lo devi leggere!». Il titolo è Ai preti. Raccoglie due conferenze pronunciate nel 1947 (dieci anni prima, nel 1938, aveva scritto i lontani!). Il problema – diceva Mazzolari – non sono «loro» ma «noi»: loro, quelli che noi consideriamo i lontani sono così perché noi non abbiamo saputo dire, capire, annunciare, testimoniare. Avvertiva già ottanta anni or sono la fine di un mondo e la necessità di mettersi a parlare con tutti e a non comminare scomuniche ma a capire la domanda di una chiesa evangelica che quella distanza chiedeva e chiede. Forse, come commenta con amarezza un parroco di Bologna, adesso sono tutti lontani, anche i cosiddetti vicini! Certo, in ogni caso è un tempo opportuno per seminare largamente il Vangelo. Uscire vuol dire imprevisti e fatica. Il rischio è creare, crearci, altre sicurezze o dei surrogati delle medesime, utilizzando scampoli, quasi saldi di fine stagione. E invece – come sappiamo e come qualcuno ci ha ripetuto, tantum aurora est. Aveva ragione. Ma la fatica è proprio nel cercare di vedere questo. Ed è sempre un problema di Spirito!
Mi vengono anche rimbalzi dal passato: ‘Finita la cristianità!’ mi rimanda ad un convegno delle Acli Lombarde del 1977 dove padre Marie Dominique Chenu tuonò, addirittura, proprio queste parole: «Finita la cristianità!». E tuttavia ancora facciam fatica a vedere il nuovo…
… e anche le domande che ci sono, perché – caspita! – quante domande spirituali, quante richieste di vicinanza, ci sono. Se le ascoltiamo con il bilancino del moralista, con il piglio della maestra, con l’ascolto dello psicologo non saremo in grado di
rispondere, penseremo che il problema è loro, che non hanno interesse. Oggi le parole di papa Francesco sono ascoltate, comprese, «meditate» anche, più dai non addetti ai lavori, da persone (tra virgolette) «esterne» alla Chiesa. Questo significa molto! Significa che papa Francesco ha trovato un linguaggio in cui esprime risposte a domande che ci sono già, in modo chiaro, sostanzialmente evangelico, parlando di Gesù in modo chiaro.
È questa la conversione pastorale e missionaria. Il problema è, a questo punto, camminare e costruire. Perché – mettiamola in una battuta – il cammino non è che facciamo con grande determinazione il giro della rotonda, magari due i più volenterosi, per poi tornare al punto di partenza! C’è davvero bisogno di costruire. Parliamo spesso di «relazione». Ovviamente sono d’accordo! Forse vuol dire che ne eravamo disinteressati, l’abbiamo data per scontata, ci siamo esauriti nelle relazioni ad intra.
Tutta l’esperienza cristiana è relazione: la prima quella di Dio che entra in relazione con noi. Poi però l’abbiamo – forse – idealizzata troppo; a volte ne abbiamo fatto dei club, delle situazioni chiuse. Anche per questo è e sarà discriminante la nostra relazione con i poveri: non sono i clienti, non sono oggetto di lodevole volontariato di alcuni, sono i fratelli più piccoli di Gesù di
cui sarà chiesto conto a tutti. L’insistenza radicale di Papa Francesco (che infastidisce alcuni che si sentono disturbati contrapponendo il sociale allo spirituale) per la centralità dei poveri completa la sua richiesta di una Chiesa missionaria, accogliente e aperta, di tutti, capace di essere madre di misericordia in un mondo individualista e prigioniero della logica idolatrica del mercato, quella degli scarti. L’impulso del Vangelo è sempre l’incontro, sempre il camminare insieme, liberamente, in maniera generativa. Le fede e l’amore vincono la paura, anzi le paure.
Dobbiamo attrezzarci per qualche scoperta, insomma. Nel Sinodo dell’Amazzonia qualche invitato «esterno» – detto con nome e cognome: Carlin Petrini, che abbiamo intervistato per Rocca – è stato sorpreso dalla presa di parola da parte di suore (ciò che già lo colpiva), di figure «non consacrate» (e qui era stupore), di donne… Per la Chiesa italiana già forse sarà complesso il coinvolgimento di tante modalità organizzative che vengono da più glaciazioni della storia ecclesiale (dalle parrocchie riorganizzate dal Concilio di Trento al
Novecento associativo, dalle esperienze organizzative classiche a quelle più recenti, postconciliari…). E poi ci sarà da ascoltare, da
mettersi in relazione, appunto, con quell’oggi senza confini che è la società tutta…
Una rivoluzione copernicana, il cambio di prospettiva proposto nella Evangelii gaudium è proprio l’affermazione secondo cui non sei tu che porti la verità perché piuttosto si tratta di svelare la presenza del Signore nella vita delle persone e nel mondo che incontri. Non è poco come cambiamento sostanziale di prospettiva. Può essere o può sembrare che ci tolga un po’ di pathos, ma in realtà ne aggiunge molto altro, che però facciamo fatica, a mio parere, a vivere. È una delle difficoltà maggiori, forse: vivere con passione, con entusiasmo il cammino del sinodo, la gioia di parlare di Gesù, di raccogliere da tanta solitudine di costruire ponti, di amare la casa comune e anche i fratelli comuni! Ci sarà da riguardare e rivedere – ad esempio – la realtà delle parrocchie e le loro strutture. Vale per Bologna; vale per tutto il nord-Italia almeno, la prospettiva che non tutte le parrocchie, già ora affidate in gruppi di cinque/sei a un solo prete, abbiano, ciascuna al proprio interno, tutte le «specialità» funzionali richieste ed a cui eravamo abituati. Esse sono
già un’altra cosa rispetto al passato e si trasformeranno ancora. In cosa, però? Quali e come saranno le responsabilità al loro
interno? Non possono essere soltanto comunità liturgiche, anche se la domenica è sempre il centro e il fulcro. Appunto. Il fulcro per qualcosa d’altro. Ci sono le tante realtà di Chiesa che sono frutto del postConcilio, che vivono una stagione di maturità; con la speranza di non vederle passare dalla giovinezza alla vecchiaia con una parabola molto accelerata.
Il camminare insieme, non semplice, di tutte queste realtà fa parte della sfida aperta in questo sinodo.
Letto il documento preparatorio alcune di queste realtà, soprattutto gruppi ed esperienze del post-Concilio, hanno affacciato un’obiezione che suona all’incirca: non coinvolgeteci neppure se non volete affrontare i problemi veri che sono il celibato, il sacerdozio alle donne e tutte le «sporcizie» – qui cito io per sintesi Benedetto XVI – che vanno dallo scandalo della pedofilia a quelli finanziari. Personalmente sono stato infastidito dal noi/voi.
Ma questi temi entreranno nel cammino sinodale: all’inizio? Alla fine? Prevalenti?
Io penso che tutti questi temi ce li troveremo. Però non sono il punto di partenza.
Se ci poniamo dal punto di vista della conversione pastorale e missionaria, al suo interno troveremo le risposte. È chiaro
che quei temi non si vogliono evitare ma bisogna uscire dal mero laboratorio.
Qui citerei papa Benedetto. In questi giorni stanno partendo per il Cammino di Santiago o altri simili riscoperti in questi anni,
molti ragazzi e anche adulti. La cosa mi colpisce perché l’esperienza del Camino sembrava qualcosa di antico. Ebbene, quando papa Benedetto annunciò l’Anno della fede, per i cinquant’anni del Concilio, riprese e fece proprio il concetto di «sobria ebbrezza»: una bellissima definizione… Perché anche lui non sfuggiva dalla delusione della stagione post-conciliare, che qualche volta provoca tristezza, amarezza e disillusione oppure, all’opposto, la voglia di revanche. Ma sempre all’interno. Papa Benedetto disse che certamente avevamo sperimentato il peccato, il limite, la delusione ma indicò che dovevamo semplicemente ri/metterci in cammino come tanti che, in realtà, già erano e sono in cammino, indicando proprio il fatto che tanti si mettono nel Camino di Santiago. In questo senso abbiamo da guardare a tanta gente che già cammina, che cerca, che forse non sa bene cosa stia cercando, ma cerca, magari confusamente, ma cerca. Noi dobbiamo essere lì, con loro.
Roncalliani sino in fondo, insomma: «Historia quae magistra vitae dicimus…». E montiniani, poi, secondo la «Gaudium et spes»: «Le
gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi…». Poi c’è un problema che veniva evocato talvolta da Loris Capovilla – il suo parametro era, qui, Giovanna d’Arc: Jeannette – cioè quello dell’arrivare tutti insieme, altrimenti Dio ci chiederà: «E dove sono gli altri?»… Perché alla fine, percorso, opportunamente, il cammino sinodale, avremo sintesi da formulare, indicazioni da rendere operative. Come per il Sinodo dell’Amazzonia. Francesco qui è stato accusato d’essere «gesuita» nell’accezione meno felice del termine.
Il sinodo, nell’accezione nostra, e di Francesco, è cammino e assemblea e Papa Francesco ha registrato il cammino avvenuto.
Certo: c’è sempre qualcuno che vuole correre di più e fa bene perché spinge chi, al contrario, tarda sempre. Poi l’unità è dono decisivo per la Chiesa, vero tradimento della volontà di Gesù e anche indebolimento per tutti se divisa. Quando Francesco ribadisce che la Chiesa non funziona come una democrazia e il sinodo non è parlamentarismo ma un camminare comunitario, insieme, richiede lo Spirito e il suo frutto che è la comunione. La sfida è non ridurci al parlamentarismo (è molto vitalistico, coinvolgente, può fare sembrare vivi ma impoverisce la grandezza della Chiesa). Per questo deve esserci in primo luogo un atteggiamento di preghiera, un aprirci allo Spirito e quindi alla storia, perché lo Spirito ci fa entrare nella storia non ce ne fa uscire.
Renzo Salvi
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* Ringraziamo Renzo Salvi e la rivista Rocca per aver consentito la pubblicazione, tratta dal numero online n. 18 del 15 settembre 2021.
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