«Genova vent’anni dopo: un altro mondo è necessario»
Il popolo del G8 di Genova
Tonio Dell’Olio su Rocca.
A vent’anni di distanza dal G8 di Genova e dai fatti che lo accompagnarono, si possono trarre conclusioni o considerazioni più pacate e più serene su quanto avvenne. Avvenne, ad esempio, che i cosiddetti «potenti» della terra che si riunivano nel tempo in cui la parola più abusata era «globalizzazione» e «pensiero unico» in nome del liberismo e delle sue appendici, non si resero conto che il pericolo vero non era lo scontro sociale che veniva generandosi in occidente e nel nord del mondo, quanto il terrorismo, presuntivamente islamico radicalizzato, fanatico o strumentalizzato, che aveva le proprie radici in alcune regioni del Medioriente ma nel mirino gli Usa e il Nord opulento e desacralizzato. Ma è inutile affannarsi a cercare nel documento finale del G8 la parola terrorismo, semplicemente non c’è.
E non esisteva nemmeno nell’ordine del giorno o nell’agenda dei lavori. Eppure eravamo a meno di soli due mesi dall’attentato alle Torri gemelle (World Trade Center) di New York. Dall’altra parte c’era una società civile ricca e variegata, con tante idee e proposte, educata a fare rete col mondo intero al punto da riuscire a mondializzare la protesta, la riflessione e il disegno «altermondista» (un altro mondo è possibile). I Social Forum Mondiali sono la prova incontrovertibile di tutto questo. Persino nelle giornate del luglio genovese del 2001, erano stati organizzati laboratori tematici, gruppi di discussione, incontri e dibattiti, tavole rotonde ed esperienze che vedevano protagonisti fior di esperti, economisti, polititici, sociologici che parlavano lingue diverse e chiedevano un altro mondo. Peccato che ancora oggi, quando si parla della società civile organizzata che si diede appuntamento a Genova, si pensi ai disordini, ai Black Block, alle auto incendiate e alle vetrine dei Mc Donald spaccate e non a tutta quella ricchezza di intelligenze giovani e speranze piantate nell’anima stessa del mondo.
Molti dei motivi rilanciati allora, sono adesso nelle encicliche e nei discorsi di Bergoglio. Molte di quelle ipotesi di lavoro, vent’anni dopo, sono diventate programmi di governo, sono stati sposati da vertici mondiali e si traducono nella «transizione ecologica» che – chi l’avrebbe mai detto? – ha persino un ministero! E mentre ancora si procede a tentoni nel cercare di trovare un brandello di verità sull’accanimento delle forze dell’ordine, sulle infiltrazioni, sugli ordini dall’alto, sul ruolo di alcuni ministri e dei servizi segreti, restiamo convinti che nulla di tutto ciò che trovò a Genova la sua espressione più eclatante, sia andato perduto. «Genova vent’anni dopo: un altro mondo è necessario» promuove un programma dal 18 al 22 luglio che comprende conferenze, tavole rotonde, presentazioni di libri, mostre, spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche e un «cammino urbano» da Bolzaneto al centro cittadino, nei luoghi del G8 del 2001
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Genova vent’anni dopo
Giulio Marcon su Sbilanciamoci
6 Luglio 2021 | Sezione: Editoriale, Società
Fu un movimento vario e unitario, quello che si vide a Genova nel luglio di vent’anni fa, colpito duramente da una violenza da regime sudamericano. Volevano dare una lezione al movimento. Ma la lezione l’ha data il movimento, scoperchiando il vaso di pandora dell’ipocrisia di un governo violento e succube delle istituzioni finanziarie internazionali. Quel […]
I 20 anni trascorsi da Genova (qui una riflessione collettiva) hanno confermato gran parte delle analisi e delle previsioni che avevamo fatto nei giorni del G8. Il dominio neoliberista di questo ventennio ha fatto aumentare le diseguaglianze e le ingiustizie nel mondo, dato origine a guerre, mercificato la nostra vita quotidiana.
Dopo il G8 di luglio ci fu l’attentato alle torri gemelle, l’inizio della guerra in Afghanistan, la crescita delle tensioni, del terrorismo e dell’instabilità in Medio oriente: la guerra contro l’Iraq, la repressione israeliana in Palestina, la repressione delle primavere arabe, l’inizio della guerra in Siria. E poi la crisi finanziaria del 2007-8 che sconvolse le economie di mezzo mondo. E molto altro. Quel G8 che doveva assicurare il governo mondiale (neoliberista) dell’economia e delle relazioni internazionali fu l’inizio di un grande disordine mondiale colmo di violenza, di ingiustizia, conflitti.
Prima di Genova, la contestazione dei movimenti al vertice del WTO a Seattle e nel gennaio del 2001 si era tenuto a Porto Alegre il Forum sociale mondiale in contrapposizione al forum economico di Davos: in tutto il mondo si era aperta una fase nuova dei movimenti globali che contestavano l’ordine delle cose esistenti, la supremazia di una élite globale in cui si sovrapponevano il potere economico-finanziario, quello politico-istituzionale e quello militare, quest’ultimo utilizzato per fermare la spinta al cambiamento, le contestazioni, la critica.
La brutalità con cui venne represso il movimento di Genova, la morte di Carlo Giuliani, è da ricondurre proprio a questa intenzione: fermare sul nascere (il governo Berlusconi si era appena insediato dopo il fallimento del centro-sinistra) l’avvio di un movimento ampio e plurale, che avrebbe messo in difficoltà anche il governo di centrodestra appena nato. Fu un movimento vario e unitario, colpito duramente da una violenza da regime sudamericano: pestaggi, torture, sospensione dei diritti e delle garanzie costituzionali. Volevano dare una lezione al movimento.
Ma la lezione l’ha data il movimento, scoperchiando il vaso di pandora dell’ipocrisia di un governo violento e succube delle istituzioni finanziarie internazionali. Quel movimento non si fermò. L’anno dopo, nel 2002, 800 mila persone marciarono a Firenze alla conclusione del Forum sociale europeo e l’anno dopo, nel 2003, più di 3 milioni di persone si ritrovarono a Roma per protestare contro la guerra in Iraq. Cosa rimane di quel movimento di 20 anni fa? Sicuramente tante analisi corrette e penetranti, che conservano validità ancora oggi, una cultura diffusa contro la mercificazione del mondo per portò alla vittoria del referendum sull’acqua pubblica nel 2011, la nascita e lo sviluppo di iniziative e campagne, come Sbilanciamoci!, che stava muovendo i primi passi proprio allora. Un’onda lunga che continua.
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Approfondimenti
2001-2021 Genova per chi non c’era
L’eredità del G8: il seme sotto la neve
Chi ha partecipato alle manifestazioni di Genova 2001 spesso ne porta un segno. C’è chi è stato picchiato, chi continua a sognare quei giorni, chi ha deciso di non avere figli, chi ha cambiato completamente vita e chi ha perso di vista il “movimento” ma spesso, in modo sotterraneo, ha continuato ad andare in direzione ostinata e contraria, perpetuando quello spirito.
A 20 anni dai giorni del G8 di Genova quindi molte domande sono ancora aperte.
Perché è importante raccontare Genova a chi per anagrafe, per distrazione o per scelta non c’era? Che cosa è stato del “movimento”, di quell’afflato collettivo massacrato dai manganelli e dai media? In quali rivoli si è disperso il fiume di persone che ha manifestato? Qual è infine l’eredità, di Genova e chi ha raccolto e perpetuato questo capitale di idee? A queste e ad altre questioni risponde questo libro, attraverso 20 testimoni privilegiati che a Genova c’erano: il portavoce delle 1.187 organizzazioni del Genoa Social Forum, chi era nella Scuola Diaz e ha i lividi anche nell’anima, chi ha processato i responsabili della repressione, chi ha studiato, raccontato, cantato Genova, chi ha perso il bene più grande. Un racconto collettivo (senza reducismo) per spiegare Genova a “chi non c’era” e per raccogliere quello che Alessandro Leogrande chiamava “il seme sotto la neve” e che ha germogliato tanti altri mondi possibili, dall’economia solidale all’informazione indipendente e il cui lascito è stato raccolto da Fridays for future e da altri movimenti, come quello dei referendum per l’acqua pubblica o Occupy Wall Street.
Scrive Angelo Miotto, giornalista, documentarista radiofonico e comunicatore che nel 2001 ha seguito in diretta le vicende del G8 per Radio Popolare: “Perché dobbiamo parlare di Genova? Perché vogliamo. Parlare oggi di Genova (a chi non c’era) significa non solo fare memoria di quello che accadde, ma capire che cosa sia successo in questi vent’anni e soprattutto immaginare ancora l’utopia, che non è mai sinonimo di irrealizzabile”.
Hanno scritto: • Vittorio Agnoletto • Enrica Bartesaghi • Marco Bersani • Norma Bertullacelli • David Bidussa • Martina Comparelli • Danilo De Biasio • Donatella Della Porta • Nicoletta Dentico • Chicco Elia • Haidi Gaggio Giuliani • Lorenzo Guadagnucci • Carlo Gubitosa • Alessio Lega • Giulio Marcon • Rossella Muroni • Riccardo Noury • Giuliano Pisapia • Fabrizio Ravelli • Alfredo Somoza • Jacopo Tondelli • Antonio Tricarico • Enrico Zucca. Con le illustrazioni di Giancarlo “Elfo” Ascari.
Tutti gli appuntamenti di presentazione di “Genova per chi non c’era” sono sul sito di Altreconomia.
A questo link è possibile scaricare il calendario completo.
Gli autori
Angelo Miotto
Milanese, giornalista dal 1992, documentarista radiofonico. Ha lavorato per Radio popolare network fino al 2007. È stato caporedattore a PeaceReporter, quindi a “E”, il mensile di Emergency. Fra i pionieri del webdocumentario con produzioni riconosciute a livello internazionale, è stato ospite di “Perpignan Visa pour l’image” e “Idfa Amsterdam”. È autore di installazioni sonore, coautore di documentari – Cronache basche, L’italia chiamò – coautore di testi teatrali, saggi sui Paesi baschi e uranio impoverito. Ha vinto i premi “Baldoni”, “Bizzarri”, “Anello Debole”. Librettista dell’opera contemporanea “Non guardate al domani”, per la musica di Filippo del Corno. Fondatore dell’ensemble di musica contemporanea Sentieri selvaggi. Nel 2018, insieme al fotografo Leonardo Brogioni, pubblica MetroMoebius, una storia crossmediale sulla metrò milanese. Oggi è direttore di Q Code Mag, cura la comunicazione di Avanzi, Sostenibilità per Azioni, del Festival dei Diritti Umani ed è consigliere di Amministrazione della cooperativa energetica “ènostra”. Per Altreconomia ha curato “Il ritorno delle cose” e “Milano siamo noi”, con Massimo Acanfora.
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www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
Newsletter n. 225 del 6 luglio 2021
LA NATURA E LA GRAZIA
Carissimi,
mentre l’Europa vive spensierata i suoi campionati di calcio senza preoccuparsi della pandemia, notizie drammatiche irrompono dall’altro lato dell’Atlantico sul fronte del clima, aprendo un nuovo terreno di lotta, quasi a volerci ricordare che, dopo una storia fatta di guerre, l’umanità si trova ora di fronte a due guerre che potrebbero essere le ultime, e sollecitano a decisioni radicali. Della prima, la guerra atomica, sappiamo già da tempo che non potrebbe essere vinta. Per questo è stato solennemente stabilito e ripetuto fino al recente incontro dei “Due Grandi”, Biden e Putin a Ginevra, che non dovrà mai essere combattuta. Ma ora sappiamo che nemmeno la seconda potrà essere vinta, che non la vincerà nessuno. È la guerra climatica. Lo sappiamo da quando è giunta la notizia che Lytton, cittadina a 200 km da Vancouver in Canada, è in fiamme, la temperatura è giunta a 49,5 gradi, a fronte di un livello medio nello stesso periodo dell’anno di 24 gradi. Cinquecento sono i morti solo per questo, mentre a Verkhoyansk, nella Russia artica, si sono toccati, lo scorso 21 giugno, i 40 gradi.
Analisti e scienziati di tutti i tipi hanno tirato fuori studi, rilevazioni e statistiche da cui si ricava che stia accadendo qualcosa di mai visto prima, qualcosa che non solo sembrava improbabile, ma del tutto impossibile secondo la climatologia passata. La Nasa ha diffuso uno studio da cui emerge che l’atmosfera terrestre ha immagazzinato una quantità “senza precedenti” di calore, raddoppiata in quasi quindici anni.
La conclusione che se ne può trarre è che quell’aumento controllato del calore globale a cui era affidata la lotta al disastro ecologico incombente e su cui erano imbastite le strategie gradualiste come quelle adottate negli accordi di Parigi (che prevedevano perfino l’acquisto di quote di inquinamento aggiuntive da parte dei Paesi più ricchi) non è possibile, la battaglia è già stata perduta, ci sarebbe voluto un ribaltamento dei comportamenti collettivi, non una retorica riformista. I dolori sono oggi inevitabili
Il problema politico che però oggi si pone è che, al contrario di quanto si può dire della guerra atomica, questa seconda guerra non può non essere combattuta, anzi proprio perché sconfitti dobbiamo decidere di assumercela come priorità assoluta, e dovremmo mettere nella seconda tutte le energie e le risorse che certamente investiremmo nella prima.
Purtroppo però è proprio la risposta politica che manca. L’orgia degli incontri diplomatici delle ultime settimane, tanto esibita quanto inconcludente, lo dimostra. Lo schema proposto è sempre lo stesso, il mondo non è concepito come un sistema di soggetti in relazione tra loro di cui va organizzata al meglio la vita sulla terra, ma come una giungla appena un po’ civilizzata dopo l’invenzione hobbesiana dello Stato moderno, di cui va gestito il conflitto e in cui va coltivata l’inimicizia.
Ciò non accade per caso. A monte c’è una cultura, che è quella intronizzata dall’Occidente, ed è la cultura dialettica, che sempre contempla due termini l’un contro l’altro armati, che in sé hanno la guerra come possibilità reale.
È in questo schema che il “concerto delle Nazioni” che si è esibito nelle recenti rappresentazioni diplomatiche ha riproposto il conflitto Russia-Occidente come paradigma permanente, mentre già incombe il nuovo modello che introduce come obbligatoria, chissà perché, una conflittualità trilaterale che consacri come terzo nemico la Cina. L’intervista con cui il segretario di Stato americano Blinken è venuto a spiegare agli italiani la politica di Biden è stata chiarissima: con la Cina si potrà anche discutere di diritti umani, ciò che conta è che resti aperto il conflitto con lei in un mondo diviso.
Invece il mondo è uno solo, La natura e la grazia ci chiamano a tutt’altra risposta, a un rovesciamento. Sarebbe piuttosto questo il momento di passare dalla dialettica all’armonia, da Hegel a Confucio, come del resto ci invitano a fare gli stessi cinesi, celebrando i cent’anni dalla fondazione del loro partito comunista e nonostante il pensiero di Mao.
Sarebbe questo infatti il momento di passare dalla lotta per l’egemonia alla costruzione di un mondo inclusivo per tutti. Si può fare. È questo l’appello che viene da guerre che nessuno può più vincere, è questo l’appello che viene da papa Francesco e dai suoi fratelli di altre religioni che insieme ci stanno proponendo un’immagine inedita di un Dio che tutti unisce in sé nell’amore. E la politica e il diritto dovrebbero fare la loro parte, facendo dei popoli frantumati un solo popolo con una sola Costituzione in cui si possano riconoscere tutti.
Intanto, dopo l’operazione che ha subito il 4 luglio, “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” fa i più fervidi auguri al papa Francesco, il tenerissimo complice del ritorno di Dio sulla terra.
Con i più cordiali saluti
G8 Genova, 20 anni dopo. Le parole di Placanica e il peso di una catastrofe
Oggi il carabiniere che uccise Carlo Giuliani parla perché capisce di essere stato pedina inconsapevole di un gioco deciso da altri. La politica, quasi tutta, ha esorcizzato i fantasmi di quella mattanza, si è accontentata di spiccioli di verità
Di Nichi Vendola su L’HuffPost
“Non sono un eroe. Io sono il simbolo di quello che non deve accadere mai”.
Sono le parole pronunciate da Mario Placanica, il carabiniere che uccise Carlo Giuliani il 20 luglio 2001, a Genova, in una straordinaria e drammatica intervista televisiva rilasciata a In Onda, La 7.
Parole secche, durissime, limpide.
Placanica è un uomo solo, distrutto, consumato (così dirà di se stesso), che maledice il G8 e quei giorni incandescenti nelle strade di una città trasformata in una grande trappola per topi. Uso questa metafora perché mi ricorda i disegni di Banksy.
Placanica è il servitore dello Stato ormai in congedo, spoglio di divisa e di ruolo, esiliato nel suo piccolo borgo nativo in Calabria, è la persona che porta il peso di una catastrofe, quella del ragazzo che ha ucciso ma anche la sua, perché i suoi progetti di vita sono finiti in quella maledetta piazza Alimonda, in quel maledetto luglio di venti anni fa.
Oggi Placanica parla perché capisce di essere stato la pedina inconsapevole di un gioco deciso da altri: quelli che stavano oltre il recinto blindato della zona rossa, quelli che stazionavano nella sala operativa, quelli che hanno comandato una repressione brutale contro centinaia di migliaia di manifestanti e poi hanno liberato gli “animali spiriti” che alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto hanno fatto festa, devastando, torturando, macellando vite.
Placanica e pochi altri hanno pagato il conto di Genova.
I registi di quel film-verità di sapore sudamericano invece hanno fatto carriera, come dice l’ex carabiniere.
La politica, quasi tutta, ha esorcizzato i fantasmi di quella mattanza, si è accontentata di spiccioli di verità, per viltà o per complicità non ha voluto fare i conti con una vicenda che inaugurava emblematicamente un nuovo secolo, nel segno della chiusura ermetica all’ascolto delle domande di libertà, di dignità, di giustizia, di pace che il movimento no-global aveva trasformato in un’immensa contestazione popolare e in una nuova rivolta generazionale.
Tornare a Genova è necessario.
Nel senso di riaprire una discussione, ricostruire i fatti ben oltre l’insopportabile banalizzazione di chi spartisce colpe in parti uguali tra manifestanti e polizie, di chi non c’era e parla replicando un copione sempre uguale di falsificazione della storia di chi ha provato a rovesciare l’ordine del discorso.
Faceva paura la bellezza e la radicalità di quel popolo ribelle: assomigliava davvero al fanciullo della fiaba che esclama “il Re è nudo”.
Tornare a Genova non è solo un esercizio di memoria.
Io, come tanti altri, ho impiegato anni a elaborare lo spavento senza fine di quei giorni, la sensazione di non avere una via di scampo, quel logorante collettivo sentimento di vulnerabilità dinanzi all’arbitrio delle forze dell’ordine (l’ordine del disordine) e alla complementare violenza dei blackblock.
Tornare a Genova è necessario per cercare le tracce di qualcosa di osceno che resiste e si rinnova, un codice pre-democratico che cova le sue uova di serpente nella retorica degli eroi (e in Italia sono chiamati eroi anche miliziani mercenari), che vive nella difesa a oltranza dei carnefici quando i carnefici indossano una divisa, che rivendica nei propri riti una eredità fatta di abusi e impunità, che esercita il monopolio della violenza anche contro le leggi.
C’è una sub-cultura, un po’ fascista e un po’ mafiosa, su cui le classi dominanti fanno leva quando serve e che fanno finta di non vedere fino a quando una videocamera non le cattura e le restituisce alla coscienza del mondo.
Forse anche per andare nell’orrore di Santa Maria Capua Vetere occorre passare da Genova.
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