PNRR in Sardegna. Per essere informati e preparati.
La sedia di Vanni Tola.
Recovery Fund e transizione verso l’idrogeno verde. Problematica complessa che riguarda tutti.
Nei prossimi giorni sentiremo parlare di PNRR (Piano Nazionale Ripresa e Resilienza), decarbonizzazione dell’Isola, piano di metanizzazione, produzione di Idrogeno come fonte energetica alternativa ed ecologica. Perché se ne parlerà? Principalmente perché il 17 Maggio, il Ministro della Transizione Ecologica incontrerà in video conferenza le forze politiche regionali, i sindacati confederali, le organizzazioni di categoria e le forze sociali, per esaminare con loro le linee guida per la riforma del sistema energetico dell’Isola. Lo prevede il progetto PNRR predisposto dal Ministero. Saremo chiamati, in misura differente, a intervenire sull’argomento, a esprimere le nostre opinioni e scegliere tra diverse ipotesi di sviluppo energetico. Dobbiamo sapere che queste scelte saranno fondamentali per lo sviluppo della Sardegna. Proviamo quindi a capirci qualcosa di più. [segue]
Il problema principale è sicuramente quello di abbandonare il carbone e le fonti energetiche fossili ora impiegate per la produzione dell’energia elettrica necessaria per le nostre industrie. Sulla necessità della decarbonizzazione si è sostanzialmente tutti d’accordo. Sul come farlo invece, ci sono e ci saranno discussioni perché esistono diverse ipotesi. Alcuni, anche con riferimenti a investimenti già in atto nella regione, sono orientati al completamento del processo di metanizzazione in atto per poi arrivare alla produzione di Idrogeno da fonti energetiche rinnovabili (solare ed eolico). Altri invece propendono per l’idea di cominciare a realizzare da subito le condizioni per arrivare alla produzione di Idrogeno perché considerano un ulteriore impiego di metano una forma di produzione sorpassata e inquinante in termini di produzione di CO2. Sostanzialmente una spesa inutile di denaro.
Le linee guida alle quali il Ministro della Transizione Ecologica ha dichiarato di volersi orientare hanno quale obiettivo a lungo termine, la sostituzione del carbone con la produzione dell’Idrogeno e, per conseguenza, si deve pensare a un periodo abbastanza lungo di transizione durante il quale si continuerà a produrre energia con l’impiego del metano e di quel poco di solare ed eolico al momento disponibile.
L’Idrogeno, l’elemento maggiormente presente nell’universo, ideale fonte energetica pulita e completamente rinnovabile, sta comunque diventando uno dei pilastri fondamentali per uno sviluppo sostenibile. E’ un elemento molto presente in natura, ma mai allo stato puro. L’Idrogeno si trova in sostanze come l’acqua ma anche nei combustibili fossili quali il gas naturale, il carbone e il petrolio. La sua combustione non produce sostanze inquinanti se prodotto da fonti energetiche rinnovabili. La materia prima ideale per produrre energia elettrica pulita. Sentiremo parlare di tre tipi di idrogeno differenti, grigio, blu e verde. Le differenze fra i tre tipi dipendono sostanzialmente dalle procedure realizzate per separare l’Idrogeno dalle molecole nelle quali è imprigionato. Quando l’Idrogeno è ricavato da combustibili fossili, la forma di produzione più diffusa e meno costosa, si ottiene l’Idrogeno grigio ma si generano anche svariate tonnellate di anidride carbonica per ciascuna tonnellata di Idrogeno prodotta.
L’idrogeno blu si ottiene sostanzialmente allo stesso medo ma con una variante tecnologica importante. L’anidride carbonica prodotta nel processo di lavorazione della materia prima fossile, anziché essere rilasciata in atmosfera, viene quasi interamente catturata e stoccata nel sottosuolo. C’è poi la terza procedura di estrazione dell’Idrogeno, quella davvero a emissioni zero ma fino a oggi la meno impiegata, attraverso la quale si ricava l’Idrogeno dall’acqua. È questo l’Idrogeno verde su quale si riversano le speranze di sviluppo energetico ecologicamente sostenibile. Con il processo dell’elettrolisi si estrae l’idrogeno dall’acqua, con l’impiego di un apparecchio chiamato elettrolizzatore che utilizza l’energia elettrica per liberare l’idrogeno dall’ossigeno, altro componente della molecola dell’acqua. Apparentemente facile e semplice ma c’è un problema. Perché l’Idrogeno possa essere considerato, “verde” deve essere prodotto utilizzando fonti energetiche rinnovabili quali il solare e l’eolico. Il fatto è che, attualmente, sia l’elettricità pulita necessaria per il processo di estrazione dell’Idrogeno che gli elettrolizzatori, sono componenti ad alto costo.
Per conseguenza l’Idrogeno verde è, al momento, molto più costoso di quello grigio e di quello blu anche se si spera che, con i continui progressi tecnologici e con massicci interventi per fronteggiare il cambiamento climatico, il costo dell’Idrogeno verde possa ridimensionarsi sensibilmente. Molto probabilmente il processo di transizione all’idrogeno in Sardegna vedrà una lunga fase intermedia basata sulla metanizzazione dell’isola con gli impianti produttivi esistenti o in fase di realizzazione per poi passare alla successiva produzione di idrogeno verde. Naturalmente c’è da augurarsi almeno che, nella fase di transizione verso l’idrogeno verde, vanga impiegato l’idrogeno blu con lo smaltimento nel suolo dell’anidride carbonica catturata.
Le scelte europee nell’ambito della strategia di totale decarbonizzazione fanno ben sperare. L’Europa assegna all’Idrogeno verde (oltre che a quello “blu” in un’ottica di breve termine) un ruolo di primissimo piano. Si è recentemente costituita una partnership strategica tra sette aziende leader nel settore energetico a livello mondiale, tra cui l’italiana Snam. L’oggetto dell’alleanza è quello di accelerare la produzione di Idrogeno verde di circa cinquanta volte nei prossimi sei anni e di dimezzare gli attuali costi di produzione portandoli sotto i 2 dollari al kg. Le sette aziende si propongono, infatti, l’obiettivo di stimolare lo sviluppo di venticinque gigawatt di capacità produttiva di idrogeno verde entro il 2026. Obiettivo che richiederà investimenti per circa 110 miliardi di dollari, con la possibilità di creare più di centoventimila posti di lavoro.
Un’altra particolarità dell’idrogeno è la possibilità di poter essere stoccato, conservato e trasportato praticamente ovunque. A quest’aspetto è, infatti, dedicata una buona parte degli investimenti messi in campo dall’Unione Europea, la quale prevede comunque anche l’utilizzo dei gasdotti già esistenti. Una consistente capacità di stoccaggio dell’Idrogeno potrebbe essere, infatti, di enorme importanza in una società che si va sempre più elettrificando. L’idrogeno può essere trasportato anche su autocisterne ma per farlo è necessario comprimerlo molto, un’operazione che riduce in parte il valore del carburante. Anche questo problema dovrà essere affrontato in Sardegna, dove è previsto il trasporto del gas con automezzi in tutte le aree distanti dai punti di stoccaggio installati in prossimità di aree industriali costiere.
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Nota – Per quanto concerne lo “stato dei lavori” in Sardegna riportiamo un recente articolo del giornalista Giuseppe Centore pubblicato sulla Nuova Sardegna del 7 maggio 2021 che sintetizza puntualmente il progetto Snam di Metanizzazione della Sardegna. V.T.
Il piccolo intervento sulla condotta nell’Oristanese svela per la prima volta il programma operativo di Enura (jv Snam+Sgi.)
Metano, quattro progetti per Snam
Emerge finalmente il progetto di Snam per la metanizzazione della Sardegna. Prevede quattro reti, parziali, e tre poli, non collegati per adesso, ma implementabili. Il progetto che Snam ha disvelato è contenuto nella premessa del dossier che Enura (la partecipata Snam-Sgi) ha presentato al ministero della Transizione Ecologica per avere il via libera a un tratto di pochi chilometri che collega i depositi del porto industriale di Oristano all’area produttiva limitrofa. Un progetto di 235 pagine dove ogni aspetto di questo piccolo tratto viene analizzato, ma che si apre con l’idea attuale di metanizzazione possibile. È quella che prevede la legge “semplificazioni”, approvata a settembre 2020. Due poli, con rigassificatori, e arrivo e vendita di gnl regolato alle aree industriali di Portovesme e Porto Torres. «Il sistema della Virtual Pipeline prevede che l’approvvigionamento del gas naturale in Sardegna avvenga attraverso il trasporto di GNL, Gas Naturale Liquefatto, con apposite navi cargo dai terminali regolati di la Spezia e Livorno». Per fare questo Snam ha chiesto l’adeguamento dei due terminali per l’attracco delle navi che dovranno fare la spola con la Sardegna.I due terminali di stoccaggio e rigassificazione saranno realizzati con altrettante navi. Quello di Porto Torres avrà una nave da 25mila metri cubi di capacità «da ormeggiare all’interno dell’area portuale. Il terminale sarà collegato ai tratti di rete energetica Nord». Per Portovesme stessa tipologia di nave ma quattro volte più capiente, lunga poco meno di 300 metri con un ormeggio previsto «a lungo termine (25 anni) all’interno del porto. Il terminale sarà collegato alla rete di trasporto terrestre. Assicurerà una capacità di stoccaggio di circa 100 mila metri cubi di Gnl tali da garantire la transizione energetica delle principali utenze industriali dell’area (Eurallumina, Centrale Enel Grazia Deledda) e consentirà anche l’approvvigionamento alle utenze civili del Sud Sardegna attraverso il collegamento alla rete energetica». Ecco così prendere corpo una rete “divisa” in quattro sezioni: 1. Portovesme; 2. Area di Cagliari, collegata a Portovesme; 3. Centro, Oristano, collegato ai depositi costieri; 4. Provincia di Sassari, con Porto Torres, Alghero e Sassari, e «le altre utenze civili adiacenti». Impossibile in questa fase fare il passo più lungo, anche perché la legge questo prevede. «Le quattro aree di intervento previste, pur rappresentando iniziative progettuali disgiunte e non cumulabili dal punto di vista degli impatti in quanto localizzate in aree geografiche diverse e con tempistiche realizzative non concomitanti, concorrono a garantire il sistema di approvvigionamento del gas naturale alla Sardegna ed a costituire un sistema virtuale, ma integrato, di modalità di trasporto». Come nei giochi di enigmistica, basta però unire i quattro punti per arrivare alla figura definitiva: una unica rete, in procinto peraltro, ad essere tutta autorizzata.
Energia fossile a sei zampe, Eni sotto accusa
- Giovanni Stinco, 13.05.2021 su Il manifesto.
Clima. Proteste nel giorno dell’assemblea «a porte chiuse» degli azionisti della multinazionale. A Ravenna il no al sito di stoccaggio di CO2
Ci si può dichiarare «green» continuando a produrre CO2? Eni pensa di «sì», semplicemente mettendo il gas serra delle attività industriali sotto al mare. Lo farà in Inghilterra, nella baia di Liverpool, e ad Abu Dhabi. Lo farà anche al largo della costa di Ravenna, nel Mare Adriatico, utilizzando depositi ormai esausti di gas metano. Da tornare a riempire, questa volta con anidride carbonica. La tecnologia si chiama Ccs, acronimo che sta per «Carbon capture and storage», cattura e stoccaggio di anidride carbonica.
Un progetto strategico per l’azienda, ha detto l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi che conta molto sul Ccs per raggiungere nel 2050 la tanto sbandierata neutralità energetica. Come?
Puntando tutto sul gas (che resta un combustibile fossile inquinante) e provando a ripulire l’aria catturando la CO2 e nascondendola in maxi discariche sotterranee. Quella di Ravenna potrebbe essere la più grande del mondo. Un progetto che non piace agli ambientalisti e ecologisti di tutta Italia, in piazza a Ravenna e a Roma per dire No alla «grande opera».
AD APRIRE LE DANZE GREENPEACE, i cui attivisti ieri mattina a Roma hanno scalato il grattacielo sede generale dell’Eni e, nel giorno dell’assemblea degli azionisti, hanno dispiegato a 50 metri d’altezza uno striscione con la scritta «Eni killer del clima» e la testa del famoso cane a sei zampe che brucia il pianeta. Nel pomeriggio una manifestazione nazionale ha invece portato centinaia di persone a Ravenna per protestare contro il progetto di Ccs di Eni. Mentre a Milano, Napoli, e a Stagno, in provincia di Livorno, ci sono stati presidi contro le politiche energetiche del gigante degli idrocarburi. Un messaggio ai manifestanti è arrivato anche dagli ecologisti di Taranto, «siamo con voi, uscire dal fossile è l’obiettivo fondamentale di tutte e tutti noi».
Greenpeace davanti al quartier generale Eni a Roma
A SCENDERE IN PIAZZA A RAVENNA, a pochi minuti di distanza dal petrolchimico creato negli anni ‘50 del 900 da Enrico Mattei e che aspetta ancora un piano di riconversione, le maggiori sigle dell’ambientalismo italiano: Legambiente, Fridays For Future, Extinction Rebellion, e le 70 associazioni dell’Emilia-Romagna che si sono uniti sotto il nome di Rete emergenza climatica e ambientale Emilia-Romagna. Con loro anche attivisti del comitato Trivelle Zero delle Marche e i ciclo-ambientalisti veneti di Climate-Riders. «No al greenwashing e alla propaganda di Eni, sì alla giustizia climatica», hanno detto al megafono i manifestanti. «Il Ccs è sbagliato e non fa bene all’ambiente – ha attaccato Viviana Manganaro della Rete emergenza climatica. Permetterà di non smantellare gli impianti estrattivi esausti in mare, permetterà alle industrie inquinanti di apparire presentabili nascondendo la CO2 sotto terra, permetterà agli imprenditori e a Eni di non affrontare una vera transizione ecologica verso eolico e solare. Insomma tutti saranno felici e contenti tranne l’ambiente e noi che ci viviamo».
Cè poi il tempo dei soldi. Chi pagherà per il Ccs? Il progetto è stato depennato dal Recovery Plan, ma il ministro per la transizione ecologica Cingolani non ha chiuso definitivamente la porta. «Fino al 30 aprile – ha dichiarato la Commissione europea ci aveva detto che nel Recovery non doveva esserci la Ccs. Poi il 3 maggio Timmermans (il vicepresidente della Commissione, ndr) ha detto che forse in fase transitoria si può fare. Spero che non ce ne sarà bisogno. Se saremo bravi a fare le rinnovabili, forse non dovremo farla».
INSOMMA NON È DETTO che soldi pubblici non saranno usati per finanziare il Ccs, e questo gli ambientalisti non lo vogliono. Forti anche di autorevoli pareri scientifici che smontano pezzo a pezzo il progetto di Eni. «Produrre CO2 per poi catturarla e immagazzinarla è un procedimento contrario ad ogni logica scientifica ed economica – hanno scritto gli scienziati di Energia per l’Italia è molto più semplice ed economico usare, al posto dei combustibili fossili, le energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) che non producono né CO2, né inquinamento». Il Ccs, secondo i ricercatori, non solo potrebbe provocare attività sismiche ma non eliminerebbe «nemmeno l’inquinamento causato da combustibili fossili, che ogni anno causa in Italia 80.000 morti premature». Dunque una tecnologia inutile, potenzialmente pericolosa e costosa.
Perché allora Eni, nonostante tutto, punta sulle maxi discariche sotterranee di anidride carbonica?
Perché sono funzionali al suo business ancora basato sui combustibili fossili, spiega il chimico Leonardo Setti dell’Università di Bologna. «Il core business dell’azienda è vendere gas e petrolio, il Ccs allora serve solo per allungare la vita di quelle fonti fossili, iniziando con l’idrogeno blu (prodotto con la combustione del metano e poi «ripulito» mettendo sotto terra l’anidride carbonica).
Dal punto di vista scientifico il Ccs non si giustifica in una transizione energetica che porti fuori dal fossile spiega Setti piuttosto si riconverta Eni attraverso la ricerca e produzione di batterie elettriche».
AD APPOGGIARE la manifestazione di Ravenna anche la politica. Dalla Regione Emilia-Romagna si fa sentire il consigliere di Coraggiosa Igor Taruffi, che chiede investimenti sull’eolico offshore e non su «un’opera che prolunga la vita delle fonti fossili». I Verdi con la consigliera regionale Silvia Zamboni, da sempre contrari al Ccs, chiedono che la transizione ecologica, quella vera e senza il Ccs, parta dalle industrie a maggioranza pubblica come l’Eni. Mentre da Roma si fa sentire anche il Movimento 5 Stelle. «Il progetto per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica di Eni a Ravenna deve stare fuori dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dichiara per il M5s il deputato Alberto Zolezzi, membro della commissione ambiente Le risorse in arrivo dall’Europa non vanno sprecate per questa iniziativa che non ha nulla di sostenibile. Con il governo Conte II il MoVimento 5 Stelle aveva buttato fuori il progetto dal Recovery Plan e ora non accetteremo che ricompaia».
DA IL MANIFESTO
[…] admin scrive:14 maggio 2021 alle 11:56Energia fossile a sei zampe, Eni sotto accusa– Giovanni Stinco, 13.05.2021 su Il manifesto.Clima. Proteste nel giorno dell’assemblea «a porte chiuse» degli azionisti della multinazionale. A Ravenna il no al sito di stoccaggio di CO2Ci si può dichiarare «green» continuando a produrre CO2? Eni pensa di «sì», semplicemente mettendo il gas serra delle attività industriali sotto al mare. Lo farà in Inghilterra, nella baia di Liverpool, e ad Abu Dhabi. Lo farà anche al largo della costa di Ravenna, nel Mare Adriatico, utilizzando depositi ormai esausti di gas metano. Da tornare a riempire, questa volta con anidride carbonica. La tecnologia si chiama Ccs, acronimo che sta per «Carbon capture and storage», cattura e stoccaggio di anidride carbonica.Un progetto strategico per l’azienda, ha detto l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi che conta molto sul Ccs per raggiungere nel 2050 la tanto sbandierata neutralità energetica. Come?Puntando tutto sul gas (che resta un combustibile fossile inquinante) e provando a ripulire l’aria catturando la CO2 e nascondendola in maxi discariche sotterranee. Quella di Ravenna potrebbe essere la più grande del mondo. Un progetto che non piace agli ambientalisti e ecologisti di tutta Italia, in piazza a Ravenna e a Roma per dire No alla «grande opera».AD APRIRE LE DANZE GREENPEACE, i cui attivisti ieri mattina a Roma hanno scalato il grattacielo sede generale dell’Eni e, nel giorno dell’assemblea degli azionisti, hanno dispiegato a 50 metri d’altezza uno striscione con la scritta «Eni killer del clima» e la testa del famoso cane a sei zampe che brucia il pianeta. Nel pomeriggio una manifestazione nazionale ha invece portato centinaia di persone a Ravenna per protestare contro il progetto di Ccs di Eni. Mentre a Milano, Napoli, e a Stagno, in provincia di Livorno, ci sono stati presidi contro le politiche energetiche del gigante degli idrocarburi. Un messaggio ai manifestanti è arrivato anche dagli ecologisti di Taranto, «siamo con voi, uscire dal fossile è l’obiettivo fondamentale di tutte e tutti noi».Greenpeace davanti al quartier generale Eni a RomaA SCENDERE IN PIAZZA A RAVENNA, a pochi minuti di distanza dal petrolchimico creato negli anni ‘50 del 900 da Enrico Mattei e che aspetta ancora un piano di riconversione, le maggiori sigle dell’ambientalismo italiano: Legambiente, Fridays For Future, Extinction Rebellion, e le 70 associazioni dell’Emilia-Romagna che si sono uniti sotto il nome di Rete emergenza climatica e ambientale Emilia-Romagna. Con loro anche attivisti del comitato Trivelle Zero delle Marche e i ciclo-ambientalisti veneti di Climate-Riders. «No al greenwashing e alla propaganda di Eni, sì alla giustizia climatica», hanno detto al megafono i manifestanti. «Il Ccs è sbagliato e non fa bene all’ambiente – ha attaccato Viviana Manganaro della Rete emergenza climatica. Permetterà di non smantellare gli impianti estrattivi esausti in mare, permetterà alle industrie inquinanti di apparire presentabili nascondendo la CO2 sotto terra, permetterà agli imprenditori e a Eni di non affrontare una vera transizione ecologica verso eolico e solare. Insomma tutti saranno felici e contenti tranne l’ambiente e noi che ci viviamo».Cè poi il tempo dei soldi. Chi pagherà per il Ccs? Il progetto è stato depennato dal Recovery Plan, ma il ministro per la transizione ecologica Cingolani non ha chiuso definitivamente la porta. «Fino al 30 aprile – ha dichiarato la Commissione europea ci aveva detto che nel Recovery non doveva esserci la Ccs. Poi il 3 maggio Timmermans (il vicepresidente della Commissione, ndr) ha detto che forse in fase transitoria si può fare. Spero che non ce ne sarà bisogno. Se saremo bravi a fare le rinnovabili, forse non dovremo farla».INSOMMA NON È DETTO che soldi pubblici non saranno usati per finanziare il Ccs, e questo gli ambientalisti non lo vogliono. Forti anche di autorevoli pareri scientifici che smontano pezzo a pezzo il progetto di Eni. «Produrre CO2 per poi catturarla e immagazzinarla è un procedimento contrario ad ogni logica scientifica ed economica – hanno scritto gli scienziati di Energia per l’Italia è molto più semplice ed economico usare, al posto dei combustibili fossili, le energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) che non producono né CO2, né inquinamento». Il Ccs, secondo i ricercatori, non solo potrebbe provocare attività sismiche ma non eliminerebbe «nemmeno l’inquinamento causato da combustibili fossili, che ogni anno causa in Italia 80.000 morti premature». Dunque una tecnologia inutile, potenzialmente pericolosa e costosa.Perché allora Eni, nonostante tutto, punta sulle maxi discariche sotterranee di anidride carbonica?Perché sono funzionali al suo business ancora basato sui combustibili fossili, spiega il chimico Leonardo Setti dell’Università di Bologna. «Il core business dell’azienda è vendere gas e petrolio, il Ccs allora serve solo per allungare la vita di quelle fonti fossili, iniziando con l’idrogeno blu (prodotto con la combustione del metano e poi «ripulito» mettendo sotto terra l’anidride carbonica).Dal punto di vista scientifico il Ccs non si giustifica in una transizione energetica che porti fuori dal fossile spiega Setti piuttosto si riconverta Eni attraverso la ricerca e produzione di batterie elettriche».AD APPOGGIARE la manifestazione di Ravenna anche la politica. Dalla Regione Emilia-Romagna si fa sentire il consigliere di Coraggiosa Igor Taruffi, che chiede investimenti sull’eolico offshore e non su «un’opera che prolunga la vita delle fonti fossili». I Verdi con la consigliera regionale Silvia Zamboni, da sempre contrari al Ccs, chiedono che la transizione ecologica, quella vera e senza il Ccs, parta dalle industrie a maggioranza pubblica come l’Eni. Mentre da Roma si fa sentire anche il Movimento 5 Stelle. «Il progetto per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica di Eni a Ravenna deve stare fuori dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dichiara per il M5s il deputato Alberto Zolezzi, membro della commissione ambiente Le risorse in arrivo dall’Europa non vanno sprecate per questa iniziativa che non ha nulla di sostenibile. Con il governo Conte II il MoVimento 5 Stelle aveva buttato fuori il progetto dal Recovery Plan e ora non accetteremo che ricompaia».DA IL MANIFESTO […]
Transizione energetica un tubo
Mario Agostinelli
14 Maggio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura – Sbilanciamoci!
Il metano, e non solo l’anidride carbonica, è uno dei fattori del riscaldamento climatico producendo ozono atmosferico. Per tanto indicarlo nella transizione verde come fa il Pnrr è più che un intervento di green-washing. E si deve partire dalla riconversione delle centrale di Civitavecchia.
E’ trascorso abbastanza tempo per meditare sull’ispirazione delle oltre 700 pagine del PNRR e fare un approfondimento sulle numerose schede di accompagnamento che riguardano la “transizione energetica”. Ne risulta l’impressione di un efficientamento di un sistema in continuità sostanziale con il passato, per nulla incline ad uno stravolgimento dei poteri consolidati, allettato da un potenziamento e da un aggiornamento poco rischioso per le imprese ma, al contrario, esposto a rischi climatici e sociali in tutta evidenza sottovalutati. Il solo fatto di non adempiere alla richiesta europea di ridurre di un taglio minimo del 7,6% ogni anno le emissioni di CO2 da qui al 2030, la dice lunga sulle pressioni che le multinazionali casalinghe del gas, seppur partecipate dallo Stato, sanno esercitare impunite.
Nella lettura si coglie spesso un tentativo di “greenwashing” e di aspettativa in risolutive tecnologie di freddo soccorso alla cura, pur di esorcizzare la crisi pandemica ancora bruciante e farla sciogliere in una transizione affidata più alle scommesse della tecnocrazia (la fissione a 10 anni!) che alla riconversione ecologica, processo complesso e impegnativo, inseparabile da una profonda riconsiderazione del nostro rapporto con la natura e da un largo coinvolgimento democratico.
Per andare a casi concreti, penso, ad esempio, all’insistenza sull’impiego del metano nella centrale di Civitavecchia, dove le articolazioni istituzionali, civili, sindacali – perfino religiose – hanno provato a far lievitare dal basso un modello di fornitura e consumo elettrici non più incatenati ai fossili, per ritrovarsi nelle tabelle del Next Generation poste di bilancio che confermano i fumi di combustione che hanno afflitto da oltre settant’anni la città e il litorale laziale con accenni solo irrisori all’eolico off-shore, o all’accumulo in pompaggi o idrogeno verde che favorirebbero spazi occupazionali e l’insediamento di una manifattura e una logistica portuale di pregio. Eppure, la politica locale, le associazioni ambientaliste e del lavoro, i comitati dei cittadini, sapevano bene che nelle stanze dell’ENI (ed anche dell’ENEL almeno a livello nazionale) si sarebbero alla fine tirati i conti nell’esclusivo interesse aziendale, scrivendo di proprio pugno i nuovi piani e rimandando la neutralità climatica a tempi in cui i CdA saranno ben oltre l’età della pensione.
Da molti passaggi del PNRR, con la scusa che le procedure di progettazione validazione e controllo devono essere fagocitate da tempi incompatibili con una salda partecipazione, si coglie come la rappresentanza politica e sociale non siano più eletti ad elemento decisivo nemmeno per pianificare il futuro dei loro territori, in una fase storica in cui ne va della loro integrità e della salute dell’intera biosfera. Un’opposizione sociale, quando si manifesta, va ascoltata per poter fronteggiare emergenze con cui non ci si era mai incrociati fino ad ora e avverso cui vengono convogliate risorse pubbliche esorbitanti e irripetibili.
Le caratteristiche del PNRR che è stato trasmesso a Bruxelles hanno senz’altro il pregio di presentare un’immagine più efficiente di un Paese stremato, ma non possiedono l’ambizione di osare un modello diverso da quello di una crescita riconsegnata quasi in toto ad un sistema che ha fallito e che, anziché mobilitare le risorse solidali, diffuse e creative che anche la pandemia ha contribuito a ridestare, potrebbe accontentarsi di snellimenti burocratici e di decisioni già prese in un continuismo deplorevole. Se non cambia il rapporto con cui l’economia capitalista d’impresa ha depauperato negli ultimi quarant’anni le relazioni sociali, sfruttato il lavoro e depredato la natura, il PNNR potrebbe rivelarsi un’ulteriore involuzione, una difesa dell’esistente a vantaggio di pochi che già si affannano sui fondi a disposizione. Partenariato pubblico-privato, società per azioni solo “formalmente” partecipate dallo stato e beni comuni consegnati al mercato non stimolano certo le risorse delle comunità, a nessun livello, tantomeno se si presume di parlare, come ha fatto Draghi in Parlamento in nome di una Next Generation o in sintonia con gli stimoli insistentemente lanciati da papa Francesco.
Essere ambiziosi vuol dire non fermarsi alla enunciazione di progetti, ma costruirli in una visione per cui “nulla ormai di questo mondo ci può risultare indifferente”, anche correggendoli in corso d’opera e non dando più per scontato il massimo profitto a giudice dei risultati. La posta è talmente alta che la Corte di Karlsruhe ha imposto al governo tedesco di innalzare il limite delle emissioni climalteranti, in nome della generazione dei miei nipoti! Perché, allora, non mobilitarci già ora, partendo da ogni territorio, per valutare senza prevenzioni, ma anche senza ingenuità, le possibili ricadute di elargizioni assegnate con scarso controllo alle convenienze di privati e agli interessi del mercato in direzioni irreversibili, data la mancanza di tempo a fronte delle emergenze in corso?
Eppure, il dibattito nel Paese e in Europa è vivacissimo: nella rete, tra le associazioni, sui giornali e su documenti tutt’altro che improvvisati spediti via internet. Ho letto con grande attenzione il documento “ripensare la cultura politica della sinistra” redatto da alcuni tra i più noti nostri politologi, economisti, giuristi (Biasco, Visco, Barca, Urbinati, Pasquino, per fare dei nomi) e ho apprezzato molte delle formulazioni innovative con cui si affronta soprattutto il tema delle riforme e lo spirito che dovrebbe alimentare la svolta. Ma, quando arriviamo alla transizione energetica, ci accorgiamo che cade loro la penna e la passano a qualche esperto – probabilmente di qualche ufficio studi, consulente delle nostre multinazionali o ex-municipalizzate energetiche – che letteralmente scrive, nell’ultima parte del testo, che: “il gas (meno inquinante di altri combustibili fossili) continuerà ad essere per un tempo non breve la fonte di transizione dal fossile alle rinnovabili…Di conseguenza, pensare al futuro implica valorizzare la posizione speciale del Meridione nel Mediterraneo; una collocazione, che ci consente di aspirare a farne oggi un polo per l’Italia e l’Europa per convogliare verso queste aree il gas liquefatto dai nuovi giacimenti del Mediterraneo e dal resto del mondo, diversificando le fonti di approvvigionamento secondo gli indirizzi europei…Si dovrebbe coinvolgere in un partenariato pubblico-privato le grandi utilities del settore – in primis, quelle pubbliche ricondotte a scelte di sistema congrue con quel piano. Scelte anche funzionali alla ricerca mirata sia per costruire una filiera dell’idrogeno verde, sia per le nuove tecnologie di cattura e riutilizzo della CO2”.
Sembra strano che chi ha firmato quel documento e frequenta ambienti spesso contigui alle Università e ai think tank internazionali, non si sia accorto che è in atto a livello mondiale una forte dissuasione al ricorso al gas come combustibile della transizione, tanto che le lobby di SNAM, TOTAL, ENI premono sulla Commissione UE, per ora senza successo, per inserirlo nella tassonomia verde e non escluderlo dai finanziamenti agevolati. Questa leggerezza, di persone di riconosciuto rilievo, rivela quanto la classe politica italiana continui a sottovalutare le novità in un settore tanto decisivo e a delegare agli “esperti” l’ecologia integrale, che è di per sé argomento “interdisciplinare”.
“L’ONU dichiara guerra alle emissioni di metano” titolava il Guardian del 7 maggio.
In un documento recentissimo (v. https://www.unep.org/resources/report/global-methane-assessment-benefits-and-costs-mitigating-methane-emissions ) un team internazionale di scienziati, utilizzando i dati più attuali, modelli climatici all’avanguardia e analisi politiche provenienti da 4 importanti centri di ricerca sotto l’egida dell’ONU, traccia la rotta per combattere le emissioni di metano e modellare le politiche climatiche del decennio appena iniziato. Nel documento reso affidabile da una monumentale ricerca al pari dei documenti dell’IPCC, si rivela che, se l’anidride carbonica ha un ruolo fondamentale nel riscaldamento globale, nondimeno il metano (CH4), con un potenziale di riscaldamento molto più alto (di ben 28 volte considerando un orizzonte temporale di 100 anni), merita altrettanta attenzione. Anzi, nel breve periodo (i primi venti anni) ancora maggiore attenzione se si vuole stare nei limiti di temperatura di 1,5°C, come corretto nelle ultime raccomandazioni dopo l’accordo di Parigi.
Purtroppo, la sua concentrazione è più che raddoppiata dall’era pre-industriale ed è aumentata del 9% (pari a 50 milioni di tonnellate) tra il 2000-2006 e il 2017. Per di più è stata responsabile del 30% del global warming nel 2020, anno della pandemia.
La novità di questo danno sta nella scoperta che il metano è un ingrediente chiave nella formazione dell’ozono troposferico (smog), un potente forzante climatico e un pericoloso inquinante atmosferico. Le risposte del sistema fisico alle emissioni di metano, comprendono quindi non solo le risposte climatiche e di composizione del sistema fisico, ma tutti gli impatti a valle dell’ozono.
“Per ridurre le concentrazioni di ozono a livello del suolo – afferma Inger Andersen, direttora esecutiva del United Nations Environment Programme, – occorre una riduzione del 45% di metano entro il 2030, il che impedirebbe 260.000 morti premature, 775.000 visite ospedaliere legate all’asma, 73 miliardi di ore di lavoro perso a causa del caldo estremo e 25 milioni di tonnellate di perdite di raccolti all’anno. Il taglio del metano è la leva più forte che abbiamo per rallentare il cambiamento climatico nei prossimi 25 anni e completa gli sforzi necessari per ridurre l’anidride carbonica. I vantaggi per la società, le economie e l’ambiente sono numerosi e superano di gran lunga i costi. Misure aggiuntive che non prendono di mira specificamente il metano, come il passaggio alle energie rinnovabili, l’efficienza energetica residenziale e commerciale e una riduzione della perdita e degli sprechi alimentari, diventano così complementari all’annullamento di nuovi investimenti sul gas. Poiché – conclude la Andersen – non possiamo fare affidamento sul futuro dispiegamento su vasta scala di tecnologie di rimozione del carbonio non provate, come il CCS, l’espansione delle infrastrutture e dell’utilizzo del gas naturale risulta incompatibile con il mantenimento del riscaldamento a 1,5 ° C”. Tre i settori su cui agire: industria fossile, agricoltura e allevamenti, gestione dei rifiuti. Senza uno sforzo di dimezzamento delle emissioni di metano al 2030 non si riporterebbe il Pianeta in linea con la traiettoria per rispettare l’accordo di Parigi rivisto a +1,5°C.
Quest’anno l’UNEP ha lanciato il Decennio delle Nazioni Unite sul ripristino degli ecosistemi. Anche i cambiamenti comportamentali, la riduzione della perdita e dello spreco di cibo, il miglioramento della gestione del bestiame e il passaggio a diete più sane che a livello globale includono un consumo ridotto di alimenti a base di ruminanti, hanno il potenziale per fornire fino a 65-80 Mt. di riduzione al 2030.
Gli Stati americani di California e New York, puntano alla riduzione del 40% delle emissioni di metano entro il 2030. E’ certo che la Commissione Europea e il Parlamento adotteranno proposte legislative entro la fine dell’anno per rendere obbligatorie misure, relazioni e verifiche e tasse di importazione per tutte le emissioni di metano legate all’energia.
E allora, per tornare a noi, come la mettiamo con L’ENEL, IL PNRR e Civitavecchia? E non sarebbe ora di cominciare a discutere la riconversione dell’ENI, prima che i suoi profitti vengano dispersi in riparazione del danno e in un angosciosa lotta per mantenere una missione assai brillante all’origine, ma oggi in rapido declino?