La Cisl Sarda: il Recovery Plan (PNRR) sia un nuovo e concertato Patto per lo sviluppo in Sardegna. Rinasci Sardegna!
Come già avvenne per l’esperienza della Legge di Rinascita, al di là delle difficoltà insorte in corso d’opera, occorre che la Giunta Regionale recuperi con urgenza una capacità di proposta forte ed unificante per tutti i Sardi sui temi dello sviluppo, del lavoro e della coesione sociale, proposta per la quale è oggi indispensabile, come lo fu allora, aprire una stagione di confronto e partecipazione delle parti sociali e di tutte le istanze rappresentative, con l’obiettivo di definire, insieme al Governo Nazionale e alla stessa Europa, un nuovo e concertato patto per lo sviluppo in Sardegna.
La valutazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, per quel che concerne la Sardegna, obbliga anzitutto a una riflessione che va oltre la consistente dotazione finanziaria e la sua complessa costruzione programmatoria e attuativa.
Superato il primo ventennio degli anni duemila la Sardegna, indipendentemente dalle conseguenze provocate dalla pandemia da covid19, non ha recuperato i divari economici e sociali sia rispetto alle regioni del centro-nord del Paese che rispetto al dato medio della Unione Europea. [segue]
Permangono negli anni inalterate le diseconomie di tipo strutturale che non sono state appunto intaccate sia dal Piano di Rinascita che dalla programmazione europea attraverso i Fondi strutturali.
Sul versante quantitativo l’uno e l’altro strumento hanno sostituito per larga parte l’intervento ordinario dello Stato, su quello qualitativo e dell’efficacia degli interventi ha influito invece non poco la mediocre qualità istituzionale e i vincoli derivanti sia dal mancato riconoscimento dello status di insularità, e quindi degli interventi utili a recuperare le conseguenti difficoltà, diseconomie, deficit di agibilità e di mobilità, sia una autonomia mutilata da una irrisolta questione dei poteri e delle competenze su ambiti decisivi per lo sviluppo dell’Isola.
Si pensi all’autonomia finanziaria, e, alla vertenza sulle entrate malamente chiusa, al costo della sanità e del trasporto pubblico locale interamente a carico della Regione, alla continuità territoriale che dovrebbe essere garantita in toto dallo Stato, al costo energetico di famiglie e imprese, ben superiore rispetto alle altre regioni del Paese, a un sistema dei trasporti interni inadeguato per i cittadini e per le imprese.
Cosa c’è dunque di più e di diverso nel PNRR, rispetto al Piano di Rinascita e ai Fondi strutturali, in grado di intaccare positivamente le antiche e attuali diseconomie e di rimuovere i lacci e i lacciuoli di un rapporto con lo Stato che deve essere superato quanto a poteri e competenze? Si pensi ad esempio ai beni culturali, oppure alle necessarie compensazioni e riconoscimenti per la dimensione insulare che penalizza cittadini e imprese.
In che misura la digitalizzazione, la rivoluzione verde e la mobilità sostenibile diventeranno strategie e obiettivi utili alla Sardegna per rimuovere le difficoltà e i divari che la separano dalle altre regioni del centro-nord e dalla Europa?
Da un esame del PNRR non si evince un’attenzione particolare alle specifiche situazioni geografiche, storiche, economiche e sociali della Sardegna. Rispetto anche alle altre regioni del sud, che pure non vengono trattate come una priorità per affrontare l’irrisolta questione del divario con il centro- nord, la Sardegna appare del tutto residuale su interventi decisivi per l’economia, come ad esempio le per ora citazioni riguardanti la mobilità e i trasporti.
Il riequilibrio territoriale tra le diverse aree del Paese è poco presente, non solo come riflessione da cui partire per avviare una strategia e per dosare interventi e risorse, ma anche per incidere realmente su uno dei problemi che storicamente frena l’economia e lo stesso sistema Paese, incidendo negativamente sul lavoro, sulla qualità della vita e delle istituzioni, sulla giustizia e sulla sicurezza.
E’ per questo che su inclusione, spopolamento e crisi demografica la trattazione risulta non coerente rispetto all’esigenza di garantire le priorità laddove si evidenzia una purtroppo lunga e consolidata questione sociale e una grave crisi dell’economia e del lavoro.
Nel merito, la Giunta regionale non ha saputo precedere l’approvazione del PNRR da una riflessione adeguata e puntuale sullo stato della questione sarda, ne sulle proposte necessarie ad affrontarla, per poi trasmetterle al Governo, previo coinvolgimento delle rappresentanze sociali, economiche e degli Enti Locali.
Il Governo nazionale ha approvato un PNRR certamente con una complessa architettura programmatoria e attuativa, ma senza affrontare alcuni dei nodi che storicamente incidono sui ritardi e sulle difficoltà del Paese: il Meridione, il problema insulare, la qualità dei trattamenti sanitari e del diritto alla salute presenti in maniera differente le varie regioni, solo per fare alcuni esempi.
Sostenere che le missioni individuate coprono tutti gli ambiti dell’emergenza sociale, economica e infrastrutturale e, che le Regioni riusciranno ad ottenere e soprattutto spendere la loro quota parte di risorse è tutto da dimostrare e non evincibile dal PNRR.
In tutti casi anche con i previsti Accordi di programma, come anche la storia recente insegna, è illusorio pensare di affrontare i problemi economici e sociali dell’Isola prescindendo da una strategia condivisa, senza aver sciolto i nodi riguardanti la continuità territoriale delle persone e delle merci, i costi della insularità, il potenziamento della viabilità, dei trasporti interni ed esterni all’isola, l’efficienza del sistema Regione e i tempi di attuazione dei programmi e progetti.
Non appare ancora chiaro in che modo, con quali progetti e in quale misura, la digitalizzazione, la rivoluzione verde, la mobilità sostenibile, e, cosi tutte le sei missioni individuate, possano aiutare la Sardegna a rilanciare lo sviluppo e il lavoro e a recuperare i divari con le aree più forti del Paese e dell’Europa.
Si ha l’impressione che vengano fatte salve le indicazioni e le prescrizioni dell’Unione Europea, una correttezza formale che fa salve le procedure, ma forse non affronta in radice le peculiarità oltre il sistema, come una sorta di “abito buono per tutte le taglie”. Sono certo accattivanti i titoli e gli obiettivi delle sei missioni individuate, ma per ora non è visibile quanto di tutto questo potrà concretamente incidere sulle diseconomie esistenti nell’Isola, in presenza del vuoto strategico che caratterizza l’azione della Regione.
E’ naturale, persino utile, che in questi frangenti ci si interroghi sulle esperienze storicamente maturate in altri momenti, sia a livello europeo che nazionale e regionale, per fronteggiare le crisi e per rilanciare lo sviluppo e il lavoro.
Il dibattito in corso focalizza l’attenzione sul Piano Marshall che nel dopoguerra, attraverso l’European Recostruction Plan (ERP), tra l’aprile 1948 e il giugno 1952, trasferì 13,3 miliardi di dollari dagli Stati Uniti a 16 Paesi europei, corrispondenti a circa 140 miliardi di dollari di oggi.
All’Italia spettò circa 1 miliardo e mezzo di dollari, corrispondente al 9,2% del Pil di quegli anni, non molto meno della percentuale sul Pil di oggi delle risorse che utilizzerà l’Italia con il Recovery Fund. Gli aiuti del Piano Marshall furono però per la gran parte a fondo perduto, diversamente da quelli che oggi arriveranno invece in buona parte a debito.
Inoltre dagli USA arrivarono allo Stato italiano beni di ogni tipo che con lo stesso rivendeva sul mercato, ricavando ulteriori risorse poi reinvestite sullo sviluppo e il rilancio produttivo di settori strategici. I Programmi di investimento inoltre dovevano essere avvallati dagli USA e poi discussi e approvati dal Parlamento italiano.
Non ci furono interventi per salvare imprese decotte. I risultati furono eccellenti sia sul versante del reddito che su quello della produzione, delle esportazioni e del consumo interno. I criteri di spesa individuati furono essenzialmente quattro: urgenza delle opere, creazione di occupazione, crescita del reddito, sostegno alle aree depresse. Fondamentale fu, in quella fase storica, la gestione politica ed economica, avendo come riferimento figure come Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi.
L’altra esperienza storica di Piano per fronteggiare le difficoltà dello sviluppo e della economia è quella della Sardegna con il Piano straordinario per favorire la Rinascita economica e sociale, in attuazione dell’articolo 13 della Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n.3. Un riferimento utile per quel che riguarda l’utilizzo delle risorse che la Sardegna dovrebbe attrarre attraverso l’utilizzo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
La Legge 588 prevedeva una spesa a carico dello Stato di 400 miliardi di lire distribuiti in tredici esercizi, dal 1962-63 al 1974-75. Per concretizzare la spesa la Regione elaborò uno Schema generale di sviluppo, come ipotesi guida di sviluppo globale della Sardegna, e un Piano straordinario, da articolarsi in programmi esecutivi annuali, che avrebbe guidato l’utilizzo dello stanziamento dei 400 miliardi.
L’attuazione dei Piani fu affidata alla Regione, mentre alla Cassa per il Mezzogiorno era riservato il controllo tecnico sulla progettazione ed esecuzione delle opere. Il raggiungimento degli obiettivi era affidato al Coordinamento di tutti gli Enti coinvolti: Stato, Regione, Cassa per il Mezzogiorno, per la spendita di tutte le fonti di finanziamento pubbliche e private, nell’ambito delle quali, peraltro, quelle della legge 588 avrebbero svolto solo un ruolo aggiuntivo e di indirizzo ma non sostitutivo di altri interventi.
La partecipazione democratica venne affidata a un Comitato di consultazione sindacale e ai Comitati zonali di sviluppo in ciascuna delle zone omogenee. La stessa Regione dovette però poi constatare che “Ministeri, Aziende pubbliche, CASMEZ e aziende private presero ad operare un progressivo sganciamento dal quadro di riferimento della Programmazione regionale.
E anche gli Istituti di credito speciale, al di fuori delle direttive contenute nel Piano, assecondarono le scelte industriali, settoriali e di localizzazione, assunte dalle imprese in base a criteri prevalentemente aziendali” (cit. Soddu 2002). Pesò in questo anche il contenzioso tra gli organi regionali e statali, e pure i limiti di capacità progettuali e realizzative delle classi dirigenti dell’Isola.
L’insegnamento che si può trarre da queste esperienze storiche è che conta, naturalmente, la qualità delle leadership che governano e attuano i Piani, dunque le risorse umane oltre a quelle finanziarie, la tempestività delle scelte e dunque una limitazione all’eccessivo peso della burocrazia, la partecipazione democratica e il coinvolgimento sia in fase di programmazione che di attuazione della mediazione sociale.
Decisiva poi la finalizzazione degli interventi su obiettivi che garantiscano insieme il rilancio produttivo e la competitività delle imprese, con un articolato sistema e inclusivo di tutele per le politiche attive e passive del lavoro, attraverso un cooperante e non competitivo coordinamento tra le diverse istituzioni locali e nazionali, la definizione chiara del carattere aggiuntivo delle risorse del Piano rispetto a quelle ordinarie, il recupero delle disparità territoriali.
In sintesi dunque, si tratta di mettere insieme capacità di governance, competitività e produttività del sistema, garantendo insieme equilibrio degli interventi e giustizia sociale.
Come già avvenne per l’esperienza della Legge di Rinascita, al di là delle difficoltà insorte in corso d’opera, occorre che la Giunta Regionale recuperi con urgenza una capacità di proposta forte ed unificante per tutti i Sardi sui temi dello sviluppo, del lavoro e della coesione sociale, proposta per la quale è oggi indispensabile, come lo fu allora, aprire una stagione di confronto e partecipazione delle parti sociali e di tutte le istanze rappresentative, con l’obiettivo di definire, insieme al Governo Nazionale e alla stessa Europa, un nuovo e concertato patto per lo sviluppo in Sardegna.
Cagliari, 4 Maggio 2021.
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Convergenze parallele?
Convergenze parallele è un’espressione della lingua italiana, appartenente al lessico politico e al politichese. Con essa, in origine, si andò a indicare una traiettoria politica che avrebbe dovuto portare a un’intesa (il cosiddetto compromesso storico, da alcuni auspicato) tra forze democratiche tradizionalmente distanti: la sinistra italiana e il centro democristiano.
Si tratta di un’espressione d’autore, storicamente attribuita ad Aldo Moro, che, verosimilmente, trae origine da un discorso pronunciato nell’ambito del congresso di Firenze della Democrazia Cristiana del 1959, vertente sulla politica delle alleanze. L’affermazione secondo cui “in tale direttrice diviene indispensabile progettare convergenze di lungo periodo con le sinistre, pur rifiutando il totalitarismo comunista” ha dato spunto al concetto delle convergenze parallele. La locuzione, in realtà, è il frutto di un’invenzione del 1960 di Eugenio Scalfari, allora giornalista de L’Espresso
Ossimoro e paradosso
Dal punto di vista retorico, l’espressione è un ossimoro, perché nasce dall’accostamento di due parole in antitesi. Le convergenze parallele sono infatti un paradosso. Nella comune intuizione geometrica, e nella geometria euclidea, due rette parallele non possono convergere: nel piano, infatti due rette si dicono parallele proprio quando sono prive di punti in comune, cioè quando non si intersecano.
Nella geometria ellittica, il concetto di parallelismo è tale per cui vi è il caso che due rette parallele convergano e si incontrino al finito.
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Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Convergenze_parallele