C’eravamo tanto amati

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CIAO LIDIA
Riflessioni sulla militanza

di Gianni Loy

Ciao Lidia, tu che stavi un po’ più in là, nell’empireo dei leader che, in quella tormentata stagione, arrivavano, ogni tanto, a dettare la linea, ad esser punto di riferimento per noi che abbiamo persino pensato, in qualche momento, che la rivoluzione fosse dietro l’angolo. Credendo davvero, o forse semplicemente l’abbiamo scritto in una delle tante analisi, di trovarci, in Italia, in una fase storica definibile come “pre-rivoluzionaria”. Ma questo non ha importanza, o non più.
Ciò che conta adesso, è che anche tu sei salita su quel treno, con destinazione sconosciuta, che sempre ci attende, in qualche stazione.
Di te, mi rimane il ricordo di compagna diversa da quel manipolo di leader, arrivati con il Manifesto dopo la sconfitta del 1973, con i quali, per qualche tempo, abbiamo condiviso un tratto di strada. Reduci da avanguardie, appartenenti alle principali correnti di pensiero della nostra storia, quello cattolico, quello comunista e quello socialista. Insieme arretravamo dopo la disfatta ma, allo stesso tempo, progettavamo di rilanciare l’attacco.
L’esperienza, sul piano organizzativo, non è durata a lungo, tuttavia ha dato vita ad un’esperienza politica che, nel bene e nel male, è la nostra storia. Nostra, ovviamente, nel senso di chi in essa si riconosce.
La tua diversità era così evidente, nella storia de Il Manifesto – ma non nella nostra – che Luciana Castellina, lei sì, icona di quel giornale, di quel partito, di quell’idea, rigirando tra le mani la tua ultima fotografia, non ha esitato ad affermare che, nella storia del Il Manifesto, sei stata un “marziano”.
Per tre ragioni. La prima perché eri cattolica; la seconda perché sei stata democristiana attiva; la terza perché, “pur essendo stata, a pieno titolo, fondatrice de Il Manifesto, non vieni mai citata tra i suoi fondatori”.
Ciò corrisponde, più o meno, a quanto ho sempre percepito. Poi il tuo impegno con “Cristiani per il socialismo”, il femminismo. I partiti politici si possono anche fare e disfare in continuazione, ne sappiamo qualcosa, più difficile è l’abiura dal patrimonio di valori che, in un certo momento della vita, abbiamo consapevolmente scelto. Scelto, si badi bene, indipendentemente dal fatto di esserci formati alla luce della dottrina cristiana o di quella comunista.
Mentre attendiamo il prossimo treno, seduti sulla panchina di una stazione, la nebbia comincia a diradarsi. Per tanto tempo, abbiamo visto come in uno specchio, in maniera confusa, ma si avvicina l’ora nella quale potremo vedere con chiarezza, “faccia a faccia”. Se Lucio Magri poteva citare Santa Teresa di Lisieux, mi sarà concesso citare San Paolo.
Non credo affatto che le ideologie siano morte. Solo che l’essere formalmente iscritti all’una o all’altra corrente ha sempre meno significato.
Ma tu sei comunista? – mi ha chiesto un giorno mio figlio. Ed io, che comunista non sono mai stato, gli ho risposto: Sì. Comunista sono. Anche se solo da quando la direzione di un partito che ha contribuito a scrivere, nel bene e nel male, la storia del secondo dopo guerra in Italia, ha deciso di cancellare quel nome dalle proprie generalità. Prima non avrei potuto esserlo, anche se a lungo flirtavo, e militavo, fianco a fianco con tanti compagni che comunisti si dichiaravano.

Luciana Castellina non ha dà importanza al fatto che Lidia fosse cattolica. Afferma che “ce ne sono stati sempre molti tra noi”. È vero, ce n’erano molti. Ma il fatto stesso che la differenza venisse colta, pur non attribuendole importanza – cosa, peraltro, non del tutto vera – lascia intendere che il nostro passaggio alla militanza in partiti di ispirazione marxista veniva interpretato come una sorta di abiura del nostro credo, una sorta di conversione alla religione marxista che, al suo interno, si dibatteva tra ortodossia e revisionismo e che, oltretutto, veniva declinata in differenti varianti, tra loro confliggenti.

Dalle mie parti una rottura si consumava con uno scisma, altrove con una scissione. Il senso religioso dei due termini è lo stesso.

La conseguenza, è che, sì, combattevamo le stesse battaglie, solo che noi, ai loro occhi (o agli occhi di molti di loro) eravamo considerati al pari degli ascari che affiancavano l’esercito italiano alla conquista di Addis Abeba, ma non erano gli eletti dell’esercito italiano. Il PCI fa caso a sé, naturalmente. Ma anche all’interno dei partiti dove collaboravamo gomito a gomito, incluso il PdUP, si coglieva quella sensazione. Avvertivamo un’aria di superiorità da parte di chi riteneva di essere il depositario del verbo, quindi legittimato alla sua interpretazione e unico detentore del potere di “dettare la linea”. Noi, in fondo, eravamo dei parvenues, bravi quanto si vuole, ma sempre dei parvenues. Cosa potevamo noi saperne delle tavole sacre del marxismo, dei suoi misteri dottrinali?
La verità è che non mi sono mai appassionato allo studio delle differenze tra le varie sette del marxismo che, a quanto pare, tanto appassionavano i nostri compagni di lotta.

Questa sensazione la colgo ancora oggi nelle parole di Luciana Castellina, quando spiega perché mai Lidia Menapace, che fu, a pieno titolo, “fondatrice” del Il Manifesto, “non è mai citata tra i “fondatori”: “per esserlo, avrebbe dovuto essere anche lei radiata dal PCI”.

A nessuno è mai passato per la testa che se ci siamo buttati a capofitto nella lotta, se abbiamo praticato la lotta di classe, non è certo perché ci siamo improvvisamente innamorati del marxismo, ma molto più semplicemente perché, così facendo, ritenevamo di mettere in pratica la nostra di dottrina, quella scritta a chiare lettere nel vangelo, che ci invitava a lottare per la liberazione dagli sfruttati. Se dovessero essere chiamati sfruttati, poveri, proletari di tutto il mondo o sottoproletari, no ne abbiamo mia fatto una questione. Niente di diverso da quanto, oggi, predica papa Francesco.

Certo che eravamo consapevoli dei preti che, in nome di Dio, benedicevano i cannoni dei prepotenti o giustificavano chi sfruttava i lavoratori, tuttavia ci ispiravamo a quelli che, invece, benedivano le lotte di liberazione o sceglievano di vivere la condizione del proletariato condividendo lo loro lotte. Perché allora, come cantavano i Gufi, tutti andavamo in chiesa a pregare Iddio, ma tu pregavi il tuo ed io pregavo il mio”.

Come voi, del resto, che in nome dello stesso Marx o Lenin riuscivate a trovare motivo di contrapposizione, sia nel campo del socialismo reale (Urss o Cina) che delle più piccole organizzazioni locali, pronte a dividersi in nome dell’ortodossia.

La differenza, in definitiva, e che mentre noi avevamo una concezione laica dell’impegno nel sociale voi – prendetela pure come una mia opinione personale – avevate una concezione profondamente religiosa.

La vera anomalia di Lidia Menapace, secondo la lettura di Luciana Castellina, non era però il suo essere cattolica – immagino che lo stesso giudizio possa valere per quasi tutti noi -. Lidia era una sorta di “marziano perché, sino alla vigilia del suo approdo nel gruppo del Manifesto, era stata democristiana, addirittura assessore della Giunta provinciale di Bolzano”.

Sfugge, probabilmente, che per noi impegnati nell’associazionismo cattolico, ammoniti sul fatto che votare per il PCI, o anche solamente leggere la sua stampa, ci avrebbe condannato all’inferno, e dove ancora bambini, o poco più, venivamo impiegati a supporto della raccolta di voti organizzata dai Comitati Civici, l’iscrizione alla Democrazia Cristiana, con il raggiungimento della maggiore età, era quasi un atto dovuto. Ma noi che abbiamo letto il Vangelo a modo nostro, convinti, allora ma anche oggi, che fosse quello giusto, vi siamo entrati con la carica di contestazione che ci caratterizzava. Dobbiamo essere giudicati per il fatto di essere stati democristiani o per il contenuto delle nostre azioni? Andrea Olla, da delegato giovanile della DC, saliva sul palco congressuale per chiedere che l’Italia uscisse dalla Nato, che venisse subito approvata una legge a favore dell’obiezione di coscienza, che si ponesse fine alla politica di sfruttamento dei paesi del terzo mondo, che si attuassero politiche a favore dei più deboli, degli emarginati… Era semplicemente un democristiano nell’accezione, spregiativa, che si suol dare al termine?

Non sono pochi i compagni che hanno maturato dentro quel partito, o dentro l’associazionismo che guardava alla Democrazia Cristiana, come le Acli, la scelta politica che li avrebbe collocati fuori, e contro, quella Balena bianca. Ci siamo spontaneamente ritrovati, pur provenendo da esperienze differenti, chi dall’Azione Cattolica, chi dalle Acli, chi dalla Congregazione Mariana dei gesuiti, notoriamente dedita alla formazione della borghesia cagliaritana, sulla base della nostra interpretazione del messaggio che stava alla base della nostra formazione.

I manicheismi del 1948, in quegli anni, erano ancora freschi. Si cominciava a percepire che non era vero che i comunisti mangiassero i bambini. Tuttavia, sapevamo perfettamente che le persecuzioni dei cattolici nei paesi comunisti non erano un’invenzione di Rizzietto Pau. Noi non gli davamo ascolto, ed a ragione, perché guardavamo oltre il mito dell’incarnazione del socialismo reale, al quale non abbiamo mai creduto e sul quale molti comunisti si sono ricreduti solo più tardi, quando chiudere gli occhi non era proprio più possibile. Certo è che per decidere di partecipare alle manifestazioni contro l’invasione della Cecoslovacchia, nel 1968, per fare un esempio, non ho avuto bisogno di alcuna analisi, di alcun confronto; mi è stato naturale – mi trovavo casualmente a Milano – appiccicare sulla cinquecento qualche slogan contro l’invasione e sfilare, con altri sconosciuti, in quella prima, improvvisata manifestazione.

Ma che senso ha tutto ciò, caro Marco, ora che, seduti sulla panchina, attendiamo il passaggio del treno? Ciò che un tempo è stato vero oggi non lo è più. Un tempo, l’appartenenza ad un partito, o ad un’organizziamone, persino ad un gruppuscolo, costituiva uno stigma. Oggi non più, almeno non per me. Tanti, troppi, rivoluzionari d’un tempo, “li ho poi rivisti, in bocca del sistema / in piedi, dopo aver saltato il fosso”. Ma non da oggi. Ricordi i compagni che mandavamo a rappresentarci nelle istituzioni? Ho presenti coloro che hanno tradito il mandato e quelli che hanno cercato di disimpegnarlo con dignità. Non credo che la loro coerenza dipendesse dal fatto che fossero comunisti piuttosto che cattolici.

Confesso che mi son più volte rifiutato di dare la mia fiducia a quanti ancora esibiscono, nel nome, ascendenze rivoluzionarie o comuniste. Allo stesso tempo apprezzo amici che nella Democrazia Cristiana hanno continuato a militare, almeno sino a quando, chi l’avrebbe mai detto, i don Camillo e Peppone della prima repubblica si son presi mano per entrare nella seconda. Perché conosco le loro opere. Non acquisterei da loro un’auto di seconda mano, come si diceva un tempo. Eppure ne vedo tanti, in giro, che utilizzano la vecchia icona per il proprio tornaconto personale.

Insomma, caro Marco, ogni tanto riaffiora il ricordo di un’epoca esaltante, di un’ideale per il quale molto abbiamo sacrificato. Da dove ciascuno di noi venisse, in fondo, non è mai stato importante. In qualche momento l’abbiamo creduto, è vero, ma si è trattato di un’illusione ottica.

L’importante era l’obiettivo che ci accomunava, o credevamo ci accomunasse, quando imboccando la via Sonnino, accompagnati dal megafono di Vincenzo Pillai, urlavamo ai quattro venti che si trattava solo del principio, giuravamo che le combat sarebbe proseguito.

Poi quella storia è terminata, non tornerà mai e, probabilmente, è assai meno importante di quanto non abbiamo creduto. Salvo che per noi, o almeno per me. Se hai la pazienza di trattenerti ancora un po’ su questa panchina, del resto l’orario del treno che attendiamo non è indicato, potremmo anche continuare parlarne, perché anche i ricordi possono far bene, a condizione di non confondere il passato con il presente, la realtà con l’immaginario.

Magari anche a ricordare Lidia Menapace, che non ho conosciuto personalmente, caro Marco, ma che, per tante ragioni, mi è familiare ed ha ancora qualcosa da insegnarmi. Per esempio a rivendicare di non essere un ex. Come credo che anche tu, a buon titolo, lo rivendichi.

Gianni Loy
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Articolo pubblicato in contemporanea su il manifesto sardo.

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