Testimonianze
La proprietà privata, la Chiesa, il papa
di don Andrea Bigalli*
Su IN PRIMO PIANO, Volerelaluna 08-12-2020.
Gli anni dovrebbero portare esperienza e con essa la capacità di leggere cose, avvenimenti, opinioni, con un distacco ragionevole e intelligente. Per frenare sentimenti e reazioni eccessive, calmierare lo spirito, evitare moti di sconcerto. Perché scrivo così? Perché pensavo che età ed esperienza mi avessero consentito di aver già visto abbastanza, limitando quel che lascia allibiti. In verità mi capita spesso di esserlo. Vuol dire che l’esperienza non è sufficiente. O forse che qualcosa eccede di gran lunga ciò che è comprensibile o usuale. Per esempio posso dire che in questi giorni mi stupisce molto certo stupore altrui.
Lo stupore è un sentimento che dovrebbe avere anche un senso positivo: è la meraviglia di fronte all’imprevisto, lo sguardo sull’inedito, l’umiltà di sapere che non si può sapere tutto. Lo scarto rispetto a quanto non conosciamo garantisce sulla nostra possibilità di evolvere. C’è però pure anche uno stupore che non è frutto di cuore puro o di ingenuità. È quello dell’ignoranza colpevole o strumentale. In entrambe queste due motivazioni, non proprio una bella cosa.
Papa Francesco ha da tempo avviato un percorso di consapevolezza sullo stato della «casa comune» (che è il pianeta) rivolto non solo alla chiesa cattolica ma, suo tramite, a quel mondo di cui essa è parte, secondo il dettato del documento conciliare Gaudium et Spes. Proprio perché inserita in questa realtà globale, non esclusa al mondo o in posizione di supremazia, la chiesa riflette sugli elementi della contemporaneità, analizza i fattori di crisi e le potenzialità, attivando le proprie competenze e quelle ottenute consultandosi con chi le ha (i dicasteri pontifici hanno attivato collaborazioni con le personalità scientifiche più rilevanti, in molti campi). Attraverso i documenti degli stessi Consigli vaticani e nel magistero ordinario del Pontefice (le dichiarazioni o la predicazione; elemento, quest’ultimo, molto importante per Papa Bergoglio), ma soprattutto con le lettere encicliche, dal Papa stesso firmate in prima persona, la chiesa cattolica propone una lettura della realtà che tutti stiamo vivendo.
Se la Laudato si’ trattava della crisi dell’ecosistema e la Fratelli tutti affrontava il nodo della socialità, da ripensare secondo la prospettiva della fraternità e dell’amicizia sociale, il convegno di Assisi a cui sono stati invitati recentemente giovani economisti da tutto il mondo e il tavolo di lavoro in quella circostanza istituito, vuol proseguire uno studio sull’economia globale, già da tempo avviato. In questo contesto si situa una affermazione di Francesco sulla necessità di considerare la proprietà privata come valore relativo alle condizioni concrete di vita degli abitanti della Terra e del bene comune in quanto tale. Apriti cielo!, verrebbe da dire. Le parole di Bergoglio sono state pronunciate in concomitanza con la proposta di un’azione di tassazione diretta (come da dettato costituzionale) sui patrimoni ingenti, su cui il Governo italiano sta discutendo. Si è scatenata una bagarre di proporzioni bibliche (aggettivo che non scelgo a caso) riguardo alla tesi secondo cui si stanno sconvolgendo i presupposti fondativi della nostra società e del cattolicesimo, fondati sul sacrosanto diritto alla proprietà privata, in un attacco congiunto al Papa e al Governo che la negherebbero come valore sacrale fondante, mettendo in pericolo la libertà individuale. Nella Costituzione si trovano gli elementi della fondazione della Repubblica: sul lavoro e non sulla proprietà. Al riguardo questo è il mio succinto parere su una tassa patrimoniale per gli alti redditi.
Sulla prima questione vi posso dire – questa è la parte che compete al mezzo teologo quale sono – che per quanto riguarda la chiesa cattolica la questione è molto diversa da quanto il dibattito mediatico esprime. E qui si motiva l’inciso di partenza. Stupirsi – da un lato e dall’altro del fronte di contrapposizione politica – dell’affermazione del Papa, è indice di uno stupore non legittimo, e contestabile. Sull’idea in sé ognuno ha la propria visione di economia e di gestione politica dello Stato. La esprima in piena libertà. Ma sulla evidente manipolazione del dettato teologico (e non solo, ovviamente), l’ignoranza di chi vuol esprimersi pubblicamente su determinati argomenti non dovrebbe essere concessa. In un suo film (Sogni d’oro), Nanni Moretti fa dire al protagonista del film, da lui stesso interpretato: «Parlo mai di astrofisica io, parlo mai di biologia?». E si arrabbia di brutto, considerando che tutti parlano del suo cinema senza averne competenza.
In verità la relativizzazione della proprietà privata si trova già in San Tommaso d’Aquino. In un documento del 1998, molto bello e misconosciuto, del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Per una migliore distribuzione della terra. La sfida della riforma agraria, si parla chiaramente della necessità – e quindi della possibilità etica – di rivedere la questione legale dell’esistenza del latifondismo, esprimendosi chiaramente sulla questione della proprietà privata. Che non è mai stata contestata: ma pensata sempre in relazione alle necessità individuali e a quelle collettive, alla luce dell’esigenza della giustizia, che comprende l’istanza di mezzi di sussistenza garantiti a tutti attraverso un’equa distribuzione delle ricchezze della Terra. Proprio la giustizia fu al centro di uno dei primi grandi eventi del post Concilio, il sinodo mondiale del 1971. Si apriva così il decennio che vedrà la nascita del mio movimento teologico di riferimento, la Teologia della Liberazione (vessato dalla gerarchia vaticana).
Credetemi, non si tratta di argomentare a partire dal singolo pontefice e delle sue (presunte) tendenze politiche. È questione di dottrina; quella ecclesiale, a cui il Pontefice stesso è tenuto. Il primo Papa a parlare in chiave (molto) critica del neoliberismo economico (e non: in tal senso la sua condanna del relativismo non era solo diretta all’ambito morale individuale) è stato Benedetto XVI. E Giovanni Paolo II non ha mai benedetto il capitalismo, anzi. Si diano pace i sovranisti neoliberisti. Delle loro tesi nel Magistero cattolico non c’è traccia.
Che ci sia una prassi di taluni/molti uomini di chiesa che non va certo in direzione dell’opzione preferenziale per i poveri è dato che non si discute. Ed è sicuramente da rimarcare. Ma che la chiesa cattolica, nei suoi presupposti teorici, esalti il libero mercato e la volontà di arricchirsi senza alcuna remora morale, non è vero. Non lo è neanche per la maggior parte delle chiese riformate. Le presunte tesi di Calvino (analizzate da Max Webber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) non sono parte dell’insegnamento del protestantesimo riguardo l’etica della vita economica. Dove, in modo sancito anche dal cammino ecumenico, si indica la necessità di servire i poveri, ed esserlo a propria volta, anche nella contestazione ai poteri che li rendono e mantengono tali.
Se leggeste i Padri della Chiesa, gli autori della teologia, mistica e non, dei primi secoli del Cristianesimo, vi stupireste (in maniera legittima, stavolta) della durezza con cui ammoniscono i ricchi sulla responsabilità che deriva dall’essere tali. Possedere oltre il necessario è rubare al povero. Ma anche questo rigore, in effetti, non è strano. Basta aver letto la Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, per capire che al riguardo Dio è stato abbondantemente strumentalizzato. Se sta da una parte, nella tradizione giudaico cristiana, il Signore sta dalla parte del povero, contro il ricco. Don Lorenzo Milani lo aveva capito bene, insieme a molte altre e altri. E visse, e vissero, di conseguenza. Il loro esempio solo in parte si fa oscurare dagli scandali, ecclesiastici in genere e vaticani in dettaglio, dei secoli e dei mesi passati, e della cronaca ordinaria. Con Bergoglio, il Concilio, ma soprattutto la Parola di Dio, tornano al centro della riflessione teologica e dell’azione pastorale. Chi non è d’accordo, dissenta pure, ma alla luce degli autentici contenuti del cattolicesimo, mediti se non sia il caso di cambiare confessione religiosa.
Un atto di memoria doveroso. Una intera e vasta generazione di presbiteri cattolici si è formata sui temi della morale economica e sociale con gli scritti del teologo moralista Enrico Chiavacci, di cui ho avuto la fortuna e il privilegio di essere studente. Molto di quanto insegnava (è deceduto pochi anni fa) appariva a molti incongruo con una visione tradizionale del cattolicesimo. Veniva accusato di essere troppo radicale e – provate ad indovinare? facile – di essere un comunista. In realtà la sua teologia era molto rigorosa nell’identificare le radici di una teoria di solidarietà e giustizia egualitaria nella autentica tradizione cristiana e nel magistero cattolico, non preso a ritagli ma compreso nella sua organicità, nel suo essere un umanesimo radicale e integrale. Sarebbe contento di vedere Papa Francesco all’opera. Sorriderebbe come faceva, affermando convinto (e incurante di chi potesse pensare che fosse troppo pieno di sé: lo era giusto un po’ e con grande simpatia. E a ragione): «come lor signori possono vedere con le loro tenere intelligenze, il Santo Padre è venuto sulle mie posizioni». Mi stupivo che la chiesa cattolica fosse anche questa. Lo stesso stupore grato di quando ho letto Teologia della Liberazione di Gustavo Gutierrez o ascoltavo padre Ernesto Balducci. E sono rimasto cattolico. Continuo a stupirmi di ciò. Ma ne sono contento, e neanche tanto in fondo.
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*Andrea Bigalli, fiorentino, è stato ordinato sacerdote nel 1990. Dal 1999 è parroco a Sant’Andrea in Percussina (San Casciano Val di Pesa). Vice direttore della “Caritas” toscana dal 1998 al 2005 è attualmente referente di Libera per la Toscana e membro del direttivo della rivista “Testimonianze”. Insegna religione nelle scuole superiori di Firenze.
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