Cambiare si può, cambiare si deve
Riflessioni su alcune importanti questioni trattate dall’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco, e correlazioni con analoghi concetti sviluppati nel mondo laico*.
di Franco Meloni
BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA
Il Papa dedica una parte dell’ultima sua enciclica “Fratelli tutti” ad alcuni concetti che, se pur antichi, oggi si ripropongono in maniera dirompente. Si tratta del diritto alla proprietà privata che deve comunque sottostare al primato del bene comune: parole sul tema che hanno destato scalpore, peraltro del tutto strumentale e superficiale.
Ricordiamo solo alcuni tra i molti titoli dei media al riguardo: “La svolta a sinistra di Bergoglio: «La proprietà non è intoccabile»”. “Bergoglio all’attacco della proprietà privata”. E così via (1).
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Il Papa aveva probabilmente previsto tali reazioni, scontate da oppositori con posizioni preconcette, meno da altri opinionisti, anche considerato che non propone altro di diverso dalla consolidata dottrina sociale della Chiesa, certo – ed è questa la novità – ridandole nuovo vigore per rispondere alle esigenze attuali dell’umanità, degli ultimi e dei diseredati in primo luogo.
Sostiene il Papa [FT 120]: ”Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica”.
Se ci pensiamo bene il Papa non va oltre i principi ribaditi da alcune avanzate Costituzioni europee, tra cui esemplarmente quella italiana, che all’art. 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Nonché all’interno dell’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Ma la parte più avanzata e oggi di estrema attualità è quella che riguarda i ben comuni. La FT riprende concetti molto chiari formulati al riguardo nella LS [93]: ”Oggi, credenti e non credenti sono d’accordo sul fatto che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di fedeltà al Creatore, perché Dio ha creato il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati. Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale». La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. San Giovanni Paolo II ha ricordato con molta enfasi questa dottrina, dicendo che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». Sono parole pregnanti e forti. Ha rimarcato che «non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». Con grande chiarezza ha spiegato che «la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato». Pertanto afferma che «non è secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto di alcuni pochi». Questo mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una parte dell’umanità”. Ecco in queste affermazioni sta, a mio parere, la carica dirompente dell’enciclica, anzi delle due encicliche: l’Umanità vive la sua Terra, di cui ha diritto di beneficiare, amministrandola come bene comune da preservare e trasmettere alle generazioni future.
Sulla questione dei beni comuni – concetto sviluppato negli ambiti della filosofia, dell’etica, della scienza politica, della giurisprudenza e della religione, da tempo immemorabile – per gli aspetti che interessano l’odierna realtà, il Papa s’inserisce in un grande attuale dibattito, che a livello internazionale aveva trovato un momento di sintesi e riproposizione nelle elaborazioni di Elinor Ostrom, premio Premio Nobel per l’economia 2009. In Italia il dibattito si è assopito dopo la scomparsa dell’illustre politico e giurista Stefano Rodotà, che della questione era il massimo esperto, soprattutto per gli aspetti giuridici, anche se occorre segnalare una buona ripresa di attenzione, più culturale che politica, con l’iniziativa di un apposito Comitato denominato Generazioni future (2).
Troviamo in questi concetti una bellissima assonanza con il movimento «Costituente Terra», promosso da intellettuali credenti e non credenti, tra i quali Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Paola Paesano, Adolfo Pérez Esquivel, Anna Falcone, il vescovo Raffaele Nogaro, Mariarosaria Guglielmi, Domenico Gallo e molti altri, che persegue “l’obiettivo di un costituzionalismo mondiale e di una Costituzione della Terra, da raggiungersi attraverso gli opportuni strumenti politici e di pensiero (…) per suscitare il pensiero politico dell’unità del popolo della Terra, disimparare l’arte della guerra e promuovere un costituzionalismo mondiale”. Presupposto di tale iniziativa è la persuasione che comincia una nuova fase della storia umana e occorrono politiche e istituzioni adeguate alle dimensioni globali e fino a ieri del tutto imprevedibili della vita sulla terra. Si tratta infatti di rispondere alle sfide, cresciute esponenzialmente, alla vita pacifica e alla stessa sopravvivenza dell’umanità, e di avviare la costruzione di una nuova soggettività politica e giuridica mondiale, quale espressione dell’intero popolo della Terra. Ciò è favorito oggi da una condizione mai verificatasi prima, ovvero l’imporsi del fenomeno detto «globalizzazione» o «mondializzazione» e il solenne riconoscersi delle grandi religioni nella comune fraternità umana” (3).
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Per correlazione con le riflessioni sull’enciclica “Fratelli tutti”, particolarmente sulla questione della proprietà privata e dei beni comuni, constatiamo l’assonanza delle considerazioni di Papa Francesco con quelle di molti intellettuali del mondo laico. Tra questi citiamo Thomas Piketty e Mariana Mazzucato, cogliendo l’occasione di un interessante articolo di Valentina Pazé sul sito Volerelaluna (4). L’intervento riguarda sopratutto Piketty, del quale Pazé recensisce il poderoso ultimo libro Capitale e ideologia (La nave di Teseo, 2020). Solo una citazione è dedicata al libro di Mariana Mazzucato, dal significativo titolo
“Non sprechiamo questa crisi” (Laterza, 2020), che riecheggia il monito di Papa Francesco nella messa celebrata il 31 maggio scorso nella basilica di San Pietro, per la solennità di Pentecoste, dopo le misure restrittive imposte dalla pandemia: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
NOTE
(1) Da “Il giornale” del 4 ottobre 2020
La svolta a sinistra di Bergoglio: “La proprietà non è intoccabile”
di Francesco Boezi su Il giornale del 4/10/2020.
[Il Papa nella "Fratelli Tutti"] “rilegge l’accezione giuridica di “proprietà”, sottolineandone la “funzione sociale”. E questo potrebbe essere un passaggio criticato nella misura in cui la proprietà viene associata dalla prassi, dalla giurisprudenza e dalla tradizione occidentale ad un diritto assoluto [?]. Bergoglio scrive che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. (…) sembra lecito immaginare che l’enclica del Papa possa essere attaccata dalla destra ecclesiastica. Il punto più discusso – lo ripetiamo – dovrebbe essere la concettualizzazione attorno al valore della “proprietà”. Se il fronte tradizionale criticasse il pontefice argentino, allora verrebbe messo in campo l’ennesimo accostamento di Bergoglio al marxismo o alla teologia della liberazione”.
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L’ideologia della fratellanza in Bergoglio
Sul blog di Marcello Veneziani, accreditato intellettuale della destra, 6 ottobre 2020
“«Fratelli tutti» è il manifesto ideologico del bergoglismo. (…) La parola comunismo è dimenticata da Bergoglio, anche se alcune sue eredità appaiono in lui, a cominciare dall’attacco alla proprietà privata”.
(2) Tra i testi fondamentali c’è, ovviamente, “Governare i beni collettivi” di Elinor Ostrom (Marsilio Editore), premio Premio Nobel 2009 per l’economia, insieme a Oliver Williamson, per l’analisi della governance e, in particolare, delle risorse comuni (vedasi: https://it.wikipedia.org/wiki/Elinor_Ostrom). In Italia principali riferimenti sono gli studi di Stefano Rodotà. Meritoriamente un Comitato denominato Generazioni future, guidato dal prof. Ugo Mattei, ha di recente ripreso l’iniziativa, tra l’altro proponendo una legge di iniziativa popolare. Informazioni sul sito web https://generazionifuture.org. Alcuni riferimenti: Il concetto di “beni comuni” è da individuare concretamente nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…) che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future” e dei quali favorire la fruibilità e la gestione da parte dei cittadini attivi e organizzati in accordo con le Pubbliche amministrazioni. La categoria dei “beni comuni” è immensa. Il primo bene comune universale è la terra, nella sua generalità (superficie e sottosuolo), da utilizzare a beneficio di tutti, nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento giuridico. E possiamo continuare in un’elencazione di dettaglio, non certo esauriente, traendola dalle elaborazioni della Commissione Rodotà (2007/2008): “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.
(3) Le informazioni sul movimento “Costituente Terra” sono presenti sul sito web dedicato http://www.costituenteterra.it
(4) Sostiene Piketty (ovvero, cambiare si può)
09-11-2020 – di Valentina Pazé su Volerelaluna.
* Sigle utilizzate nel corpo dell’articolo: LS per la Laudato si’; FT per la Fratelli tutti.
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IN PRIMO PIANO
Sostiene Piketty (ovvero, cambiare si può)
09-11-2020 – di Valentina Pazé su Volerelaluna.
1914: il mondo, in procinto di sprofondare nel baratro della prima guerra mondiale, è segnato da diseguaglianze estreme. In Francia l’1% della popolazione detiene il 55% della ricchezza; in Svezia questa quota raggiunge il 60%; nel Regno Unito, in cui la concentrazione della proprietà terriera è particolarmente elevata, il 70%. Più in generale, nell’Europa della belle époque, in media, il 10% più ricco detiene l’85-90% della proprietà privata complessiva, di contro all’1-2% posseduto dal 50% dei più poveri e al 10-15% in mano alle classi intermedie. L’Europa è la terra della diseguaglianza, più di quanto non siano, in questo periodo, gli Stati Uniti. A sostegno di queste disparità stratosferiche, che interessano sia i patrimoni (immobiliari, mobiliari, finanziari) sia, in misura minore, i redditi, con drammatiche ricadute sull’accesso all’istruzione, alla casa, alla salute, regna incontrastata l’ideologia “proprietarista”, che sanziona l’intangibilità e l’assolutezza della proprietà privata.
1970-80: il potere dei super-ricchi ha subito un drastico ridimensionamento. Il centile superiore della popolazione nei tre paesi prima ricordati (Francia, Svezia e Regno Unito) possiede ormai “solo” il 15-20% dei patrimoni. Ma è il livello complessivo delle diseguaglianze economico-sociali a essere precipitato, in tutta Europa e in Giappone, scendendo a livelli inferiori a quelli statunitensi. Ė calato il numero delle persone talmente ricche da vivere di rendita e cresciuto il numero dei lavoratori in grado di acquistare una casa o di aprire una piccola attività. «Il crollo degli alti patrimoni – commenta Piketty – è stato tanto più spettacolare in quanto nulla aveva fatto presagire un’evoluzione del genere, prima dello scoppio della prima guerra mondiale» (p. 487). Ciò che prima appariva impensabile, indicibile, inaudito, durante i “trent’anni gloriosi” (1946-75) si verifica, senza che gli stessi ceti colpiti nei loro privilegi riescano a opporre qualcosa di più di una flebile resistenza: espropri, nazionalizzazioni, misure dirette a calmierare gli affitti e i prezzi, tassazione fortemente progressiva dei redditi e dei patrimoni.
La proprietà, ancora «sacra e inviolabile» alle soglie della prima guerra mondiale, viene detronizzata e i diritti corrispondenti declassati a diritti di seconda categoria, garantiti, ma solo entro certi limiti e funzionalizzati, come dice la Legge fondamentale tedesca (ma anche la Costituzione italiana, che Piketty non menziona), al bene collettivo. Significativa è ad esempio la scelta, in diversi paesi, di effettuare prelievi straordinari sui patrimoni privati per abbattere il debito pubblico gonfiato dalle spese belliche. In Francia l’imposta di solidarietà nazionale istituita con un’ordinanza del 15 agosto 1945 si traduce in prelievi eccezionali sui patrimoni più ingenti e sugli arricchimenti realizzati tra il 1940 e il ’45, con aliquote che arrivano al 100%. Di lì a pochi anni, nel 1956, la nazionalizzazione del canale di Suez, voluta da Nasser, si tradurrà in un esproprio senza tanti complimenti degli azionisti francesi e britannici. Una scelta dalla portata non solo simbolica, che incide sulle stesse diseguaglianze interne alle società europee, dove sono gli investitori più ricchi a registrare le maggiori perdite. Non bisogna poi dimenticare la tassazione ordinaria sui redditi e sulle successioni, che nel corso del Novecento viene ad assumere un carattere sempre più progressivo: se nel 1900 le aliquote sui redditi e i patrimoni più elevati erano ovunque inferiori al 10%, negli Stati Uniti tra il 1932 e il 1980 esse salgono, rispettivamente, all’81% e al 75% (in media), mentre nel Regno Unito nello stesso periodo si attestano su una media dell’89 e del 72%.
Come è stato possibile un cambiamento tanto radicale? Piketty insiste molto sul ruolo delle idee e delle ideologie (o “grandi narrazioni”) nel trainare il cambiamento, tanto da attirarsi le critiche di chi intravede nella sua impostazione un eccesso di idealismo. In realtà, nelle quasi milleduecento pagine di Capitale e ideologia (La nave di Teseo, 2020) non manca l’attenzione per le condizioni storico-sociali che rendono possibile il cambiamento. Nello specifico, la svolta dei “trent’anni gloriosi” risulterebbe incomprensibile senza ricordare tre fondamentali fattori che l’hanno preparata: un profondo trauma, un imponente ciclo di mobilitazioni, una grande speranza.
Il trauma, anzi i traumi all’origine della crisi della “società dei proprietari” sono presto detti: le due guerre mondiali, la grande depressione, la rivoluzione bolscevica (shoccante per qualcuno, liberatoria per altri). La speranza che mette le ali alle proteste dei più svantaggiati, spingendoli a organizzarsi in movimenti, sindacati, partiti, è la comparsa sulla scena del mondo di un modello sociale alternativo al capitalismo, che sembra incarnare il sogno di una società più giusta e solidale. Costringendo gli stessi ceti abbienti all’interno dei paesi capitalisti ad accettare politiche economiche e fiscali volte a ridurre gli squilibri più evidenti di un modello che rischia altrimenti di schiantarsi e di travolgere le loro stesse fortune. Di qui il passaggio a un modello di economia mista, la costruzione dei moderni sistemi di welfare, l’introduzione, in alcuni paesi (tra cui la Germania e la Svezia) di forme di co-gestione delle imprese.
E oggi? Di fronte a una forbice della diseguaglianza tornata, nell’ultimo quarantennio, ad allargarsi vertiginosamente, fino a tornare a livelli paragonabili a quelli della belle époque, possiamo chiederci se siano presenti almeno alcune delle condizioni che erano venute a crearsi nel corso del Novecento. Sul piano dei traumi, direi che ci siamo: la grande crisi del 2008 e, oggi, la pandemia da covid-19, con i suoi effetti devastanti sull’economia mondiale, hanno fatto sostenere a molti che «nulla potrà più essere come prima». E tuttavia è chiaro – Piketty lo ribadisce più volte – che nella storia non esistono automatismi, né traiettorie uniche e predeterminate. Ed è dunque ben possibile che questa crisi, anche questa crisi, venga “sprecata” (per usare le parole di Mariana Mazzucato), al pari di quella del 2008, o peggio. L’eventualità di uno sbocco a destra – una destra brutale, disumana, fascista – anziché a sinistra non è affatto peregrina ed è anzi assai probabile, in assenza di un progetto economico-sociale-culturale alternativo a quello dominante, in grado di suscitare mobilitazioni e di indirizzare la rabbia del ceto medio impoverito contro i privilegi dell’1% o del 10%, e non contro chi vive condizioni di ancora maggiore povertà e marginalità.
Certo, dopo l’esperienza fallimentare del socialismo reale, è oggi difficile intravedere all’orizzonte un progetto credibile di superamento del capitalismo, reso tanto più indispensabile dalla catastrofe climatica in corso. E tuttavia, qualche indicazione utile a muovere passi nella giusta direzione emerge dal volume di Piketty, il cui principale pregio – a mio avviso – non consiste solo, o soprattutto, nella proposta di tutta una serie di riforme (riguardanti il fisco, gli assetti proprietari, un radicale ripensamento dell’Unione europea anche a Trattati invariati), ma nell’adozione di uno “sguardo lungo” sulla storia, che consente di sdrammatizzare il presente e di ampliare la nostra percezione del possibile.
Mi limito qui a toccare un solo punto. A proposito del debito pubblico, che nel nostro paese schiaccia come un macigno ogni velleità di giustizia sociale, chi l’ha detto che l’unico modo per ridurlo consista nell’attingere agli avanzi primari del bilancio (a detrimento della spesa sociale) o nel lasciar galoppare l’inflazione (che colpisce allo stesso modo abbienti e meno abbienti)? «La riduzione dei debiti pubblici derivanti dalle guerre novecentesche dimostra che è possibile operare in modo diverso. Debiti che nel quinquennio 1945-1950 oscillavano tra il 200 e il 300% del reddito nazionale furono pressoché azzerati nel giro di pochi anni dalla Francia e dalla Germania», ma anche dal Giappone, che scelsero la strada dell’imposizione di prelievi straordinari (e progressivi) ai super-ricchi (p. 509). «La giovane Repubblica Federale Tedesca introdusse varie forme di esazioni progressive ed eccezionali sui patrimoni privati, che i proprietari interessati furono tenuti a pagare per diversi decenni, in alcuni casi fino agli anni Ottanta del Novecento». A contribuire al risanamento dei bilanci tedeschi, riducendo la forbice della diseguaglianza e ponendo le basi per la spettacolare crescita successiva, fu anche la sospensione (nel ’53) e poi la definitiva cancellazione (al momento dell’unificazione tedesca, nel 1991), del debito estero della Germania. A dimostrazione che ciò che è stato sciaguratamente negato alla Grecia nel 2015 era – ed è – nell’ordine del possibile, e del ragionevole, anche sul piano strettamente economico. Degna di nota è anche l’entità del prelievo eccezionale applicato dal Giappone nel 1946-1947, «con tassi che arrivarono al 90% sui principali portafogli» (p. 505).
«Siamo in guerra» – ci sentiamo ossessivamente ripetere in questi giorni di coprifuoco e zone rosse. Perché non trarre qualche insegnamento dal modo in cui dall’ultima grande guerra siamo usciti, ponendo le basi per il trentennio più egualitario, e più prospero, di sempre?
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Valentina Pazé [dal sito wb di Volerelaluna]
Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino. Si occupa, in una prospettiva teorica e storica, di comunitarismo, multiculturalismo, teorie dei diritti e della democrazia. Tra le sue pubblicazioni: In nome del popolo. Il potere democratico (Laterza, 2011) e Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (Edizioni Gruppo Abele, 2016)