Che fare perché l’Italia abbia futuro?

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La “spirale” del sottosviluppo gravante sul futuro dell’Italia

di Gianfranco Sabattini

L’emergenza pandemica ha prostrato ulteriormente l’economia nazionale, per cui è plausibile prevedere che, dopo l’emergenza, l’Italia risulti impoverita più di quanto lo sarebbe stata a causa della mancata soluzione dei tradizionali problemi (quali, ad esempio, quello demografico e quello dell’occupazione), da anni irrisolti, ma oggi aggravati a causa del Covid-19.
Per evitare che il Paese cada nella spirale di un irreversibile sottosviluppo – sostiene Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova e autore del saggio “La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro” – occorrerà “fare scelte difficili, definire priorità che non tutti condivideranno, programmare operazioni di ingegneria sociale profonde, far finalmente partire riforme spesso evocate come necessarie in passato, ma mai affrontate davvero con coraggio”. Demografia e lavoro (oltre che immigrazione, emigrazione e istruzione) sono stati problemi sempre analizzati autonomamente, senza considerare che essi sono strettamente correlati a squilibri che “si sostengono e si potenziano reciprocamente”. [segue]
Lo squilibrio demografico, ad esempio, intrecciandosi con quello del mercato del lavoro, causato dal mancato collegamento di quest’ultimo col sistema dell’istruzione, genera il bisogno di immigrati, “rendendo al contempo il sistema produttivo meno competitivo rispetto ad altre economie concorrenti”. Il problema demografico, come risulta dai rapporti Istat, è destinato a produrre (sin tanto che non sarà risolto o, quantomeno, se non saranno inaugurate politiche destinate a contenerne gli esiti) “trasformazioni enormi nel nostro Paese, con un calo drastico della popolazione e uno sbilanciamento mai così preoccupante tra le classi di età, a favore dei più anziani e della popolazione non attiva”. Per ovviare alle conseguenze negative di tali trasformazioni, oltre che ad una adeguata politica demografica di breve periodo, occorrerà ricorrere a una “quota significative di immigrazione”; ciò non servirà comunque ad evitare al Paese una consistente perdita di risorse umane, per l’emigrazione di forza lavoro qualificata causata dal mancato collegamento del mercato del lavoro con il sistema dell’istruzione e della formazione.
Il risultato del “bilanciamento tra ingressi [di forza lavoro straniera poco qualificata] e uscite [di forza lavoro nazionale qualificata] costituisce in questo momento – afferma Allievi – un gigantesco impoverimento del capitale umano del Paese”, dando luogo a una serie di squilibri che rendono il sistema-Italia un caso “probabilmente unico in Europa”; si tratta di squilibri che prefigurano, per l’Italia, il pericolo d’essere destinata a sperimentare una situazione di crisi economica molto più grave di quelle del passato, che la allontanerebbe dal mondo sviluppato col quale è riuscita sinora a confrontarsi.
Una delle cause della situazione di crisi nella quale versa oggi l’Italia è il livello del “discorso pubblico”, di solito condizionato da pregiudizi ideologici (specie con riferimento al problema dell’immigrazione) e ridotto alla ripetizione continua di slogan che servono solo a sollecitare schieramenti “senza dati di riferimento e un orizzonte logico per interpretarli”. Il Paese ha, al contrario, bisogno di una discussione pubblica approfondita sui motivi della crisi (affrancata da approcci emotivi ed ideologici), che vanno valutati congiuntamente e non analizzati per compartimenti stagni.
Demograficamente, per Allievi, l’Italia è un Paese che muore lentamente, vittima di un processo che la vede perdere progressivamente energia e vitalità. Il “Rapporto annuale 2019” dell’Istat prevede una continua diminuzione della popolazione italiana: se “fino al 2030 il calo sarà modesto (da 60,4 a 60,3 milioni di abitanti), al 2050 il calo sarà di 2,2 milioni”. Più che della contrazione, però, sottolinea Allievi, ciò che deve preoccupare è quanto accadrà “all’interno” della struttura per classi di età dell’intera popolazione, considerando che il calo demografico si combinerà con l’allungamento della speranza di vita degli italiani, che determinerà un considerevole aumento delle classi di età più anziane.
Se si sposta l’attenzione sulle nascite, il problema demografico peggiora ulteriormente. I “baby boomers” degli anni Sessanta sono ormai usciti dall’età riproduttiva e stanno entrando nella terza età; inoltre, ci si sposa sempre meno e sempre più tardi, con la propensione dei giovani a posticipare l’uscita dalla famiglia. L’abbandono della famiglia da parte dei giovani in età sempre più avanzata costituisce – afferma Allievi – una vera e propria anomalia; l’età mediana di uscita, che era di circa 25 anni per i nati nel secondo dopoguerra, è salita a circa 28 negli anni Settanta; oggi, il 56,7% dei giovani fra i 20 e i 24 anni è ancora nubile o celibe. Le ragioni delle tendenze comportamentali giovanili sono riconducibili alle scarse opportunità offerte dal mercato del lavoro, che non consentono percorsi di autonomia economica. Questa condizione, secondo l’Ufficio Statistico della Commissione dell’Unione Europea, fa dell’Italia il Paese che ha la più alta percentuale europea di NEET (ovvero, di giovani “Not in Employmnt, Education and Training”.
I dati disponibili consentono di evidenziare, rispetto agli altri principali Paesi europei, la consistenza dell’anomalia italiana dell’abbandono della famiglia da parte dei giovani in età sempre più avanzata: nel 2017, nella fascia di età compresa tra i 18 e i 34 anni, viveva con la propria famiglia il 66,4% degli italiani, contro una media europea del 49,1%; ne consegue che negli altri principali Paesi europei i giovani contribuiscono, più di quanto non avvenga in Italia, alla formazione della ricchezza nazionale, oltre che alla propria (pagando quindi tasse e contributi e/o acquisendo livelli di istruzione più alti, che a loro volta hanno una ricaduta positiva sul PIL).
Quanto agli anziani, nel 2050 gli ultra sessantacinquenni potrebbero subire incrementi notevoli, a seconda degli scenari futuri in base ai quali sono effettuate le proiezioni. In ogni caso, l’Italia è stato il primo Paese al mondo – osserva Allievi – a registrare il sorpasso “degli over 65 sugli under 15”, cosicché l’indice di vecchiaia (esprimente la proporzione dei primi rispetto ai secondi) era del 16% nel 1871, del 62% nel 1981, del 132% nel 2001, del 150% nel 2011 e del 168,7% nel 2018; la proiezione al 2038 porterebbe al 265% la proporzione degli over 65 rispetto agli under 15. Con riferimento agli anziani, occorre ancora tener presente che, se l’allungamento della speranza di vita della popolazione italiana (80,8 anni per gli uomini e 85,2 per le donne) rappresenta di per sé un fatto positivo, tuttavia gli italiani vivono mediamente in “buona salute” meno di 60 anni; il che implica, secondo il “Rapporto Osservasalute dell’Università Cattolica” del 2019, una crescente spesa sanitaria pubblica, causata dal fatto che gli anziani non autosufficienti potrebbero essere circa 6,3 milioni tra soli 10 anni. Tutto ciò è aggravato dal fatto che, secondo le previsioni, la popolazione italiana di età tra 0 e 14 anni potrebbe scendere dall’attuale 13,5% al 10,2%, mentre la popolazione in età produttiva (15-64 anni) potrebbe ridursi al 54,2% del totale, corrispondente a 10 punti percentuali e a 6 milioni di persone in meno rispetto ad oggi.
Allievi ritiene che, se non sarà affrontata da subito, la questione demografica potrebbe avere un “impatto devastante” sul costo delle pensioni e sulla spesa sanitaria e soprattutto un sicuro impatto negativo sull’andamento dell’economia nazionale, a causa dal crescente squilibrio tra le varie classi di età della popolazione italiana, dovuto al calo della natalità: i nati che nel 2008 sono stati 577 mila, sono calati a 439 mila nel 2018 (il minimo storico dall’Unità d’Italia). Se la contrazione delle nascite non è risultata maggiore, lo si deve, nota Allievi – “al contributo degli stranieri: il 14,8% dei bambini è nato da genitori entrambi stranieri, e il 21,7% [...] ha almeno un genitore straniero”. Ma se fino ad ora, grazie agli immigrati, si è potuto compensare, almeno in parte, il saldo naturale negativo, non è detto che ciò si verifichi anche per il futuro; mentre le nascite continuano a calare, gli ingressi dall’estero tendono a diminuire (il saldo migratorio netto si è ridotto a 190 mila unità nel 2018, meno della metà rispetto a dieci anni prima) e le uscite di nazionali adulti aumentano, per ragioni economiche. Il risultato è che l’età mediana (quella al di sotto della quale ricade la metà della popolazione) risulta in Italia superiore a 44 anni, mentre a livello dell’Unione Europea è di 41,6 anni.
Per quanto riguarda la popolazione complessiva, sulla base dei dati dell’Eurostat, la prospettiva per l’Unione Europea è di passare dai 512 milioni di abitanti del 2018 ai quasi 524 milioni del 2050, scendendo a 492 milioni nel 2100; ma, mentre alcuni Paesi europei rimangono stabili, o andranno incontro a una limitata diminuzione della loro popolazione, quella italiana passerà dagli attuali 60 milioni circa a 56 nel 2050, per ridursi a poco più di 44 milioni nel 2100, immigrati inclusi. Un crollo destinato a pesare negativamente sul futuro economico del Paese. La gravità della questione demografica dovrebbe dettare, a parere di Allievi, le scelte necessarie riguardanti sia la politica demografica, sia la politica economica. Poiché l’Italia è ultima in Europa per nascite e prima per invecchiamento della popolazione, dovrebbe essere subito inaugurata una politica demografica che premi la natalità; ma, ciò che più conta, occorrerebbe impostare una politica economica di lungo periodo, in grado di promuovere la crescita del prodotto sociale, attraverso la creazione di posti di lavoro.
Il rapporto con il futuro, soprattutto per la forza lavoro giovanile, è problematico, in quanto le prospettive di migliorare la situazione del mondo del lavoro sono assai contenute. E’ vero che tra il 2007 e il 2018 l’occupazione è aumentata; si è trattato però di un aumento part-time, cui ha corrisposto un calo dell’occupazione a tempo pieno (quindi un calo delle ore lavorate), nonché una riduzione sia dei livelli retributivi, che del PIL per unità di lavoro e per occupato. Il tutto – osserva Allievi – “in un Paese in cui negli ultimi trent’anni 10 punti di PIL sono passati dalla rimunerazione del lavoro alla rimunerazione del capitale”, mentre la produttività è rimasta bassa, essendo l’Italia “l’unico Paese del mondo sviluppato in cui essa è ferma dagli anni Novanta del secolo scorso”. Inoltre, il tasso di occupazione è per oltre il 20% al di sotto la media europea, con un numero di occupati inferiore a quello dei disoccupati (caso unico in Europa).
In generale, come rimediare al pessimo futuro del Paese, all’interno del quale i giovani non troveranno la possibilità di svolgere un lavoro a tempo pieno? Allievi considera necessario un insieme di interventi di breve e di medio-lungo periodo per la creazione di nuove opportunità lavorative; interventi che sembrano anticipare il “libro dei sogni” presentato dal Governo, in occasione della recente convocazione degli “Stati Generali”, per il rilancio dopo la pandemia dell’economia nazionale. Nella prospettiva di Allievi, anziché rinvenire le risorse necessarie nel “Ricovery Fund” europeo, esse dovrebbero originare dall’innalzamento dell’età pensionabile e dalla promozione di una politica a sostegno della natalità e da un’uscita anticipata dei giovani dalla famiglia. Le risorse così ricuperate dovrebbero essere orientate al finanziamento di investimenti infrastrutturali nei settori delle vie di comunicazione tradizionali e digitali.
Il limite dei programmi formulati per il rilancio dell’economia nazionale secondo le linee indicate da Allievi, come pure secondo quelle emerse dai lavori della riunione degli “Stati Generali” promossa dal Governo, consiste nel fatto che, pur potendo tali linee risultare in astratto coerenti con il miglioramento della produttività del sistema-Italia, esse implicano pur sempre il perseguimento di finalità poco compatibili con la creazione di nuovi posti di lavoro; un problema, quest’ultimo che, se non affrontato razionalmente, rischia di ridurre qualsiasi progetto per il futuro del Paese a niente più di una ricetta “per guadagnare tempo”, nel senso in cui Wolfgang Streeck qualifica le misure di solito adottate per far fronte alle emergenze delle moderne economie industriali, ma che non riflettono una vera conoscenza dei cambiamenti strutturali in esse avvenuti.

One Response to Che fare perché l’Italia abbia futuro?

  1. admin scrive:

    Francesco Casula su fb.
    Che fare perché l’Italia abbia futuro? Una grande riforma istituzionale che faccia dello stato unitario, centralista e centralizzato, uno stato confederale o, per lo meno, federale. Tutto il resto è chiacchiera!

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