Le politiche nazionali per il Mezzogiorno e per la Sardegna. Sud: un Piano c’è, bisogna conoscerlo, migliorarlo, attuarlo!

lampadadialadmicromicro1L’articolo di Umberto Allegretti, che proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori, è il nono contributo condiviso dalle redazioni de il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, nell’ambito dell’impegno comune che qui si richiama.
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Il Piano Sud 2030
di Umberto Allegretti*

Nel febbraio 2020 è stato reso noto un documento politico di grande interesse, il Piano Sud 2030. Sviluppo e coesione per l’Italia, curato dal Ministro per il Sud e la politica territoriale Giuseppe Provenzano. Benché la lotta al Covid-19 abbia accentrato l’attenzione pubblica, il discorso sul Piano Sud va portato avanti, perché riguarda uno dei temi fondamentali per il futuro del Paese e deve trovare un ruolo nel piano di ripresa dopo l’epidemia. Lo stesso presentarsi di quest’ultima in termini diversi nelle varie regioni, col paradossale rovesciamento verificatosi in un evento, forse non casualmente, risultato più grave nel Nord rispetto al Sud, attira l’attenzione sulla polarizzazione tra le due grandi parti dell’Italia.
Il Piano Sud 2030 ha il merito di presentare un vasto quadro delle politiche per il Mezzogiorno, che dovrebbe dar luogo a una serie di interventi legislativi, amministrativi e di azione concreta, se vuol superare il livello di un mero atto di indirizzo politico. La questione stessa dell’insularità, di cui si parla tanto in Sardegna, vi si inquadra direttamente e può trovarvi esatta collocazione, senza bisogno di passare attraverso la complessità del procedimento proprio di una legge di revisione costituzionale, e senza che occorra insistere troppo sulle peculiarità che essa porrebbe, per ambientarle in un quadro non limitato alla sola situazione insulare.
Il discorso segna una ripresa di interesse, dopo anni di messa in ombra, per la questione meridionale, ed è coerente e incisivo. Fa tesoro dell’esperienza storica e di quella recente, ponendo «la sfida del Sud» come «la più difficile di tutta la nostra storia unitaria» e citando giustamente in premessa la preoccupazione del Capo dello Stato per l’aggravamento del divario tra Nord e Sud del Paese. Il carattere decisivo per il Nord stesso del superamento di questo andamento delle cose sta al fondo di tutta l’argomentazione. Società e Stato – anche questo rilievo è prezioso – devono entrambi combattere su questo fronte.
Si tratta dunque di andare oltre questi due ultimi decenni, ivi compreso, si direbbe, il superamento di un vizio della riforma costituzionale del 2001: quello di aver soppresso nella Costituzione la menzione diretta della «valorizzazione» del Mezzogiorno e delle Isole come compito di tutto l’ordinamento (e non solo, come comunque faceva molto bene il terzo comma del vecchio art. 119) sul piano finanziario. Tale soppressione era stato il prodotto, non solo del modesto successo dell’iniziativa meridionalistica dei cinquanta anni precedenti, ma anche dell’influenza della Lega Nord e di una grave sottovalutazione del problema.
Nonostante questo indebolimento, il quinto comma ora vigente dell’art 119 incorpora tuttora la sostanziale considerazione in Costituzione della questione quando – ispirandosi alla visione della coesione specificata a livello europeo nel Trattato di Lisbona (art. 174 del TFUE) – indica tra i principi che reggono l’UE il promovimento della «coesione economica, sociale e territoriale». Anche nel testo attuale dell’art. 119 ci si riferisce essenzialmente agli assetti finanziari, che devono includere «risorse aggiuntive» da stabilire «in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni», in maniera da rimuoverne gli squilibri. In realtà il momento finanziario deve accompagnarsi al più vasto compito di orientamento di tutto l’ordinamento, se si vuol favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona.
Sulla base di questa filosofia, la struttura del Piano sembra svilupparsi secondo una logica solida. Esplicita è la formulazione degli obiettivi o “missioni”, che costituiscono senza dubbio il cardine di ogni indicazione di azione politica e amministrativa. Essi corrispondono nel documento a cinque capitoli che affrontano le carenze dell’attuale situazione italiana, caratterizzandosi con un’accentuazione marcata nel Sud rispetto al Centro-Nord. Riguardano le politiche nei confronti dei giovani, l’inclusività, la svolta ecologica, la frontiera dell’innovazione, l’apertura al mondo mediterraneo.
La formulazione dei capitoli è seguita dall’esame delle politiche strutturali e delle misure urgenti per l’impresa e il lavoro e della necessità di quella che viene chiamata «una rigenerazione amministrativa» e una «prossimità ai luoghi». Ed è preceduta dalla trattazione delle «risorse», resa necessaria dalla presenza dal verificarsi di un progressivo processo di «disinvestimento» di mezzi materiali e morali per il Sud rispetto al resto del Paese, al quale si propone debba nel decennio ora apertosi seguire un rilancio degli investimenti pubblici, quantificato in 21 miliardi nel triennio 2020-2022 in modo da riattivare una politica nazionale di coesione.
Le cinque missioni vengono indicate come armoniche con gli obiettivi di policy indicati dalla Commissione europea per gli anni 2021-2027 e con le sfide sancite a livello globale dall’Agenda ONU 2030, che ha come suo asse il perseguimento di uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale, economico e sociale, corrispondente anche all’ispirazione internazionalistica dell’art. 11 della nostra Costituzione.
Nella trattazione di singoli obiettivi si potrebbero operare delle sottolineature, quali l’affrontamento di quello che viene giustamente chiamato «il nesso perverso tra povertà economica e povertà educativa minorile»; una «organica mitigazione del rischio sismico e idrogeologico», imposta dalla fragilità del territorio meridionale; la migliore infrastrutturazione del territorio del Sud verso l’esterno e nel suo interno; i legami col Mediterraneo; la “Strategia Nazionale per le Aree Interne”; la riqualificazione dei borghi appenninici, che ha il suo omologo nei borghi della Sardegna interna; la rigenerazione dei contesti urbani; la riduzione della frattura volta a garantire la continuità territoriale e ad affrontare i problemi dell’insularità, anche questi ultimi presenti nella Carta europea (art. 174.3 del trattato di Lisbona).
Per un piano la cui intera ispirazione è sorretta dall’intento di assicurare lo sviluppo e la coesione di un territorio, o piuttosto di variegati territori, sorge ovviamente il problema degli strumenti. Si tratta della parte più problematica del documento, in quanto tocca quei fenomeni di funzionamento della pubblica amministrazione che, nell’esperienza del nostro Paese, presentano i maggiori problemi di disegno normativo e sono esposti a gravi insufficienze pratiche, sia sul piano nazionale che, e particolarmente, nel Sud. Un po’ enfaticamente, il documento ne abbozza la riforma proponendo un «nuovo metodo» e una «rigenerazione amministrativa».
Non è facile orientarsi in questi propositi, soprattutto dato il numero e la distribuzione degli organismi e dei compiti da essi svolti, con i loro rispettivi rapporti. Nel Sud il tentativo di superamento delle insufficienze amministrative (quando c’è stato) ha fatto perno su interventi straordinari, ai quali si è spesso dato luogo ponendoli accanto a quelli ordinari, teoricamente concependoli ma non sempre attuandoli come «aggiuntivi», e non sostitutivi, rispetto a questi ultimi. Nella classica legislazione sul Mezzogiorno inaugurata nel 1950, la creazione della Cassa per il Mezzogiorno diede a suo tempo vita a una complessa relazione tra questo nuovo dinamico organismo e l’amministrazione centrale e locale. Quell’ente, forte anche se non di rado contestato, è stato al centro non solo dell’esecuzione ma della stessa programmazione della politica meridionalistica, pur affidata alle determinazioni degli organi centrali, quali il CIPE, il Ministero del Bilancio e il Ministro per il Mezzogiorno, e in misura minore ed incerta partecipata, quando furono create, dalle Regioni. L’attuazione degli interventi qualificati come straordinari in realtà ricadeva in misura cospicua, non solo finanziariamente, sulla Cassa, anche attraverso una serie enti ad essa «collegati», mentre rimase largamente incompleto, incerto o inattuato il previsto trasferimento delle funzioni di intervento straordinario alle Regioni.
Il Piano di Rinascita della Sardegna, [segue] previsto dallo Statuto speciale, fu concepito come intervento straordinario e aggiuntivo rispetto all’intervento ordinario (come prevedeva la legge istitutiva 11 giugno 1962, n. 588), convivente con gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno; ma, mentre la relativa programmazione era demandata al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, integrato dal Presidente del Regione, sotto la pressione della Regione la sua attuazione fu effettivamente delegata, nonostante molti dibattiti e dissensi autorevoli, all’attuazione da parte della Regione stessa, demandando alla Cassa un mero «controllo tecnico».
Nel caso del Piano Sud 2030, il problema si ripresenta, con qualche incertezza di formulazione. Viene così postulato il «rafforzamento del presidio centrale», che troverà il suo asse nel Dipartimento ministeriale della Coesione e nell’Azienda per la Coesione Territoriale. Entrambi sono strutture già esistenti, collocate presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e ora politicamente guidate dal Ministro per il Sud e la Coesione territoriale, ma ritenute da rafforzare mettendole in organico rapporto con la restante macchina governativa e degli enti locali.
Dunque, il Piano è disegnato secondo una linea complessivamente centralizzata, con una ripartizione di compiti delle due strutture che assegna al Dipartimento la natura di organismo «di supporto» del Ministro e all’Agenzia il «monitoraggio» dell’attuazione, al fine della «sorveglianza» di questa, aggiungendovi la «attuazione diretta» della rigenerazione amministrativa e le «azioni che necessitano di un forte coordinamento centrale in raccordo con le diverse amministrazioni coinvolte». Da altre proposizioni contenute nello stesso contesto, gli enti locali sono definiti attuatori oltre che beneficiari del Piano, e sono dotati anche di centri di committenza locali. Va tenuto presente che la recente legge di riordino dell’Agenzia non prevede per essa compiti normali di gestione amministrativa, ma le è invece affidata la missione di assistenza alle amministrazioni, di vigilanza su di esse e di valutazione dei risultatati della politica di coesione, «ferme restando (così il primo comma di quello stesso articolo) le competenze delle amministrazioni titolari dei programmi» europei e nazionali. Solo in una delle ipotesi di applicazione si rende possibile che l’Agenzia assuma eventualmente «le funzioni di autorità di gestione di programmi finanziati con le risorse della politica di coesione e per la conduzione di specifici progetti», ipotesi chiaramente eccezionale rispetto alla missione generale di questo organismo. Non sembra che il Piano Sud voglia allontanarsi da questo criterio, né vi è un indizio che l’ACT debba ripetere il modulo della Cassa per il Mezzogiorno, ma si intenda al contrario mantenere la linea di conservare e incentivare le amministrazioni sia statali che delle Regioni e degli Enti locali nell’esercitare i propri compiti, anche quando questi siano impegnati dalla politica di coesione e utilizzino gli strumenti previsti da questa politica.
Auspicando che tutto ciò venga messo in azione e non porti a complicazioni burocratiche, si può sottolineare che si prevede l’assunzione nel decennio di diecimila giovani da inserire nell’amministrazione per l’attuazione del Piano, sia nel Mezzogiorno che nelle strutture centrali deputate alla politica di coesione, e che a questa assunzione si assegna “una centralità fondamentale”.
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* Umberto Allegretti, cagliaritano, già docente dell’Università di Cagliari, è professore emerito di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli studi di Firenze.

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