Disuguaglianze

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Disuguaglianze distributive e trasformazione della natura del sistema sociale

di Gianfranco Sabattini

A parere di Luca Ricolfi, sociologo dell’Università di Torino, autore di “La società signorile di massa”, secondo le narrazioni dominanti, l’Italia vivrebbe nel peggiore dei mondi possibili, “dove un numero crescente di famiglie è sotto la soglia della povertà, milioni di individui non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, nessuno trova più lavoro e chi lavora viene pagato quasi niente”.
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Tuttavia, le narrazioni sull’effettivo stato del sistema economico e sociale dell’Italia sono parziali e fuorvianti; esse hanno dato luogo – nota Ricolfi – alla formazione di “una gigantesca macchina retorica intorno a tutto ciò che ha più possibilità di suscitare sentimenti di pietà e indignazione, dipingendo un quadro quasi apocalittico dove imperano povertà, disoccupazione, sottoccupazione, omettendo però di specificare che si sta parlando di una minoranza della popolazione”. L’esperienza diretta – sostiene Ricolfi – mostra, al contrario, che la maggioranza della popolazione versa in condizioni di vita tutt’altro che drammatiche.
Appare singolare che il dualismo che caratterizza la realtà economica e sociale italiana emerga dal campo di studio proprio delle scienze sociali, le cui indagini empiriche hanno quasi sempre ad oggetto l’analisi delle patologie sociali, quali la devianza, la povertà, la disoccupazione, il disagio giovanile ed altro ancora; mentre quando, sul piano storico, la società italiana contemporanea è messa a confronto con quella del passato, il giudizio è prevalentemente positivo, sia per il processo di modernizzazione sperimentato, che per il migliorato livello di benessere e per il generalizzato aumento del livello dell’istruzione.
Secondo Ricolfi, l’Italia di oggi non è una società del benessere afflitta da alcune patologie sociali alle quali si cerca di porre rimedio, ma è un “tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale”, che può essere più propriamente chiamata “società signorile di massa”. Questa denominazione è giustificata dal fatto che la configurazione attuale della società italiana è “il prodotto dell’innesto, sul suo corpo principale, che resta capitalistico, di elementi tipici delle società signorili del passato, feudale precapitalistico”. Inoltre, poiché nella società italiana, dotata di un’economia che non cresce perché in stagnazione, a differenza di quanto accadeva nelle società signorili del passato, coloro che accedono al consumo del prodotto sociale senza lavorare sono più numerosi di coloro che lavorano, può essere ancora meglio definita come “società signorile opulenta di massa”
Sempre secondo Ricolfi, in Italia, le due condizioni del consumo opulento e dell’economia che non cresce (perché in stagnazione) si sono compiutamente realizzate nell’ultimo decennio, dopo l’inizio della Grande Recessione che ha colpito gran parte delle economie di mercato; nel contesto attuale della società italiana, la dimensione opulenta dell’accesso al consumo del prodotto sociale senza lavorare non è, come accadeva nelle autentiche società signorili del passato, un privilegio riservato a una minoranza, ma una condizione estesa a “più della metà dei cittadini”. Tutto ciò accade, non solo perché – afferma Ricolfi – sono tantissimi coloro che non lavorano, ma anche “perché [...] sono i redditi stessi a provenire sempre più da fonti diverse dal lavoro, come le rendite e i trasferimenti assistenziali”. E’ questo il motivo per cui, nel qualificare signorile e di massa la società italiana, occorre anche qualificare “opulento” il consumo.
Per Ricolfi, la società signorile opulenta di massa poggia in Italia su tre pilastri: il primo è costituito dalla ricchezza accumulata da due generazioni, quella che ha vissuto a cavallo del secondo conflitto mondiale e quella che è nata successivamente alla fine del conflitto; il secondo pilastro è espresso dalla crisi del sistema dell’istruzione, in gran parte opera di scelte della generazione postbellica, rese possibili anche grazie alla ricchezza accumulata dalla generazione precedente, che ha consentito a quella postbellica di non lavorare, o di lavorare tardi, o di lavorare poco, e “di abbassare l’asticella degli studi, nella scuola come nell’Università”; il terzo pilastro, il più recente, consiste nella formazione, in Italia, di una “infrastruttura paraschiavistica”, con alti livelli di occupazione nello svolgimento di attività di natura tendenzialmente servile, da parte di un nuovo gruppo sciale, costituito dagli stranieri “provenienti dall’Est europeo, dall’Africa, e più in generale dai Paesi (molto) meno ricchi del nostro”. Senza questi tre pilastri, secondo Ricolfi, l’Italia non sarebbe mai potuta diventare una società signorile opulenta di massa.
A giustificazione della condizione signorile (con consumo opulento di massa) della società italiana, Ricolfi evoca la previsione formulata alla fine degli anni Venti del secolo scorso (quindi circa cento anni prima dei nostri giorni) da John Maynard Keynes, nel celebre breve scritto “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. La previsione, com’è noto, era fondata su due ipotesi su quale sarebbe stata l’evoluzione della struttura sociale; per la prima, grazie al progresso tecnologico, la produttività del lavoro sarebbe cresciuta notevolmente; conseguentemente, per la seconda, l’aumento della produttività “avrebbe condotto a una drastica riduzione degli orari di lavoro”, per cui i cittadini, dopo aver risolto il problema del benessere materiale, si sarebbero trovati nella condizione di destinare il tempo libero verso la ricerca di forme di attività alternative al lavoro.
Keynes riteneva che tale ricerca non sarebbe stata né semplice, né indolore, perché per molti cittadini non sarebbe stato facile semplice rinunciare al lavoro tradizionale, “dopo millenni di abitudini costruite intorno ad esso”; secondo Keynes ed altri pensatori, sarebbe stato opportuno indirizzare questa ricerca verso l’istruzione, cosicché ogni cittadino potesse sfruttare con intelligenza il proprio tempo. La configurazione di società signorile di massa affermatasi in Italia, “con i suoi consumi opulenti e la sua scarsa propensione al lavoro – sostiene Ricolfi – è il modo in cui per certi versi la previsione di Keynes si è concretizzata”.
In un secolo, in Italia, la produttività del lavoro è cresciuta, il problema della liberazione dai bisogni fondamentali è stato risolto per la maggior parte dei cittadini, il tempo di lavoro si è più che dimezzato e la quota di beni di consumo non necessari è enormemente aumentata. In concreto, quindi – osserva Ricolfi – l’aumento della produttività è stato utilizzato nel nostro Paese, “in parte per aumentare i consumi ma, in parte, anche per ridurre il lavoro, e tutto ciò è avvenuto precisamente nella proporzione immaginata da Keynes, ovvero dimezzando il nostro tempo di lavoro”. Ma le corrispondenze si fermano qua, in quanto in Italia su due punti le cose sono andate storte, o quantomeno in modo del tutto diverso da come Keynes le aveva immaginate.
Infatti, il tempo di lavoro non si è ridotto attraverso la diminuzione dell’orario giornaliero, ma attraverso la suddivisione della popolazione “in una minoranza di lavoratori [...] e in una maggioranza di non-lavoratori”: un fenomeno determinato da vari fattori (declino dell’agricoltura, scolarizzazione di massa, aumento della speranza di vita ed altro ancora), ma favorito anche da una modificazione delle preferenze individuali, come, ad esempio, la propensione dei giovani a spostare in avanti l’età di entrata nel mercato del lavoro.
L’aumento del tempo libero, a seguito della cresciua produttività e della diminuzione del tempo di lavoro, non è stato però impiegato per migliorare la “qualità” delle persone, ma prevalentemente per “ampliare lo spettro dei consumi”; fenomeno, questo, che è valso a qualificare la società signorile opulenta di massa in società fortemente individualista, che ne ha minato il livello di coesione sociale.
Di per sé – sostiene Ricolfi – il fatto che a seguito dell’aumento della produttività, una società lavori poco, diventi opulenta, individualista e smetta di crescere non dovrebbe costituire un problema, così come era nelle previsioni di Keynes, il quale però – va aggiunto – ha sbagliato nel prevedere implicitamente che i vantaggi dell’opulenza si distribuissero equamente. La circostanza che in Italia l’opulenza di massa si sia affermata in presenza di una disuguaglianza distributiva dell’aumento del prodotto sociale ha avuto conseguenza negative peculiari: sul piano strutturale, la transizione della società italiana, da società dei consumi (qual era ancora alla fine del secolo scorso) in società signorile opulenta di massa, non ha rimosso gli squilibri territoriali (tra le regioni arretrate del Sud e quelle economicamente avanzate del Centro-Nord) che connotavano l’annesso dualismo dell’economia italiana. Inoltre, l’opulenza, pur diffusa in tutte le regioni, è concentrata prevalentemente in quelle del Centro-Nord; infine, il consumo del prodotto sociale da parte dei non-produttori, anch’esso presente in tutto il territorio nazionale, è prevalentemente concentrato nelle regioni del Sud.
In questa situazione, conclude Ricolfi, il ristagno della produttività renderà sempre più difficile conservare i livelli di consumo raggiunti dalla totalità della popolazione italiana. Prima o poi, se nulla cambierà, dopo il crollo del primo pilastro (che ha reso possibile l’avvento della società signorile opulenta di massa) la stagnazione si trasformerà in un declino irreversibile del Paese. Come andrà a finire?, si chiede Ricolfi. Fare previsioni è difficile, ma si può essere certi che, se non si farà nulla per migliorare la produttività, l’Italia è destinata a ritornare alla periferia del mondo economicamente avanzato, dalla quale la generazione quella vissuta a cavallo del secondo conflitto mondiale evocata da Ricolfi era riuscita a riscattarla.
A chi ricondurre la responsabilità della situazione in cui versa attualmente il Paese? Senz’altro alla politica, la quale, nel corso dei “gloriosi trent’anni” seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale, anziché accettare lo sviluppo spontaneo dei consumi, avrebbe dovuto indirizzare parte dell’aumento del prodotto sociale verso la creazione di una “società dell’apprendimento”, con cui contenere, attraverso un miglioramento della “qualità” del lavoro, le nascenti disuguaglianze distributive e gli squilibri connessi all’affermazione di un tipo di società caratterizzata dai caratteri negativi descritti da Ricolfi.

One Response to Disuguaglianze

  1. […] distributive e trasformazione della natura del sistema sociale di Gianfranco Sabattini, Editoriale del 19 dicembre 2019. […]

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