Cina – Hong Kong: che succede?
Hong Kong e la possibile fine del principio “un paese, due sistemi”
di Gianfranco Sabattini
Il primo luglio 1997 la sovranità di Hong Kong è stata trasferita dalla Gran Bretagna alla Cina; un trasferimento definito nel Regno Unito “Devoluzione” (“Handover”), ma in Cina “Riunificazione”, o “Ritorno”. Se con la Devoluzione Hong Kong ha continuato a conservare, almeno sul piano formale, uno status istituzionale e politico particolare all’interno della Repubblica Popolare Cinese, il rapporto degli abitanti della città portuale con il resto del Paese si è sempre conservato difficile, nonostante che la Cina garantisse al sistema di governo di Hong Kong una larga autonomia secondo il principio “un paese, due sistemi”. Sulla base di tale principio, Hong Kong è rimasta sino ad oggi la città più libera della Cina, l’unica in cui è stato possibile celebrare ogni anno i morti della strage di Piazza Tienanmen, nel 1989.
Dal punto di vista amministrativo, Hong Kong è una delle due “Regioni Amministrative Speciali” della Repubblica Popolare cinese; l’altra è Macao, ex colonia portoghese, che è “tornata” a far parte della Cina nel 1999; ma rispetto ai circa 500.000 abitanti di Macao, Hong Kong è una metropoli con quasi sette milioni di residenti, su un territorio di 1.100 chilometri quadrati, facenti do questa città portuale una delle aree più densamente popolate del mondo.
Le proteste scoppiate nel corso del 2019 contro l’emendamento alla “legge sull’estradizione” non rappresentano che uno dei motivi del profondo attrito esistente tra Hong Kong e Pechino, in vista dell’avvicinarsi della data in cui l’autonomia della città dal governo centrale, sulla base degli accordi del 1997, volgerà al termine. Nel 2047, infatti, Hong Kong cesserà di avere standard politici, economici e istituzionali diversi e più autonomi rispetto al resto della Cina; fatto, questo, che non ha mai cessato di preoccupare l’opinione pubblica hongkonghese, dato che Pechino ha sempre dimostrato l’intenzione di ridurre, anche se in modo quasi impercettibile, il grado di autonomia del grande porto.
Le proteste iniziate con il rifiuto dell’emendamento alla legge sulle estradizioni, anche se successivamente sospesa, si sono trasformate in un’opposizione all’ingerenza sempre più accentuata di Pechino nel governo della città; si tratta di proteste che riflettono quanto i contenuti dell’accordo del 1997 tra Regno Unito e Cina siano diventati sempre più critici. Cosa temono gli abitanti di Hong Kong dell’emendamento? Cosa spinge i manifestanti alla protesta? A cosa ambisce la Cina?
Non a caso, dopo l’emendamento alla legge sull’estradizione, Carrie Lam, che guida l’Esecutico di Hong Kong, è stata accusata più volte di aver ceduto, da quando è in carica, alle pressioni di Pechino. A Hong Kong sono oggi in vigore leggi sull’estradizione basate su accordi bilaterali stretti con diversi Paesi, tra i quali non rientrano però, né la Cina continentale, né Macao, né Taiwan. L’emendamento alla legge, che è all’origine delle proteste, cambierebbe lo status quo, perché renderebbe l’estradizione possibile per determinati reati, come l’omicidio o la violenza sessuale (pur senza che sia estesa ad altri tipi di crimini, in particolare a quelli legati alla sfera economica e fiscale). Gli hongkonghesi temono, però, che le richieste di estradizione verso la Cina continentale diano adito a violazioni dei diritti umani e possano essere usate come pretesto per colpire i dissidenti politici cinesi rifugiatisi a Hong Kong.
Le proteste sono divenute un tema centrale delle preoccupazioni delle autorità cinesi, in un momento particolarmente delicato per la Repubblica Popolare chiamata, oltre che alla cura della sua posizione nel mercato globale, a dover fronteggiare numerose sfide interne per il mantenimento della stabilità e dell’integrità dello Stato; è questa la ragione per cui, a fronte delle proteste provenienti da Hong Kong, si rafforza la propensione di Pechino ad adottare risposte sempre più dure e repressive nei confronti di qualsiasi tipo di contestazione.
Per il momento, le autorità di Hong Kong sono riuscite ad evitare l’intromissione cinese nelle questioni che riguardano la sicurezza della loro Città-Stato; da metà agosto, tuttavia, Pechino ha dislocato contingenti di truppe a Shenzhen, sul confine continentale di Hong Kong. Lo schieramento delle truppe è valso a diffondere, tra gli abitanti di Hong Kong, la convinzione che sia giunto il momento di cominciare a negoziare con la madrepatria il mantenimento del grado di autonomia di cui ora la città gode. Poiché, per la Cina, stabilità e sicurezza sono legate a doppio filo con i propri obiettivi “imperiali”, esiste il rischio concreto che, in nome della stabilità, la leadership comunista cinese accentui il grado di ingerenza nella modalità di governo della società civile di Hong Kong, incrementando nel corso dei prossimi mesi intromissioni in un territorio considerato instabile.
In realtà, tali intromissioni sono state ritenute fonte di preoccupazione, sin dal momento della firma dell’accordo con la Gran Bretagna nel 1997; infatti, dopo la stipula della “Devoluzione”, Pechino ha subito pensato di poter gestire il “Ritorno” del porto alla patria cinese, usando – come afferma Giorgio Cuscito, in “Hong Kong oggi, ieri, domani” (“Limes”, 9/2019) – “la carota economica e il bastone politico”. L’ingerenza cinese nella gestione della vita politica hongkonghese, è avvenuta in variati modi, ma soprattutto attraverso l’approfondimento del legame con l’élite economica locale, il controllo delle procedure elettorali, l’attività del comitato permanente del Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese (in qualità di unico interprete della Basic Law, la mini-costituzione ereditata dalla precedente amministrazione inglese) e la pervasiva presenza del Partito in tutta l’area del porto.
Uno degli articoli della Basic Law prevede l’elezione a suffragio universale dello “Chief executive” (cioè del capo del governo locale) tra candidati scelti da “un comitato ampiamente rappresentativo, in accordo con le procedure democratiche”. Il governo cinese, però, interpreta il suffragio universale solo come modo di regolare la selezione dei candidati alla carica di Chief executive locale e non certo – come afferma Cuscito – come “un modo per assicurare alla regione un sistema democratico in stile occidentale”. Il suffragio universale è considerato da Pechino con occhio particolarmente preoccupato, in quanto l’integrale applicazione delle procedure democratiche “potrebbe alimentare nella Cina continentale la richiesta di maggiore libertà, che a sua volta potrebbe mettere a rischio la stabilità del Paese e quindi la sovranità del Partito Comunista Cinese”.
Sull’elezione del Chief executive locale secondo procedure democratiche, da anni si sono confrontate le due fazioni principali della società hongkonghese: quella filo-democratica e quella filo-cinese, rappresentate rispettivamente dal “Democratic Party” e dalla “Alliance for the Betterment and Progress of Hong Kong”. L’approfondirsi del confronto, soprattutto per merito del Democratic Party, ha costretto nel 2007 il Congresso Nazionale del Popolo della Repubblica Popolare Cinese a stabilire che le elezioni a suffragio universale dello Chief executive locale si sarebbero tenute nel 2017; ma, una larga parte degli hongkonghesi ha ritenuto che le procedure avviate con il placet di Pechino per lo svolgimento delle elezioni non fossero “genuinamente democratiche”. Ha avuto così inizio, nel 2014, la “rivoluzione degli ombrelli”, una protesta pacifica durata 79 giorni, per ottenere una maggior democratizzazione delle procedure elettorali Simboleggiata dai famosi ombrelli gialli, alzati dai manifestanti per difendersi dai lacrimogeni della polizia).
Il risultato della protesta è stato l’ottenimento del rifiuto, da parte del Consiglio esecutivo di Hong Kong, del progetto elettorale approvato da Pechino. “Negli anni successivi, però, – osserva Cuscito – la protesta è proseguita, oltre che per la mancata concessione di procedure elettorali maggiormente democratiche, anche per il rallentamento del tasso di crescita dell’economia hongkonghese, l’aumento dei prezzi del mercato immobiliare e la sparizione e detenzione nella Cina continentale di alcuni dirigenti editoriali e librai hongkonghesi”.
La crisi politica ed economica ha favorito la formazione di partiti più radicali di quelli precedentemente esistenti. Tra i nuovi partiti, ha aumentato il proprio “peso” politico il “Demosisto” (schierata a favore della democrazia e dell’autodeterminazione per Hong Kong), il cui esponente più noto, Joshua Wong, assurto a rappresentante e simbolo della rivolta hongkonghese, è impegnato a catalizzare l’attenzione internazionale sul significato e la legittimità delle aspirazioni del popolo di Hong Kong; un’attività, quella di Wong, che la Cina non può tollerare, non solo, come si è detto, per ragioni interne, ma anche e soprattutto perché ne avverte la portata propagandistica, in grado di ostacolare, in questo particolare momento di tensione con gli Stati Uniti, la politica dell’attuale Segretario Generale del Partito Comunista Cinese e Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, volta a consolidare e promuovere ulteriormente la posizione di leader globale della Cina.
Per preservare la stabilità della regione, rimuoverne le aspirazioni democratiche degli hongkonghesi e confermare la validità del modello basato sul principio “un paese, due sistemi”, Pechino, anche in vista del “Ritorno” di Taiwan, intende portare avanti, a parere di Cuscito, due strategie di azione politica. La prima di queste strategie consiste “nella graduale integrazione di Hon Kong nella cosiddetta “Area della Grande Baia Allargata”, comprendente anche Macao e nove città del Guangdong” (una provincia quest’ultima, avente per capoluogo Canton e situata sulla costa meridionale della Cina). La Grande Baia dovrebbe diventare un vasto agglomerato urbano in cui fare affluire capitale umano, risorse e servizi per promuovere il rilancio del Porto Profumato (è questo il significato della denominazione di Hong Kong) e affievolire una delle cause della protesta, quella riconducibile alla crisi economica attuale della metropoli orientale. La seconda strategia consiste nell’offrire al governo locale di Hong Kong la possibilità di assegnare all’intera area portuale il ruolo di “’superconnettore’ tra la Repubblica Popolare e il resto del mondo lungo le nuove vie della seta, sommo progetto geopolitica di Xi”.
Al di là delle strategie (o promesse) di Pechino per sedare la protesta del popolo hongkonghese, resta tuttavia il fatto che la Cina non tollererà mai che l’azione degli “ombrelli gialli” possa mettere in pericolo la propria stabilità interna, o possa creare ostacoli all’attuazione della sua attuale aspirazione a divenire un protagonista globale sul piano economico e politico. Ne è prova, come riporta Cuscito, il fatto che, in occasione della cerimonia d’insediamento di Carrie Lam a capo del governo locale, Xi Jinping ha avuto modo di affermare che “qualunque tentativo di mettere in pericolo la sovranità nazionale e la sicurezza, di sfidare il governo centrale e l’autorità della Basic Law e di usare Hong Kong per attuare operazioni di infiltrazione e sabotaggio contro la Cina continentale” sarebbe stato considerato come un atto oltre ogni limite di tolleranza.
In conclusione, a meno di stravolgimenti in senso democratico del regime politico cinese, è fondato prevedere che, nei prossimi anni, il grado di autonomia della quale potrà godere Hong Kong dipenderà dal successo della Cina nel conseguimento di tre obiettivi ritenuti prioritari dalla sua attuale dirigenza politica: innanzitutto, quello connesso all’ulteriore crescita economica, attraverso l’attuazione del progetto delle vie della seta; in secondo luogo, il pacifico “Ritorno” anche di Taiwan, sempre nella prospettiva dell’applicazione del principio “un paese, due sistemi” (obiettivo che Il Partito Comunista Cinese vorrebbe conseguire prima del 2049, anno che segna il centenario della fondazione della Repubblica Popolare); in terzo luogo, non perdere il confronto commerciale, tecnologico e militare con gli Stati Uniti.
Se la Cina non dovesse raggiungere questi obiettivi, e soprattutto se mancasse di realizzare il “Ritorno” pacifico di Taiwan, agli abitanti di Hong Kong non resterà, forse, che adattarsi a vivere secondo standard politici, economici e istituzionali ai quali sono costretti, senza se e senza ma, gli Uiguri della Regione Autonoma dello Xinjiang, e gli abitanti della Regione Autonoma del Tibet.
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Hong Kong: proteste e trade war mettono in ginocchio l’economia
Mattia Prando 13 Novembre 2019 – Su Money.
Anthony Chan, Chief Asia Investment Strategist di Union Bancaire Privée, evidenzia come le proteste interne alla città e la guerra commerciale tra Usa e Cina stiano deprimendo l’economia di Hong Kong, con effetti peggiori dell’epidemia di SARS del 2003
Nel terzo trimestre del 2019, il Pil di Hong Kong si è attestato al -2,9%, decretando ufficialmente l’effetto negativo che stanno avendo le proteste e la guerra commerciale tra Usa e Cina sull’economia. Secondo i dati reperiti la piattaforma Bloomberg, le probabilità di recessione della città nei prossimi 12 mesi sono pari al 65%.
La rivolta a Hong Kong ha effetti che si notano in particolar modo sulle vendite al dettaglio e sul turismo. Il crollo del commercio al dettaglio (-20% a/a rispetto ad agosto-settembre), è stato il più elevato rispetto a tutte le pregresse crisi che la città ha dovuto affrontare nel passato. I segnali indicano addirittura che il calo in essere sia peggiore a quello avvenuto durante l’epidemia di SARS del 2003.
In questo contesto, il deflusso di turisti (in particolar modo quelli della Cina continentale, primaria fonte di fatturato per le società sanitarie e di assicurazioni) ha giocato un ruolo chiave.
Per Anthony Chan, Chief Asia Investment Strategist di Union Bancaire Privée, trade war e proteste potrebbero avere un effetto più devastante della crisi globale del 2007-2008 e di quella asiatica del 1997-1998: “questo potrebbe essere solo l’inizio di una fase recessiva per Hong Kong che potrebbe protrarsi fino al primo semestre 2020 a causa dello stallo politico, anche se i negoziati commerciali tra Cina e Stati Uniti potrebbero progredire con uno spirito di maggior cooperazione”, sostiene l’esperto.
Non solo ombre
Per Chan però, vi è ancora potenziale di crescita a breve termine per Hong Kong, dove le valutazioni restano attraenti e gli operatori stanno aumentando l’ottimismo grazie alla distensione dei rapporti commerciali tra Pechino e Washington.
Se è vero che la recessione avanza con la discesa degli utili, si deve evidenziare come “il calo è stato molto meno drastico rispetto a quanto avvenuto nei precedenti cicli di diminuzione degli utili”.
Il motivo è presto detto: nell’Hang Seng Index è aumentata la presenza di conglomerati e titoli finanziari cinesi, i quali non sono particolarmente esposti al caos di Hong Kong.
Multipli indicano un limitato potenziale rialzo
I P/E forward dell’Hang Seng Index si sono leggermente ripresi dal minimo di 10x raggiunto lo scorso agosto, attestandosi a 11x. “I livelli di aprile/inizio maggio dei multipli forward, di circa 11,7x – dove gli investitori erano più ottimisti riguardo a una tregua commerciale temporanea – restano il nostro riferimento al rialzo per l’HSI”, sottolinea Chan.
In sostanza, basandosi sui livelli attuali, un calo degli utili al range che va dal 2% al -5% potrebbe dare modo ai multipli forward di attestarsi a livelli compresi tra 10,8x e 11,6x, livelli che indicano un potenziale di rialzo limitato.
“Tuttavia, il nostro scenario di base prevede ancora spazio per valutazioni in rialzo a circa 11,7x del P/E forward e, anche nell’eventualità di una riduzione degli utili in un range tra +2% a -5%, suggerisce un livello dell’Hang Seng Index compreso tra 29.820 e 27.780 punti”, chiosa l’esperto.
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