Monthly Archives: novembre 2023

Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu espressione della destra e di religiosi fanatici. Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Chiediamo il cessate il fuoco e la fine dei massacri.

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Palestina: «Un caso di genocidio da manuale e il fallimento dell’Onu». Un’Utopia che dobbiamo percorrere comunque: “Uno Stato unico basato sui diritti umani”.

di Craig Mokhiber
A distanza di tre settimane dall’attacco terroristico di Hamas e mentre si susseguono i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, ha comunicato all’Alto Commissario le sue dimissioni, dopo oltre trent’anni di servizio. La lettera di dimissioni è un duro atto di accusa contro le politiche dello Stato di Israele («Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina»), la copertura ad esse assicurata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, la resa e il fallimento dell’Onu. È un documento che occorre conoscere anche per l’autorevolezza del suo autore. (la redazione di Volerelaluna 2 novembre 2023)
Caro Alto Commissario,

Oggi con Michele Santoro

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Convegno su Adriano Olivetti. Dibattito

img_4337Rileggendo Adriano Olivetti: che non era utopico ma oggi, forse, lo è.
img_4989di Gianni Loy

Che l’esperienza imprenditoriale di Adriano Olivetti sia da annoverare tra i successi più esemplari dell’industria italiana è fuor di dubbio. Quella fabbrica, per altro verso, non è soltanto il luogo dove si esaltano l’innovazione, l’efficienza, l’organizzazione, ma è anche luogo di sperimentazione di un’idea, di una filosofia, direi persino di una religione, di cui egli è il fondatore.

Adriano Olivetti, sia chiaro sin dall’inizio – in quanto costituisce il presupposto di quanto mi accingo ad esporre – non elabora quella sua filosofia sulla base della propria esperienza imprenditoriale ma, proprio al contrario, prima elabora la sua teoria – altri hanno esposto il percorso e le fonti – e successivamente si trova a doverla applicare all’impresa che governa. La successione è più logica che temporale, visto che i due percorsi, in realtà, procedono in parallelo.

La fabbrica, infatti, a prima vista, potrebbe costituire un ostacolo all’affermarsi di quella filosofia che va predicando per tutto il paese, perché nella fabbrica, come sino a non troppo tempo prima predicavano i papi, la materia esce nobilitata ma l’uomo – e soprattutto la donna – possono uscirne corrotti. La fabbrica, sia che la si osservi attraverso la lente del liberismo – di quello ingentilito ed ossequioso ai comandamenti – dove il padrone, con fare paterno, dovrebbe prendersi cura filiale dei propri operai (su quello più rude non occorre spendere parole); sia che la si osservi attraverso il paradigma del marxismo, che esalta il conflitto di classe proponendosi il rovesciamento dell’ordine costituito, quella fabbrica non sembra proprio il luogo dove possano prosperare “libertà e bellezza”, la libertà e la bellezza che dovrebbero insegnarci ad essere felici.

La fabbrica, quindi, è il luogo dove sarà più difficile dimostrare la fattibilità di quell’ordine, armonico e solidale, immaginato da Adriano Olivetti.

Solo che Adriano Olivetti, da una parte è un intellettuale, un filosofo, un sacerdote che predica l’instaurazione di un nuovo mondo dove regnino l’armonia e il bene ma, per altro verso, è il padrone di un’organizzazione che, secondo i principi dell’economia capitalista, ha quale unico ideale quello di massimizzare il profitto. All’interno della fabbrica si incontrano individui, e non persone, che altro non sono che fattori della produzione, da trattare e da retribuire, in ossequio al comandamento del liberismo, con una salario di pura sussistenza. Sia Pio XII che Adriano Olivetti, in quegli anni, avanzeranno l’auspicio di riconoscere ai lavoratori un salario almeno un po’ più elevato di quanto strettamente necessario alla sopravvivenza, seppure le motivazioni che ispirano quell’auspicio non coincidano del tutto.

Nel porgere gli auguri di Natale ai propri dipendenti, nel dicembre del 1955, – ricordando e annunciando misure che oggi verrebbero rubricate con il nome di welfare aziendale – Adriano Olivetti riconosceva che tali misure, “seppur importanti, non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che concederà finalmente ad ognuno la propria libertà, che consiste nel poter spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale”.

Ma non del solo salario minimo si tratta: Adriano Olivetti scava più a fondo e si chiede – in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli – se la finalità dell’impresa debba essere esclusivamente la massimizzazione del profitto o se l’impresa non debba avere qualche altra funzione sociale. «Può l’industria darsi dei fini? – egli scrive – Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinate, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina e nella sua possibilità di elevazione e riscatto».

È evidente che, per chi va predicando l’avvento di un mondo dove regnino “Armonia, ordine, bellezza, pace”, dirigere un’impresa in coerenza con quei principi costituisca una grande sfida.

Per meglio capire, occorre tener conto di alcuni aspetti dell’esperienza di Adriano Olivetti, non sempre sufficientemente evidenziati che tracciano uno scenario utile per gli approfondimenti. scenario che consente di per il successivo dibattito.

Innanzitutto, occorre ribadire che la sua esperienza non nasce dal nulla. Essa si muove nel solco di una tradizione familiare e di una formazione giovanile. Il padre, ebreo convertitosi da adulto ad una confessione cristiana, appassionato anticlericale, si era dedicato con cura al percorso formativo del giovane Adriano, che non includeva la formazione religiosa. E la madre, figlia di un pastore valdese. E poi i suo interessi giovanili, a cominciare dalla lettura de “I punti essenziali della questioni sociale”, di Rudolf Steiner, autore che avrebbe poi riempito gli scaffali della sua biblioteca, senza trascurare Freud.

Il padre Camillo, oltretutto, aveva un’idea precisa del rapporto da tenere con gli operai. Viene descritto come un uomo che “assumeva povera gente, facendola lavorare al mattino e insegnandole a leggere e scrivere nel pomeriggio”. Padre prodigo di consigli e di raccomandazioni per un figlio destinato alla sua successione. Padre al quale Adriano muove, però, un rimprovero: quella di averlo costretto ad intraprendere studi tecnici, mentre lo scalpitante Adriano avrebbe preferito seguire gli studi classici ed imparare il latino, a conferma di qual fosse, sin da giovane, la sua vocazione, una propensione che i suoi interessi confermeranno più avanti.

Il secondo aspetto è il rapporto con la fabbrica. Secondo un diffuso costume dell’imprenditoria familiare, anche Adriano fu mandato a fare esperienza di fabbrica ancora adolescente. Egli così descrive quell’esperienza: “Imparai così, ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai”.

Dopo quella prima impressione, che conferma che il lavoro in fabbrica, come comunemente praticato, non coincideva con i sui istinti, ha approfondito la le proprie conoscenze nelle fabbriche degli Stati Uniti. Ha conosciuto il fordismo e il taylorismo. Da imprenditore non ha potuto che apprezzare i vantaggi derivanti dall’efficienza di quei modelli ritenendo che quella cultura potesse portare, secondo quanto aveva osservato in America, ad una situazione di piena occupazione.

Tuttavia, riteneva che, nell’importarli in Italia, andassero adattati. Occorreva conciliarli con quella sua visione, che qualcuno ancora definisce utopica, per poterli adattare alla propria visione illuministica. Per un certo verso illuministica, ma non troppo, se è vero, come spiega Geno Pampaloni, che la natura di quel pensiero era anche di carattere profetico e religioso.

Pertanto, la fabbrica, per potere essere inserita nella sua visione, per alcuni versi neo-platonica, dovrà essere capace di svolgere un ruolo funzionale all’avverarsi della visone, tutta spirituale, della società: l’armonia, l’ordine la bellezza…

Da qui, per un verso, la ricerca di una funzione della fabbrica diversa dal solo profitto, di cui ho già detto, e, per altro verso, l’introduzione di azioni concrete finalizzate ad una trasformazione della fabbrica che risulti sintonica con il suo iperuranio, nel quale la finalità della fabbrica è, anche, quello di perseguire il bene dei dipendenti e non soltanto il profitto. Fabbrica che dovrà produrre “il bene” e non semplicemente “i beni”.

Una cosa, quindi, sono le idee che stanno nell’altro mondo, altro la dura e faticosa realtà di tutti i giorni, rappresentata delle condizioni penose della classe operaia e dalle regole spietate del profitto.

La peculiarità di Adriano Olivetti è che intende provarci, con juicio, alternato a slanci volontaristici, se si vuole, ma sempre con tenacia e con perseveranza. Quindi Adriano Olivetti non è un utopista, come spesso si racconta; non lo è affatto, per la semplice ragione che di fatto ha trasformato la fabbrica in un laboratorio dove sperimentare – ed effettivamente ha sperimentato – pratiche e modelli indirizzati al superamento degli aspetti più brutali dell’organizzazione aziendale, e lo ha fatto in coerenza con i principi spirituali della verità, della giustizia, dell’amore e della bellezza. E lo ha fatto a tutto tondo, curando anche aspetti come quelli relativi all’estetica, all’architettura, al bello. Non tutti gli hanno creduto sino in fondo, se è vero, come racconta Giuseppe Lupo, che tra i “chierici”, gli intellettuali di cui si era circondato ed aveva accolto nella fabbrica, covava qualche scetticismo.

Le relazioni industriali partivano da una premessa ideologica, ovverossia dal rifiuto dei due modelli contrapposti che si contendevano la scena, quello capitalista e quello marxista, ed esploravano una terza via, collaborativa e non conflittuale. Quella scelta intaccava i territori ipotecati dalle due fazioni che si contendevano il campo, Così Adriano Olivetti si faceva nemici a destra e a manca, e si inimicava persino la Chiesa, per quanto fosse l’organizzazione più in sintonia con la sua visione. Al modello di gestione delle relazioni sindacali, si aggiungono le azioni realizzate all’interno della fabbrica e nelle sue periferie. Istruzione, edilizia, trasporti, tempo libero, conciliazione con la vita familiare e tanto altro. Alcune di queste si sono poi diffuse nella più o meno recente pratica di molte imprese, per libera scelta datoriale, o a seguito della contrattazione o perché introdotte dal legislatore.

Con riguardo a questi temi, occorre tener conto che facciamo riferimento ad un periodo assai lontano nel tempo, caratterizzato da un contesto culturale profondamente diverso. Facile, ad esempio, parlare oggi di cultura diffusa, ma quando la fabbrica di Olivetti si apriva alle biblioteche e si organizzavano eventi culturali, in Italia esisteva ancora l’avviamento professionale secondo il modello disegnato da Gentile, nella scuola si insegnava (solo alle ragazze) l’economia domestica, e l’ingresso delle donne in fabbrica non era guardato con favore. Il diritto al lavoro delle donne, proclamato nella formula costituzionale, era temperato dal richiamo al ruolo già esaltato dal regime fascista. Erano state superate (e neppure tutte) le formule giuridiche, ma quel modello era ancora radicato nella mentalità. Ciò consente di comprendere la portata delle “innovazioni” introdotte da Adriano Olivetti nella sua Fabbrica.

La puntuale ricostruzione del prof. Mastinu ha richiamato, con estrema chiarezza, le condizioni che hanno consentito “l’esperimento” di Adriano Olivetti. Ha ricordato che solo sinché la fabbrica produce profitti è consentito scongiurare i licenziamenti per riduzione di personale, mantenendo fede all’impegno che Adriano aveva ereditato dal padre Camillo. Allo stesso tempo, ha ricordato come le innovazioni in materia di welfare aziendale vengono meno via via che lo Stato sociale le fa proprie, riducendo, o annullando, quel differenziale che nella fabbrica di Adriano Olivetti era tanto evidente, per qualità e quantità, da suscitare preoccupazione presso altri imprenditori non altrettanto “illuminati”.

La successiva evoluzione della fabbrica Olivetti e l’evolversi della situazione economica del paese, in conclusione, non consentono di immaginare che quel modello, maturato in un contesto profondamente differente e in presenza di contingenze oggi non attuali, possa essere riproposto. Le circostante sono cambiate radicalmente. Non siamo più in presenza di due modelli contrapposti da superare attraverso una terza via – soluzione che, al tempo della guerra fredda, molti vagheggiavano -. Oggi governa un solo modello, che non è quello uscito vincente dal confronto con il socialismo reale, bensì una forma di capitalismo, più estremo, privo di quei temperamenti che lo avevano caratterizzato per buona parte della seconda metà del secolo scorso, probabilmente funzionali a reggere il confronto con l’altra campana. Un potere costruito sulla base di un liberismo sempre più sfrenato capace di prevalere sul potere statuale.

In più emergono fenomeni nuovi, come la tendenziale scomparsa della classe media e l’allargamento del divario tra ricchi e poveri; l’acuirsi del fenomeno migratorio che compensa il divario tra le economie ricche, con elevata percentuale di tecnologia e di lavoratori altamente qualificati, e quelle povere a livello di sussistenza.

Oggi, ripensare ad Adriano Olivetti è utile ed opportuno. Ma non può significare, sia ben chiaro, la riproposizione del modello all’epoca sperimentato nella fabbrica e nella società; un modello che, oltretutto, quando si misurò nella dimensione nazionale, non ottenne – salvo che nel proprio territorio – il successo sperato.

Ripensare, oggi, al pensiero di Adriano Olivetti, significa, piuttosto, tornare a porsi le stesse domande che egli si poneva, e che proponeva alla società tutta. Domande che, nonostante l’apparenza, non riguardavano essenzialmente la fabbrica, bensì, l’intera società ed il sistema delle relazioni umane. La fabbrica è il luogo dove Adriano Olivetti concepisce e sperimenta la propria filosofia, perché la sorte lo ha chiamato vivere tale esperienza, È per questo che si chiede, ripetutamente, se l’industria non possa darsi dei fini, se questi fini possano trovarsi semplicemente nell’indice dei profitti, se non vi sia, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita della fabbrica. Ma non se lo chiede per soddisfare un’esigenza di filantropia, o di mecenatismo – esperienze che nella storia dell’impresa non è difficile incontrare – né per differenziarsi dal resto del mondo imprenditoriale. Quel clima che sperimenta all’interno propria fabbrica, con il suo welfare, con le sue relazioni sindacali, egli lo propone, quale modello all’intera società.

Il suo modello non è la trasformazione della fabbrica. Tale obiettivo è strumentale e necessario per il raggiungimento dell’obiettivo; ma il modello, “l’utopia”, è quella di una “nuova e autentica civiltà indirizzata a una più libera, felice, consapevole esplicazione della persona umana (Olivetti 2001, p. 102). È all’interno di tale visione che egli si impegna per “rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” (Olivetti 1952, p. 11).

Un progetto per la società, quindi, non espressione di mero volontarismo. Un progetto che richiede l’intervento dello Stato, per il raggiungimento del benessere materiale e spirituale della società, improntato all’umanesimo e alla solidarietà e finalizzato alla ricerca della felicità.

Non è facile immaginare come un tale obiettivo possa essere perseguito all’interno della fabbrica . Soprattutto se si tiene conto di quanto sia labile il collante – etico – che dovrebbe tenere assieme tutti gli elementi. Se è vero che “le forze materiali non sono mai intese da Olivetti come fini a sé stesse, ma sempre come strumento al servizio di mete spirituali” e che “l’impresa può vivere e crescere solo attraverso il proprio trascendimento spirituale indotto da una costante tensione religiosa”. (A. Peretti, in FabbricaFuturo, 25.12. 2012).

Le sue realizzazioni, il suo welfare, altro non sono che anticipazioni di un modello che dovrebbe estendersi all’intera società e quindi destinate ad essere superate. Ciò è avvenuto solo in parte. Il liberismo economico – seppure imbellettato dall’ambigua lusinga della responsabilità sociale dell’impresa – non tollera altri Dei se non il profitto, unico vero oggetto di devozione.

La comunità, piuttosto che esprimere solidarietà, si dissolve nell’individualismo.

La fabbrica, ritornando al programma di Adriano Olivetti, dovrebbe essere posta al servizio della verità, della giustizia, della bellezza, dell’amore. Verità intesa come libertà di ricerca e di progresso scientifico; giustizia, concepita come equa ridistribuzione a chi lavora della ricchezza da lui prodotta; bellezza, espressione visibile della raggiunta armonia tra esigenze materiali e spirituali; amore, rivolto all’essere umano, [alla] sua fiamma divina, [alla] sua possibilità di elevazione e di riscatto. (Olivetti 2001, p. 28).

A guardarsi intorno, oggi, rimane un dubbio: se si tratti di un reperto di archeologia rinascimentale o dell’ordito di una novella di fantascienza.

Gianni Loy

Oggi sabato 4 novembre 2023

img_3099 Israele-Popolo palestinese. Se non si cerca una soluzione giusta, cresceranno gli estremismi
4 Novembre 2023. A.P. Su Democraziaoggi.
Le notizie che ci giungono dalla Francia sul radicamento e l’estensione dell’antisemitismo sono allarmanti. Anche da altri paesi provengono segnali poco rassicuranti. Ma quanto questa reazione è frutto della insipienza dei governi, di Macron e del suo esecutivo? Vietare addirittura le manifestazioni pro palestinesi, oltre che comprimere la libertà di riunione, inaccettabile in un ordinamento […]
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Oggi venerdì 3 novembre 2023

img_3099 Regionali. Il problema della rappresentanza femminile in Sardegna
3 Novembre 2023 su Democraziaoggi.
Paola Casula sindaca di Guasila

Il problema della rappresentanza femminile in Sardegna è evidente.
Ci troviamo da giorni a dibattere sulla candidatura di una donna come governatrice della Sardegna, con argomentazioni sbagliate che puntano su presunte spartizioni di potere o imposizioni (inesistenti) da Roma.
Siamo in un momento storico cruciale. Per la prima volta nella sua storia, la […]
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Pier Paolo Pasolini

img_5085L’enorme vitalità del pensiero di Pasolini
di Lucio Garofalo

Nel giorno consacrato alla commemorazione dei defunti si celebra una consuetudine soltanto all’apparenza rituale e simbolica, per tributare un omaggio ai propri cari scomparsi. A parte mia nonna, ricordo un paio di cari amici dell’infanzia e dell’adolescenza, rimasti sepolti sotto le macerie del sisma del 1980, che rase al suolo Lioni ed altri centri dell’Irpinia e della Lucania. Altra ricorrenza che si avvicina: i 43 anni del 23 novembre 1980. Il 2 novembre richiama alla memoria un altro mesto anniversario, quello della tragica morte di Pasolini, l’intellettuale italiano più inviso ed osteggiato dai palazzi del Potere, il più controverso e scomodo del Novecento.

Costituente Terra – Chiesa di tutti Chiesa dei Poveri

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 137 del 2 novembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.318 del 2 novembre 2023
QUANTI NAUFRAGI
Cari amici,
non c’è una gerarchia delle tragedie. Ma nemmeno per mettercene sul cuore una, possiamo dimenticare o tacere le altre. Perciò, mentre assistiamo attoniti alla strage di Gaza, e nel vederne svelate le finalità nel progetto dello Stato di Israele di “dislocare l’intera popolazione palestinese nel deserto del Sinai” (nonostante la memoria storica della deportazione degli ebrei a Babilonia) dedichiamo questa newsletter alle ultime notizie sui naufragi nel Mediterraneo che ci trasmette dalla ONG “Mediterranea” Mattia Ferrari: da un naufragio all’altro!

Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu espressione della destra e di religiosi fanatici. Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Chiediamo il cessate il fuoco e la fine dei massacri.

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Palestina: «Un caso di genocidio da manuale e il fallimento dell’Onu»
di Craig Mokhiber

A distanza di tre settimane dall’attacco terroristico di Hamas e mentre si susseguono i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, ha comunicato all’Alto Commissario le sue dimissioni, dopo oltre trent’anni di servizio. La lettera di dimissioni è un duro atto di accusa contro le politiche dello Stato di Israele («Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina»), la copertura ad esse assicurata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, la resa e il fallimento dell’Onu. È un documento che occorre conoscere anche per l’autorevolezza del suo autore. (la redazione di Volerelaluna 2 novembre 2023)

Caro Alto Commissario,

questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei in qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.

Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questo mi coinvolge molto personalmente. Ho lavorato in questo Ufficio anche durante i genocidi contro i Tutsi, i musulmani bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli imperativi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di denuncia delle responsabilità. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.
Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.

Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso utilizzato abusivamente per scopi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e violenti pogrom dei coloni sono appoggiati da unità militari israeliane. In tutto il territorio regna l’apartheid.

Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi di “garantire il rispetto” delle Convenzioni di Ginevra, ma di fatto stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Allo stesso tempo, i media occidentali, sempre più succubi e filo-governativi violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio, e trasmettendo propaganda di guerra e odio nazionale, razziale o religioso, di fatto incitando alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. Le società di social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane e le GONGOS [pseudo ONG create o sponsorizzate dai governi per promuovere i loro interessi, ndt] molestano e diffamano i difensori dei diritti umani, e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire chi osa alzare la propria voce contro le atrocità. Per questo genocidio, è necessario chiedere conto anche a loro, proprio come per radio Milles Collines in Ruanda.

In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione giusta ed efficace è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere protettivo del Consiglio di Sicurezza è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti, il Segretario Generale è sotto attacco per le proteste più blande e il nostro impegno per la difesa dei diritti umani è oggetto di un continuo attacco diffamatorio da parte di una rete organizzata di impunità online.

Le promesse illusorie e in gran parte insincere di Oslo hanno distolto per decenni l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e la stessa Carta. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rendere conto dei diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” [gruppo creato nel 2002 a Madrid per favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese; comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Russia, ndt] non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. Il riferimento (scritto dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stato un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.

Negli anni ’80 mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata su principi e norme, che si schierava decisamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, Regno Unito ed Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricana, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.

Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia stata adottata nello stesso anno in cui è stata perpetrata contro il popolo palestinese la Nakba [esodo forzato, ndt]. Mentre commemoriamo il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata accanto a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina. In un certo senso, i redattori promisero i diritti umani a tutti, tranne che al popolo palestinese. E ricordiamoci anche che le stesse Nazioni Unite hanno il peccato originale di aver contribuito a facilitare l’espropriazione del popolo palestinese, ratificando il progetto coloniale europeo che ha sequestrato la terra palestinese e l’ha consegnata ai coloni. Abbiamo molto da espiare.

Ma la via dell’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalle posizioni di principio assunte nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli. Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di ebrei, difensori dei diritti umani, che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della propaganda hasbara israeliana (e vecchio tropo antisemita) secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come le critiche alle violazioni saudite non sono islamofobe, le critiche alle violazioni del Myanmar non sono anti-buddiste, o le critiche alle violazioni indiane non sono anti-induiste. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che questo è il senso di dire la verità al potere.

Ma trovo anche speranza in quelle parti dell’ONU che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri relatori speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’Alto Commissariato ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario generale all’ultima recluta delle Nazioni Unite, e orizzontalmente in tutto il sistema ONU, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.

Come dovrebbe essere, allora, una posizione basata sulle norme delle Nazioni Unite? Per cosa dovremmo lavorare se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla responsabilizzazione dei titolari dei diritti, il tutto nell’ambito dello Stato di diritto? La risposta, a mio avviso, è semplice – se solo avremo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di alzare veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:

Azione legittima: in primo luogo, noi delle Nazioni Unite dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.

Chiarezza di visione: dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.

Uno Stato unico basato sui diritti umani: dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.

Lotta all’apartheid: dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni ’70, ’80 e primi anni ’90.

Ritorno e risarcimento: dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.

Verità e giustizia: dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e garantire la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e i rimedi per le ingiustizie documentate.

Protezione: dobbiamo fare pressioni per il dispiegamento di una forza di protezione delle Nazioni Unite dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare [dal fiume Giordano alla costa del Mediterraneo, ndt].

Disarmo: dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.

Mediazione: dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto, che sono complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo affrontarli come tali.

Solidarietà: dobbiamo spalancare le nostre porte (e le porte del Segretario Generale) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.

Ci vorranno anni per raggiungere questi obiettivi, e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere saldi. Ora, anzitutto, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e per la ricostruzione ai palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie e lottare con tutte le forze per un approccio attento ai principi negli uffici politici delle Nazioni Unite.

Il fallimento dell’ONU in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come Alto Commissariato, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.

La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se potrò esservi utile in futuro.

28 ottobre 2023

Cordialmente

Craig Mokhiber

L’originale della lettera può leggersi al link https://volerelaluna.it/wp-content/uploads/2023/11/Lettera-Craig-Mokhiber-a-Alto-commissario-ONU-diritti-umani.pdf. La traduzione è opera della redazione .

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schermata-2023-11-02-alle-19-10-48
craig-mokhiberCraig Mokhiber è direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR). Avvocato e specialista in diritto internazionale, politica e metodologia sui diritti umani, presta servizio alle Nazioni Unite dal 1992. In qualità di capo del gruppo per i diritti umani e lo sviluppo negli anni ’90, ha guidato lo sviluppo del lavoro originale dell’OHCHR sugli approcci basati sui diritti umani alla definizioni di povertà sensibili allo sviluppo e ai diritti umani. Ha anche ricoperto il ruolo di consulente senior per i diritti umani delle Nazioni Unite sia in Palestina che in Afghanistan, ha guidato il team di specialisti dei diritti umani assegnato alla missione ad alto livello in Darfur, ha guidato l’Unità per lo stato di diritto e la democrazia e ha servito come capo dell’Ufficio economico e delle questioni sociali e capo della sezione per lo sviluppo e le questioni economiche e sociali presso la sede dell’OHCHR.
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Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu e i religiosi fanatici che lo sostengono . Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi.

img_4715Craig Mokhiber, direttore dell’ufficio a New York dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani si è dimesso oggi dichiarando:

“L’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, non lascia spazio a dubbi o discussioni. In tutto il Paese regna l’Apartheid.

“È un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la rapida distruzione degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina.

“Per di più, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici dell’orribile aggressione.”
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- Siamo di fronte a un caso di genocidio.
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img_5082 Su Collettiva.it: https://www.collettiva.it/copertine/internazionale/schieriamoci-con-le-vittime-non-con-i-governi-lspgzlg4 .
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Montanari sul Nove: “Quello che ha fatto Hamas non si può considerare resistenza. Uccidere ragazzi a una festa è crimine di guerra”
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Oggi giovedì 2 novembre 2023

img_3099 L’attacco ai civili è contro i trattati internazionali e la nostra Carta
2 Novembre 2023 – A.P. Su Democraziaoggi
Gli orrori della prima e della seconda guerra mondiale. La Shoa e il tentativo di Hitler di sterminare gli ebrei e schiavizzare gli slavi, creando una colonia dentro l’Europa con l’invasione dell’Unione sovietica, hanno fatto nascere, finita la guerra, le Carte internazionali e molte costituzioni statali con una caratteristica comune. Il ripudio della guerra e […]
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luttoÈ morto Luigi Berlinguer
Esponente del Pd, già Ministro della Pubblica Istruzione e dell’Università. Per otto anni Rettore dell’Università di Siena.
- Luigi Berlinguer.
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Condoglianze alla famiglia, ai compagni del Partito Democratico, a tutti gli amici.

L’intervista del TG1 a Papa Francesco

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L’intervista è disponibile on demand su RaiPlay

Il valore della Comunità

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Convegno di studi
ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA
Attualità di una prospettiva umanistica

Cagliari 27 e 28 ottobre 2023
Aula Bachisio Motzo – Facoltà di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Cagliari, Sa Duchessa.
img_5003 La Comunità in una società individualizzata
di Remo Siza

Introduzione
Nel linguaggio corrente, in Italia, è molto ampio il richiamo alla comunità, sebbene, come ha rilevato Bagnasco (1999) l’uso del termine comunità per certi versi è problematico in quanto nella stessa parola si sovrappongono significati molto differenti. George Hillery (1955; Collins, 2010) rilevava che esistono 94 definizioni di comunità e l’unico aspetto comune a tutte queste definizioni è l’idea di un tessuto di relazioni sociali che si stabilisce tra le persone. Altre dimensioni del concetto quali la prossimità, la profondità emotiva delle relazioni non sempre sono condivise dai vari autori.
Nel dibattito politico e nei programmi dei principali partiti, il richiamo alla comunità assume differenti significati:
- la comunità locale, spesso come livello politico locale contrapposto a quello centrale
- la comunità come ambito della partecipazione diretta delle persone al governo che assicura l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica
- come sistema delle autonomie locali capace di rispondere alla crisi dei partiti e della rappresentanza politica;
- come superamento dello squilibrio urbano/rurale, per riavvicinare la città alle aree interne dimenticate dal mercato e dall’attuale modello di sviluppo.
Infine, la comunità è stata riscoperta nei sistemi di welfare che intendono valorizzare il ruolo delle famiglie e le relazioni di comunità nella cura delle persone, il Servizio sociale di comunità, la comunità educativa; come iniziativa professionale di Sviluppo della comunità riconoscendone la sua rilevanza nella vita delle persone.
Nel pensiero di Adriano Olivetti tutte queste accezioni del termine comunità erano presenti: non per contrapporre comunità arcaica e città moderna, non come ritorno al passato, ma come idea-forza per una radicale riforma del sistema politico e la costruzione di una società ‘a misura d’uomo’ (Olivetti, 2001).
La comunità è vista come mediazione fra individuo e Stato, come riappropriazione inevitabilmente selettiva della tradizione, come ambito di innovazione, ambito di relazioni che rafforzano e danno sostanza umana allo sviluppo industriale. Il richiamo alla comunità era chiaramente legato alla necessità di valorizzare la comunità concreta come una forma nuova di rappresentanza più forte e più efficiente della democrazia ordinaria e ad una preoccupazione per la fragilità dei legami sociali, per i cambiamenti che travolgevano i sistemi di valore e le istituzioni in una società post-contadina.

I cambiamenti della società industriale
La comunità che Olivetti richiamava nel suo progetto di riforma era cambiata profondamente a partire dagli ultimi anni Cinquanta. Una straordinaria espansione economica e una imponente mobilità territoriale che aveva come destinazione le città del triangolo industriale contribuiva ad un cambiamento profondo della società italiana. Non cambiava soltanto l’economia, cambiavano, forse in modo più radicale, le relazioni fra le persone.
Lo sviluppo industriale incideva profondamente sull’equilibrio individuo e comunità e su un processo fondamentale della modernità: il processo di individualizzazione (Beck, 1992; Beck e Beck-Gernsheim, 2001).
Il processo di individualizzazione è il fondamento delle società occidentali e di ogni dinamica di innovazione e cambiamento. È un processo che valorizza l’autonomia individuale, che promuove il distacco dai ruoli e vincoli tradizionali, da ogni costrizione (della famiglia autoritaria tradizionale, della comunità), verso una crescita della libertà e della consapevolezza di sé dell’individuo, per costruire una vita indipendente sulla base dei valori e dei principi della nascente modernità industriale
In una fase di transizione, questi processi orientano le agenzie di socializzazione verso la costruzione di individualità che si distinguono dalle comunità di appartenenza.

Una individualizzazione parziale
Negli anni Sessanta, in particolare, i processi di individualizzazione si diffondono molto rapidamente e coinvolgono una larga parte della società italiana.
Una parte significativa della popolazione, soprattutto i più giovani, vuole realizzare il proprio progetto di vita, scegliere autonomamente il proprio destino spesso lontano dalla comunità di origine, assumere la propria indipendenza rispetto alle attese dei genitori, della rete parentale allargata, dalla comunità, dalle grandi associazioni collettive.
Le comunità tradizionali comunque non si dissolvono. In fondo, questi processi di emancipazione e di individualizzazione (cioè di distacco dai ruoli e vincoli tradizionali verso una crescita della libertà individuale) erano ancora governabili. Per certi versi era una individualizzazione contenuta e programmata secondo esigenze funzionali al nuovo sviluppo economico.
La società industriale era una società percorsa da grandi cambiamenti ma comunque solida nei suoi riferimenti culturali, era una società sostanzialmente integrata, in cui le patologie della modernità erano ancora governabili.
Il richiamo di Olivetti alla comunità aveva comunque una sua concretezza. La comunità aveva ancora la sua consistenza. Il Movimento Comunità declinò con la morte di Olivetti (1960), sebbene in quegli anni la comunità a cui Olivetti si riferiva era ancora vitale e poteva ancora contare su una larga parte delle sue risorse tradizionali di partecipazione e di relazioni sociali amichevoli. Il futuro di un movimento politico comunitario sembrò dipendere strettamente dall’iniziativa e dall’attivismo di Adriano Olivetti più che dai cambiamenti delle comunità concrete.
L’idea di comunità rimaneva comunque vitale nel linguaggio corrente, nelle iniziative sociali e culturali di associazioni, di gruppi locali molto attivi.
In fondo nella società industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, i processi di individualizzazione si diffondono rapidamente nel tessuto sociale, ma sono ancora parziali. Gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, la Chiesa, il sindacato, le grandi associazioni) sono ancora solide. La famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile: si riduce sensibilmente il numero di figli, è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali. Le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.
Gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, il sindacato, le grandi associazioni, la Chiesa) sono ancora solide, si allentano i legami collettivi, ma non del tutto:
- la famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile si riduce sensibilmente il numero di figli; ma i ruoli di genere persistono sebbene siano accettati con molte più resistenze dalla donna;
- la famiglia è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali;
- le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.

Nelle società industriali, c’era ancora una continuità e un passaggio lineare tra due fasi del processo di individualizzazione
1. la fase “liberatoria” dai vincoli e costrizioni che limitano l’autonomia e la capacità di autodeterminazione delle persone e non consentono di realizzare i loro progetti di vita. Ciò che diventa importante è la raggiunta possibilità di scegliere la propria vita, senza rassegnazione e passività.
2. la successiva fase di ricomposizione di nuove forme di stare insieme, di convivenza, nuove relazioni di amicizia e di collaborazione, nuove relazioni con le istituzioni che di norma seguono questa fase liberatoria.

I cambiamenti economici e sociali travolgevano la civiltà contadina, le sue relazioni, le sue staticità, ma allo stesso tempo rivitalizzavano le istituzioni più moderne (famiglia nucleare, il ruolo della donna, i partiti, i sindacati…)
La società industriale è una società moderna che ha in mente il suo punto di arrivo:
- la famiglia nucleare (i genitori con un numero limitato di figli) modernizzata nelle sue relazioni, meno autoritaria;
- la Chiesa ha un ruolo cruciale nella vita delle persone seppure risulti indebolita da processi di secolarizzazione;
- le istituzioni politiche sono solide,
- il lavoro per una larga parte della popolazione è stabile, dignitoso, remunerato sufficientemente per partecipare a pieno titolo alla vita sociale.

I movimenti comunitari degli anni Novanta
Negli anni Novanta, cambia profondamente la relazione individuo-comunità ed emerge una radicalizzazione dei processi di individualizzazione. Le individualità che emergono sono più radicalmente indipendenti dalle comunità territoriali e i legami sociali si indeboliscono in termini molto più significativi.
In questi anni, i movimenti comunitari assumono particolarmente rilevanza in molte parti del mondo.
Così come era accaduto in Italia, in altre nazioni il movimento comunitario aveva una sua esplicita caratterizzazione politica e costituì una corrente fondamentale della Terza via il progetto politico che si proponeva di superare la tradizionale dicotomia tra destra (conservatrice o neoliberista) e la sinistra tradizionale.
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito movimenti comunitari coinvogevano in un progetto di politica di riforma della società, politici come Bill Clinton e Tony Blair oltre che decine di altri Capi di Stato nel mondo. Il richiamo della comunità, lo ritroviamo qualche anno più tardi (nel primo decennio del duemila) nella Big Society del Governo conservatore inglese di David Cameron richiamato dal Governo Berlusconi nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale (2009), verso un welfare community che sostituisca il welfare state.
Il Communitarian Network, fondato da Amitai Etzioni nel 1993, è il movimento più importante (Pesenti, 2002). Il movimento nasce da una forte preoccupazione sul futuro delle società contemporanee ed è fondato sulla rivitalizzazione delle comunità, sulla costruzione di valori comuni, di una cultura della coesione sociale.
Il perno di questo progetto di riforma sono gli agenti della socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei pari, lavoro, mass media) che orientano il comportamento individuale e collettivo e l’urgenza di un potenziamento delle loro capacità integrative:
- l’esigenza che la famiglia svolga la sua funzione educativa,
- che la scuola non si limiti a curare lo sviluppo cognitivo dei giovani senza alcuna attenzione ad aspetti morali;
- che la comunità si responsabilizzi rispetto ai problemi che sorgono nel suo ambito, sia realmente un punto d’incontro, di comunicazione, di sostegno reciproco tra le persone,
- sia responsive ‘capace di comprendere e dare risposta alle esigenze reali di tutti i membri della comunità.
- promuova il senso di responsabilità degli individui e delle collettività, un nuovo equilibrio tra diritti e doveri.
Il crescente individualismo sembrava delineare forme di vita non più socialmente ed ecologicamente percorribili (Etzioni, 1993; 1998).
Il neo comunitarismo costituiva una critica severa alla libertà del mercato, raccomandava una qualche prudenza nella libertà individuale e nelle scelte di vita, auspicava un ruolo più limitato dello stato e la necessità di un richiamo ad alcuni valori della tradizione.

Il richiamo alla comunità nella società individualizzata
In molte nazioni il pensiero comunitario ha costituito una delle radici culturali della Terza via: ha avuto capacità di mobilitazione nel primo decennio del nuovo millennio, ma negli anni successivi ha perso la capacità di affrontare le criticità che emergevano.
Dopo i primi anni di crescita, il pensiero comunitario non è emerso come sfida culturale credibile ai due principali sviluppi del liberalismo classico (espressione dominante dell’ideologia occidentale) analizzati da Fukuyama in un suo recente saggio (2022). L’idea centrale del liberalismo classico è la valorizzazione e la protezione della autonomia individuale, come libertà di parola, di associazione, di fede e di vita politica. Fukuyama, rileva che in questi ultimi due decenni il liberalismo ha avuto due sviluppi radicali:
- il neoliberismo nell’economia come libertà del mercato senza interferenze dello stato,
- il liberalismo come costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella scelta dello stile di vita e dei valori, che valorizza l’autonomia delle persone nella vita quotidiana (p. 17).

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Il neoliberismo nell’economia ha travolto il conservatorismo delle destre tradizionali, sollecitato il cambiamento, l’innovazione, la conquista di nuovi mercati, la competizione, la liberazione dai vincoli e dalle costrizioni che limitano l’iniziativa individuale.
Il liberalismo negli stili di vita ha costituito il naturale compimento dell’affermata libertà individuale anche nella vita privata, sul piano culturale, piuttosto che il conservatorismo delle tradizioni, come espressione di una emancipazione e di una liberazione che finalmente era possibile assicurare a tutti, come espressione della modernità avanzata che il capitalismo intendeva rappresentare.
Queste due sviluppi del liberalismo hanno costituito i riferimenti fondamentali dello Spirito del nuovo capitalismo (Boltanski e Chiapello, 2014), di un capitalismo altamente tecnologico che si riappropria delle istanze di cambiamento, di modernità degli stili di vita, di diritti di libertà individuali negli stili di vita.
In nuovo capitalismo che emerge nella modernità avanzata si rivolge verso le azioni che concorrono alla realizzazione del profitto. Allo stesso tempo, in armonia con i valori e le preoccupazioni di coloro che sono coinvolti nei processi di produzione, si appoggia su un impianto culturale giustificatorio adeguato ad una società individualizzata che valorizza il cambiamento, la realizzazione individuale, il rischio e la mobilità (Boltanski e Chiapello, 2014: 76-84).
Nei primi due decenni del nuovo millennio il neoliberismo nell’economia e il liberalismo come costante rivendicazione dell’autonomia individuale hanno assunto un ruolo cruciale nella trasformazione dell’economia e delle relazioni fra le persone, hanno inciso significativamente sui processi di individualizzazione e sugli agenti di socializzazione (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i mass media) che ne orientano l’evoluzione, radicalizzandone le dimensioni liberatorie rispetto alle regole, ai legami e alle tradizioni.
Queste due versioni del liberalismo hanno sostituito, solo parzialmente, e in parte marginalizzato, il conservatorismo dei movimenti tradizionali di destra, legato ai valori e ai principi morali del passato, alla continuità e il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che per circa tre decenni ha assicurato ad una parte considerevole della popolazione estesi sistemi di welfare e alti salari, stabilità e crescita.

La crisi dei processi di individualizzazione
Il mix di cambiamenti radicali del lavoro, delle condizioni economiche e delle relazioni nella vita privata creano instabilità e insicurezze insostenibili per molti gruppi sociali. Cresce la capacità di mobilitazione di movimenti che coinvolgono gruppi sociali travolti dall’apertura dei mercati, dalla globalizzazione e resi incerti e insicuri nella sfera di vita. In molte parti del mondo i movimenti populisti si rivolgono al popolo che lavora duramente contro l’establishment politico, economico culturale, scientifico (le “élite corrotte”), che ha creato insicurezza, impoverimento diffuso, disuguaglianze. Questi movimenti intendono valorizzare lo stato nazionale come risposta al mercato globalizzato, con un costante richiamo alla famiglia tradizionale, alla comunità tradizionale e a principi conservatori nelle relazioni private; alla politica come espressione della volontà della maggioranza del popolo (general will) e non come espressione di minoranze etniche o religiose.
Nei movimenti populisti il richiamo alle comunità perde i suoi significati innovativi. Si assume come riferimento la comunità tradizionali del passato, le relazioni tradizionali nella scuola, in famiglia, le gerarchie e le distinzioni di una volta. Ma per realizzare questo ritorno al passato non dovremmo soltanto cercare di sollecitare relazioni tradizionali di fiducia e rispetto, ma dovremmo ricostruire anche le istituzioni che rendevano possibile e funzionali queste relazioni umane: il lavoro di una volta, la famiglia tradizionale, la comunità come ambito di relazioni territoriali, l’assenza di tecnologie, le concezioni tradizionali del tempo e dello spazio. Certe disposizioni interiore alla collaborazione e alle relazioni amichevoli tipiche di una comunità tradizionale nascono in un contesto oggettivo ben definito, con molte difficoltà possono essere riproposte in contesti che hanno opportunità di relazione e difficoltà oggettive molto differenti.
Il richiamo alla comunità del passato rischia in molti casi di trasformarsi in un impegno attivo per una comunità chiusa di persone uguali, di minoranze etniche, religiose che non intendono confrontarsi e trovare punti di contatto con altre culture oppure in una autosegregazione delle persone con alti livelli di reddito, le cosiddette gated community, residenze separate vigilate e presidiate da operatori di polizia privata, con sistemi di recinzione e di controllo tecnologico sofisticati.

Una lunga transizione
Una rilettura degli scritti del movimento comunitario di Adriano Olivetti e una valutazione più attenta del neo comunitarismo possono esserci utili per promuovere un dibattito pubblico più articolato sulla relazione individuo-comunità:
- sul ruolo che svolgono le principali istituzioni (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro)
- sulla loro capacità di promuovere il senso di responsabilità degli individui e delle collettività;
- sui processi di socializzazione, cioè, sui processi di interazione, di sviluppo e di formazione della personalità umana;
- sull’equilibrio che intendiamo stabilire tra comunità, mercato e Stato
Ciò che sembra delinearsi è una lunga transizione tra la società industriale del secolo scorso, sostanzialmente stabile, prevedibile e lineare nel suo sviluppo e nelle sue frequenti conflittualità collettive e una modernità molto avanzata di cui ancora non riusciamo a cogliere e a definire a grandi linee il punto di arrivo, le istituzioni che possono rappresentarlo, i suoi riferimenti culturali, le forme di convivenza civile che possiamo condividere, i comportamenti che possiamo tollerare.
La normalità è sempre più estesa, comprende scelte e stili di vita che pochi anni fa la maggioranza delle persone marginalizzava; in fondo siamo disponibili a ritenere normale qualsiasi comportamento.
In una larga parte delle società occidentali contemporanee, non sappiamo più come governare l’autonomia e l’attivismo delle persone nella vita reale (Siza, 2022). Nelle relazioni virtuali queste difficoltà sono ancora più evidenti. Ciò che noi osserviamo nella nostra vita sociale:
- è la crescita di moltitudini di individui con deboli legami collettivi,
- attivi nel senso che con loro impegno radicale intendono cambiare e semplificare le regole della democrazia e della convivenza civile,
- riflessivi nel senso che valutano individualmente ogni sollecitazione, ogni richiesta delle istituzioni anche in ambiti che richiedono specifiche competenze (dal vaccino alle reazioni al riscaldamento globale) (Siza, 2022).
In società globalizzate, caratterizzate da rapide innovazioni tecnologiche, l’attivismo radicale delle persone che intendono promuovere un cambiamento profondo nell’ambito dei sistemi pubblici e nella vita ordinaria, crea una generale instabilità nella vita quotidiana e nella vita di ogni istituzione (la famiglia, la scuola, il sistema politico).
In molti contesti, i processi di individualizzazione sono diventati disfunzionali, tendono a produrre estesi conflitti sociali, nuove divisioni sociali nuove, chiare e distinte, nuove e competitive identità sociali in termini di valori e modelli comportamentali, nella vita pubblica e privata.
Dobbiamo chiederci, quali siano i valori interiorizzati nel nostro passato oppure presenti e attivi nel nostro vivere quotidiano che promuovono l’integrazione, una convivenza civile più amichevole; i valori che ci impediscono o limitano significativamente la discriminazione di alcuni gruppi sociali, le relazioni di sopraffazione.

L’emergere di individualità collaborative
Allo stesso tempo, però, emergono sistemi di valore, azioni individuali e collettive molto differenti dall’individualismo strumentale. In molti contesti i processi di individualizzazione contribuiscono alla creazione di individualità collaborative, creano individui che riconoscono il valore e l’autonomia degli altri; costruiscono nuovi rapporti di collaborazione e di innovazione; valorizzano la comunità in cui vivono e operano non come fonte di norme e controllo stabilizzati, ma come contesto relazionale in cui creare risposte collettive ai bisogni delle persone.
Il nostro impegno può essere indirizzato all’osservazione di contesti, di condizioni, di sistemi di valore che favoriscono questi processi di crescita delle persone; alle iniziative delle istituzioni, delle famiglie, delle comunità che creano disponibilità umane, gli atti concreti che creano individualità attive capaci non soltanto di inserirsi attivamente nel mercato del lavoro, ma anche di creare relazioni collaborative, iniziative collettive, costruire attivamente una convivenza civile più soddisfacente,
Forse dobbiamo incominciare a riflettere su una visione di una società differente, in qualche modo alternativa al neoliberismo e alla costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella vita quotidiana. Non un modello da generalizzare e neanche una normalità stringente e ben definita da assumere come riferimento in ogni contesto di vita.
È necessario, invece, incominciare ad immaginare una società che valorizzi le iniziative autonome che danno concretezza a principi come l’uguaglianza, la dignità delle persone, la giustizia sociale, l’inclusione e la sicurezza fondate comunque su principi e un tessuto di valori che progressivamente, con i tempi del cambiamento culturale, diventino largamente condivisi alle individualità e alle collettività capaci di curare le relazioni con le persone
Così come in questi ultimi decenni abbiamo fatto per le relazioni uomo-natura, i cambiamenti climatici, il degrado ambientale, abbiamo bisogno di riprendere il discorso pubblico sulla fragilità dei legami sociali, sulla crescente frammentazione sociale, sulla esigenza di costruire relazioni sociali caratterizzate da profondità emotiva, impegno morale e continuità nel tempo (Nisbet, 1977: 68), dimensioni di vita che sono alla base di rapporti amichevoli e di una comunità concreta. Il miglioramento delle nostre relazioni fra le persone può essere generato da un discorso pubblico ricorrente sulla insostenibile fragilità dei legami sociali, avviare una riflessione pubblica sulla nostra convivenza civile, per quali motivi il tessuto di relazioni che sta emergendo crea troppo frequentemente insicurezza e inquietudine.
Il pensiero di Adriano Olivetti, sulla comunità, sul lavoro, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, sul ruolo della famiglia e della scuola, del gruppo dei pari, ci sarà sicuramente molto utile in queste riflessioni.

Riferimenti bibliografici
Hillery, G. (1955) Definitions of Community: Areas of Agreement. Rural Sociology, 20, pp. 111-123.
Bagnasco, A. (1999) Tracce di comunità, Bologna: il Mulino.
Beck U. (1992) La società del rischio, Roma: Carocci.
Beck U. and Beck-Gernsheim E. (2001) Individualisation, London: Sage.
Collins, P.H. (2010) The New Politics of Community, American Sociological Review, 1(75), pp. 7-30.
Etzioni, A. (1993) The Spirit of Community: Rights, Responsibilities and the Communitarian Agenda, New York: Crown Publishers.
Etzioni, A. (a cura di) (1998) Nuovi Comunitari, Castelvecchio (Bologna): Arianna Editrice.
Fukuyama, F. (2023) Liberalism and Its Discontents, London: Profile Book.
Nisbet, R.A. (1977) La tradizione sociologica, Firenze: la Nuova Italia.
Olivetti, A. (2001) Città dell’uomo, Torino: Edizioni di Comunità, Torino
Olivetti, A. (20013) Il cammino della Comunità, Torino: Edizioni di Comunità.
Pesenti, L. (2002) Comunitarismo-Comunitarismi: una tipologia essenziale, in I. Colozzi (a cura di) Varianti di comunitarismo, in Sociologia e Politiche Sociali, 2(5), pp. 9-38
Siza, R. (2022) The Welfare of the Middle Class. Changing Relations in European Welfare States, Bristol: Policy Press.
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