Monthly Archives: gennaio 2023
27 gennaio Giorno della Memoria. Memoria e Impegno
27 gennaio
di Mariano Borgognoni*
Il 27 gennaio, quando gran parte dei nostri abbonati staranno per ricevere Rocca, io e mia sorella avremo ricevuto la Medaglia d’onore conferita dal Presidente della Repubblica, alla memoria di mio padre come internato militare italiano in un lager nazista vicino Vienna.
Mio padre fu chiamato alle armi il primo febbraio 1940 e fu rimpatriato il 20 agosto 1945. Come scritto nel suo foglio matricolare con asciutto linguaggio militare: anni 5, mesi 6, giorni 19, di cui anni 2 e giorni 7 di prigionia. Cinquant’anni dopo tornammo a Kassos, nella piccola isoletta del Dodecaneso, nella quale, venendo dal natio borgo selvaggio sorvegliato a distanza dai monti dell’Appennino, vide per la prima volta il mare e, con i suoi commilitoni, conobbe un piccolo popolo di pescatori, di pastori, di contadini e piccoli artigiani che, come loro amava la musica, il canto, il ballo: la stessa stoffa umana. L’imbecillità nazionalista aveva ribattezzato quell’isola Caso, e gli era andata pur bene! L’isola vicina Karpatos era violentata in Scarpanto. Quella gente pregava nelle piccole chiesette bianche e azzurre in lingua greca, quella in cui è stato scritto l’intero Nuovo Testamento e una parte dell’Antico. In quella lingua fu scritto e soprattutto pensato il Credo e forse lo stesso Gesù che parlava usualmente in aramaico o in ebraico nei riti cari al suo popolo, qualche volta avrà potuto recitare la preghiera che ci ha insegnato nella koinè greca. Ma se di questo non vi può essere alcuna certezza è del tutto sicuro che i «suoi» annunciarono in questa lingua comune la buona notizia (anche a Roma nei primi secoli dell’era volgare). Se qualcuno considera quasi sacro il pur meraviglioso latino dovrebbe considerare il greco sacro del tutto! Liturgia è un termine di derivazione greca come una parte importante della nostra lingua, anche se spesso non ce ne accorgiamo. Dalle mie parti, ma forse anche dalle vostre, si narra che una signora in visita turistica ad Atene raccontasse al ritorno che era stata in Chiesa per la Messa ma che non aveva capito un accidenti, solo due parole in latino: kirie eleison!
In quei pochi giorni a Kassos incontrammo Stavrullis, l’amico calzolaio di mio padre e la moglie di Karalampos l’amico pescatore morto qualche anno prima. Ma la cosa più sorprendente fu l’incontro iniziale al «Kikkis Restaurant» proprio sul porto. Scoprimmo parlando che si trattava del figlio di Giuseppe Chicchi un abruzzese, commilitone di mio padre che aveva sposato un’isolana ed era tornato a vivere lì.
Tuttavia anche in quella bella occasione di un insperato ritorno, mio padre censurò quel giorno, il 13 Settembre del 1943, ormai ricostruito per tabulas, quando i nostri soldati furono fatti prigionieri dai tedeschi e posti di fronte ad un bivio terribile.
Anche lui è stato tra quel novanta per cento di militari italiani che di fronte alla scelta tra aderire alla Repubblica Sociale e combattere a fianco dei «camerati» tedeschi o essere internati senza alcuna tutela e schiavi da lavoro nei lager germanici hanno fatto la scelta giusta.
Un’obiezione di coscienza al fascismo che aveva portato il Paese alla guerra e alla miseria e un rifiuto di combattere sotto il giogo hitleriano.
A proposito della ferma decisione di questi 650.000 soldati, uno di loro, Alessandro Natta (colui che succederà ad Enrico Berlinguer, come Segretario del P.c.i.), nel 1954, scrisse un libro dal titolo «L’altra Resistenza». La casa editrice vicina al partito, gli Editori Riuniti, decise di non pubblicarlo. Come a dire: la Resistenza è solo quella fatta dalle formazioni partigiane. Ed è del tutto comprensibile che coloro che scelsero la via della lotta anche armata contro il nazifascismo furono la parte che più contribuì alla Liberazione dell’Italia, alla difesa del suo onore tra le nazioni, alla fondazione della Repubblica e all’approvazione della Costituzione. Tuttavia «l’altra Resistenza», quella di coloro che tornarono a casa pelle e ossa, stremati dal lavoro forzato, dalla fame e dalle vessazioni subite, ebbe una sua parte nel contrasto al nazismo e al fascismo e poi nella ricostruzione morale, civile, economica e democratica dell’Italia. Quando alla conferenza di pace a Parigi, il 10 agosto del ’46, Alcide De Gasperi usò quella straordinaria frase verso i suoi colleghi delle potenze vincitrici: «tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me», forse aveva presente che ci fu una parte del nostro Paese che in ogni caso autorizzava a tenere alta la fronte e rendeva possibile quella cortesia.
È giusto quindi che anche gli internati militari italiani nei campi di lavoro nazisti vengano ricordati, in questo giorno della memoria che certo allude ad altre situazioni di più radicale orrore. A cominciare da quanti hanno vissuto l’immane abominio della «soluzione finale», ai milioni di ebrei: bambini, donne, anziani, persone di ogni età ed estrazione sociale massacrati o gasati nei campi di sterminio. Una memoria che dovrebbe spingerci a costruire un cammino antropologico e politico di tabuizzazione della guerra, tanto più quando essa finisce per colpire soprattutto la popolazione civile. Uno sforzo lungo che merita la nostra energia e la nostra perseveranza.
PS
Abbiamo voluto dedicare la copertina di questo numero a Biagio Conte, l’operatore di pace e di solidarietà palermitano morto in questi giorni, nella città dove, quasi contemporaneamente, si è manifestata la dimensione estrema del bene e del male. Per lui, come per Francesco d’Assisi da cui ha tratto ispirazione, si può parlare di una rottura epistemologica, di una spoliazione, di un cambiamento del punto di osservazione del mondo. Nell’abbraccio ai lebbrosi d’oggi Biagio ha sentito, come Francesco allora, una dolcezza d’animo e di corpo. Non è facile declinare la radicalità di questa scelta in termini politici. Anche la miglior politica deve costruire nuovi diritti sociali e civili mettendo in campo la forza di soggetti ben organizzati. Qui si va oltre, ci si fa carico dell’ultimo, del periferico, del senza forza, del malato, dello sventurato. È un punto-limite in cui la profezia sfida e indica un orizzonte a qualsiasi politica. Non è solo la logica del Vangelo ma soprattutto il suo paradosso. Mi viene in mente, proprio nel centenario della sua nascita, la lettera di don Lorenzo Milani al suo giovane amico comunista Pipetta: «Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò la con te. Io tornerò nella tua casetta piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso».
* Editoriale ROCCA 1 FEBBRAIO 2023
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Porsi Domande su di Dio.
di Giancarlo Morgante
Edith Bruck lo apprese dalla Madre, cremata nei forni di Auschwitz. Il pane preparato per la povera famiglia e mai cotto per l’irrompere all’alba dei nazisti. Questa fu l’inizio della via crucis di Edith.
Lettera a Dio, parte finale del libro “Il pane perduto”. Il libro narra i sentimenti (senza odio alcuno) e l’esperienza di una ragazza ebrea sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.
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Oggi mercoledì 25 gennaio 2023
Eventi,Opinioni,Commenti e Riflessioni——————–——————
La terza guerra mondiale sta iniziando?
25 Gennaio 2023
A.P. su Democraziaoggi.
Biden improvvisamente ha rotto gli indugi e ha deciso di dare i carri armati Abrams all’Ucraina; cosi’ ha sbloccato l’invio dei carri tedeschi Leopard. Più semplicemente autorizza i paesi che li hanno di girarli a Zelesky. Di pace e di trattativa non parla nessuno degli occidentali. Chi manda carri, inglesi compresi, pensa alla guerra non alla […]
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AUTONOMIA DIFFERENZIATA, fra vecchi nodi che vengono al pettine e furbizie secessioniste
25 Gennaio 2023
Carlo Di Marco Leone su Democraziaoggi.
Ho più volte sostenuto che il fascismo al potere non ci arriva mai da solo perché c’è sempre qualcuno che gli spiana la strada. Anche nel caso della cosiddetta “autonomia differenziata” quel qualcuno lo ha fatto. Due “apripista” un po’ diversi, ma che attualmente coincidono: è un Governo fascista che eredita […]
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Oggi martedì 24 gennaio 2023
Eventi,Opinioni,Commenti e Riflessioni——————–——————
Oggi assemblea-dibattito contro l’autonomia differenziata per la difesa dell’unità e dell’autogoverno
24 Gennaio 2023
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
No all’autonomia differenziata
federalismo delle regioni e l’idea dell’autogoverno in Sardegna
Assemblea pubblica, indetta dalla Scuola di cultura politica F. Cocco, ore 17 Sala Fondazione Sardegna via S. Salvatore d’Horta n. 2 Cagliari
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Che succede?
Autonomia differenziata, fermate quel treno
20-01-2023 – di: Domenico Gallo
Secondo l’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri ha «definito il percorso tecnico e politico per arrivare, in una delle prossime sedute del consiglio dei ministri, all’approvazione preliminare del disegno di legge sull’autonomia differenziata». In questo modo è stato messo sui binari il treno che porterà all’approvazione dell’insano progetto dell’autonomia differenziata sulla base della proposta di “legge di attuazione” dell’art. 116, 3 comma Costituzione presentata dal ministro Calderoli. Grazie all’attivismo del ministro leghista, il dibattito sull’autonomia differenziata è uscito fuori dalla clandestinità ed è diventato di pubblico dominio. Per questo è importante chiarire all’opinione pubblica in cosa consista l’autonomia differenziata e quali sono i pericoli che si prospettano.
La possibilità di concedere alle Regioni non a statuto speciale «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», la cosiddetta “autonomia differenziata” trova origine nella riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001. La riforma ampliò notevolmente l’autonomia legislativa delle Regioni. L’art. 117 definì (nel secondo comma) gli ambiti riservati alla legislazione esclusiva dello Stato e assegnò (nel terzo comma) alle Regioni la competenza concorrente in 23 materie, precisando che «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato». Gli effetti di questa riforma hanno determinato un contenzioso, che ha tenuta impegnata la Corte Costituzionale per oltre un ventennio, per tracciare i confini esatti fra la competenza delle Regioni e quella dello Stato per ciascuna materia. E tuttavia nella riforma c’è un criterio che rende modificabile il confine per le Regioni che siano interessate ad acquisire maggiori forme di autonomia, cioè più potere. L’art. 116, terzo comma, infatti, recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate nel secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n ed s, possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». È bene precisare che si tratta di una mera facoltà e non di un obbligo costituzionale, che non può essere avulsa dalla tela dei rapporti fra organi costituzionali e diritti dei cittadini come delineati nel testo costituzionale. Se le Regioni ottenessero la competenza piena in tutte le materie di competenza concorrente e nelle materie di competenza esclusiva dello Stato (norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), verrebbe surrettiziamente ribaltata la norma che ha tracciato i confini fra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni, senza ricorrere al procedimento di revisione della Costituzione, di cui all’art. 138. Verrebbe pregiudicata anche l’eguaglianza dei cittadini, in aperto contrasto col principio fondamentale di cui all’art. 3. Per non parlare dell’istruzione dove la possibilità di attribuire alle Regioni la competenza sulle norme generali si scontra con la disposizione di cui all’art. 33, che statuisce: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione».
2.
Le disposizioni di cui al terzo comma di cui all’art. 116, sono compatibili con l’impianto costituzionale solo ove se ne dia un’interpretazione restrittiva. Vi sono materie che non possono essere parcellizzate per esigenze specifiche di un territorio: scuola, autostrade, ferrovie, salute, tutela e sicurezza del lavoro, grandi reti di produzione e trasporto dell’energia, chiamano in causa un indivisibile interesse nazionale. Invece, le richieste delle Regioni capofila – Veneto, Lombardia e, in misura ridotta, Emilia Romagna – hanno di mira tutte e 23 le materie di competenza concorrente e persino le due o tre materie che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato. In altre parole si è aperto un processo politico che mira ad utilizzare il “baco” inserito nell’art. 116 della Costituzione come una breccia per squarciare l’intero impianto costituzionale e ribaltare il principio fondamentale dell’unità della Repubblica, trasformando l’Italia in una serie di repubblichette semi-indipendenti. Non a caso la legge Calderoli è stata denominata “lo spacca Italia”. Si tratta di un progetto “sovversivo” dal punto di vista della legalità costituzionale e particolarmente insidioso per le sue modalità procedurali. Infatti l’autonomia differenziata, una volta concessa, sarà potenzialmente irreversibile. Questo perché il processo di determinazione dell’autonomia differenziata si fonda sulle intese stipulate fra il Governo e la Regione richiedente e, raggiunta l’intesa, il Parlamento non può modificarla, ma solo approvarla in blocco o rigettarla. Una volta deliberata, inoltre, la legge che approva le intese non può essere sottoposta a referendum abrogativo. Né l’intesa potrebbe essere modificata con una nuova legge perché occorrerebbe il consenso della Regione interessata, senza il quale l’intesa raggiunta è destinata a durare in eterno.
L’art. 117 della Costituzione, inoltre, precisa che spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Sono passati oltre venti anni e questa funzione non è stata mai esercitata per ragioni oggettive, visto che in Italia ci sono forti differenziazioni nella erogazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, per cui trovare un punto di equilibrio accettabile per tutti imporrebbe di mobilitare ingenti risorse che, in tempi di austerità, sarebbe stato difficile trovare. Ora, l’esigenza di procedere alla determinazione dei LEP è stata considerata un presupposto necessario per poter attribuire alle Regioni le risorse necessarie per l’esercizio delle nuove competenze trasferite dallo Stato. Per risolvere questo problema, che si trascina da vent’anni, il Ministro Calderoli ha innestato il turbo, facendo inserire nella legge di bilancio una decina di commi con i quali si prevede una procedura accelerata che, entro il dicembre del 2023, dovrebbe portare alla determinazione dei LEP, che avverrà con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). Come si è visto, la Costituzione prevede che devono essere le assemblee elettive, con legge, a determinare quali prestazioni e quali livelli essenziali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Nel disegno Calderoli, inserito nella legge di bilancio, invece, è il Governo che stabilisce i diritti che devono essere garantiti ai cittadini e il loro ambito di applicazione. Quello che è ancora più assurdo è che si pretende di fare questa operazione a costo zero. Il risultato sarà che l’asticella dei diritti civili e sociali sarà necessariamente determinata a un livello piuttosto basso. In questo modo verranno cristallizzate le disuguaglianze che affliggono il nostro paese, soprattutto a svantaggio del Meridione e delle Isole. Questo perché lo stesso disegno di legge Calderoli, nella norma relativa al trasferimento delle funzioni e delle risorse (art. 4), stabilisce che «le risorse necessarie per le funzioni relative a ciascuna materia o ambito di materia sono determinate in base al criterio della spesa destinata a carattere permanente (cioè la spesa storica) sostenuta dallo Stato nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti». Secondo gli ultimi dati, la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19.000 euro in Lombardia, viaggia sui 16.000 in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14.000 in Sicilia, in Calabria a 15.000, in Campania a 13.700 euro. La determinazione dei LEP a costo zero non inciderà su questa situazione di disuguaglianza, ma la consoliderà. Pertanto il finanziamento della maggiore autonomia prefigura un drenaggio di risorse a favore delle regioni economicamente più forti. In sintesi, la proposta di legge di attuazione presentata da Calderoli apre la via, da un lato, alla frammentazione del paese in repubblichette semi-indipendenti e, dall’altro, a un sicuro aumento delle diseguaglianze e dei divari territoriali, tra cui in specie quello strutturale Nord-Sud.
Se il processo di spostamento della competenza legislativa dallo Stato alle Regioni venisse portato a compimento, per tutto ciò che riguarda le scelte fondamentali inerenti il sistema produttivo e la vita civile nel nostro paese, come l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni, le reti dell’energia, le condizioni di lavoro e dei lavoratori, l’ecologia, l’ambiente, la sanità, al posto di una disciplina legislativa ne dovremmo avere venti, ognuna con efficacia territoriale limitata. Al posto del contratto collettivo di lavoro, torneremo alle gabbie salariali. Di fronte a una nuova pandemia, avremo l’impossibilità di determinare delle regole di profilassi comuni. Non sarà possibile programmare una politica energetica per la transizione ecologica e la decarbonizzazione dell’economia. Venti mini Stati regionali faranno decollare la spesa pubblica legata al costo degli apparati amministrativi. Si tratta di una scelta insensata, inefficiente, costosa e caotica.
3.
L’insieme delle considerazioni fin qui svolte ha indotto il Coordinamento per la democrazia costituzionale a presentare una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, sostenuta da circa 120 costituzionalisti, docenti universitari di varie discipline, studiosi, sindacalisti, esponenti della società civile, recante una modifica degli art. 116, comma 3, e 117.
La scelta di una legge di iniziativa popolare trova la sua ragione in una recente (2017) modifica del regolamento del Senato (art. 74) che assicura si giunga al dibattito in aula. Un riscontro si è avuto da ultimo con la legge costituzionale n. 2 del 7 novembre 2022, che ha introdotto nell’art. 119 il riconoscimento dell’insularità, iniziando il suo percorso in Senato come legge di iniziativa popolare sostenuta da 200.000 firme raccolte in Sicilia e Sardegna. Dunque, è oggi possibile creare un contesto in cui le forze politiche siano chiamate a prendere chiara e pubblica posizione sull’autonomia differenziata nella sede appropriata, dove un confronto sul tema non c’è finora mai stato, pur essendo il tema dal 2018 una priorità nell’agenda di tutti i governi. E sarebbe battuto il tentativo del ministro Calderoli di ulteriormente emarginare il Parlamento.
Nel merito, la proposta punta a correggere i punti deboli prima evidenziati nell’impianto degli articoli 116, comma 3, e 117, togliendo così il fondamento normativo alle scelte perseguite dal ministro Calderoli. Quanto all’art. 116, comma 3, viene cancellata la natura pattizia, causa della potenziale irreversibilità dell’autonomia una volta concessa, recuperando una opportuna flessibilità. Viene altresì sottolineata la connessione a specificità proprie del territorio, per evitare la bulimia di competenze che nulla hanno a che fare con la regione richiedente, e viene introdotta la possibilità di referendum nazionali sia approvativi nel momento della concessione dell’autonomia che successivamente abrogativi. Nell’art. 117 vengono spostate dalla potestà legislativa concorrente a quella statale esclusiva le materie strategiche per il sistema-paese, l’unità e l’eguaglianza nei diritti, dalla scuola e università alla tutela della salute e al Servizio sanitario nazionale, al coordinamento della finanza pubblica, al lavoro, alla previdenza, alle professioni, all’energia, alle grandi reti di trasporto e navigazione, ai porti e aeroporti di rilievo nazionale e interregionale. Inoltre, i livelli “essenziali” delle prestazioni vengono ridefiniti come livelli “uniformi”. Infine, si introduce una clausola di supremazia riferita all’unità giuridica ed economica della Repubblica e all’interesse nazionale.
Il treno dell’autonomia differenziata lanciato da Calderoli ormai è partito ma può essere ancora fermato. Bisogna far conoscere a cittadini/e cosa c’è in fondo a questo processo: se lo conosci, lo eviti. La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare può essere firmata con lo SPID sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.
Oggi domenica 22 gennaio 2023
Eventi,Opinioni,Commenti e Riflessioni——————–——————
Carbonia. Il 1949 è l’anno dei processi contro gli operai di Carbonia. Per i disordini del gennaio 1947, in carcere da un anno e mezzo Andrea Giardina, Segretario della Camera del Lavoro, il senatore Terracini fra i difensori
22 Gennaio 2023
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Come sempre, di domenica, un tassello della storia di Carbonia, dal 1° settembre 2019.
“Sabato, nella Piazza Rossa di Carbonia, Velio Spano fissa i termini della lotta per la produzione e per il rafforzamento del Sindacato”, titola L’Unità del 4 gennaio, e ancora non arrivano le “paghe secondo gli accordi del 17 dicembre 1948”, che […]
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Lunedì a Cagliari: Eva e Petra
“Eva e Petra”, l’ultimo libro di Gianni Loy sarà presentato lunedì 23 gennaio, alle ore 17,30, nella sala della Fondazione di Sardegna, in Via S. Salvatore da Horta.
All’evento, coordinato da Vito Biolchini, parteciperanno Dulio Caocci, Samuele Piddiu, Tiziano Treu e Francesco del Casino. Cristina Maccioni e Mellena Mesina leggeranno alcuni brani ed Antonello Giuntini curerà l’accompagnamento musicale.
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Oggi sabato 21 gennaio 2023
Eventi,Opinioni,Commenti e Riflessioni——————–——————
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Crosetto indica la Sardegna come bersaglio mentre si profila l’estensione della guerra
21 Gennaio 2023
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
In una intervista a La Nuova Sardegna il ministro Guido Crosetto ha detto con chiarezza che la Sardegna è un territorio chiave “per il sistema di difesa dell’Italia”, e quindi del fronte occidentale. Questa dell’esponente del cartello dei produttori di armi è una dichiarazione grave perché indica la Sardegna come obiettivo militare principale […]
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Che succede?
Cosa pensare cosa fare di fronte alle migrazioni dai Paesi africani?
13 Gennaio 2023 by Giampiero Forcesi | su C3dem
Siamo scandalizzati quando Giorgia Meloni parla di “blocco navale” (ora, sembra, non più), o quando il ministro Piantedosi rende dura la vita alle Ong. Ma cosa pensiamo veramente che si debba e possa fare? Porre un argine alle migrazioni, accompagnato da una impegno complessivo di tutta la comunità nazionale per aprirci a un’accoglienza seria e di reciproco vantaggio e ad una cooperazione stabile, senza interventi predatori o complici di classi dirigenti locali corrotte, è un obiettivo ineludibile. (Nella foto una pietra ricorda il massacro di 1.500 cristiani copti compiuto dall’esercito italiano nel maggio 1937 in Etiopia)
Critichiamo i decreti sicurezza, quelli di Minniti prima, poi di Salvini, oggi di Piantedosi, ed è giusto. Questo ultimo, con la sua dichiarata ostilità alle Ong che operano i salvataggi in mare, appare davvero irricevibile. Però stentiamo ad assumere un punto di vista complessivo su questo grande e drammatico problema.
Mi sembra che, mano mano che passa il tempo, ci si accorge che una risposta che sia in qualche misura adeguata, o comunque ragionata e responsabile, è davvero difficile. Di qui parto per qualche considerazione personale.
Sappiamo che ciò che spinge tante persone, dall’Africa sub-sahariana, come dal Nord Africa e dal Medio Oriente, è un insieme enorme di problemi. Da un lato, in alcuni casi, conflitti armati gravi oppure oppressione insostenibile da parte di governi dittatoriali (un esempio l’Eritrea); dall’altro lato, la perdurante povertà, lo sconvolgimento di intere regioni provocato dai cambiamenti climatici, la mancanza di speranza di una vita migliore in Paesi che sembrano condannati ad avere classi dirigenti per lo più incapaci o corrotte (talvolta anche per colpa di imprese multinazionali se non anche di governi occidentali).
Questa distinzione . certo spesso difficile a farsi – tra profughi e cosiddetti migranti economici penso che non possa essere elusa. Innanzitutto perché ci mette di fronte a un preciso dovere, quello di dare asilo ai profughi, secondo le sacrosante norme del diritto internazionale. Su questo punto si dovrebbe essere assai più chiari, a livello di consapevolezza, di normative ad hoc e di organizzazione per un’accoglienza intelligente e davvero solidale. L’asilo politico è una cosa seria e va fatta con altrettanta serietà
Per quanto riguarda coloro che chiamiamo “migranti economici” la questione è diversa. Non solo non ci sono obblighi di diritto internazionale all’accoglienza, ma c’è un gigantesco problema di numeri. Quanti? Quanti sono? Quanti potranno essere? E c’è un altrettanto grande problema di tenuta sociale da parte delle comunità civili europee, e quella italiana già in affanno, chiamate ad affrontare le difficoltà dell’accoglienza, dell’integrazione, della convivenza (certo non ci sono solo le difficoltà, ci sono anche esperienze e prospettive di arricchimento umano, e non solo…).
Dicevo che, a fronte dei migranti economici, non ci sono norme di diritto internazionale (ci sono però certo quelle che impongono di salvarli in mare!). E però ci rendiamo conto che il desiderio di dare una chance alla propria vita e a quella dei propri figli è forte, è umanissimo, e non può essere ignorato. A questo desiderio corrisponde un’istanza fondamentale di libertà: gli uomini sono liberi di cercare una vita diversa e migliore, di tentare di farlo; e i confini tra le nazioni non debbono essere muri invalicabili.
Questo desiderio e questa libertà spingono molti – generalmente non i più poveri, ma quelli con qualche minima risorsa – a tentare ogni strada possibile. E qui veniamo alla questione dei cosiddetti trafficanti e degli scafisti. Una questione scabrosa. Mi stupisco che non si rifletta sul fatto che, certamente, queste persone che fanno traffici per consentire ai migranti di attraversa migliaia di chilometri e poi il mare per giungere in Europa sono per lo più gente immorale, che sfrutta, che a volte tortura, gente talvolta disumana, ma sono anche l’unico e indispensabile mezzo che hanno i migranti per fare il loro viaggio. Sono, diciamo le cose come stanno, necessari per chi vuole affrontare un’impresa così difficile. Impresa che non si potrebbe certo tentare di fare ricorrendo alle norme in vigore (passaporti, visti d’ingresso, biglietti aerei etc.). Avere, quindi, come obiettivo politico la lotta ai trafficanti e agli scafisti significa poco, e ha la sua parte di ipocrisia.
Io credo che, in ogni caso, qualsiasi misura si riuscirà a prendere per affrontare, in modo che sia almeno serio e coraggioso, il problema, questo tentativo illegale di migrare proseguirà nel tempo. E, per quanti scappano per salvare la vita, è una “fortuna” che possano trovare un trafficante che consenta loro di mettersi in salvo. Però, la responsabilità nostra di provare ad affrontare il problema in modo, appunto, serio resta.
Mi sono sempre venuti i brividi quando sento parlare certi esponenti della destra di come affrontare questo problema. Fino all’altro giorno si sentiva parlare di blocchi navali. Ma a sinistra, mi sembra, si dice poco. E anche in Europa si dice poco di convincente. La parola “blocco” è dura, semplifica; e poi, fatto in mare dalle navi, il blocco è impresa è impensabile e rovinosa. Ma, se andiamo al cuore del problema, l’idea che si debba porre un argine a questa migrazione disperata è valida. Ma è un argine che va costruito con infinita cura e pazienza nei luoghi più vicini ai Paesi di migrazione, e soprattutto nella consapevolezza delle popolazioni locali e delle loro istituzioni. Va posto con una presenza – costosa, impegnativa – di uomini e mezzi, non solo in funzione di polizia e di repressione, ma soprattutto di dialogo, di informazione e anche di capacità di portare sollievo nei casi personali più delicati.
Questo argine deve andare insieme, strettamente e contestualmente, a una presa di coscienza, nel nostro Paese, nella nostra società, nell’opinione pubblica, del fatto che abbiamo sia il bisogno sia la possibilità di accogliere e integrare ogni anno decine di migliaia di migranti stranieri nella nostra comunità. Bisogno, perché sappiamo bene quanti lavori cosiddetti umili non trovino più i nostri cittadini disponibili a svolgerli; bisogno, perché abbiamo una bassa natalità e stanno venendo a mancare le nuove leve di lavoratori, in tutti i campi, necessari tra l’altro per portare in equilibrio il sistema pensionistico. E, per questa accoglienza, abbiamo le possibilità. Siamo un Paese sufficientemente ricco e benestante, con comunità territoriali in grado di far posto ai nuovi venuti. Vi sono molteplici esperienze positive in questo senso. Certo, vi sono anche quelle negative. Ma per questo parlo di una “presa di coscienza” collettiva, necessaria per affrontare con serietà questo grande problema, questa realtà non eludibile. Certo, ci vuole una classe politica più coraggiosa, che promuova questa presa di coscienza, che ne faccia un suo obiettivo imprescindibile.
Il modo per consentire che migliaia di migranti, provenienti dai paesi africani, possano venire in Italia è quello dell’incremento dei numeri di accessi legali. Una misura, questa, che va studiata insieme al mondo produttivo, alle istituzioni locali e al terzo settore, e che va accompagnata da concrete iniziative che consentano inserimenti dignitosi nei vari territori, tempi e luoghi di formazione e di prima integrazione.
Infine, l’argine di cui ho detto, e che a mio avviso va posto, ha un altro grande fondamento, altrettanto indispensabile: quello della costruzione di una nuova stagione delle politiche di cooperazione e di dialogo con i Paesi africani e del Vicino Oriente. Ora Giorgia Meloni parla di “piano Mattei”, nel senso di una cooperazione industriale paritaria e non vessatoria. Posizione sensata, che tocca un aspetto importante. Ma la questione è più complessa. Cooperare con buona parte dei Paesi dell’Africa, sia a nord che a sud del Sahara, è estremamente difficile perché le loro classi dirigenti sono scarsamente affidabili. Certo non si può aggirarle andando a stabilire rapporti diretti con le comunità locali (è difficile anche per le Ong di cooperazione allo sviluppo); ma si possono stabilire dialoghi con le classi dirigenti locali (franchi e senza sconti), porre condizioni, offrire stimoli e opportunità di formazione ai vari livelli.
E bisogna molto investire in questa direzione, con la consapevolezza che molto del nostro futuro avrà a che vedere con questa capacità di porsi con coraggio e intelligenza in dialogo con il mondo a sud del Mediterraneo, e che saperlo fare darà all’Italia un ruolo di rilievo nell’Unione europea. E ci farà crescere in umanità. Ci farà anche perdonare, almeno un po’, quella stagione imperialistica che ci ha portati, a fine ‘800 e nella prima metà del ‘900, a compiere misfatti e crimini in tante parti del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) e in Libia. Certo, non abbiamo compiuto solo crimini; abbiamo anche fatto alcune cose buone (che sono state ricordate a lungo dalle popolazioni locali); ma poi, una volta venuti via, ci siamo per lo più dimenticati di quella storia, di quei legami, di quelle responsabilità, ed oggi assistiamo a, anche proprio in quei Paesi, a un totale disfacimento politico e civile, e a continue tragedie. Dovremmo tornare, in modo nuovo, sui nostri passi.
Giampiero Forcesi
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Gli italiani e lo Stato: un rapporto da decifrare meglio
15 Gennaio 2023 by c3dem_admin | su C3dem
Non è così vero che gli italiani siano sempre più sfiduciati nei confronti della cosa pubblica e delle sue istituzioni. Un recente rapporto di ricerca mostra dati ancora certamente preoccupanti, ma anche segnali significativi di una certa risalita rispetto agli anni scorsi. Servirebbe un dibattito meno catastrofista da parte di mass media e opinione pubblica per cogliere questi esili segnali positivi e impegnarsi a rafforzarli. Il Paese ha un grande bisogno di recuperare fiducia e generare speranze attive
Sulla base di quali informazioni possiamo provare a comprendere la situazione del comune sentire dei cittadini del nostro Paese, per coglierne lo spirito, le idee, gli orizzonti, le visioni e per poter poi valutare, almeno per accenni, cosa fare per una politica lungimirante? Detto che è comunque (oggi più che mai) un’operazione complicata, proviamo a farlo a partire da alcune ricerche e sondaggi (fatti con criterio) che possano dare utili coordinate. Di sicuro il XXV Rapporto su “Gli italiani e lo Stato”, pubblicato a dicembre 2022 e curato della società di ricerche Demos&Pi (http://www.demos.it/), del sociologo Ilvo Diamanti, è fra questi. Anche se, è bene precisare, le letture che ne sono seguite nei giorni a ridosso dell’uscita, non sempre hanno colto bene alcuni aspetti.
Intanto emerge il dato al momento forse più “politicamente” rilevante, e abbondantemente rimarcato da alcuni articoli: una larga maggioranza dei cittadini (62%) afferma che il Paese dovrebbe essere guidato da un “leader forte”. E inoltre più dei due terzi dei cittadini esprimono apertamente il proprio favore verso l’elezione diretta del Presidente (69%). Segno, questo, che si viene così palesemente a confermare la sfiducia verso le tradizionali forme del nostro sistema politico che abbiamo condiviso dalla Costituzione in poi? Non direi. Vediamo altri dati.
Vediamone prima due di carattere più generale, ma che mi sembrano significativi e che sono stati un po’ trascurati dalle veloci esigenze della cronaca.
La fiducia? Non è cosa rara…
Partiamo da una non secondaria “soddisfazione per la democrazia”. Dopo il crollo che ha visto passare dal 42% di soddisfatti del marzo 2008, a un misero 28 del marzo 2013, vi è stata una costante risalita fino ad un sorprendete 53 del novembre 2022. Poco? Forse, ma è comunque un trend che sembra contraddire il pensiero diffuso della “crisi drammatica” della democrazia. Certo, sono questi anche gli effetti delle cattive “prestazioni” delle cosiddette autocrature di alcuni Paesi ben noti, ma di fronte a questo dato (soprattutto perché frutto di un percorso in crescita) occorre riflettere, invece della sterile lamentela, per consolidarlo e farlo crescere.
Secondo elemento, in un certo senso collegato al primo: il tema della cosiddetta “tecnocrazia” (che richiama il tema del merito). Alla domanda se un governo di tecnici sia da preferire a quello di politici (convinzione che per lo più porta a delegittimare partiti e istituzioni, ritenuti incapaci di fare scelte giuste perché affidate a criteri di alleanze e fedeltà politiche) il risultato, se non proprio sorprendente, lascia spazio a qualche interrogativo: sono pari al 47 per cento sia i cittadini che preferiscono che a governare siano i tecnici sia quelli che preferiscono i politici (a fronte di un 6% che non ha risposta). Come dire: da un lato, la democrazia deve essere fondata sul valore, ma dall’altro il meccanismo di scelta tramite il voto popolare è un elemento non rinunciabile
Le istituzioni riemergono dal tunnel?
Poi ci sono le domande esplicite che riguardano il tasso di fiducia dei cittadini nei confronti dei principali soggetti della scena pubblica. Non viene dato direttamente un giudizio, ma lo si fa intendere.
Vengono rilevati due dati rispetto a questo tasso di fiducia: uno relativo alla variazione tra il 2022 e l’anno precedente, l’altro riferito alla variazione tra il 2012 e il 2022. Ebbene, non manca qualche sorpresa. In particolare, per i dati sulla fiducia in partiti e istituzioni.
Cresce la fiducia per il Presidente della Repubblica, sia nel primo che nel secondo raffronto (facile aspettarselo visto il consenso che riscuote Sergio Mattarella ad ogni uscita). Ma cresce anche la fiducia verso istituzioni sempre apparentemente “sotto schiaffo”. Il Comune: solo +3% nella prima rilevazione, ma +10% nella seconda nel secondo). L’Unione Europea: +1% in entrambe. Cresce persino la fiducia nella Regione: ben +17% nel dato “storico”. Ma ecco una vera sorpresa: cresce persino la fiducia che riguarda il tanto vituperato Parlamento: +16% dal 2012 (seppure un tasso sempre bassissimo, il 23%, rispetto ai dati di altre istituzioni). E persino, udite udite, la fiducia nei partiti: una briciola, +1 per cento, nel dato ad un anno di distanza e ben +8% sul 2012 (dati sempre assai bassi – solo un complessivo 14 per cento, segno che i tanto decantati anni “ruggenti” forse sono proprio lontani, o andrebbero riletti bene).
Passiamo allo Stato. Rispetto all’anno scorso la fiducia decresce dell’1 per cento, ma dal 2012 è in risalita del 14%, ottenendo un alto gradimento per il 36 per cento del campione dei cittadini. Poco, per fare massa positiva, vero, ma continuerei a sottolineare il percorso, troppo trascurato da una “legenda” sempre incline al pessimismo. Un dato, inoltre, che fa il paio con il riscontro relativo al gradimento di alcuni importanti servizi: assistenza sanitaria pubblica, scuola pubblica, ferrovie, trasporti urbani, che per tanti cittadini danno volto alle istituzioni nella vita privata. Tutti in crescita rispetto agli inizi del decennio, ma in leggero calo per Assistenza e Scuola pubblica, rispetto al 2021. Qui pandemia e il relativo lockdown hanno lasciato il segno, è bene tenerne conto. Ma complessivamente ci si può chiedere: il settore pubblico, allora, può ancora ottenere consensi? Certo, va fatto funzionare bene….
Il cittadino non appare distratto
Altri campi di indagine, significativi per chi si occupa di società civile, sono quelli relativi al tema della partecipazione. Si era registrata una comprensibile contrazione dovuta alla paura del virus e ancor più al lockdown. Ora, però, riprende la voglia di esserci. Scrivono i curatori del Rapporto: «È vero che la partecipazione elettorale ha sofferto dell’astensione più alta della storia repubblicana, ma su altri fronti si osserva un certo dinamismo. Se si confronta il quadro di oggi con quello pre-pandemico, la distanza appare ancora importante, ma gli italiani stanno recuperando in termini partecipativi. Il volontariato è tra le attività più praticate (42%). Le tematiche ambientali, del territorio e della città hanno mobilitato un cittadino su tre (32%). Anche le azioni più esplicitamente politiche, come partecipare a manifestazioni di partito, proteste e flashmob, hanno coinvolto una componente non trascurabile di italiani (17%). Più dello scorso anno, ma un po’ meno del 2019». Ma allora: sullo stato della democrazia nel nostro Paese perché i giudizi sono sempre scettici e preoccupati? C’è una “narrazione” diffusa e assecondata che vuole lasciare in mano di alcuni (esperti? tecnici? facoltosi? potenti?) le leve del potere? Leggiamo ancora (da Democrazia e (tiepido) orgoglio nazionale di Fabio Bordignon e Alice Securo): «Nonostante tutto, la soddisfazione sul funzionamento della democrazia è cresciuta, negli ultimi anni. Per la prima volta diventa maggioranza (53%) la quota di intervistati che si esprime positivamente. (…) Analizzando i dati del rapporto, tuttavia, sembra mancare una definizione comune di cosa intendiamo, quando pensiamo alla democrazia. (…) È significativo notare come il favore per il governo tecnico cresca soprattutto fra gli under trenta. Sono gli stessi giovani a dichiararsi, in percentuale più ampia, a favore di un “leader forte”. (…) Si intiepidiscono, per contro, i sentimenti di orgoglio nazionale. Tanti gli intervistati che passano dal dirsi “molto” (44%) orgogliosi di essere italiani al più incerto “abbastanza” (39%). Il rapporto era di 65 a 29 all’ingresso nel nuovo millennio. Segno che, anche ai tempi della destra di governo, l’identità italiana non risulta ancora così solida (…) Su una cosa, però, le persone interpellate sembrano essere d’accordo: siamo un Paese dalla corruzione politica endemica, tenace. I cittadini che la percepiscono come più (o ugualmente) diffusa rispetto a Tangentopoli non sono mai scesi sotto l’80% in tutti gli anni di rilevazione»-
Conclusioni
Abbiamo, infine, lasciato da parte il giudizio relativo alla fiducia “concessa” alla istituzione Chiesa. Già non era molto alta nell’anno di rilevazione 2012, (44% per cento), non alta almeno rispetto ad altre istituzioni, scuola, presidente, forze dell’ordine; sebbene più alta di stato, magistratura e sindacati), ma in ulteriore calo del 3 per cento nel 2022. Scandali? Controversie interne? Desacralizzazione degli eventi? O cos’altro? Ci si rifletta su nell’anno del Cammino sinodale.
Ma così come occorrerebbe riflettere con più attenzione anche riguardo alle istituzioni civili. Le modalità di discussione e dibattito andrebbero affrancate da quel giudizio “comodamente” negativista che impregna spesso i nostri pensieri sul comune sentire, e adeguatamente rinforzate da una visione più fiduciosa e possibilista (seppure non scevra dallo spirito critico). Di certo faticosa e responsabilizzante, ma proprio per questo, forse, corretta e foriera di speranze attive.
Vittorio Sammarco
Oggi venerdì 20 gennaio 2023
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Oggi giovedì 19 gennaio 2023
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