Monthly Archives: maggio 2021
Oggi mercoledì 19 maggio 2021
——————-Opinioni, Commenti e Riflessioni—————————
Ecosostenibilità e lavoro
di Roberto Paracchini, su Aladinpensiero online.
Oggi si inizia a parlare, finalmente, di ecosostenibilità; le riflessioni che seguono riprendono il problema con un taglio orientato ad avanzare alcune ipotesi esplicative su che cosa significherebbe se la si applicasse, l’ecosostenibilità, in specifico anche agli esseri umani.
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Le voci della politica non parlano più del Sud
19 Maggio 2021
Massimo Villone su Democraziaoggi.
Il presidente del Coordinamento per la democrazia costituzionale in questo articolo su Repubblica-Napoli, scrive sulla Campania, ma parla anche di noi. Il discorso sulle infrastrutture, alta velocità, viabilità, portualità, transizione ecologica, piattaforma mediterranea, vale anche per la Sardegna. E vale per noi anche l’impietosa analisi sulla impresentabile condizione delle forze che assumono d’essere alternative […]
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Che succede in Israele e in Palestina? Tutto cambierà? Come?
di Romana Rubeo
CRS. Internazionale, Temi, Interventi. Pubblicato il 18 Maggio 2021
La Palestina è in fiamme. Dal cielo di Gaza, ormai da nove giorni, piovono bombe che devastano interi quartieri, strade, grattacieli, campi profughi. Gerusalemme grida di dolore, tra la sacralità violata di Al-Aqsa e della Spianata delle Moschee, alle famiglie di Sheikh Jarrah, costrette a denunciare un’ingiustizia cristallizzata in sistema normativo, che le vede spogliate di ogni diritto, anche quello di proprietà sulle loro abitazioni. Dalla West Bank in rivolta, dove giovani, adolescenti, anziani, donne, figli e madri sembrano non avere paura di riversarsi nelle strade e ai checkpoint, e di affrontare i militari israeliani armati fino ai denti, volto concreto di un regime di occupazione che li attanaglia ormai da decenni; fino ad arrivare alle città a maggioranza araba della Palestina storica, attualmente parte di Israele, che in modo inedito fanno sentire la loro voce contro le politiche di segregazione e discriminazione a cui sono sottoposte nel silenzio generale, avvolte anzi da una cappa di finta normalità.
Difficile stabilire quale sia stata la miccia che ha innescato un incendio ora apparentemente indomabile, che Israele e il governo di Benjamin Netanyahu stanno tentando di reprimere con la prassi consueta: bombardamenti indiscriminati, assalti feroci e truppe pronte a sparare ad altezza d’uomo. Possiamo tuttavia cercare di capire chi avesse maggiore interesse a scatenare una crisi che, con ogni probabilità, non si immaginava di tali dimensioni. Tutti gli indizi sembrano condurre a un’unica pista.
Già all’indomani delle elezioni del 23 marzo scorso, che arrivavano dopo tre appuntamenti elettorali nel giro di un anno e che non hanno dato un esito certo – continuando a riflettere la profonda polarizzazione in atto nelle istituzioni e nella società israeliana – l’attuale capo dell’opposizione, Yair Lapid, aveva prefigurato la possibilità che Netanyahu scegliesse la strada della violenza e dello scontro per generare una situazione di emergenza e uscire dallo stallo. “Se Netanyahu sente il governo sfuggirgli dalle mani, cercherà di creare un problema di sicurezza. A Gaza o al confine settentrionale. Se dovesse ritenere che questo è l’unico modo per salvarsi, non esiterebbe neanche un istante”, aveva detto Lapid all’attuale Ministro della Difesa Benny Gantz, secondo il commentatore di Haaretz, Yossi Verter.
Akiva Eldar, invece, dalle pagine di Al Jazeera, svela che Avigdor Lieberman, presidente del partito Yisrael Beitenu, ex ministro dei governi Netanyahu e ora suo acerrimo nemico, avrebbe correlato direttamente l’esplosione della violenza di questi giorni alla decisione del Presidente Reuven Rivlin di affidare il mandato esplorativo per la formazione di un governo a Lapid. “L’obiettivo strategico dell’operazione militare è aumentare la propria popolarità agli occhi dell’opinione pubblica. Netanyahu cercherà di prolungare questa operazione finché durerà il mandato esplorativo di Lapid”, avrebbe sostenuto Lieberman.
D’altro canto, questa tattica non rappresenta certo una novità nel panorama politico israeliano. Negli anni, Netanyahu ha sempre usato questo stratagemma per restituire un’immagine di forza a una società che, innegabilmente, è sempre più schiacciata su posizioni di assoluto estremismo. Evocare a gran voce, e abbozzare nei fatti, una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi serve ad acquisire popolarità in una fetta consistente dell’elettorato, e particolarmente presso la popolazione dei coloni che ormai sembrano orientare, con i loro numeri e la loro forza, le politiche israeliane. Quegli stessi coloni che sono stati usati come una sorta di forza paramilitare e come ulteriore braccio armato delle autorità israeliane per le strade di Gerusalemme, nei giorni e nelle settimane che hanno preceduto l’escalation finale.
Ciò che probabilmente non era prevedibile, tuttavia, era la risposta del popolo palestinese. Un popolo che, prima di ogni cosa, sembra aver ritrovato una perduta unità.
Raccontare il processo di frammentazione a cui sono stati sottoposti i palestinesi nel corso degli anni e dei decenni non è semplice. Oltre che dal principio del divide et impera – che ispira da sempre l’azione politica del progetto sionista – l’unità del popolo palestinese aveva ricevuto un colpo decisivo, almeno in apparenza, con gli Accordi di Oslo e ciò che avevano rappresentato.
Il presunto “processo di pace”, infatti, sembrava più teso a sopire la volontà di resistenza dei palestinesi e a “normalizzare” l’occupazione militare che a garantire l’effettiva creazione di uno spazio in cui potessero esercitare una sovranità e vivere in modo dignitoso. Nella fase post-Oslo, il territorio si è ulteriormente parcellizzato. Al contempo, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), unico organismo rappresentativo di un popolo senza Stato, è stata di fatto esautorata dall’Autorità Nazionale Palestinese. Questo ha creato un vuoto di rappresentanza, vista la coincidenza pressoché assoluta tra l’ANP e il partito di Fatah, protagonista della fase degli accordi, ormai svuotato da quella spinta rivoluzionaria che aveva caratterizzato l’azione del suo fondatore Yasser Arafat, e appiattito sulle posizioni decisamente più morbide di Abu Mazen.
Abu Mazen, infatti, verrà probabilmente ricordato dalla storia come colui che, soffocando definitivamente la Seconda Intifada e la reazione spontanea contro un accordo che penalizzava in modo assoluto i palestinesi, ha ricercato l’approvazione e il placet della comunità internazionale, fino a normalizzare, di fatto, l’occupazione attraverso il cosiddetto “coordinamento per la sicurezza”, ovvero un apparato di forze di polizia e intelligence che collabora direttamente con la forza occupante.
Abu Mazen rimane alla guida dell’ANP nonostante le elezioni del 2006 e la vittoria, mai riconosciuta, di Hamas; nonostante la conseguente spaccatura con la Striscia di Gaza, che da quel momento è governata dal Movimento di Resistenza Islamico e che, per questo, è soggetta a un brutale embargo. Rimane alla guida dell’ANP anche dopo la scadenza del suo mandato elettorale, proclamando, di tanto in tanto, la possibilità di elezioni che servono più a compiacere i suoi partner a livello internazionale che a ricercare quel momento di democrazia e legittimazione popolare di cui è ormai completamente privo.
Questa volta, poi, le elezioni sembravano una possibilità concreta. Le date erano state fissate da un decreto presidenziale di gennaio, frutto di una serie di incontri tra i diversi movimenti che animano la politica palestinese. Abu Mazen, però, non aveva calcolato la spaccatura interna al suo partito, la formazione di una lista alternativa guidata da Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat, e da Fadwa Barghouti, moglie del prigioniero politico palestinese e leader della resistenza, Marwan; una spaccatura che avrebbe probabilmente determinato una cocente sconfitta per Fatah alle elezioni legislative e la destituzione di Abu Mazen in favore dello stesso Marwan, deciso a correre per le elezioni presidenziali dal carcere israeliano in cui è rinchiuso e favorito in tutti i sondaggi.
La decisione di rimandare, per l’ennesima volta, l’appuntamento, è stata giustificata dalla impossibilità, per i palestinesi gerosolimitani, di votare, per le restrizioni imposte dalle autorità occupanti israeliane. In effetti, in Palestina, il tema della rappresentanza e, conseguentemente, delle elezioni come momento fondante del processo democratico, non può prescindere da un “vizio d’origine”: le elezioni democratiche, idealmente, si svolgono in una nazione che abbia una reale sovranità sul suo territorio, in cui tutto il popolo possa davvero essere rappresentato.
Nel caso della Palestina, questo non può avvenire, perché quanto ipotizzato dalla Risoluzione ONU del 1947, il cosiddetto “piano di partizione” – che, pur nei suoi aberranti limiti, prevedeva la nascita di due Stati – nei fatti, non si è mai concretizzato. Pertanto uno Stato palestinese, nei fatti, non ha mai visto la luce, per esplicita volontà di Israele, che ha agito sin dagli albori come una potenza coloniale, interessata alla acquisizione di tutto il territorio e alla cancellazione della popolazione nativa, mosso dal mito infondato della terra nullius.
Tuttavia, il popolo palestinese si è sentito tradito dalla resa, l’ennesima, dell’ANP che, anziché lottare per conquistare anche il diritto al voto di Gerusalemme, ha preferito usare l’occupazione come scusa per sopire il dibattito interno a Fatah. Un popolo che si è visto, negli anni, già privato di ogni diritto, isolato come non mai, arrestato, in alcuni casi, anche da quelli che dovevano essere i suoi rappresentanti; un popolo bombardato, umiliato, emarginato anche da alcuni Paesi arabi (che non hanno esitato a “normalizzare i rapporti” con l’entità sionista). Un popolo forzatamente diviso, sottoposto a un regime di apartheid imposto da Israele e che oggi viene riconosciuto anche da varie organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch o la stessa, israeliana, B’Tselem.
In questo scenario, un primo, fortissimo, squarcio si apre con la Grande Marcia del Ritorno, avviata nel 2018, che parte da Gaza, si estende ai Territori Palestinesi Occupati e segna in modo inequivocabile una mai sopita volontà, da parte del popolo palestinese, di partecipare a un processo ampio di resistenza popolare. Un popolo che, oggi, scende in piazza, affronta apertamente l’occupazione e, nei fatti, supera e destituisce sul campo i suoi presunti rappresentanti.
L’impressione è che questa nuova fase, apertasi nelle ultime settimane, determinerà anche un cambiamento radicale nello scenario politico palestinese e costituirà un punto di non ritorno. Anche il silenzio assordante di Abu Mazen, per svariati giorni dopo l’inizio dell’attuale escalation, la dice lunga sulla afonia di questa classe dirigente e sulla sua incapacità di rappresentare le istanze del suo popolo. Una conferma di questo profondo cambiamento, che costituisce un punto di non ritorno, è data anche dalla decisione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo combattente legato a Fatah, di tornare tra le strade della Cisgiordania per la prima volta dopo sedici anni, prima nelle città di Nablus e Jenin, poi con la marcia a Ramallah in preparazione dello sciopero generale indetto dai palestinesi per il 18 maggio.
“Questa”, scrive l’analista palestinese Ramzy Baroud, “è un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta di liberazione palestinese. […] Questa unità è ben più rilevante di un qualsiasi accordo tra fazioni palestinesi. Va a eclissare Fatah, Hamas e gli altri perché, senza un popolo unito, non può esserci una resistenza efficace, non c’è prospettiva di liberazione né lotta per la giustizia”.
Sicuramente, chi riuscirà a interpretare meglio questa fase risulterà la guida naturale di un processo che sembra ormai inarrestabile, ma nessun esito sembra scontato. Certamente, Hamas si è fatto trovare più pronto, anche per il radicamento sul fronte della resistenza a Gaza, una resistenza che, vale la pena ricordarlo, agisce in comunione con altri gruppi, tra cui anche le forze di matrice socialista del PFLP.
Ridurre, tuttavia, i fatti odierni a uno “scontro” tra Israele e Hamas è non solo falso, ma decisamente riduttivo. L’impressione, infatti, è che a fronteggiarsi siano due forze diverse.
Da una parte, uno Stato ormai impigliato nelle stesse trame della sua vocazione coloniale, guidato da un leader stanco e logoro, protagonista di vicende giudiziarie importanti e apparentemente deciso a trascinare con sé nel fango un’intera nazione. Dall’altra, una nuova generazione di palestinesi, non più condizionati dai tentativi di normalizzazione di Oslo, che parlano una stessa lingua a Khan Younes come ad al-Lud, a Ramallah come ai confini con Giordania e Libano. Un nuovo popolo deciso a superare le divisioni e i balbettii della sua classe dirigente, e che non sembra più disposto a trattare sulla propria dignità e sul raggiungimento della giustizia, premessa necessaria e indispensabile alla pace.
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Qui il PDF
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Approfondimenti
Elezioni in Palestina, un enigma in un clima di frammentazione politica. Intervista a Romana Rubeo
- Parte I.
- Parte II.
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[Su il manifesto] Apartheid in Israele, ultimo baluardo del colonialismo territoriale
La guerra promessa. Il controllo israeliano sulla narrazione internazionale fa sì che il terrorismo di Stato sia sottaciuto insieme al rifiuto opposto negli ultimi 15 anni alle mosse diplomatiche di Hamas
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(…) Sulla base dei precedenti storici a partire dal 1945, si può legittimamente pensare che la parte che vince la guerra della legittimità, alla fine controllerà il risultato politico, anche se è più debole militarmente e diplomaticamente. L’esito dell’apartheid in Sudafrica rafforza questa ricalibratura dell’equilibrio delle forze nella lotta palestinese.
Il regime razzista di Pretoria, malgrado avesse, almeno in apparenza, un controllo efficace e stabile della maggioranza nera della popolazione, grazie a brutali strutture di apartheid, implose sotto il peso combinato della resistenza interna e della solidarietà internazionale. Le pressioni esterne comprendevano una campagna Bds (boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) ampiamente diffusa e che godeva dell’appoggio delle Nazioni Unite. Israele non è il Sudafrica in una serie di aspetti chiave, ma la combinazione fra resistenza e solidarietà è aumentata in modo evidente nella settimana scorsa.
È forse opportuno ricordare la celebre osservazione di M.K. Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti insultano, poi ti combattono, poi vinci».
Che succede in Palestina?
17 Maggio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
PALESTINA: Giuseppe Sarcina, “Ocasio e Sanders incalzano Biden: non possiamo avere la linea di Trump” (Corriere della sera). Gad Lerner, “I democratici e il coraggio di criticare Israele da amici” (Il Fatto). Maso Notarianni, “Israele e la responsabilità che spetta al paese più forte” (Domani). Francesca Paci, “La guerra dei fronti estremisti” (La Stampa).
Che succede?
50 ANNI FA, PAOLO VI. “PALESTINIAN LIVES MATTER”. CEI: SÌ AL DDL ZAN, MA CHIARIRE
17 Maggio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
[segue]
Oggi martedì 18 maggio 2021
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Disfunzioni della giustizia: ricercare le cause anche fuori
18 Maggio 2021
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
La riforma della giustizia è uno degli impegni che l’Italia si è presa con l’Unione Europea per ottenere i circa 200 miliardi di euro di finanziamenti del Recovery Fund. E’ pertanto una riforma eterodiretta e necessaria. Per elaborare proposte di riforma, Cartabia ha istituito delle specifiche commissioni composte da esperti. Cosa si prevede? […]
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“Nel campo della pace non c’è spazio per l’ideologia di Netanyahu”
17 MAG 21
di Charles Enderlin
(brani da Le Monde diplomatique, ed. italiana – Il Manifesto – maggio 2021)
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Punta Giglio Libera
“Punta Giglio libera”, il comitato raccoglie firme e organizza un comizio in piazza
Su L’Unione Sarda online – DIAMO SPAZIO A TUTTE LE POSIZIONI IN CAMPO -
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Punta Giglio libera: manifestazione ad Alghero
Il 17 Maggio (ore 10-19) ad Alghero mobilitazione popolare per liberare e difendere Punta Giglio. L´iniziativa si svolgerà nella piazza di Porta Terra: alle 17 discussione pubblica alla presenza di rappresentanti del comitato e delle associazioni ambientaliste. Su Alguer.
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E’ online il manifesto sardo trecentoventotto
Il numero 328
Il sommario
Bulimia cementizia sulle coste galluresi (Stefano Deliperi), La Turchia tra Israeliani e palestinesi (Emanuela Locci), Limba sarda: sena ufitzializatzione non b’at balorizatzione (Franztiscu Casula), Le fallacie dietro la cancel culture (Alessio Dore), La sofferenza dei giovani e la superficialità degli adulti al tempo del Covid (Amedeo Spagnuolo), A Tortolì una manifestazione femminista e antirazzista (red), Video del Sit-In “73 anni di Nakba” (red), Le devastanti conseguenze delle elezioni a Madrid (Maurizio Matteuzzi), 73 anni di Nakba (Alessia Ferrari), Cosa dicono le madri contro la repressione (red), Rieducare, retribuire e risarcire (Guido Viale).
- Frocie alla riscossa (Red).
L’ambiente siamo (anche) noi
Ecosostenibilità e lavoro
di Roberto Paracchini
Oggi si inizia a parlare, finalmente, di ecosostenibilità; le riflessioni che seguono riprendono il problema con un taglio orientato ad avanzare alcune ipotesi esplicative su che cosa significherebbe se la si applicasse, l’ecosostenibilità, in specifico anche agli esseri umani.
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“Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare sé stesso”. Questa frase, attribuita a Gandhi, è ricca di suggestioni. Una di queste racconta di un rapporto strettissimo tra noi e il pianeta. Come dire che noi non solo viviamo in questo pianeta ma ne siamo parte e insieme agli altri esseri viventi ne siamo costruiti e lo costruiamo. E ancora: se il nostro diventare esseri migliori aiuta il pianeta allora, non solo possiamo, ma dobbiamo diventare migliori perché dal nostro star bene dipende anche il benessere del mondo in cui viviamo. Più terra terra: se io sto male, stai male anche tu e viceversa. E se tu stai bene, sto bene anch’io e viceversa.
Proviamo a pensare un attimo a una persona a noi cara: se sta bene, in qualche modo ci sentiamo meglio anche noi. A questo punto proviamo a vederci come di fatto siamo, persone che hanno – chi più, chi meno – parenti, familiari, colleghi, amici, conoscenti e altro ancora. E ora proviamo un esperimento mentale in cui ognuna di queste persone con cui abbiamo alcuni dei rapporti accennati, ne abbia a sua volta altrettanti, di rapporti. Il risultato sarà una rete, una rete quasi infinita di relazioni e collegamenti. Ma non c’è collegamento alcuno senza il trasferimento dall’uno all’altro di un qualcosa in un circolo di dare-avere e avere-dare: fosse anche solo un sorriso, uno sguardo, una smorfia, una chiacchiera, un saluto, un pettegolezzo, una sensazione, un’intesa e via di seguito. In pratica avremmo un numero enorme di persone che si trasferiscono l’un l’altro lo star bene o lo star male nelle infinite gradazioni e sfumature che una vita può rendere possibile. Dalla storia alla psicologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla sociologia alla chimica, dall’antropologia all’archeologia, dalla letteratura alla filosofia non esiste ormai settore del sapere che non sottolinei l’inscindibile interrelazione che lega tra loro gli esseri viventi, e non solo, che vivono e dimorano su questa Terra.
A questo punto viene spontaneo chiedersi se esiste un qualcosa o un modus vivendi che potrebbe far sì che questo reciproco trasferirsi qualcosa, ovvero il risultato di qualsiasi interrelazione, aiuti tutti gli esseri viventi a stare meglio.
Detto questo, e tornando alla frase di Gandhi, si aprono i due problemi su cui stiamo riflettendo: il primo riguarda l’ambiente e l’ecosostenibilità, il secondo il lavoro. Due ambiti apparentemente distanti, in realtà inscindibilmente connessi. Vediamo.
Gli scienziati affermano che i cambiamenti climatici hanno visto il susseguirsi di diverse fasi; sottolineano anche che oggi questo cambiamento è fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani, dal modo aggressivo di intendere il rapporto con l’ambiente, che viene visto come una entità non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllare, pianificare e dominare, consumando senza criterio le sue risorse.
A monte di questo modo di rapportarsi con l’ambiente, che tanti danni sta facendo e continua a fare, c’è un’idea, su che cosa sia quel qualcosa che chiamiamo ambiente, decisamente datata ed errata.
Per molto tempo con il termine “ambiente” si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente legati ad una ipotetica idea di natura, pre-intervento umano, considerata all’origine di tutto ciò che è, e che si trova attorno agli esseri umani, come se noi potessimo esserne fuori. Anche l’origine etimologica della parola indica questo “vizio” d’origine. Il termine “ambiente” deriva infatti dal latino ambiens, che significa circondare. Lo stesso prefisso amb (in greco amphi) indica “intorno, da ambo i lati”. In questa prospettiva – che possiamo chiamare dualistica – l’essere umano non è considerato parte integrante della biosfera (o ecosfera), ma come entità che, pur ponendosi al centro del mondo, ne risulta in realtà esterno in quanto l’ambiente è ciò che sta intorno, mentre lui resta al centro. Un passaggio importante, non solo perché propulsore di atteggiamenti antropocentrici, ma anche in quanto inserisce le basi di quel dualismo accennato che ha posto l’essere umano come un qualcosa di qualitativamente differente e, in quanto tale, concettualmente al centro di comando; di contro, ha messo l’ambiente e/o la realtà esterna dall’altro, di lato, ai margini si potrebbe dire, quindi come altro da sé. Questa impostazione ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale.
Considerare l’ambiente altro da sé ha contribuito a far ignorare che gli esseri umani sono essi stessi un prodotto dell’ambiente, a pieno diritto e umilmente in tutto e per tutto interni alla biosfera, ovvero a quella parte della terra in cui si riscontrano le condizioni per la vita animale e vegetale; e che comprende la parte bassa dell’atmosfera, tutta l’idrosfera e la parte superficiale della litosfera fino a due chilometri di profondità. In parallelo questa visione dualistica (proveniente anche da Cartesio: res cogitans, gli esseri umani; e res extensa, tutto il resto) ha spianato la strada alla trasformazione della conoscenza da curiosità e necessità, per rapportarsi meglio con l’ambiente, a controllo sempre più pianificante, sino a diventare dominio incondizionato. Il che non significa affatto, sia chiaro, che le scienze abbiamo perso il loro valore conoscitivo; tutt’altro, ma che alcuni suoi aspetti sono stati strumentalizzati in alcune applicazioni pratiche. Un quadro che ha condotto, pian piano, anche a uno sviluppo economico fuori controllo e spesso subordinato agli interessi più rapaci del capitalismo contemporaneo, compreso quello più recente, detto della sorveglianza, ovvero un sistema di potere fondato sulla “schedatura dei movimenti” delle persone all’interno della rete (Amazon, Facebook e Google per citare le corporation più grandi).
Uno sviluppo fuori controllo, si è detto, che ha determinato una rapina sconsiderata delle risorse naturali col rischio reale di una catastrofe ecologica in quanto ha compromesso l’equilibrio di autoregolazione che interessa i vari attori del teatro della biosfera. Il tutto, schematizzando, è stato implicitamente (e interessatamente) considerato come un’evoluzione eticamente accettabile in quanto l’essere umano è pensante, animato (dal latino animus, soffio vitale), mentre l’altro da sé, l’ambiente, la res extensa, no, è non pensante, senza soffio vitale; quindi senz’anima. In pratica è materia bruta, dominabile e sfruttabile senza vincolo e limite alcuno. E i disastri ambientali, di cui il riscaldamento globale è l’effetto più macroscopico, si cominciano a vedere in qualunque parte del mondo.
Negli ultimi decenni, però, grazie alla crescita della ricerca scientifica, alle parallele sollecitazioni dei movimenti ambientalisti e alla spinta dei giovani stimolati da Greta Thunberg, si sta sempre più consolidando la consapevolezza che la vita su questo pianeta, e soprattutto quella degli esseri umani, è e sarà sempre più strettamente legata alla salute dell’ambiente, ovvero all’ecosostenibilità delle nostre azioni.
Un concetto, quest’ultimo determinante. Eco-sostenibilità: eco, dal greco òikos, dimora e, modernamente, ambiente ove si vive; e sostenibilità, da compatibile, termine oggi usato per indicare qualcosa che si concilia con qualcos’altro ma che, a mio parere, deve richiamare soprattutto l’importante significato originario di compassione e cura, dal greco symphateia, patire insieme, provare emozioni con, quindi sentirsi parte dell’altro, del mondo in questo caso e di conseguenza averne cura. Tutti, quindi, siamo chiamati alla responsabilità delle nostre scelte perché ogni nostra scelta, direttamente o indirettamente, comporta un’azione che agisce sull’ambiente e, di conseguenza, anche su di noi. Ed ecco che si torna, spontaneamente, al discorso iniziale dell’interrelazione e interdipendenza che, coinvolgendo tutti e tutto (l’animato e l’inanimato), riscatta il concetto di ambiente rendendolo centro e dimora dinamica dell’esistente. Il che significa che ogni essere vivente sin dai primi microrganismi (comparsi circa 3,5 miliardi di anni fa) concorre a formare l’ambiente e viceversa da questo è co-formato. Ma se è così, come migliaia di evidenze scientifiche sembrano dimostrare, allora deve essere salvaguardato e valorizzato ogni luogo-ambiente in cui l’evoluzione biologica ha posto i differenti esseri viventi nel movimento e nella dialettica continua dell’ecosistema, pena un effetto domino tragico ed esponenziale di cui già intravediamo i segnali negativi.
In questo quadro si situa l’altro problema accennato all’inizio di queste brevi e schematiche riflessioni, il lavoro o, meglio, la sua centralità, logica conseguenza di un discorso coerente sull’ecosostenibilità. Vediamo.
Salvaguardare l’ecosostenibilità significa agire per la valorizzazione di tutti gli ambienti specifici in cui abitano gli esseri viventi, vegetali compresi, in modo da permettere che le loro caratteristiche non vengano alterate e si promuova la dialettica della biodiversità. Condizione indispensabile per l’equilibrio dinamico della biosfera, che contribuisce anche a governare i cicli biogeochimici e a stabilizzare il clima, situazione che sta già incontrando tante crepe. E visto anche che ognuno di quegli ambienti specifici, come già detto e come anche la scienza ecologica insegna, è strettamente interconnesso con gli altri ambienti, sarebbe fortemente negativo lasciar fuori la specie esseri umani dal discorso dell’ecosostenibilità.
Sia chiaro: riportare gli esseri umani in una dimensione ecosostenibile non significa affatto bypassare scienza e tecnica; semmai utilizzare la ricerca scientifica per sviluppare meglio le energie alternative e affinare le modalità di salvaguardia ambientale a tutti i livelli con più raffinati modelli di vita. Rimodulare i consumi energetici significa anche considerare adeguatamente i singoli ambienti in cui gli esseri viventi abitano e le caratteristiche specifiche che permettono loro di vivere e non di estinguersi. Prendiamo, ad esempio, i gorilla: ve ne sono diversi tipi, ma tutti vivono in gruppi, per lo più nelle foreste umide tropicali e sub tropicali africane e si nutrono in prevalenza di vegetali. Permettere loro di vivere significa salvaguardare il loro habitat, quindi il loro modus vivendi specifico. Oppure consideriamo le api, la cui funzione è sotto gli occhi di tutti: continuando ad immettere nell’ambiente le sostanze inquinanti che le disorientano si impedisce loro, ad esempio, di esprimersi con le danze particolari utilizzate per comunicare, provocando i danni già lamentati da apicoltori e scienziati. Per non parlare delle piante, che sono per noi vitali, che, oltre ai fiori, hanno “inventato” sistemi sofisticatissimi di comunicazione tra loro e gli altri esseri viventi. Ma gli esempi potrebbero continuare per sottolineare come ogni piccolo essere vivente abbia il suo indispensabile ruolo.
Lo stesso vale per gli esseri umani e per le caratteristiche che li contraddistinguono, tante certamente, come le neuroscienze disvelano in continuazione. Ma si vogliono qui affrontare solo alcuni aspetti socio-antropologici degli esseri umani su cui c’è un assenso di massima in quanto tutti ne riconoscono l’importanza nella caratterizzazione dell’Homo sapiens: le specifiche capacità linguistiche, la propensione alla socialità e lo sviluppo della cultura. Aspetti, questi, fortemente intrecciati tra loro, come la storia, sin dalla preistoria, permette di ricostruire. E che a nostro parere presentano anche un minimo comun denominatore, quello del lavoro, appunto. E qui torniamo ai due punti iniziali, l’ambiente declinato in termini di ecosostenibilità per gli esseri umani e il lavoro.
Secondo l’Enciclopedia Treccani per lavoro si intende “l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale”. Nell’Oxford Dictionary la definizione è più concisa ed essenziale: “Activity involving mental or physical effort done in order to achieve a purpose or result”. Si tratta di sintesi-concettuali che accolgono la civiltà giuridica dei diritti della persona lasciandosi alle spalle l’idea del lavoro sintetizzata nel termine latino labor (sforzo, fatica, sofferenza fisica). In entrambe le definizioni citate è invece evidente l’importanza del fare qualcosa in rapporto ad altri, quindi della socialità; del porsi un progetto (per ottenere un risultato), quindi della cultura; e del linguaggio, quindi della comunicazione simbolica.
Secondo Colin Renfrew (membro della British Academy e professore emerito all’Università di Cambridge, uno dei più autorevoli archeologi contemporanei) la forte valorizzazione di queste tre caratteristiche ha determinato il punto di svolta o, se si preferisce, il salto cognitivo dell’Homo sapiens. E che permette anche di spiegare quello che molti archeologici hanno chiamato il “paradosso preistorico”: salti cognitivi non spiegabili con cambiamenti neurobiologici vista la sostanziale identità del nostro genoma almeno da duecentomila anni a questa parte. Esplosioni creative che si sono sviluppate in diversi periodi temporali e geografici testimoniati dalla presenza di sofisticati manufatti e stili di vita, non spiegabili nemmeno da quella che altri studiosi hanno chiamato “rivoluzione umana”, con riferimento alla comparsa dell’Homo sapiens visto anche che queste “esplosioni” si sono verificate a macchia di leopardo, geografica e temporale. Per Renfrew questi sviluppi creativi si sono avuti soprattutto nei momenti in cui vi è stato un aumento “esponenziale della varietà dell’impegno relazionale fra gli uomini e il mondo materiale, mediato dall’impiego di simboli”. Una svolta prodotta soprattutto “con l’affermarsi della sedentarizzazione”, la formazione di comunità residenziali, ma presente anche in altri momenti.
Considerazioni che permettono di affermare, come ipotesi esplicativa ovviamente, che l’aspetto relazionale, simbolico e culturale, siano caratteristiche fondanti dell’Homo sapiens. E che, a ben guardare, siano anche le caratteristiche che contraddistinguono il nucleo centrale del concetto di lavoro inteso nel senso moderno (delle due definizioni accennate) come creatore di senso e dignità. Un fatto possibile proprio perché in questa prospettiva il lavoro diventa produttore di relazioni reciproche con l’ambiente di cui si fa parte, quindi non unidirezionali e di dominio. Già Karl Marx, circa un secolo e mezzo fa, pose le relazioni umane, nella produzione, come prioritarie rispetto ai mezzi. Oggi il mondo è cambiato, ugualmente i modi di produzione, ma la ricchezza concettuale di un lavoro non alienato e per tutti resta.
In queste schematiche riflessioni, infine, quel che si è ritenuto importante sottolineare è lo stretto legame che sussiste tra ecosostenibilità e lavoro umano: due concetti che possono e sempre dovrebbero, viaggiare insieme valorizzandosi a vicenda.
Roberto Paracchini
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Nell’immagine, scelta discrezionalmente dalla Direzione: Lucas Cranach il Vecchio, (1472-1553), Adamo ed Eva, 1526, The Courtauld, Londra.
Che succede?
IL CREDENTE IN POLITICA. ISRAELE: DUE CITTADINANZE PER DUE POPOLI. SALVINI FUORI STRADA
16 Maggio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Pierluigi Castagnetti, “Il credente in politica? Un uomo del suo tempo” (connessioni.org). ISRAELE/PALESTINA: Pierbattista Pizzaballa, “Questa politica del disprezzo causa una violenza mai vista” (intervista a Avvenire). Maurizio Molinari, “Le tre novità del conflitto israelo-palestinese” (Repubblica). Donatella Di Cesare, “Due cittadinanze per due popoli” (la Stampa). MIGRANTI: Filippo Grandi (Unhcr), “All’Europa serve coraggio per scegliere sul tema dei migranti” (Domani). [segue]
Oggi lunedì 17 maggio 2021
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Nuova legge elettorale, negletta eppure indispensabile
17 Maggio 2021
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
La legge elettorale Rosatellum modificata su ispirazione di Calderoli per conto della Lega durante il governo Conte 1, nel maggio 2019, ha creato un grumo legislativo pericoloso che, se dovesse trovare applicazione nelle prossime elezioni politiche, potrebbe portare a risultati elettorali che farebbero rimpiangere amaramente di avere assistito a tante giravolte, tante ambiguità ed […]
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Due cittadinanze per due popoli.
Donatella Di Cesare su La Stampa.
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Dalla pagina fb di Donatella Di Cesare. [segue]
SETTIMANA “LAUDATO SI”
Qualcosa di buono. “ There is in Another Way, if only we have the courage to take it”.
“Combatants for Peace” Ieri alle 18:56. Riferimenti in fb: https://www.facebook.com/c4peace/
Il movimento israelo-palestinese Combatants for Peace (CFP) denuncia con forza la violenza in Israele e in Palestina e la presa di mira dei civili, in particolare.
L’attuale conflitto, di nuovo, deriva dall’occupazione in corso, dall’oppressione sistematica e dalla privazione dei palestinesi in Cisgiordania, Gerusalemme e la striscia di Gaza. Lo sfratto in corso dei palestinesi nel quartiere di Gerusalemme dello sceicco Jarrah è solo l’ultimo esempio di queste tendenze. Human Rights Watch ha recentemente dichiarato che in alcune aree sotto l’occupazione israeliana “le privazioni sono così gravi che significano crimini contro l’umanità dell’apartheid e della persecuzione.”
Da ex combattenti che sanno che la violenza porta solo a più violenze, la morte genera solo più morte, e l’odio genera solo più odio – chiamiamo per porre fine alla violenza ora! [segue]
Oggi domenica 16 maggio 2021
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DA ASSISI L’APPELLO PER LA PACE ALLE NAZIONI UNITE ED ALLE AUTORITÀ DI ISRAELE E DELLA PALESTINA
Mag 16, 2021 – 07:34:04 – CEST. Su PoliticaInsieme.
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La traiettoria dell’economia circolare nel disegno del Green New Deal
7 Maggio 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
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Carbonia. Le donne acquistano visibilità anche col voto
16 Maggio 2021
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Oggi è domenica e dunque nuova puntata della storia di Carbonia dal 1° settembre 2019.
A dare uno spiraglio di speranza, un reddito sicuro se pur modesto, l’apertura dei grandi magazzini, PTB poi UPIM, vero riscatto per tante ragazze, e poi l’apertura a pieno regime delle scuole elementari, per le maestre, spesso molto numerose tra […]
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