Monthly Archives: febbraio 2021
America, America
IL PROCESSO A TRUMP, UN INSULTO ALLA COSTITUZIONE
di Marino de Medici
Mai prima d’oggi una pietra miliare della costituzione americana, il Primo Emendamento, era stato invocato con una causale tanto assurda quanto quella che il presidente Trump aveva il diritto, in base a quell’emendamento, di denunciare l’esito delle elezioni e di sollecitare i suoi sostenitori a protestare contro i presunti brogli elettorali. I fatti sono ben noti. In un discorso dinanzi alla Casa Bianca, Trump aveva affermato che l’elezione di Biden era la conseguenza di “un furto” ed aveva incitato i dimostranti a marciare sul Campidoglio dove era in corso la certificazione finale del risultato elettorale. [segue]
Che succede? La lettura della fase di Sbilanciamoci! Contributi al dibattito.
Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato le analisi della fase che stiamo attraversando elaborate dall’ASviS (Associazione per lo Sviluppo Sostenibile). Nell’intento di allargare il dibattito riprendiamo ora le analisi dell’organizzazione Sbilanciamoci. Con ambedue le posizioni in larga parte convergiamo.
No, Draghi non è simile a Monti
Giulio Marcon
Sbilanciamoci! 7 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica
I paragoni tra Monti e Draghi sono fuori luogo: diversa è la storia personale dei due tecnici, l’ancoraggio culturale e il contesto. Le incognite sono ancora molte su cosa avverrà e vedremo alla prova dei fatti. Fondamentale però sarà la consultazione con le parti sociali già richiesta dal premier incaricato.
Con l’avvento di Draghi nella politica italiana, i paragoni con il governo Monti di dieci anni fa si sono moltiplicati, ma fuori luogo. Allora Monti doveva tagliare la spesa pubblica, fare politiche di austerità, riformare le pensioni, rispondere ai vincoli del Patto di Stabilità europeo. Oggi Draghi deve gestire una immensa mole di finanziamenti, fare politiche di investimenti pubblici ed è libero dai vincoli europei. Monti doveva fare politiche restrittive e di tagli, oggi Draghi può fare politiche espansive e di spesa. Monti è un professore bocconiano, Draghi un banchiere gesuita. Monti si è formato nel milieau neoliberista, Draghi ha avuto come maestri i gesuiti e il keynesiano Federico Caffè. Monti si è dimostrato un politico sui generis, naif; Draghi nei suoi anni di BCE ha dimostrato di essere un fine politico, trattando con la Merkel e Macron, e soprattutto di sapere, da buon gesuita, come funziona il potere. E sempre da buon gesuita nella crisi di governo – la prima volta nella storia delle crisi di governo – consulta anche le parti sociali e non solo i partiti. Nonostante ciò, Monti conosceva meglio l’Italia e soprattutto la sua borghesia – quello che ne è rimasto – mentre Draghi, l’Italia di oggi la conosce poco, e anche gli italiani: senza mettere piede troppo alla Trilateral e al Bilderberg è un frequentatore dell’establishment globale e dell’élite finanziaria mondiale.
Ma non è detto che questo possa essere un limite. Draghi può usare questa estranietà – forse anche un po’ voluta – all’Italia reale per volare alto, superare i problemi sollevandosi ad essi, come una chiave per subire meno il peso dei condizionamenti dei gruppi di potere delle piccole e grandi corporazioni, di una élite sgangherata che non è più classe dirigente, di una politica ridotta ad avanspettacolo di pupi e mercanti in fiera.
Praticamente tutti i commentatori e gli analisti hanno evidenziato come l’arrivo di Draghi abbia segnato il fallimento della politica e l’impotenza delle istituzioni parlamentari. Dopo i governi tecnici nulla è stato come prima. Dopo il governo Ciampi nella prima metà degli anni Novanta, furono cancellati i partiti della prima Repubblica e arrivò Berlusconi. Dopo il governo Monti, poco meno di dieci anni fa, fu travolto il bipolarismo e arrivarono i Cinque stelle; e dopo Draghi le incognite sono veramente molte: sicuramente verrà spazzato via l’equilibrio – chiamiamolo così – di questi anni, sostituito da qualcosa di nuovo, che includerà forze e leader nuovi o quasi, forgiati probabilmente ancora una volta dalla temperie populista e mediatica. E dai poteri economici.
Non ci attendiamo svolte particolarmente virulente (né politiche ultra-liberiste) rispetto alle scelte dei precedenti governi: i binari sono posti, la direzione di marcia tracciata, molte delle controriforme strutturali più importanti e sensibili (pensioni, mercato del lavoro…) sono già state fatte: tra le più importanti ancora da fare c’è quella fiscale e della pubblica amministrazione. Vedremo alla prova dei fatti. Che per noi sono quelli di una nuova politica economica fondata sul lavoro, sulla sostenibilità e la riconversione fiscale, la lotta alle diseguaglianze e il welfare, il rafforzamento del sistema sanitario pubblico e l’istruzione.
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Stralci da La lunga marcia nella società, in uscita nel numero di marzo de Gli Asini
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Un’agenda europea per Mario Draghi
Mario Pianta
Sbilanciamoci! 7 Febbraio 2021 | Sezione: Apertura, Politica
Dopo la ‘facile’ preparazione del governo di Mario Draghi, cambiare le regole europee su spesa nazionale, aiuti alle imprese e debito pubblico sono le tre cose ‘difficili’ che il governo Draghi potrebbe mettere nell’agenda di Bruxelles.
Troppo facile per Mario Draghi, presidente del Consiglio incaricato, raccogliere le disponibilità delle forze politiche – quasi tutte – a far parte del suo governo. Meno facile trovare l’equilibrio per un programma e per un governo che duri fino alla fine della legislatura, nel 2023, se questo è l’obiettivo che si è dato. Non troppo difficile è l’impiego dei 209 miliardi di sussidi e crediti di Next Generation EU in buoni investimenti: il Paese è stato talmente fermo che ha bisogno di tutto.
Il difficile – dobbiamo ricordarlo – era già stato fatto da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Paolo Gentiloni nei primi mesi del 2020 quando, di fronte alla pandemia, hanno contribuito a cambiare gli equilibri in Europa e a lanciare questo primo strumento di una politica fiscale comune. La prova più importante per Mario Draghi non sarà districarsi tra Giorgetti e Patuanelli, ma spingere l’Europa a fare i passi successivi.
A casa nostra, rimpiazzare l’austerità con una politica espansiva e avere una guida competente del Paese sono scenari che sembrano aver fatto evaporare all’improvviso lo spazio politico per sovranismi, anti-europeismi e populismi. A Bruxelles le cose si muovono più lentamente, e sono tre le urgenze da affrontare, che avranno effetti profondi sul futuro dell’Italia.
I vincoli europei alla spesa pubblica nazionale sono il primo nodo. Con l’emergenza Covid-19, l’Europa ha sospeso fino al 2021 il Patto di stabilità e crescita e così l’obbligo dei governi di andare verso bilanci in pareggio. La sospensione dovrebbe ora trasformarsi in una radicale riscrittura della politica fiscale europea: abbandonare l’idea sbagliata di bilanci in pareggio e rendere permanente – al di là della pandemia – un programma come Next Generation EU, finanziato con eurobond per fare spesa pubblica ‘buona’ dove l’Unione ne ha più bisogno. La luna di miele di Draghi con la politica e la finanza ha qui la sua fragilità maggiore: se il Patto di stabilità e crescita tornasse in vigore, con l’obbligo di tagli di spesa in Italia, in un attimo crollerebbe il consenso al suo governo e si impennerebbe lo spread, il divario con i tassi d’interesse tedeschi sul debito pubblico.
La politica industriale è la seconda questione. Con la pandemia, Bruxelles ha sospeso la proibizione di “aiuti di Stato” alle imprese e tutti i governi – la Germania più di ogni altro Paese – hanno offerto sussidi, sgravi fiscali e capitali pubblici alle aziende più colpite dalla crisi. Anche questa sospensione è temporanea: se venisse reintrodotta, milioni di aziende europee farebbero fallimento. Perfino i Paesi cosiddetti ‘frugali’ sono preoccupati: il ministro dell’Industria danese – insieme a Austria e Repubblica ceca – ha chiesto a Bruxelles di elevare il limite dei sussidi alle imprese (800 mila euro) e delle compensazioni finora ammesse (3 milioni) (Financial Times: https://www.ft.com/content/19897de4-196f-4211-bcb2-fb39195c261c).
L’intervento pubblico a sostegno del sistema produttivo non dev’essere più visto come una ‘distorsione’ del mercato, da ammettere solo in via eccezionale: è oggi lo strumento principale per permettere a imprese e mercati di sopravvivere alla crisi. L’Europa ha bisogno di istituzionalizzare una politica industriale che disegni una traiettoria per lo sviluppo di attività produttive ad alto contenuto di conoscenza, tecnologia e qualità del lavoro, sostenibili sul piano ambientale, capace di ridurre le disparità sociali e territoriali. E’ quello che timidamente già suggeriscono i vincoli posti nell’impiego dei fondi di Next Generation EU per privilegiare tecnologie digitali e sostenibilità ambientale, senza tuttavia disporre di un assetto istituzionale e un’agenda esplicita di politica industriale. Per l’Italia, più colpita dalla perdita di capacità produttiva dal 2008 a oggi, è essenziale darsi un’agenda di questo tipo per organizzare in modo efficace gli interventi di politica industriale, dai progetti di Next Generation EU, ai sostegni alle imprese che dovrebbero prevedere investimenti, ricerca e occupazione in Italia (per le proposte si veda L’Industria: https://www.rivisteweb.it/doi/10.1430/98705).
Il debito pubblico è il terzo nodo. Nel suo articolo sul Financial Times del 25 marzo 2020, Mario Draghi aveva scritto che di fronte alla pandemia “è già chiaro che la risposta deve prevedere un significativo aumento del debito pubblico”. In questi dodici mesi l’aumento è stato generalizzato e una parte rilevante – un quarto circa per alcuni Paesi – del debito pubblico è ora detenuto dalla Banca Centrale Europea. Questa parte potrebbe ora essere ‘congelata’, trasformata in titoli perpetui a tasso zero, oppure cancellata formalmente. E’ stato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, in un’intervista del 14 novembre 2020, a dichiarare che la cancellazione del debito è “un’ipotesi di lavoro interessante, da conciliare con il principio fondamentale della sostenibilità del debito” (https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/11/14/news/sassoli_l_europa_deve_cancellare_i_debiti_per_il_covid_-274411308/).
Un nuovo appello di oltre 100 economisti europei, tra cui Thomas Piketty, chiede la cancellazione del debito pubblico nelle mani della BCE, chiedendo in cambio ai governi di destinare un ammontare corrispondente a un piano di ricostruzione sociale e ambientale (https://annulation-dette-publique-bce.com/).
Su questi tre temi, gli anni che il governo Draghi ha di fronte sono un’occasione unica per correggere gli errori più gravi dell’integrazione europea e ridisegnare gli assetti della politica economica. Il 2021 è anno di elezioni in Germania e Olanda, il 2022 in Francia e Ungheria, Angela Merkel uscirà di scena, dopo che è uscito dall’Unione europea il Regno Unito, con tutti i suoi veti a politiche diverse. Si apre uno spazio politico, un’opportunità di cambiamento che per decenni è sembrato impossibile.
Alla Banca Centrale Europea Mario Draghi era vincolato al rispetto dei Trattati e delle politiche dei governi, ed è riuscito a rovesciare la politica monetaria che aveva ereditato nel 2011 da Jean-Claude Trichet. Ora, come leader del governo italiano, avrà l’opportunità di riscrivere quei Trattati, dando all’Europa la coerenza tra politica fiscale e monetaria che è finora mancata, riconoscendo il ruolo dell’intervento pubblico nell’economia.
Un’agenda di cambiamento su possibilità di spesa, politica industriale e debito pubblico farebbe di Mario Draghi il protagonista dei restauri necessari alla costruzione europea e, sul piano interno, potrebbe assicurare al suo governo i margini di manovra di cui ha bisogno.
Per l’Italia la ricostruzione nel dopo-pandemia rappresenta l’occasione di fondo per rovesciare il lungo declino economico del Paese e avviare uno sviluppo all’insegna della sostenibilità ambientale, di produzioni avanzate, del rilancio del welfare, della riduzione delle disuguaglianze (Le proposte di Sbilanciamoci! sono qui: https://sbilanciamoci.info/in-salute-giusta-sostenibile-ebook-sbilanciamoci/). La scommessa su Mario Draghi, e il consenso che potrà ottenere sul campo, si giocherà sulla sua determinazione a ridisegnare assetti politici e manovre economiche tanto a Roma che a Bruxelles.
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Piano di Ripresa e Resilienza: c’è ancora lavoro da fare
Campagna Sbilanciamoci!
2 Febbraio 2021 | Sezione: Campagna Sbilanciamoci!, Politica, primo piano.
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Oggi martedì 9 febbraio 2021
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Basta con le azioni di retroguardia, Draghi obbliga i partiti a cambiare, oppure a diventare irrilevanti
9 Febbraio 2021
Alfiero Grandi, ripreso su Democraziaoggi.
Quando il quadro cambia repentinamente le vecchie immagini restano impresse e si sovrappongono per un periodo. L’incarico a Draghi di formare il nuovo governo ricorda questi inganni dell’ottica, i giudizi e i comportamenti sembrano attardarsi sul fotogramma precedente anche se si fanno largo le nuove immagini. Una valutazione compiuta ha bisogno […]
Appello di oltre 100 economisti europei: “Cancelliamo il debito detenuto dalla Bce e torniamo padroni del nostro destino”
L’appello. «La Bce cancelli i debiti degli Stati»
Proposta firmata da oltre cento economisti europei venerdì 5 febbraio 2021
Pubblichiamo la proposta elaborata da un gruppo di economisti francesi, tra i quali Thomas Piketty, e già sottoscritta da oltre 100 loro colleghi di vari Paesi europei / Tutte le firme.
La Banca centrale europea con sede a Francoforte
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Che succede?
DRAGHI E LO SCETTRO PERDUTO DALLA POLITICA
8 Febbraio 2021 su C3dem
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TANTE SORPRESE IN UN PAESE CONFUSO
7 Febbraio 2021 su C3dem
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Oggi lunedì 8 febbraio 2021
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Supermario 2: almeno una domanda il centrosinistra dovrebbe porgliela
8 Febbraio 2021
A.P. su Democraziaoggi.
Le grandi ammucchiate, l’union sacrèe per la patria non hanno mai prodotto niente di buono, sono sempre finite miseramente, ma solo qualcuno ha pagato. Con il primo Supermario (Monti) la scure si è abbattuta sui ceti popolari, i pensionati, la povera gente. Anche allora, con un battage mediatico massiccio era persino difficile avanzare dubbi [...]
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IL GOVERNO DRAGHI E LA PESSIMA RECITA DEI SOLITI POLITICANTI!!
di Benedetto Sechi, 6 febbraio 2021, su fb.
Ci risiamo, proprio non riescono farne a meno di rappresentarsi come la peggiore classe politica d’Europa. Almeno così appaiono nel racconto che in questi giorno emerge dagli incontri tra Draghi e le delegazioni politiche ad assetto variabile che lo incontrano. Si salva, da questa pantomima, il solo Giuseppe Conte. [...]
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Iniziativa Caritas Sardegna sui Migranti.
Oggi Lunedì 8 febbraio 2021, dalle ore 15 alle 18, si svolgerà il seminario interpastorale online Conoscere per comprendere. Presentazione XXIX Rapporto immigrazione Caritas e Migrantes 2020, organizzato dalla Delegazione regionale Caritas Sardegna e da Migrantes regionale in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti della Sardegna e con l’Ucsi Sardegna. Intervengono:
Giovanni Paolo Zedda (Vescovo delegato della Conferenza episcopale sarda per il servizio della carità),
Francesco Birocchi (presidente Odg Sardegna),
Andrea Pala (presidente UCSI Sardegna),
Raffaele Callia (delegato regionale Caritas Sardegna),
Padre Stefano Messina (delegato regionale Migrantes),
Simone Varisco (Fondazione Migrantes),
Oliviero Forti (Responsabile politiche migratorie Caritas Italiana). Coordinerà i lavori don Marco Lai (incaricato regionale Caritas area immigrazione). LINK al seminario:
https://bit.ly/2LtYmbI
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Oggi domenica 7 febbraio 2021
———–Opinioni, Commenti e Riflessioni———————————-
Carbonia. Il nuovo Consiglio di amministrazione ACaI-SMCS, il combustibile sardo industria che non si ammoderna, nel contesto di una Sardegna povera e arretrata.
7 Febbraio 2021
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Oggi si parla della storia di Carbonia, come ogni domenica dal 1° settembre 2019.
Ma di isola nell’isola si può anche parlare, parlando di Carbonia, per come la concentrazione delle attività industriali riguardi in Sardegna, nell’intero dopoguerra, quasi esclusivamente il Sulcis-Iglesiente, senza ricadute di natura economica sul resto del territorio. Senza attività produttive di seconda […]
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Tranquilli, ci pensa SuperMario
6 Febbraio 2021
A.P. su Democraziaoggi.
Che dire di questa prima fase delle consultazioni? Un segnale di responsabilità o una indecorosa corsa a prenotare un posto a tavola? Lasciamo da parte i soliti furbi, manovratori professionali, B. e il trombettiere su tutti. Ma gli ? Solo Leu ha posto qualche timido discrimine di programma e di schieramento. Gli altri no, sì […]
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Che succede?
SARANNO I GIOVANI IL VERO PARTITO DI DRAGHI
6 Febbraio 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Paolo Pombeni, “Draghi e Mattarella sanno bene che il popolo è dalla loro parte” (Il Quotidiano). Alberto Orioli, “Istruzione e capitale umano: saranno i giovani il vero partito di Draghi” (Sole 24 ore). Mario Deaglio, “Il cuore, la testa e le vere riforme” (La Stampa). [segue]
Che succede? La lettura della fase di ASviS. Contributi al dibattito.
Editoriali di ASviS*
Senza condivisione dei cittadini non si costruisce un futuro sostenibile.
Draghi è un timoniere sicuro e molte priorità da lui indicate nel recente passato coincidono con quelle dell’ASviS. L’avvento del suo governo non deve però significare la fine della politica. 05/02/21
di Donato Speroni su ASviS.
Consentitemi di cominciare con un ricordo personale. Era il settembre del 1992, nel pieno di Tangentopoli. Il governo presieduto da Giuliano Amato aveva appena varato una serie di provvedimenti che, in vista della futura privatizzazione, smantellavano il sistema delle Partecipazioni statali e delle altre attività imprenditoriali pubbliche, trasformando gli enti di gestione in società per azioni e concentrandone il controllo nel ministero del Tesoro. Si era creata così una situazione senza precedenti, perché quello che in passato era l’immenso potere dei “boiardi” che comandavano un insieme comprendente Eni, Iri, ma anche Enel, Ferrovie dello Stato, Banca nazionale del lavoro, si concentrò per un certo periodo su un unico soggetto, il Tesoro, che aveva la responsabilità di fare le nomine, approvare i bilanci, valutare gli investimenti, in una situazione di totale assenza dei politici. Come mi raccontò all’epoca l’amministratore delegato dell’Eni Franco Bernabé, gli uomini dei partiti, sentendosi sotto scacco da parte del pool di Mani pulite, non osavano più fare una telefonata neppure per raccomandare l’assunzione di un usciere.
All’epoca il ministro del Tesoro era Piero Barucci, ma di fatto quel potere era gestito dal direttore generale, il giovane Mario Draghi. Sul Corriere della Sera scrissi un articolo che segnalava questa situazione.
Il capo del più grande conglomerato industriale e finanziario d’Europa vive a Roma e lavora in ufficio della Repubblica italiana. È un economista di 45 anni, senza alcuna esperienza di gestione. Dedica a questo lavoro non più di un’ora al giorno, non perché sia uno sfaticato, ma perché ha tanti altri impegni ancora più importanti. E suoi collaboratori si contano sulle dita di una mano. Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, nel tempo lasciato libero dalla difesa della lira e dal controllo dei conti pubblici amministra una holding che fattura quasi 200mila miliardi di lire, occupa 850mila persone e intermedia quasi 1 milione di miliardi (di lire, ndr) di mezzi finanziari. Una holding nata dal decreto legge varato l’11 luglio e definitivamente approvato il 7 agosto che ha trasformato in società per azioni i maggiori enti economici italiani affidandone Il controllo al ministero del Tesoro.
Draghi lesse l’articolo, si assicurò attraverso un comune amico che non si trattava di enemy action ma di una iniziativa dettata solo dal dovere di cronaca, e mi invitò al Tesoro. Fu gentilissimo, parlammo della situazione della lira (sotto attacco in quell’estate) e mi accompagnò a vedere il sancta sanctorum di via Venti Settembre, il Gran Libro del Debito Pubblico, un volumone annotato a mano dove, come dice la Treccani, si iscrivono per ogni prestito contratto dallo Stato gli estremi dei provvedimenti di emissione e i dati qualitativi e quantitativi di ciascun titolo.
All’epoca il rapporto debito/Pil viaggiava attorno al 115%, un rapporto che prima della crisi del 2008 si riuscì ad abbassare sotto il 104%, ma che oggi sfiora il 160%.
Di quell’incontro serbo il ricordo di una persona calma e gentile, sicura delle sue competenze e per nulla spaventata delle sue grandissime responsabilità. Dal quel momento sono passati 28 anni e penso che nessuno oggi meglio di Mario Draghi possa guidare l’Italia attraverso le tre crisi, sanitaria, economica e sociale, menzionate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Oltre alle dichiarazioni rese al Quirinale, per capire le intenzioni del Presidente incaricato è interessante leggere il riepilogo, a cura di Dario Di Vico, sulla Rassegna stampa del Corriere, delle convinzioni espresse da Draghi nei suoi recenti interventi. Se ne ricavano quattro caposaldi a cominciare dalla distinzione tra “debito buono e debito cattivo”, che lo porterà a essere “molto più attento del Conte 2 nel determinare scostamenti di bilancio o il ricorso continuo ai bonus, ritagliati per singole categorie o singoli settori dell’economia”.
Altro punto importante del Draghipensiero, la convinzione di non sprecare risorse “per aziende che sono destinate al fallimento o che non ne hanno bisogno”, concentrandosi invece sulle politiche attive del lavoro per proteggere l’occupazione. Prioritaria anche “l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani”:
La situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore.
Infine, ambiente e digitalizzazione, temi sui quali riportiamo integralmente la sintesi che ne fa Di Vico:
Nel discorso di Rimini Draghi aveva indicato anche due obiettivi che sono pienamente coerenti con la filosofia del Next Generation Eu. «La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che è il più grande disastro sanitario dei nostri tempi». E aveva aggiunto: «La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: si pensi che negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati». I fondi dovrebbero essere assicurati da Bruxelles ma è certo che le bozze di Recovery Plan messe giù da Conte non delineavano una politica industriale di trasformazioni coerenti, ma un insieme di scelte a coriandolo. Un’impostazione che eventualmente Draghi non potrà non correggere.
Una delle priorità di Draghi sarà certamente la revisione e l’integrazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) presentato dal precedente governo. Nell’audizione alle commissioni Bilancio e Ambiente della Camera, giovedì 4, il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini ha messo in evidenza i limiti dell’attuale bozza. Tuttavia, le tre priorità trasversali che vi sono espresse, e cioè giovani, occupazione femminile e Mezzogiorno, sono certamente coerenti con le impostazioni del nuovo esecutivo.
Ricordiamo che su queste priorità sta lavorando anche l’ASviS. L’Alleanza darà voce ai giovani sul Pnrr nell’evento di mercoledì 10 febbraio. Sarà introdotto da Giovannini, ma lascerà piena libertà di espressione alle giovani generazioni, come si dice chiaramente già dal titolo: “Vogliamo decidere sul nostro futuro!” Inoltre, l’ASviS ha dedicato al Mezzogiorno la puntata di “Alta sostenibilità” del 1° febbraio, mentre la stessa rubrica curata dall’ASviS su Radio radicale parlerà di occupazione femminile nella puntata dell’8 febbraio, anche alla luce degli ultimi disastrosi dati presentati dall’Istat, che dimostrano come le donne abbiano subito la parte più rilevante del calo occupazionale.
Forse con la nomina di Draghi è morta la Terza repubblica, come qualcuno ha scritto, identificando la seconda col periodo a egemonia berlusconiana e la terza con la parabola grillina. Sarebbe però sbagliato pensare che sia morta la politica, perché questo Paese non può uscire dalle secche in cui si trova senza la buona politica. Innanzitutto, perché senza politica non c’è consenso. Ci si può affidare temporaneamente a un Cincinnato che salva la Repubblica, ma solo se la crisi è delimitata nel tempo. Ci sono ragioni per pensare che la pandemia sarà seguita da altre sfide difficilissime, derivanti dalla crisi climatica, dalle migrazioni di massa, ma anche da una serie di innovazioni tecnologiche che sconvolgono e sempre più sconvolgeranno i nostri ritmi di vita e di lavoro e le nostre sicurezze. Queste sfide non possono essere affrontate senza una visione condivisa del futuro che si vuole costruire. È dunque auspicabile che il periodo del governo Draghi serva non solo ad affrontare le emergenze, ma anche per consentire alle forze politiche di elaborare una propria visione, magari coagulando alleanze su un’idea condivisa dell’Italia del futuro, e di offrire questa visione all’opinione pubblica. Fare in modo che il voto, quando avverrà, non avvenga solo su suggestioni di breve termine, ma sulla consapevolezza di quello che ci aspetta, dei sacrifici e degli obiettivi. La dichiarazione del 4 febbraio del premier uscente Giuseppe Conte, che vorrebbe unire i partiti di centrosinistra (Pd, M5S e Leu) in una “Alleanza per lo sviluppo sostenibile” va nella direzione giusta, tanto da perdonargli il “tentato scippo” del nome. Ma va anche detto che noi vinceremo la nostra battaglia se lo sviluppo sostenibile non sarà soltanto una bandiera di parte, cioè se le priorità dell’Agenda 2030 saranno condivise da uno schieramento il più ampio possibile.
L’altra ragione per la quale la funzione della politica deve essere tutelata è che l’Italia ha bisogno di capacità di visione e di buona amministrazione a tutti i livelli, perché la partita non si gioca solo a Roma. Questa settimana è risuonata la protesta congiunta dei sindaci di ogni colore politico per le enormi responsabilità che devono affrontare, avendo come ricompensa solo il rischio di una citazione in giudizio. Questa protesta deve essere considerata con attenzione perché sembra essere in atto un meccanismo perverso che suggerisce a ogni persona onesta di non cimentarsi nell’agone politico, in particolare nelle amministrazioni locali. Non è un caso che i sindaci delle grandi città, indipendentemente dall’appartenenza partitica, abbiano espresso la loro solidarietà alla sindaca di Torino Chiara Appendino condannata per i fatti di Piazza San Carlo, una tragedia in merito alla quale ben difficilmente avrebbe potuto fare qualcosa. Che i sindaci abbiano i nervi a fior di pelle si vede anche dalla reazione del presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio De Caro all’invito del Comitato tecnico-scientifico a vigilare sul rispetto delle norme antipandemia, invito inteso come un rimprovero di scarsa attenzione: “Basta con il tiro al bersaglio sui sindaci, il Cts pensi a fare la sua parte”.
Sui sindaci, nonostante la frammentazione delle competenze delimitate da Regioni e Stato, gravano pesanti responsabilità, come è ben evidenziato dal sito che l’ASviS dedica al Goal 11 dell’Agenda 2030 e che riporta anche i documenti elaborati con Urban@it: gestione del territorio messo a repentaglio dai fenomeni meteorologici estremi, accelerazione del passaggio alle energie rinnovabili, lotta all’inquinamento, riscatto delle periferie, riassetto dei centri storici parzialmente svuotati dallo smart working sono problemi enormi, la cui soluzione richiede visione, competenza tecnica, ma anche un grande lavoro di condivisione con i cittadini.
Su questi problemi è necessario anche un maggior impegno del Pnrr, come ha sottolineato il coordinatore nazionale dei verdi Angelo Bonelli, dichiarandosi “assolutamente d’accordo” con quanto dichiarato da Giovannini.
Nel Pnrr ci sono carenze strategiche poiché solo il 2,5% dei 310 miliardi previsti sono destinati a investimenti sul Trasporto pubblico locale. Il prossimo Governo dovrà affrontare questo problema che rischia di compromettere il futuro delle nostre città e della nostra economia, lasciando senza risposte il grave problema dello smog nelle grandi città.
Affidiamo dunque la nave Italia a Mario Draghi, ma speriamo che questa nuova fase segni anche la riscossa della buona politica, a tutti i livelli.
Venerdì 05 Febbraio 2021
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Nel Pnrr mancano target, valutazioni d’impatto e riforme per guidare gli investimenti
In un’audizione alla Camera, Giovannini ha messo in luce le mancanze del Piano nazionale di ripresa e resilienza. “Serve anche una revisione del Piano energia e clima e un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici”. 5/02/21
La bozza di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), presentata dal governo, presenta diverse lacune. Lo ha spiegato il 4 febbraio il portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, Enrico Giovannini, durante un’audizione delle Commissioni Bilancio e Ambiente della Camera dei Deputati.
“Se confrontiamo le linee guida fornite dalla Commissione su come costruire il Pnrr, troviamo una corrispondenza elevata” ha esordito Giovannini, “tuttavia serve una ricomposizione delle missioni previste dal Pnrr italiano, in modo da dare coerenza al Next generation Italia”.
In sostanza, l’Europa ha reso i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile una priorità, e da questi sono stati derivati i sei pilastri su cui si poggiano le linee guida per l’utilizzo del Next generation Eu. Una connessione importante, che presuppone una piena coerenza tra le politiche da mettere in campo.
Attualmente nel Pnrr italiano manca la definizione di target e obiettivi quantificabili, come invece dovrebbe essere, e servono indicatori di risultato di tipo finanziario e non. Altro capitolo in cui è carente il Piano italiano è quello legato alle riforme, che sono necessarie e che devono guidare gli investimenti. Le risorse e gli investimenti che scaturiranno dal Next generation Eu devono, infatti, andare di pari passo con il Piano nazionale di riforme (Pnr) e, per questo motivo, quest’ultimo andrebbe riscritto con un’ottica diversa da quella usata negli ultimi anni.
“Elemento importante” ha continuato Giovannini, “è il fatto che i progetti presenti nel Piano devono rispondere al principio di non nuocere all’ambiente. Un principio fortissimo, coerente e in linea con il Green new deal. Questo nel Pnrr non si vede”. Risulta infatti assente la questione “biodiversità”, nonostante parliamo di un tema centrale a livello europeo.
Tutto deve procedere in maniera coerente: serve coerenza tra uso dei fondi europei e italiani, e tra i diversi altri Piani che l’Italia deve presentare con urgenza. Esempio è dato dal Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), ancora non in linea con l’ambizioso obiettivo europeo del taglio del 55% delle emissioni climalteranti entro il 2030, rispetto al 1990; e dal Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico che in Italia ancora manca. Due elementi, questi, di debolezza, che potrebbero indurre l’Europa a dubitare sulle serie intenzioni italiane.
Per quanto riguarda il mondo dell’occupazione giovanile “manca totalmente la citazione della garanzia giovani, nonostante le linee guida Ue ne chiedano esplicitazione”, ha dichiarato Giovannini.
Sempre sul principio di coerenza, dal Piano nazionale non si evince un cambio di direzione della programmazione finanziaria nazionale in favore dello sviluppo sostenibile. Per spiegarlo Enrico Giovannini ha portato questo esempio al tavolo di dibattito: “dei 209 miliardi di euro dobbiamo indirizzare circa 80 miliardi alla transizione ecologica, ma attualmente destiniamo 19 miliardi di euro del bilancio dello Stato nella direzione opposta (in sussidi dannosi all’ambiente). Uno scompenso che va corretto prima possibile”.
Senza una buona governance, pur ottenendo l’intera cifra che ci spetta, non saremo però in grado di spendere in maniera efficace ed efficiente le risorse. Su questo aspetto il Pnrr italiano non chiarisce come debbano essere ripartiti i fondi e, su temi che impattano su materie di competenza statali, regionali e delle città, serve una serio coordinamento di “governance multilivello” per raggiungere i risultati sperati.
Altro elemento da tenere in considerazione è la valutazione dell’impatto che il Pnrr avrà su ambiente e società; anche qui non sono presenti stime nel documento italiano, a parte quelle “importanti ma non esaustive” sull’andamento macroeconomico.
Infine, Giovannini ha ricordato come l’Italia sia avanti sugli indicatori sulle disuguaglianze di genere, “mi piacerebbe vedere per esempio l’impatto del Pnrr sui settori maschili e femminili. Perché, se per qualche ragione si investisse in settori ad alta occupazione maschile, allora bisognerebbe mettere in campo delle politiche compensative o formative per evitare aumenti di divari di occupazione, già drammatici nel Paese”.
Rispondendo a una domanda della deputata Chiara Braga, il portavoce dell’ASviS ha detto: “Ho ascoltato oggi le parole di Giuseppe Conte che ha proposto alle forze che hanno sostenuto il suo governo una sorta di Alleanza per lo sviluppo sostenibile. A parte il fatto, e lo dico sorridendo, che l’ASviS ha compiuto proprio ieri cinque anni di attività, se questa è la prospettiva, allora va cambiato il Pnrr. C’è ancora tantissimo da fare su questi temi, e l’ASviS è a disposizione del Parlamento. Ricordo che, proprio sul Pnrr e sulla Legge di bilancio, presenteremo a fine febbraio un’analisi dettagliata che offre la visione integrata di tutte le nostre 300 organizzazioni”.
di Ivan Manzo
Guarda le slide presentate all’audizione
Venerdì 05 Febbraio 2021
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* Aladinpensiero è associata all’ASviS.
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DRAGHI, CHE HA STUDIATO DAI GESUITI
Attendiamo i programmi. Per capire quanto ci sia nella politica del presidente incaricato di quei valori evangelici che chiamano alla giustizia sociale, all’accoglienza ospitale, alla difesa della vita, specialmente nella sua fragilità… L’intervento del teologo Pino Lorizio, della Pontificia Università Lateranense. Su Famiglia Cristiana.
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Cucuccio Morgante, un cagliaritano illustre
di Giancarlo Morgante
Oggi avresti compiuto 95 anni. Ormai sono passati 12 anni e dimenticarsi di te è impossibile. Mi piace ricordarti con il tuo grande sorriso a tutto tondo parlare e intrattenere le persone con le quali avevi rapporti di lavoro. Si, nel lavoro e nelle relazioni con le persone con le quali amavi intrattenerti davi il meglio di te stesso. Una volta un tuo amico mi disse: tuo padre amava la vita, la sua gente, il suo essere Cagliaritano. Ecco, è in questa prospettiva che mi piace allegare un brano tratto dal libro “C’era una volta…Castello”, scritto negli anni ottanta da un tuo carissimo amico, Gino Ivaldi (da tempo anche lui ci ha lasciati). Ginetto (per gli amici) ha tratteggiato un tuo profilo dove traspare simpatia, affetto e ammirazione.
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Cucuccio
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L’Inno italiano a scuola. Quel Balilla fascistizzato…
PROGRES CONTRO L’INNO DI MAMELI
Francesco Casula concorda e rincara: “È impastato di romanità e fascismo”.
di Francesco Casula
Nei giorni scorsi, opportunamente PROGRES (Progetu republica de Sardigna) in una nota ha preso una decisa posizione contro l’Inno italico scrivendo: “Abbiamo ricevuto da parte di diversi genitori la segnalazione che nelle scuole di Sardegna, primarie e secondarie, maestri e professori si stanno prodigando nell’insegnamento ai propri alunni dell’inno ‘nazionale’ italiano (il ‘Canto degli italiani’ anche noto come inno di Mameli); pur non essendo questa una novità, ci teniamo a ribadire che questo approccio sciovinistico della scuola italiana risulta fuori dal tempo e dalla storia, come peraltro lo è lo stesso inno che si vuole far studiare agli inconsapevoli studenti”. [segue]
NGEU. Senza il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione non si va da nessuna parte.
Pubblica amministrazione: non basta la rivoluzione digitale
di Fiorella Farinelli su Rocca
Se risiedo in una Regione e mi capita un problema di salute in un’altra, l’ospedale che mi soccorre può ricostruire velocemente la mia storia sanitaria, le patologie, gli interventi, le terapie, le allergie, i farmaci, le vaccinazioni? È una cosa che, soprattutto in situazioni di emergenza, potrebbe fare la differenza. Ma non è affatto scontata. Sebbene il fascicolo elettronico sanitario elettronico sia stato istituito nel 2015, ad esserne dotati sono al momento solo 13 milioni di persone, e solo 12 sono le Regioni che possono condividere in toto o parzialmente i loro dati. C’è di più. Anche nella fortunata circostanza di venire da una Regione e di essere curati in un’altra che hanno entrambe esperienza del fascicolo (ma ce ne sono di grandi e popolose, anche nel Centro-Nord, che non hanno neppure messo mano all’impresa), può capitare che l’ospedale non abbia l’applicativo per accedervi, e allora non si può far niente. Di storie che descrivono i ritardi a rendere «interoperative» le banche dati, e perfino ad aggiornarle puntualmente, ce ne sono tante nelle dettagliate inchieste per il popolare programma televisivo Report condotte dalla giornalista Milena Gabanelli (1). Ce ne sono, per esempio, in uno dei campi più scottanti per un paese che ha milioni di disoccupati, quello dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. I nostri Centri per l’Impiego non sono, si sa, dei mostri di efficienza, ma quanto dipende da non essere stati messi in grado di operare? Tra i tanti ostacoli di tipo normativo e organizzativo, aggravati da carenze quantitative e qualitative in fatto di personale, c’è l’impossibilità di «vedere» le opportunità lavorative della Regione accanto, perché ogni istituzione ha la sua banca dati, più o meno aggiornata, che resta chiusa e non interagisce con le altre. Le Regioni, in verità, da tempo dovrebbero condividere i loro dati con Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che fa capo all’apposito Ministero. E i dati, per questa via, dovrebbero diventare accessibili nell’intero territorio nazionale, ma il sistema non funziona perché l’accordo interistituzionale di condivisione dei dati (il lavoro è materia «concorrente» tra Stato e Regioni) ancora non c’é. La disponibilità della tecnologia non basta, occorre anche l’indirizzo politico, sostenuto da specifiche decisioni amministrative, e ovviamente anche da adeguate risorse economiche. Lo stesso accade per la formazione professionale di competenza regionale, con l’aggravante che ogni Regione ha i suoi indicatori e i suoi criteri di catalogazione degli allievi, dei contenuti dei corsi, delle ricadute delle qualifiche in termini di occupazione. Col risultato che neppure per i migliori ricercatori è facile produrre analisi comparative compiute. Figuriamoci quanto è complicato, per chi vuole iscriversi, avere un’idea precisa delle opportunità formative disponibili, e del loro grado di utilità per l’inserimento occupazionale. Anche qui, a subire le conseguenze sono in tanti, sia i cittadini che i decisori politici.
non solo le Regioni
Oggi è fin troppo di moda, nel ritorno di fiamma per antiche culture stataliste, attribuire soprattutto alle Regioni – e a un asse decisionale tra Regioni e Stato che non funziona granché – le massime responsabilità dell’inefficienza di molti servizi, e di molti ritardi in termini di utilizzo delle tecnologie. Ma, se è vero che pesano squilibri o sovrapposizioni nel disegno istituzionale e nelle competenze dei diversi livelli istituzionali di governo, può succedere lo stesso, e pure di peggio, anche in altri ambiti, e dentro gli stessi organi o enti statali. È il caso dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, istituita nel 2005, nella cui piattaforma sono entrate finora le anagrafi di soli 5.300 Comuni (sugli oltre 8.000) con la conseguenza che è talora complicato, per esempio, accertare se chi chiede il reddito di cittadinanza ha il requisito della residenza in Italia da 10 anni o se l’imposizione fiscale, che dipende anche dalla composizione del nucleo familiare, è quella giusta: non proprio un dettaglio, quest’ultimo, rispetto al contrasto dell’evasione fiscale. Perfino l’Inps, il nostro fiore all’occhiello per efficienza e digitalizzazione, non è ancora riuscito a far confluire nella sua Anagrafe, attivata dal 2005, i dati sui contributi versati per i lavoratori di tutte le categorie, privati, pubblici, autonomi, degli ordini professionali. Mancano quelli di datori di lavoro pubblici, per esempio, e anche degli ordini.
Spesso mancano, perché caricati in ritardo, anche i contributi versati dai lavoratori. Così il lavoratore che è passato da un comparto di lavoro all’altro, sempre che sia in grado di accedere autonomamente all’Anagrafe (e anche questo è un problema, e non dei minori), non è sempre in grado di verificare se tutti i contributi sono stati pagati correttamente e non può, se ci sono cose che non vanno, attivare per tempo ispezioni e ricorsi. Tutto ciò deriva dal fatto che i processi di informatizzazione sono stati avviati in tempi diversi e da ogni Ente separatamente, senza riferirsi ad esigenze di coordinamento e di collaborazione interistituzionale, o anche considerando solo alcune esigenze e non altre. È il caso del Ministero dell’istruzione che, disponendo di un sistema informatico costruito molto tempo fa solo per la gestione degli organici e della mobilità del personale, non lo ha mai declinato anche su altri scopi, il monitoraggio dei drop out, l’edilizia scolastica, il curriculum formativo e professionale degli insegnanti e così via. Ma qui, più e prima che di ritardi tecnologici, si tratta di culture politico-amministrative, essendo gli organici e la mobilità del personale il vero core dell’attività concreta di viale Trastevere.
il ritardo italiano e l’opportunità N.G.
I ritardi comunque ci sono, e pesanti, rispetto ad altri paesi. Determinano perdite economiche rilevanti, ostacolano e rallentano la formazione di nuove imprese, scoraggiano quelle che potrebbero insediarsi da noi trasferendosi dall’estero, sono causa di disagi agli utenti dei servizi. Secondo l’indice Desi che misura estensione e profondità dei processi di digitalizzazione, nell’Europa28 l’Italia è ancora inchiodata ad un avvilente 24esimo posto. Con una spesa pro capite per cittadino pari a 96 euro, contro 185 della Francia, 207 della Germania, 323 del Regno Unito. Gli investimenti sulla digitalizzazione sono stati finora piuttosto bassi ma – come succede spesso nel nostro Paese – non sempre sono state spese interamente nemmeno le risorse disponibili.
Nel prossimo futuro, tuttavia, almeno in termini di disponibilità di risorse, la situazione potrebbe cambiare radicalmente, sempre che vada in porto l’assegnazione all’Italia dei 209 mld del Next Generation Eu. Alla Missione «Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura», il Recovery Plan
varato dal Consiglio dei Ministri il 12 gennaio assegna infatti ben 46,18 mld, di cui 11,45 per la trasformazione digitale del sistema pubblico (con 26,73 mld assegnati a quella del sistema produttivo e 8 mld a quella del settore turismo/cultura).
tutto bene dunque? Non proprio
Sono tante le voci degli esperti dei problemi della nostra amministrazione pubblica, tra cui l’autorevole professor Sabino Cassese, a sostenere che senza una sua riforma contestuale neppure un grande investimento nella digitalizzazione otterrà i risultati sperati. Cioè da un lato la semplificazione e l’efficienza dei servizi, dall’altro il superamento delle barriere tra pubblica amministrazione e cittadini. E di questa riforma, la più difficile visto il numero di fallimenti riscontrati finora, è vero che il Recovery Plan al momento non dice una sola parola nuova. La «rivoluzione digitale», in effetti, non è solo transizione da un certo sistema tecnologico ad un altro, implica profondi cambiamenti culturali, organizzativi, del modo di lavorare e della stessa struttura professionale degli Enti. Lo si è visto anche nel passaggio, imposto dalla pandemia, dal lavoro in presenza al cosiddetto smartworking che in molte strutture e servizi pubblici è stato assai più problematico che in aziende private, solitamente più capaci e disponibili a rimettere in gioco assetti e modalità operative consolidate. Un passaggio «legnoso», stigmatizzano gli esperti, qualche volta impraticabile non solo perché le connessioni domestiche non erano quelle giuste o perché il personale non era stato appositamente formato, ma per altri e più strutturali motivi. Parla per tutti il caso clamoroso del settore giustizia, una vera Caporetto, dove durante i mesi del lockdown il lavoro da remoto dei cancellieri è stato impossibile perché dai Pc domestici non si poteva accedere ai fascicoli pur digitalizzati dei processi, col risultato di un blocco pressochè totale dell’attività dei tribunali. Abbondante materia di riflessione ci viene del resto anche dall’esperienza di didattica a distanza della scuola, dove è apparso del tutto evidente che, oltre alle difficoltà dei tanti studenti sprovvisti di connessione e di appositi devices (e di adulti in grado di supportare i più piccoli, i più fragili, quelli che non padroneggiano ancora l’italiano), hanno pesato e pesano molto negativamente, insieme a una non diffusa padronanza da parte degli insegnanti dei dispositivi e delle loro potenzialità, anche altri fattori, più duri e resistenti di qualsiasi legno o legnosità solo abitudinaria. La pretesa di trasferire nei nuovi mezzi la didattica e la valutazione tradizionale da un lato. La rigidità organizzativa del sistema dell’insegnamento, gli orari, i calendari, la struttura chiusa delle classi, la fissità dei curricoli dall’altro. Un’occasione finora largamente sprecata, quella della didattica digitale nell’emergenza pandemica, per cominciare a innovare e modernizzare anche l’organizzazione della scuola.
digitalizzazione non è semplificazione
Quanto alla Pubblica Amministrazione in senso stretto, e ai suoi servizi nazionali e locali, è del tutto improbabile che possa bastare la digitalizzazione a superare la sua storica propensione a rendere complicato ciò che è semplice. È evidente invece che si corre al contrario il grave rischio, se non si procede a modificarne gli assetti, l’organizzazione, le gerarchie e le separatezze interne, i profili e la qualità professionale del suo personale – e perfino l’antica e connaturata cultura statalista del sospetto e della sfiducia nei confronti dei cittadini – che la stessa digitalizzazione ne risulti deformata o depotenziata. Lo si vede, già ora, anche per operazioni o dispositivi che dovrebbero aiutare a risolvere dei problemi, e che invece per la complessità delle regole di accesso o perché ci si è dimenticati di impartire precise disposizioni al personale coinvolto ne producono altri. La piattaforma Immuni, per esempio, ma anche il sistema pubblico di identificazione nazionale (Spid). La semplificazione non viene da sé, non è l’effetto scontato della digitalizzazione.
Il superamento dell’ingorgo e della sovrapposizione di leggi anche di dettaglio sfornate di continuo dal potere legislativo, i fenomeni di «diserzione amministrativa» determinati da una dirigenza potente e tuttavia stretta tra la subordinazione alla politica determinata dallo spoils system e l’interferenza del potere giudiziario, la scarsità di figure professionali con competenze tecniche diverse da quelle unicamente giuridiche, le modalità operative non orientate al risultato, le retribuzioni e le carriere indipendenti dalla qualità e dai risultati effettivi del lavoro e così via, richiedono per essere modificate una contestuale, e spesso anche preliminare, azione riformatrice. Che finora non c’è stata, o non è stata sostenuta da una volontà politica decisa, e con caratteri di continuità. Anche se quella che riguarda la Pubblica Amministrazione è una riforma che non costa, e che potrebbe anzi far risparmiare spesa pubblica ridondante o inutile.
La verità è che da un lato essa implica tempi lunghi e una continuità di azione incompatibili con la breve durata media dei governi italiani (e con lo «sguardo breve» della classe politica italiana). Dall’altro obbliga a mettere le mani negli spinosissimi rovi degli interessi e delle convenienze consolidate, esponendosi quindi all’»impopolarità» e alla perdita di consensi prima di poterne vantare i risultati.
Ma il problema c’è, acuto almeno come quello rappresentato dal fatto che in Campania – ma anche in altre aree del Paese – 1 nucleo familiare su 4 è privo di connessione a internet. O come quello che deriva dai 13 milioni di italiani del tutto privi di competenze digitali, e anche di quelle di base che consentono
di impararle, non solo tra i più anziani ma anche nelle fasce di età più giovani.
Cosa significa tutto ciò per la promessa della digitalizzazione di abbattere le distanze e le barriere tra amministrazioni e cittadini? Che conseguenze sociali avrebbe un accesso a servizi essenziali
basato unicamente sull’informazione e la comunicazione telematica? La digitalizzazione del Paese, è evidente, passa anche dal superamento di queste contraddizioni. E, prima ancora, dall’esserne consapevoli.
Fiorella Farinelli
Nota
(1) M. Gabanelli. La rivoluzione digitale mancata dello Stato che ci costa 30 miliardi l’anno.