Monthly Archives: novembre 2020

Che succede?

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TRAMBUSTO NEI PARTITI. L’ITALIA, IL PIANO E L’EUROPA
21 Novembre 2020 su C3dem.
MACRON, UNA NUOVA POLITICA GLOBALE. ITALIA, DIALOGO CHE NON DECOLLA
18 Novembre 2020 su C3dem.
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Quale mondo dopo la pandemia?
Claudio Gnesutta
Sbilanciamoci! 21 Novembre 2020 | Sezione: Apertura, Economia e finanza

America, America

d7c8a7b4-749f-4840-b4e4-a9cc94f54fb1LA NORMALITA’ PERDUTA IN AMERICA
di Marino de Medici
In una nazione come l’America, immersa nel caos indotto da una presidenza perversa, è difficile prevedere il ruolo che la nuova amministrazione Biden potrà svolgere per ristabilire la “normalità”. Ma alcune anticipazioni sono fondate. Primo, la campagna di Trump volta a delegittimare la presidenza Biden non si arresterà il 20 Gennaio con l’insediamento del nuovo presidente ma continuerà negli anni avvenire. Secondo, l’America non tornerà alla normalità per molto tempo ancora. [segue]

The Economy of Francesco

the-economy-of-francesco-logoVideomessaggio del Santo Padre Francesco ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco – Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani” (Assisi, 19 – 21 novembre 2020), 21.11.2020

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Videomessaggio del Santo Padre

Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato, a conclusione dei lavori, ai partecipanti all’Incontro internazionale “Economy of Francesco – Papa Francesco e i giovani da tutto il mondo per l’economia di domani”, in corso ad Assisi – in diretta streaming – dal 19 al 21 novembre 2020:

Cari giovani, buon pomeriggio!

Grazie per essere lì, per tutto il lavoro che avete fatto, per l’impegno di questi mesi, malgrado i cambi di programma. Non vi siete scoraggiati, anzi, ho conosciuto il livello di riflessione, la qualità, la serietà e la responsabilità con cui avete lavorato: non avete tralasciato nulla di ciò che vi dà gioia, vi preoccupa, vi indigna e vi spinge a cambiare.

L’idea originaria era di incontrarci ad Assisi per ispirarci sulle orme di San Francesco. Dal Crocifisso di San Damiano e da tanti altri volti – come quello del lebbroso – il Signore gli è andato incontro, lo ha chiamato e gli ha affidato una missione; lo ha spogliato degli idoli che lo isolavano, delle perplessità che lo paralizzavano e lo chiudevano nella solita debolezza del “si è sempre fatto così” – questa è una debolezza! – o della tristezza dolciastra e insoddisfatta di quelli che vivono solo per sé stessi e gli ha regalato la capacità di intonare un canto di lode, espressione di gioia, libertà e dono di sé. Perciò, questo incontro virtuale ad Assisi per me non è un punto di arrivo ma la spinta iniziale di un processo che siamo invitati a vivere come vocazione, come cultura e come patto.

La vocazione di Assisi

“Francesco va’, ripara la mia casa che, come vedi, è in rovina”. Queste furono le parole che smossero il giovane Francesco e che diventano un appello speciale per ognuno di noi. Quando vi sentite chiamati, coinvolti e protagonisti della “normalità” da costruire, voi sapete dire “sì”, e questo dà speranza. So che avete accettato immediatamente questa convocazione, perché siete in grado di vedere, analizzare e sperimentare che non possiamo andare avanti in questo modo: lo ha mostrato chiaramente il livello di adesione, di iscrizione e di partecipazione a questo patto, che è andato oltre le capacità. Voi manifestate una sensibilità e una preoccupazione speciali per identificare le questioni cruciali che ci interpellano. L’avete fatto da una prospettiva particolare: l’economia, che è il vostro ambito di ricerca, di studio e di lavoro. Sapete che urge una diversa narrazione economica, urge prendere atto responsabilmente del fatto che «l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista»[1] e colpisce nostra sorella terra, tanto gravemente maltrattata e spogliata, e insieme i più poveri e gli esclusi. Vanno insieme: tu spogli la terra e ci sono tanti poveri esclusi. Essi sono i primi danneggiati… e anche i primi dimenticati.

Attenzione però a non lasciarsi convincere che questo sia solo un ricorrente luogo comune. Voi siete molto più di un “rumore” superficiale e passeggero che si può addormentare e narcotizzare con il tempo. Se non vogliamo che questo succeda, siete chiamati a incidere concretamente nelle vostre città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi.[2] Tutto ciò mi ha spinto a invitarvi a realizzare questo patto. La gravità della situazione attuale, che la pandemia del Covid ha fatto risaltare ancora di più, esige una responsabile presa di coscienza di tutti gli attori sociali, di tutti noi, tra i quali voi avete un ruolo primario: le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera, non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro. O siete coinvolti o la storia vi passerà sopra.

Una nuova cultura

Abbiamo bisogno di un cambiamento, vogliamo un cambiamento, cerchiamo un cambiamento.[3] Il problema nasce quando ci accorgiamo che, per molte delle difficoltà che ci assillano, non possediamo risposte adeguate e inclusive; anzi, risentiamo di una frammentazione nelle analisi e nelle diagnosi che finisce per bloccare ogni possibile soluzione. In fondo, ci manca la cultura necessaria per consentire e stimolare l’apertura di visioni diverse, improntate a un tipo di pensiero, di politica, di programmi educativi, e anche di spiritualità che non si lasci rinchiudere da un’unica logica dominante.[4] Se è urgente trovare risposte, è indispensabile far crescere e sostenere gruppi dirigenti capaci di elaborare cultura, avviare processi – non dimenticatevi questa parola: avviare processi – tracciare percorsi, allargare orizzonti, creare appartenenze… Ogni sforzo per amministrare, curare e migliorare la nostra casa comune, se vuole essere significativo, richiede di cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società».[5] Senza fare questo, non farete nulla.

Abbiamo bisogno di gruppi dirigenti comunitari e istituzionali che possano farsi carico dei problemi senza restare prigionieri di essi e delle proprie insoddisfazioni, e così sfidare la sottomissione – spesso inconsapevole – a certe logiche (ideologiche) che finiscono per giustificare e paralizzare ogni azione di fronte alle ingiustizie. Ricordiamo, ad esempio, come bene osservò Benedetto XVI, che la fame «non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale».[6] Se voi sarete capaci di risolvere questo, avrete la via aperta per il futuro. Ripeto il pensiero di Papa Benedetto: la fame non dipende tanto da scarsità materiale, quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale.

La crisi sociale ed economica, che molti patiscono nella propria carne e che sta ipotecando il presente e il futuro nell’abbandono e nell’esclusione di tanti bambini e adolescenti e di intere famiglie, non tollera che privilegiamo gli interessi settoriali a scapito del bene comune. Dobbiamo ritornare un po’ alla mistica [allo spirito] del bene comune. In questo senso, permettetemi di rilevare un esercizio che avete sperimentato come metodologia per una sana e rivoluzionaria risoluzione dei conflitti. Durante questi mesi avete condiviso varie riflessioni e importanti quadri teorici. Siete stati capaci di incontrarvi su 12 tematiche (i “villaggi”, voi li avete chiamati): 12 tematiche per dibattere, discutere e individuare vie praticabili. Avete vissuto la tanto necessaria cultura dell’incontro, che è l’opposto della cultura dello scarto, che è alla moda. E questa cultura dell’incontro permette a molte voci di stare intorno a uno stesso tavolo per dialogare, pensare, discutere e creare, secondo una prospettiva poliedrica, le diverse dimensioni e risposte ai problemi globali che riguardano i nostri popoli e le nostre democrazie.[7] Com’è difficile progredire verso soluzioni reali quando si è screditato, calunniato e decontestualizzato l’interlocutore che non la pensa come noi! Questo screditare, calunniare o decontestualizzare l’interlocutore che non la pensa come noi è un modo di difendersi codardamente dalle decisioni che io dovrei assumere per risolvere tanti problemi. Non dimentichiamo mai che «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma»[8], e che «la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità».[9]

Questo esercizio di incontrarsi al di là di tutte le legittime differenze è il passo fondamentale per qualsiasi trasformazione che aiuti a dar vita a una nuova mentalità culturale e, quindi, economica, politica e sociale; perché non sarà possibile impegnarsi in grandi cose solo secondo una prospettiva teorica o individuale senza uno spirito che vi animi, senza alcune motivazioni interiori che diano senso, senza un’appartenenza e un radicamento che diano respiro all’azione personale e comunitaria.[10]

Così il futuro sarà un tempo speciale, in cui ci sentiamo chiamati a riconoscere l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta. Un tempo che ci ricorda che non siamo condannati a modelli economici che concentrino il loro interesse immediato sui profitti come unità di misura e sulla ricerca di politiche pubbliche simili che ignorano il proprio costo umano, sociale e ambientale.[11] Come se potessimo contare su una disponibilità assoluta, illimitata o neutra delle risorse. No, non siamo costretti a continuare ad ammettere e tollerare in silenzio nei nostri comportamenti «che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti»[12] o privilegi per il godimento garantito di determinati beni o servizi essenziali.[13] Non basta neppure puntare sulla ricerca di palliativi nel terzo settore o in modelli filantropici. Benché la loro opera sia cruciale, non sempre sono capaci di affrontare strutturalmente gli attuali squilibri che colpiscono i più esclusi e, senza volerlo, perpetuano le ingiustizie che intendono contrastare. Infatti, non si tratta solo o esclusivamente di sovvenire alle necessità più essenziali dei nostri fratelli. Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. E questo è molto più che assistenzialismo: stiamo parlando di una conversione e trasformazione delle nostre priorità e del posto dell’altro nelle nostre politiche e nell’ordine sociale.

In pieno secolo XXI, «non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori».[14] State attenti a questo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. È la cultura dello scarto, che non solamente scarta, bensì obbliga a vivere nel proprio scarto, resi invisibili al di là del muro dell’indifferenza e del confort.

Io ricordo la prima volta che ho visto un quartiere chiuso: non sapevo che esistessero. È stato nel 1970. Sono dovuto andare a visitare dei noviziati della Compagnia, e sono arrivato in un Paese, e poi, andando per la città, mi hanno detto: “No, da quella parte non si può andare, perché quello è un quartiere chiuso”. Dentro c’erano dei muri, e dentro c’erano le case, le strade, ma chiuso: cioè un quartiere che viveva nell’indifferenza. A me colpì tanto vedere questo. Ma poi questo è cresciuto, cresciuto, cresciuto…, ed era dappertutto. Ma io ti domando: il tuo cuore è come un quartiere chiuso?

Il patto di Assisi

Non possiamo permetterci di continuare a rimandare alcune questioni. Questo enorme e improrogabile compito richiede un impegno generoso nell’ambito culturale, nella formazione accademica e nella ricerca scientifica, senza perdersi in mode intellettuali o pose ideologiche – che sono isole –, che ci isolino dalla vita e dalla sofferenza concreta della gente.[15] È tempo, cari giovani economisti, imprenditori, lavoratori e dirigenti d’azienda, è tempo di osare il rischio di favorire e stimolare modelli di sviluppo, di progresso e di sostenibilità in cui le persone, e specialmente gli esclusi (e tra questi anche sorella terra), cessino di essere – nel migliore dei casi – una presenza meramente nominale, tecnica o funzionale per diventare protagonisti della loro vita come dell’intero tessuto sociale.
[segue]

The Economy of Francesco – Oggi sabato 21 novembre 2020

the-economy-of-francesco-logoIL PROGRAMMA DI OGGI SABATO 21 NOVEMBRE 2020
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Oggi sabato 21 novembre 2020

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————–Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti——-
Lussu uomo d’azione, di programma e di organizzazione
21 Novembre 2020
Giuseppe Caboni su Democraziaoggi.
Continuiamo la pubblicazione delle notazioni di Giuseppe Caboni sulla figura di Emilio Lussu. Il Capitano solitamente viene ricordato per le sue gesta sull’Altopiano, ma fu un dirigente politico capace di un’alta elaborazione programmatica e di organizzazione.
L’impegno politico di Lussu, la sua volontà di interpretare, sulla base delle conoscenze acquisite, il suo ruolo di dirigente […]
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Dibattito: per uscire dalla crisi del capitalismo

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Ripensare la teoria economica ai tempi del Covid
Emilio Carnevali
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Sbilanciamoci! 12 Novembre 2020 | Sezione: Apertura, Economia e finanza
L’epidemia di coronavirus ha assestato un altro duro colpo a quel “nuovo consenso” in macroeconomia già messo in discussione dalla crisi finanziaria del 2007/2008. E nel nostro paese nasce la Rete Italiana Post-Keynesiana.

“Devising new ways of getting back to full employment
is once again the top priority for economists.”
The Economist, luglio 2020

Qualche anno fa – era il 2015 – il Financial Times pubblicava un pezzo a firma di John Key sul complicato rapporto fra teoria economica ed evidenza empirica. Nel mezzo dell’articolo veniva disinvoltamente lasciato cadere un riferimento alla celebre controversia sul capitale delle “due Cambridge”, che fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento ha visto contrapporsi la scuola keynesiana dell’Università di Cambridge (nel Regno Unito) agli economisti “neoclassici” guidati da Robert Solow e Paul Samuelson di stanza al MIT, nella Cambridge statunitense (Massachusetts): “un dibattito”, secondo Key, “che Solow vinse facilmente grazie alla cura con cui specificò sia i suoi modelli teorici sia i rilevanti dati empirici”.

I termini di quella questione possono risultare ostici: il cuore della controversia – volendo sintetizzare un po’ brutalmente – rimanda alla possibilità che il “comportamento” di una funzione di produzione neoclassica, così come emerge in modelli a un solo bene, possa essere generalizzato in modelli a più beni. Arrovellarsi su un tecnicismo simile può sembrare a prima vista un esercizio un po’ futile, almeno agli occhi dei meno appassionati alla materia. Ma le sue implicazioni pratiche sono estremamente rilevanti. Senza la possibilità di quella generalizzazione saltano molti meccanismi che assicurano il buon funzionamento degli ingranaggi della teoria economica tradizionale. Primo fra tutti la tendenziale convergenza delle moderne economie di mercato a riassorbire la disoccupazione: la presenza di lavoratori disoccupati crea pressione al ribasso sui salari reali e – se tutto funziona come dovrebbe – tale pressione promuove l’utilizzo di tecniche produttive a più alta intensità di lavoro. Ecco che i lavoratori prima disoccupati trovano un impiego e il sistema ricomincia a girare con pieno utilizzo delle risorse.

Questo riassunto abborracciato e un po’ maldestro non renderà forse piena ragione degli argomenti dei protagonisti di quell’affascinante dibattito. Ma il modo con cui Key lo ha fotografato appare – a circa mezzo secolo da quella vicenda – abbastanza sorprendente.

Chissà cosa ne avrebbe pensato, leggendolo, lo stesso Samuelson, il quale a suo tempo formulò un bilancio assai meno trionfalistico di quel confronto: “Se tutto ciò crea mal di testa ai nostalgici delle parabole contenute negli scritti neoclassici, dobbiamo ricordare a noi stessi che gli studiosi non sono nati per avere una vita semplice. Dobbiamo rispettare e farci una ragione dei fatti della vita” [1].

C’è tuttavia un motivo per il quale giudizi inaccurati come quello di Key possono circolare. Nel lungo termine, infatti, è stata la Cambridge americana, ovvero la sintesi neoclassica di cui Samuelson e Solow erano due fra più autorevole esponenti, a imporsi. Per altro, la lettura che di Keynes è stata proposta dai manuali di economia di tutto il mondo [2] è in ultima analisi una traduzione in termini warlasiani (cioè di equilibrio economico generale) di alcune intuizioni – a volte nemmeno le più feconde – presenti nell’opera originale.

In un libro intitolato Keynes e i Keynesiani di Cambridge (Laterza, 2010) Luigi Pasinetti, un membro della “componente italiana” di quella scuola, ha tentato di interrogarsi sulle ragioni di un bilancio storico così modesto sul piano della capacità di influenzare le generazioni successive di economisti. Perché una impresa intellettuale di quella portata, che si avvaleva del contributo di personalità eccezionali come quelle di Joan Robinson, Richard Kahn, Piero Sraffa, Nicholas Kaldor, ha inciso così poco nella teoria economica prevalente? Pasinetti ha provato ad avanzare più di una ipotesi o spiegazione. Alcune sono di carattere squisitamente teorico. Altre sovrappongono in qualche modo un piano teorico ad uno quasi ideologico-politico, come ad esempio il rimprovero di non aver attribuito “alcun peso o valore a ciò che avrebbe significato il mantenere viva un’alternativa veramente keynesiana (vale a dire non-marxista) alla prevalente corrente di pensiero economica ortodossa” (occorre ricordare che quello era ancora un mondo diviso in due blocchi, schiacciato dalla contrapposizione fra occidente capitalista e paesi comunisti).

Di tipo completamente diverso, e assai originali, sono invece le ragioni che Pasinetti riconduce ad una “componente di temperamento” di alcune di quelle illustri personalità: non solo certi atteggiamenti rischiavano di sembrare “arroganti” o “dottrinari” a chi non simpatizzava con le loro idee, ma contribuirono al fallimento “nel coinvolgere, in un processo di fruttuosa discussione, i molti talenti (non pregiudizialmente ostili)” che si affacciavano su quel mondo ed erano presenti nella stessa università di Cambridge.

È un peccato che le considerazioni di Pasinetti possano essere soppesate solo all’interno di dibattiti relegati ai margini della ricerca accademica “che conta”. Purtroppo, la stessa storia del pensiero economico come disciplina è stata fra le prime vittime del nuovo corso apertosi con la fine dell’egemonia keynesiana. La preparazione e lo spirito critico degli economisti avviati allo studio solo di ciò “che conta” non ne hanno certo tratto giovamento.

Eppure, sarebbe sbagliato discutere di questi temi con lo sguardo esclusivamente rivolto al passato. Già la Grande Recessione del 2007-2008 aveva messo in discussione alcuni dei pilastri teorici del “Nuovo Consenso” emerso in macroeconomia dalla fine degli anni Novanta. Per citare le parole di uno che ha fortemente contribuito a dare forma a quel consenso, Michael Woodford [3], la crisi finanziaria “ha imposto una significativa riconsiderazione della precedente convinzione comune (conventional wisdom) secondo la quale la politica dei tassi di interesse – o, più specificamente, la politica di aggiustamento dei tassi a breve termine condotta dalle banche centrali in risposta alle condizioni economiche congiunturali (…) – fosse sufficiente a mantenere la stabilità macroeconomica”. Detto in altri termini: la crisi ha fatto riscoprire alla teoria economia la politica fiscale.

La pandemia di Covid-19, che sta avendo sulle economie mondiali un impatto simile a quello di un evento bellico, è deflagrata su un terreno teorico già in movimento. Adesso sono gli stessi banchieri centrali a esortare i governi ad intervenire con decisione per limitare i devastanti danni economici del blocco della produzione. Milioni di persone in Europa come negli Stati Uniti vivono del sostegno diretto fornito loro da programmi pubblici il cui costo sarebbe stato giudicato “insostenibile” solo fino a pochi mesi fa. E mentre il debito degli Stati si impenna su livelli mai visti in decenni recenti, i tassi di interesse sui titoli governativi rimangono fermi o addirittura si riducono, grazie all’opera delle banche centrali. Nell’eurozona si sono affacciate politiche che sembravano tabù per l’ortodossia economica tedesca, dagli eurobonds al superamento del criterio del capital key per l’acquisto dei titoli dei paesi membri da parte della BCE. Senza contare le prospettive che si aprono con la fine dell’epoca buia di Donald Trump alla Casa Bianca, epoca buia per motivi che vanno assai oltre le sue – per altro poche e confuse – idee in materia di economia.

A molti dei dibattiti in corso la teoria economica cosiddetta “post-keynesiana” – che vanta una discendenza diretta dalle idee degli economisti della scuola keynesiana di Cambridge – può dare un contributo importante. Ed è per questo che rappresenta un bel segnale la nascita della Rete Italiana Post-Keynesiana (IPKN – Italian Post-Keynesian Network). Il suo primo workshop si terrà online il prossimo 27 novembre (tutte le informazioni si possono trovare qui e sulla pagina Facebook di IPKN). Il network raduna alcuni fra i più brillanti giovani economisti ed economiste italiani che in questi anni si sono cimentati su tematiche variamente collocabili nell’arcipelago teorico Post-Keynesiano: dalla modellistica Stock-Flow Consistent a quella ad agenti eterogenei; dall’approfondimento dell’approccio “classico-keynesiano” (nella tradizione di pensiero ascrivibile a Sraffa e Pierangelo Garegnani) fino alla Modern Monetary Theory, che tanto interesse sta suscitando negli Stati Uniti.

Un poemetto di un anomico funzionario inglese mostrava così le illusioni dell’establishment britannico alla vigilia della conferenza di Brettons Woods (1944): “In Washington Lord Halifax, / once whispered to Lord Keynes, / ‘It’s true that they have the money bags / But we have all the brains”. In quell’occasione Lord Keynes dovette fare ulteriore esperienza di come spesso le buone idee, da sole, non bastano.

Non saremo alla vigilia di una nuova Bretton Woods. Di nuovi Keynes in giro non se ne vedono. E certamente nessuno può vantare alcun monopolio di cervelli. Ma in tempi così incerti, tutti i tentativi di dare gambe, corpo e organizzazione alle buone idee sono importanti e meritano di essere incoraggiati e sostenuti.

Note
[1] La traduzione è mia, e anche in questo caso non sono sicuro di essere riuscito a rendere tutte le sottigliezze dell’elegante espressione inglese usata da Samuelson.

[2] Tranne lodevoli eccezioni – fra cui, ad esempio, l’università di Roma Tre in Italia – la Teoria Generale nella sua versione originale non è parte dei programmi degli insegnamenti universitari quasi da nessuna parte.

[3] Michael Woodford e Yinxi Xie, 2020. “Fiscal and Monetary Stabilization Policy at the Zero Lower Bound: Consequences of Limited Foresight”, Nber Working Paper Series, Working Paper 27521.

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La foto in testa sembrerebbe fuori contesto. Ma non lo è in quanto il signore che vi appare in evidenza è Muahammad Yunus, economista, premio Nobel per la pace del 2006, che rappresenta un’altra idea di economia. Yunus ha partecipato a una conferenza-dibattito online nell’ambito dell’evento, in gran parte in collegamenti telematici, The Economy of Francesco, in corso di svolgimento nei gg. 19, 20 e 21 novembre 2020, con epicentro in Assisi e con altri partecipanti sparsi nel mondo.

Emergenza Covid. Per colmare il terribile divario tra il dire e il fare

schermata-2020-11-20-alle-22-34-40Qualcosa si muove dopo il drammatico appello delle organizzazioni della cooperazione sociale.
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L’arcivescovo Baturi incontra Federsolidarietà e Confcooperative.
[Da Il Portico] Nei locali della Curia arcivescovile di Cagliari l’arcivescovo, Giuseppe Baturi, ha ricevuto il Presidente di Confcooperative Federsolidarietá Sardegna, Antonello Pili, e il Direttore di Confcooperative Sardegna, Gilberto Marras, insieme al Direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale sociale e del Lavoro, Ignazio Boi.
Al centro dell’incontro le considerazioni emerse dopo la riunione convocata in Regione sulla difficile situazione dei servizi territoriale e delle strutture per anziani alle prese con l’emergenza Covid-19.
[segue]

… e i Sindaci non mollano. Dall’assessore alla sanità risposte e non-risposte

[Dalle pagine fb di Gian Pietro Arca, sindaco di Silanus e di Antonio Fadda, sindaco di Orani e altri 17]
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Come molti di voi sapranno stamattina alcuni Sindaci del territorio hanno avuto un lungo confronto con l’Assessore regionale alla Sanità Mario Nieddu.
Abbiamo portato alla sua attenzione tutte le problematiche che da tempo segnaliamo e che vogliamo siano risolte in tempi rapidi.
Nello specifico: [segue]

La storia nostra

Fuilippo Figari Fiera
La storia ufficiale? Falsa o mistificata.
di Francesco Casula
Ci voleva uno straordinario divulgatore scientifico come Mario Tozzi, in una trasmissione della TV di Stato, a risvegliare i Sardi dall’autodileggio.
Tozzi ci ha infatti ricordato che la Sardegna nel periodo nuragico ha espresso la più alta civiltà in Italia (e, occorre aggiungere, nell’intero Mediterraneo occidentale). Un Isola ricoperta di foreste. Con moltissime risorse: ad iniziare da quelle minerali (argento, rame, zinco). Con un clima mite. Con tre raccolti all’anno.
Peraltro assolutamente in sintonia e in linea con gli studi dei paleoclimatologi secondo cui nell’poca nuragica il clima era caldo umido con ampio sviluppo di flora lussureggiante di tipo tropicale e habitat favorevole alle specie animali.
Bene a fronte di tale “narrazione”, contro Tozzi, nei Media e nei Social, da parte di molti, sono state rivolte insolenze, improperi e contumelie. Quando non veri e propri insulti; reo di aver fatto “mitopoiesi” e non informazione storica. [segue]

Fratelli tutti: DIALOGO E AMICIZIA SOCIALE

CAPITOLO SESTO

DIALOGO E AMICIZIA SOCIALE
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The Economy of Francesco

the-economy-of-francesco-logoIL PROGRAMMA DI OGGI VENERDI’ 20 NOVEMBRE 2020
- A partire dalle ore 14, segui online.
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Premi

cf9b3493-d5a4-4cd9-bb8d-253771937e91sedia-van-gogh4Premiazione del Concorso Letterario Nazionale “Paninabella – C’é sempre una chiave”. Un concorso dedicato alla sofferenza psichica dei giovani che ha visto la partecipazione di circa 190 autori di racconti sull’argomento. Tra i dieci premiati, selezionati dalla Giuria del premio, anche la nostra cara amica Linda Capitta. (la potrete ascoltare intorno al 50° minuto del video che, naturalmente, vi consigliamo di visionare integralmente). La direzione del Premio Letterario ha realizzato un libro con i testi dei finalisti che può essere richiesto on line. Il ricavato della vendita del libro sarà utilizzato per nuove iniziative per una migliore conoscenza del disagio psichico giovanile. (V.T.)

cf9b3493-d5a4-4cd9-bb8d-253771937e91Il libro può essere acquistato contattando l’associazione AntoPaninaBella [associazione.anto@paninabella.org – (www.paninabella.org], i fondi ricavati verranno utilizzati per la realizzazione di nuovi progetti, per continuare a parlare, raccontare, ascoltare quel dolore che troppo spesso viene dimenticato, troppo spesso rimane inascoltato.(L. C,)
il video della premiazione – https://youtu.be/crfYueWj9Ek

Oggi venerdì 20 novembre 2020

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————–Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti——-
Il sintomo di un’altra epidemia
20 Novembre 2020 su Democraziaoggi.
Per una riflessione sulla difficile situazione del Paese ci pare utile pubblicare questo editoriale di Norma Rangeri, dei giorni scorsi sul Manifesto.
Covid e futuro. Si reclama, e per fortuna anche a livello europeo, un cambio di paradigma, si loda il Covid per essere una cartina al tornasole di un modello neoliberista distruttore di natura e umanità, ma poi dalla teoria economica non si passa alla pratica sociale di un reddito di base. […]
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La filosofia come cura

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Perché serve la filosofia per curare il presente e costruire il futuro post-Covid
di Matteo Ficara su Italia che cambia.
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La filosofia può essere uno strumento per aiutarci a vivere con più consapevolezza il momento di pandemia che stiamo vivendo ma anche a restituire bellezza a ciò che ormai ci sembra di aver perso, costruendo nuove alternative per il futuro. Per questo motivo è essenziale guardare alla filosofia come una “cura”: delle relazioni sociali, del nostro tempo e di ciò che ci circonda.

Dal 2002 l’UNESCO ha definito che il 19 novembre sarebbe stata la Giornata Mondiale della Filosofia. Guardare alla filosofia oggi, ai tempi del Covid 19, fa pensare che essa possa svolgere ancora di più il suo ruolo di “cura”. Una filosofia come cura e anche una filosofia della cura, insomma, che ci aiuti a riportare l’attenzione laddove è urgente e necessario, per ritrovare il “senso”. Una filosofia che può anche essere un aiuto a fare chiarezza, a gestire il passaggio verso un “new normal” e a costruire i primi passi di un nuovo futuro.

Perché guardare alla filosofia come cura?
In primis perché essa è sempre stata la via dell’eudaimonia, ovvero della ricerca della felicità attraverso la vita virtuosa. In secondo luogo perché l’emergenza che viviamo oggi è sanitaria, per cui il tema della cura ha sicuramente un volto che possiamo cogliere in modo diretto e immediato: è il volto di chi sta affrontando la malattia, la fatigue, la sofferenza ed il morire. Il volto chi sta dando una mano, senza sosta da mesi.

Ma cura significa anche “attenzione”. Una filosofia della cura è anche uno sguardo che torna a portare attenzione al reale e a tutto ciò, che nel vivere accelerato di ogni giorno, avevamo scordato o iniziato a dare per scontato. Tanto per cominciare, le relazioni. Troppo spesso la normalità del vivere stende un velo di trasparenza sull’importanza di persone care vicine o lontane. E per assurdo, questo “distanziamento”, che è fisico e non sociale, ha allontanato ciò che era vicino e avvicinato ciò che era lontano.

La cura è anche andare al di là del singolo e pensare al “comune”, a quel “noi condiviso” che siamo, sotto sotto, e che possiamo essere ancora. La distanza fisica può essere il luogo per ripensare la relazione sociale, lo spazio della partecipazione, il luogo ove una voce non è né un sussurro disperso e né un grido – come quello di ormai troppi social.

Quello della cura è anche il volto di chi si prende cura di ricercare le fonti di notizie da condividere (o meno) in un social network. La cura è nelle parole che usiamo e nell’azione sociale. La chiamata all’agire sociale è importante, un richiamo che, come popolo umano, non avevamo da tempo. Eppure è contornato dalla sfiducia che quella “politica” non sia più la voce della poleis, ma un’imitazione a distanza di un’eco.

La cura è l’azione consapevole delle sue conseguenze. Un’azione non solo politica, ma filosofica. Meditata, ragionata, soppesata. Un’azione che ha una testa ed un cuore, due gambe per andare lontano e gli occhi per vedere che il suo cammino non calpesti nessuno.

La filosofia come costruzione del futuro

L’esperienza inattesa del Covid-19, di un nemico invisibile, ha messo in scacco la società della rete. Il web – come dice Baricco nel suo “The Game” – è come una “copia del mondo”, che ci ha permesso di fare un salto: bypassare gli intermediari, essere in prima linea a scoprire le cose e a mettere voce in capitolo. E con il Covid19, quella rete che prima ci aveva avvicinati (nelle idee e nelle culture), ora ci fa stare troppo vicini.

La pandemia ha generato un caos enorme e rapidissimo: informazioni “impazzite”, allarmismo, eventi complessi da affrontare in poco tempo. E soprattutto: scelte. Scelte da prendere con informazioni incerte, in tempi brevi e sulle quali costruire il presente ed il futuro per sé e per altri, su tutti i livelli. Non ci eravamo abituati ancora alle coordinate digitali della nuova modalità “social” del nostro modo di fare, che le troviamo minate e siamo smarriti: “E adesso… Che si fa?”.

È qui che, secondo me, entrano in gioco la filosofia ed il suo modo di fare (poiché questo è una filosofia: un modo di vivere), che mette a disposizione tutto quello che serve in questo momento, per la ricerca di senso e la costruzione di un futuro nuovo:

l’attitudine al pensiero critico, per discernere le informazioni e fare chiarezza;
l’apertura necessaria per sapere che non è necessario “schierarsi”, perché non dobbiamo rendere la lotta delle informazioni una guerra;
le capacità di visione per guardare lontano e iniziare a valutare opzioni nuove, scoprire orizzonti, costruire scenari;
la sensibilità per ricordarci di chi abbiamo vicino e di cosa ha valore.

La filosofia nello sguardo, oltre lo schermo e oltre la mascherina

Forse per troppo tempo abbiamo abituato lo sguardo ad un orizzonte troppo piccolo, digitale e vicino, che mentiva riguardo al fatto che potevamo arrivare in ogni dove ed adesso ci troviamo costretti in quella sua dimensione, un po’ per intero: lontani nel corpo, vicini attraverso uno schermo. Forse abbiamo bisogno di alzare lo sguardo, oltre lo schermo, per ritrovare un pianeta, una realtà che ogni giorno alza la mano per chiedere aiuto. Dovremmo alzare lo sguardo al di là del confine della mascherina, per ritrovare l’altro.

Siamo chiamati a guardare vicino e lontano. A recuperare e restituire valore e bellezza al dimenticato e costruirne alternative per cambiare sistema. Questo la filosofia può fare: può prendersi cura del presente e del futuro. Dell’essere e dell’agire, con la sua “vita attiva e contemplativa”. Può aiutarci a scendere i gradini della ricerca del senso del vivere e a salire in cima alla montagna di tutti i futuri, per scorgere i migliori da realizzare.

Mi piace pensare alla filosofia come il modo di vivere di chi si prende cura del tempo, di quello passato, rammemorandolo, di quello presente, vivendolo e del futuro, costruendolo in pace.

La Sardegna fuori dall’economia del profitto. Sabato 21 novembre a Cagliari la manifestazione sarda della Società della Cura

societacura-sardegna-logoSabato 21 novembre 2020 a Cagliari, in via Roma, sotto la sede del Consiglio Regionale, alle ore 15.00 e nel pieno rispetto delle norme anti-Covid si svolgerà l’appuntamento sardo della manifestazione nazionale che si terrà in tutte le piazze italiane organizzato da “La società della cura, fuori dall’economia del profitto”. Un sit-in e assemblea lanciati da una rete di persone, comitati, associazioni, movimenti, esperienze autogestite, realtà studentesche, sociali e sindacali per avviare un piano di radicale conversione ecologica, sociale, economica e culturale della società. La manifestazione si svolgerà anche in diretta dalla pagina Facebook de La società della cura – Sardegna. [segue]