Monthly Archives: maggio 2020

Nella fase due. Adelante con juicio

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Adelante con juicio.
Nell’immagine, il cancelliere Antonio Ferrer (nella carrozza), che Alessandro Manzoni consegna alla storia con la frase: “Adelante, Pedro, si puedes. [...] Pedro, adelante con juicio” (I Promessi Sposi, cap. XIII).
“Avanza con giudizio” tra la folla minacciosa è la richiesta, rivolta al cocchiere della carrozza, che Alessandro Manzoni fa pronunciare ne “I promessi sposi” al gran cancelliere spagnolo del ducato di Milano nell’anno di peste 1630. Avanzare con giudizio nella “fase due” del controllo dell’epidemia di Covid-19 è oggi un avvertimento necessario. i_promessi_sposi_186

Oggi martedì 19 maggio 2020

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—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—————————————————-
Fase 2: il caos e il metro di “ziu Antoneddu”
19 Maggio 2020
Franco Ventroni su Democraziaoggi.
Sono frastornato, anzi basito come si usa dire oggi. L’ultima è stata per me, ma immagino anche per voi, una settimana di passione. Le frasi e le parole nuove prodotte dalla pandemia del corona virus, che fanno parte ormai del nostro lessico familiare […]
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Coronavirus: prevenire contagio e diffusione
a cura di Claudio Porta
May 18 ·

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La strada verso Dongo
19 Maggio 2020
Stefania Falzoi su Democraziaoggi.
Ecco un altro scritto, raccolto dall’ANPI di Cagliari, in occasione del 25 aprile per sentirci vicini nonostante la clausura per coronavirus.
Chi vive sul ramo occidentale del lago di Como lo sa. Quelli sono luoghi speciali, luoghi dove la storia è entrata per lasciare la traccia potentissima della fine della guerra. […]
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L’economia italiana dopo la pandemia
Gianfranco Viesti
Su Sbilanciamoci, 18 Maggio 2020 | Sezione: Apertura, Politica
Le difficoltà economiche causate della crisi sanitaria del Covid-19 saranno di una dimensione mai vista in precedenza in Italia. Quali saranno i settori e i territori più colpiti? Quali gli effetti sull’occupazione? Soprattutto, quale futuro ci aspetta dopo la pandemia?
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I Lincei: l’Europa di fronte all’emergenza
Su Sbilanciamoci, 18 Maggio 2020 | Sezione: Europa, primo piano
L’Accademia dei Lincei ha istituito una Commissione sull’impatto dell’emergenza Covid-19 sull’economia, la società e la cultura, composta da esperti di diverse discipline. Qui proponiamo una sintesi del documento appena uscito sulle politiche europee.
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Vivere meglio con meno
Su Volerelaluna, 18-05-2020 – di autori vari.
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#Giustaitalia. Un manifesto per far ripartire l’Italia
Su Volerelaluna, 13-05-2020 – di Libera e altri
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Che succede?

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CI SONO GLI EUROPEI?
18 Maggio 2020 su C3dem.
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L’INSOFFERENZA DI DE RITA. POLEMICHE SUL PRESTITO ALLA FCA
18 Maggio 2020 su C3dem. [segue]

DOCUMENTAZIONE.

Reddito di base in Italia: una misura oramai inevitabile?

pressenzaintervista a Michele Giannella
Tratto da Pressenza

Intervista a Michele Gianella, coordinatore italiano della Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per un reddito di base incondizionato.
[segue]

Gli Stati Uniti d’America: da “nazione indispensabile” alla “nazione superflua” dell’era Trump. Perché è probabile che anche a causa del coronavirus Trump perda le elezioni.

081829bc-ff0e-40b4-8ee0-e21f36b45257GLI STATI UNITI, UN PAESE DA NON INVIDIARE
marino-de-medici-fdi Marino de Medici*
Non sono molti coloro che ricordano una definizione dell’America pronunciata dall’ex segretario di stato Madeleine Albright: “la nazione indispensabile”. Occorre ricordare che questa definizione fu proclamata nel Febbraio 1998 a sostegno delle pressioni americane sull’Irak e che con essa l’allora segretario di stato intendeva avanzare il concetto degli Stati Uniti come “garante della stabilità come unica superpotenza nel contesto delle istituzioni multilaterali”. Anni più tardi, dopo che il presidente George W. Bush aveva spinto quel concetto a catastrofiche conseguenze con l’invasione dell’Irak, il presidente Obama modificava la portata dell’appellativo affermando che l’America non è solo una grande nazione nel senso che è una potenza, ma per il fatto che “i suoi valori e le sue idee hanno vasta influenza”. A partire dal 2017 un altro presidente, Donald Trump, non perdeva tempo nello scardinare il concetto propugnato dalla Albright con una politica isolazionista che negli ultimi tempi ha reso l’America una “nazione superflua”.
Gli alleati dell’America, pur avendo goduto a lungo della protezione offerta dalla potenza americana, osservano oggi con incredulità le interminabili file di americani che ritirano pacchi viveri preparati da migliaia di organizzazioni sociali e caritatevoli. E’ uno spettacolo che lascia attoniti gli europei. Al tempo stesso, gli europei ormai conosconole cause di un fenomeno che non si presenta nei loro Paesi: la mancanza di una rete sociale e di risorse, a cominciare da quelle ospedaliere, dedicate alle classi meno abbienti.
Il “socialismo” che molti leader americani denunciano come il peggiore dei mali per un
Paese e’ quello che permette agli europei di affrontare la crisi senza cadere nel baratro di una disoccupazione che probabilmente lascerà il segno per anni negli Stati Uniti. In Germania, esiste un sistema, chiamato Kurzarbeit, che permette di regolare e proteggere il mercato del lavoro durante una crisi economica, attraverso la riduzione degli orari di lavoro e la loro distribuzione nella stessa forza lavorativa. Nulla di simile è possibile o previsto negli Stati Uniti. Risultato: i disoccupati e sottoccupati in America sono oggi 44 milioni.
Un gran numero di economisti ritiene che quasi metà delle occupazioni perse a causa del coronavirus diverrà permanente. Le minoranze soffrono gli effetti della crisi in misura sproporzionata: la disoccupazione tra gli hispanici si è quadruplicata mentre tra gli asiatici è aumentata sei volte. Il tasso di disoccupazione tra gli afro-americani ha raggiunto il 16,7 per cento. I settori più colpiti dalla crisi sono quelli definiti “non essenziali”: vendite al dettaglio, ospitalità e alimentazione. Trentatre milioni di americani hanno richiesto gli assegni di disoccupazione che vengono elargiti dagli stati. Questi sono sopraffatti dalle richieste al punto che nove stati hanno chiesto un prestito di 38 miliardi al Federal Unemployment Account per soddisfare le domande dei lavoratori che hanno perso il posto di lavoro.
Il nodo scorsoio della sanità americana è rappresentato da una statistica che sbalordisce gli europei: prima che arrivasse il flagello del coronavirus, 160 milioni di americani ricevevano la loro assicurazione medica attraverso il datore di lavoro. Secondo uno studio dello Urban Institute, da 25 a 43 milioni di lavoratori rischiano di perdere l’assicurazione medica qualora la crisi dovesse perdurare. E’ una prospettiva sconvolgente che dimostra quanto l’America sia vulnerabile a motivo delle differenti regolamentazioni degli stati, in modo speciali quelli retti da repubblicani, che impongono restrizioni ai programmi di assistenza, come Medicaid, a beneficio dei cittadini a basso reddito. Tra questi figurano trenta milioni di americani privi di assicurazione medica ancor prima della pandemia.
Un fatto saliente dell’economia degli Stati Uniti è che decine di milioni di americani non dispongono di risparmi tali da far fronte ad una emergenza ma vivono “da paycheck a paycheck” ossia da una busta paga all’altra. E’ una situazione che perdura da molto tempo a questa parte ma l’attuale crisi ha portato le economie familiari ad un punto in cui non possono autosostenersi. La conseguenza più grave è quella di causare forti restrizioni nella condotta di vita, e addirittura la ricerca di viveri alla quale si assiste in tutto il Paese, con una forte contrazione della domanda. Va tenuto presente che il PIL americano dipende per il 70 per cento dalla spesa dei consumatori in negozi, acquisti online, ristoranti e sedi di sport ed intrattenimento. La previsione di una maggioranza degli economisti è che non ci sarà un rapido recupero dell’economia americana in termini della cosiddetta “curva a forma di V”. E’ sulla V che fa conto il presidente Trump, in tempi relativamente brevi, per assicurarsi la rielezione. Ora però gli stessi consulenti economici del presidente, tra i quali il Segretario al Tesoro Mnuchin, ammettono a denti stretti che il protrarsi della crisi potrà produrre “un danno economico permanente”.
Tutto ruota attorno ad un interrogativo, se l’andamento nella rimozione delle misure restrittive porterà ad una recrudescenza dei contagi e lamentabilmente ad una media ancor alta di decessi. A solo sei mesi dalla consultazione presidenziale, Donald Trump gioca una carta disperata, quella di convincere una massa di elettori che il ritorno alla normalità può avvenire in piena sicurezza. Le morti causate dal perdurare del virus sono in pratica il prezzo da pagare per la normalità, una congiuntura che per Donald Trump significa esclusivamente piena ripresa finanziaria – economica. Trump ignora un fatto drammatico, che la pandemia sta alterando le condizioni di vita in tutto il Paese, ma in modo speciale negli ambienti urbani più popolati. Tra l’altro, è probabile che molti abitanti di città infestate dal virus decidano di trasferirsi in zone rurali. A New York ed altre grandi città questo fenomeno non mancherebbe di modificare a fondo la natura del mercato residenziale.
Economisti, epidemiologi e studiosi della sanità sono tutti d’accordo che in America la rete di sicurezza sociale non funziona. Joseph Stiglitz in particolare attribuisce questa situazione alla diseguaglianza che colpisce soprattutto coloro che non godono di buona salute. Ed aggiunge, con un pessimo presagio, che una massa di americani spenderà esclusivamente per procurarsi da mangiare, “la definizione di una Grande Depressione”. Sul piano globale, le catene di approvvigionamenti si accorceranno, ed i Paesi daranno la priorità all’autosufficienza per il cibo ed energia.
Ed infine, va tenuto conto delle ripercussioni sul tessuto connettivo dell’America in termini di accesi contrasti tra il potere federale e gli stati. Basti pensare alle acerbe polemiche sulla disponibilità di test diagnostici e sulla ripartizione di attrezzature medicali. Il discorso purtroppo riguarda anche i singoli stati. Quando un gruppo di facinorosi armati di fucili d’assalto penetra nel governatorato del Michigan urlando “tirannia” e invocando la libertà di fare la spesa, consumare ed agire senza restrizioni, non è ingiustificato parlare di “guerra civile” con la maggioranza che si attiene alle norme anti-epidemiche. Invocare la liberazione dal “lockdown”, la chiusura su scala nazionale, è un simbolo di libertà stravolto in quanto comporta la libertà di morire di coronavirus e di minacciare di malattia e morte coloro che non hanno la possibilità di sfuggire al contagio. Altrettanto “incredibile” – per usare un aggettivo prediletto da Trump – è che il presidente sottoscriva questo concetto di “libertà”. Tale constatazione indubbiamente spiega perché la crisi globale in atto non trovi alcun Paese incline a seguire la leadership della nazione “indispensabile”.
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JOSEPH BIDEN E LE SUE IPOTECHE

Bernie Sanders ha detto addio alle sue aspirazioni presidenziali, ma cosa faranno adesso i suoi sostenitori, per la maggior parte giovani? Questo è l’interrogativo che domina tra gli osservatori politici americani, molti dei quali – ma non tutti – non sono ignari che tra i tanti indici della popolarità di un candidato, e quindi della possibilità di elezione, ve ne è uno che è difficile quantificare ma che alla fine può decretare l’esito del voto. E’ il cosiddetto “entusiasmo dell’elettore”, ossia il rilevamento demoscopico che confronta la propensione di un elettore di rimanere a casa contro la decisione di andare alle urne per esprimere il proprio appoggio ad un
candidato. Questo è il problema di Joseph Biden come lo fu quattro anni fa per Hillary Clinton che per colpa di quel fattore finì per perdere l’elezione presidenziale. Un’inchiesta demoscopica della ABC ha portato alla luce un dato interessante: gli elettori repubblicani sono molto più entusiasti di votare per Trump rispetto ai democratici chiamati a votare per Biden. Soltanto il 24 per cento degli elettori democratici hanno fatto sapere di essere “entusiasti” della candidatura Biden, uno dei livelli piu’ bassi di popolarità di un candidato tra i suoi potenziali elettori.
Vi è adesso un certo numero di esperti – ma non tra la stampa che ha sempre disdegnato la candidatura Sanders – che scorge nell’indice di “entusiasmo dell’elettore” un importante segnale di debolezza del candidato che ha già in tasca la nomination del partito democratico. Per contro, gli stessi esperti riconoscono che Bernie Sanders aveva dietro di se una massa di potenziali elettori entusiasti ed intensamente impegnati a favore della sua candidatura. Purtroppo per Sanders, non era una massa critica, come del resto veniva dimostrato dal risultato delle elezioni primarie a partire dal famoso “supermartedì”.
Vi è stato comunque un momento, all’indomani delle primarie del New Hampshire e del Nevada, in cui è sembrato che Bernie potesse farcela a conquistare la nomination. In quei frangenti, è prepotentemente entrato in gioco un altro indice, quello della “eliggibilità”, che ha coagulato il fronte dei “never Bernie” (mai Bernie), dei democratici che non condividono le idee progressiste del senatore del Vermont. Dalla sera alla mattina, Joe Biden è divenuto il portabandiera di questo blocco di elettori democratici. Ma quanti di loro sono così “entusiasti” di Joe Biden da andare a votarlo? E’ una “big question”, dalla quale dipende il risultato del 3 Novembre. Una cosa è certa, ed è che i sostenitori di Trump voteranno in blocco e con forte affluenza. Le indagini demoscopiche calcolano costantemente una percentuale a favore di Trump del 45 per cento dell’elettorato. Tutto lascia pensare insomma che l’elezione presidenziale verrà decisa sul filo di lana in tre stati (Michigan, Pennsylvania e Wisconsin), che nel 2016 diedero a Trump la vittoria con un margine totale di appena 80.000 voti. Quei tre stati avevano votato per Obama nel 2012.
Bernie Sanders si è ritirato dalla corsa presidenziale e ha promesso a Biden di appoggiare la sua candidatura. Ma non gli ha concesso un vero e proprio “endorsement” ossia un’incondizionata approvazione. Le condizioni, anzi, ci sono eccome. Sanders
vuole che Biden abbracci elementi fondamentali della sua politica sociale ed economica, ben sapendo che Biden non appoggia il piano di “Medicare for All”, che a suo tempo non incontrò favore alcuno tra gli altri aspiranti alla candidatura presidenziale, con la sola possibile eccezione della senatrice Elizabeth Warren. Sanders ha citato la pandemia del covid-19 come prova della necessità di adottare “Medicare for All” al fine di garantire l’assistenza medica a tutti gli americani. La maggioranza dei media ha accusato Sanders di essersi servito dell’epidemia per sollecitare l’adozione dei suoi programmi, come se l’appello alla protezione sanitaria fosse in fondo una
manovra opportunistica. Da tempo, la stampa in America ha acquisito una fisionomia corporativa al servizio dei poteri forti, che si esprimono attraverso gli ingenti contributi dei “grandi donatori”, oltre agli stretti legami dell’Establishment con i dirigenti del partito deocratico. Per contro, Donald Trump ha pochi giornali al suo fianco ma ha una alleato formidabile nella catena televisiva Fox. Non solo, perché i mezzi busti trumpisti della Fox sono per molti versi gli ispiratori della sua politica. Il presidente dedica ore della sua giornata ad ascoltare la versione degli eventi ed i commentari della Fox.
L’insistenza di Sander nel sollecitare una politica sanitaria finanziata dal governo è strettamente legata alla sua campagna contro l’ineguaglianza sociale ed economica.
Questa a sua volta è drammaticamente denunciata dai dati relativi alla pandemia secondo i quali gli afro-americani muoiono in misura molto più elevata rispetto ai bianchi. A Chicago, dove la popolazione nera è del 30 per cento, i decessi tra gli afro-americani toccano il 70 per cento. Lo stesso squilibrio si registra nella contea di Milwaukee (27 per cento di colore, con decessi fino all’81 per cento della popolazione locale).
L’ex vicepresidente Biden non ha fiatato nel merito limitandosi ad affermare che il programma “single payer”, ossia l’assistenza sanitaria con un solo finanziatore, lo stato – “non risolverà la crisi della pandemia”. Lo stesso Biden, in un dibattito con gli altri candidati, aveva citato l’Italia come un Paese in cui il sistema “single payer” era incapace di risolvere la crisi del coronavirus con l’esistente sistema sanitario. A parte l’ignoranza dimostrata nei confronti di un sistema che fornisce assistenza medica a tutti i cittadini su base praticamente gratuita (tutto il contrario degli Stati Uniti dove la medicina è a pagamento), Biden ha ignorato lo sforzo sovrumano di un sistema sanitario sopraffatto da una micidiale epidemia. L’ex vicepresidente propone un’imprecisata estensione di Obamacare ed una altrettanto poco chiara “opzione pubblica”, sottovalutando un importante fatto, che da quando si è diffuso il coronavirus il sostegno dei democratici per “Medicare for All” è salito di nove punti, attestandosi sul 55 per cento degli elettori intervistati dall’organizzazione demoscopica Morning Consult. Ed ancora, anche gli indipendenti sono a favore di “Medicare for All” in ragione del 52 per cento. In generale, l’appoggio a “Medicare For All” è cresciuto di dieci punti tra gli elettori di colore e quelli di età tra i 45 e 54 anni. Di fatto, il picco della pandemia e la conseguente crisi senza precedenti dell’occupazione impongono un approfondito studio delle deficienze del sistema sanitario americano che fa affidamento sul legame tra assicurazioni e impieghi lavorativi. Gli stati governati da repubblicani che non hanno abbracciato il programma Medicaid con le clausole previste dall’Affordable Care Act (Obamacare) corrono il rischio di lasciare ventotto milioni di americani senza assicurazione medica.
La crisi della salute pubblica in America non ha purtroppo assistito il superamento della frattura partigiana che divide gli americani in tema della legislazione sanitaria. Il 44 per cento dei repubbicani si dichiara contrario ad accettare Obamacare, ed ancor meno un programma “single payer”. E’ su questo scivoloso terreno di confronto politico che Biden si accinge a tracciare le line definitive della sua agenda elettorale, che non può non fare a meno di proposte innovative che assicurino la protezione dei lavoratori americani.
Soprattutto, Biden non può fare a meno dell’appoggio di Bernie Sanders. Bernie è riuscito ad imporre il dibattito su temi da tempo cari alla sinistra americana, respinti o disattesi dal grosso del partito fino a tempi recenti. Non sono temi risolutivi in termini di politica nazionale, ma sono rilevanti in funzione dell’afflusso alle urne di nuove leve del partito democratico. Senza un tale afflusso, le possibilità di Joseph Biden di prevalere su un avversario attestato in un fortino di fedelissimi sono limitate.
Gli ultimi sondaggi sono espliciti: la contesa Biden-Trump è data al 50-50 per cento.
Ma le cose possono cambiare rapidamente. Due mesi fa, Sanders era in testa e Biden e Bloomberg erano secondi. In ultima analisi, molto dipende dalla persona che Biden sceglierà come candidato alla vicepresidenza. Sarà una donna, stando a quanto annunciato dallo stesso Biden. Tutti gli occhi però sono puntati sulla Governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, che è all’avanguardia nella lotta contro il virus e la condotta incompetente del presidente Trump. Biden ha bisogno della Whitmer che
può garantirgli i sedici voti elettorali del Michigan. Resta il fatto comunque che l’aiuto decisivo è quello della legione di giovani e indipendenti solidali con Sanders. Da solo, Joseph Biden non ce la farà.
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Marino de Medici: China, a useful target for the candidates.
[segue]

Oggi lunedì 18 maggio 2020

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Christian: uomo di forchetta o di pensiero? Un’idea ce l’ho, e voi?
18 Maggio 2020
Amsicora su Democraziaoggi.
Amici e amiche, confesso senza vergogna: spesso sono confuso. Incerto, perplesso, impaurito. Non so se sono gli altri che stanno perdendo il lume della ragione o io che perdo colpi e non ci capisco piu’ niente. Ad esempio, tutti invocano dal governo autonomia. Ma che diamine! Cos’è questo centralismo becero e ottocentesco?! Decisioni veloci, pronte, [...]
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Decreto Rilancio. Ora però bisogna fare presto coi sostegni economici
18 Maggio 2020
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Il Decreto Legge per il rilancio dell’economia, dopo la gravissima crisi occupazionale, sociale ed economica provocata dalla pandemia da Covid, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri ma non è stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Questo vuol dire che il testo potrebbe subire ancora qualche variazione perchè è ora sottoposto alla verifica dei […]
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Proposte per l’emergenza e per la ripresa. Indirizzi per lo sviluppo dei settori produttivi in Sardegna
[di Segreteria CGIL]
By sardegnasoprattutto/ 16 maggio 2020/ Economia & Lavoro/
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DOPO IL VIRUS
L’unico futuro possibile

18-05-2020 – di Salvatore Coluccia
Su Volerelaluna.
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Che succede?

c3dem_banner_04IL LAVORO OGGI, A 50 ANNI DALLO STATUTO DEI LAVORATORI
17 Maggio 2020 su C3dem.
IL PD, I NODI DELLA RIPARTENZA, LE SCUOLE PARITARIE
17 Maggio 2020 su C3dem.

Oggi domenica 17 maggio 2020, dalle ore 18

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https://m.youtube.com/watch?v=2ymBtyXPYN0&feature=emb_title

Oggi domenica 17 maggio 2020

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Pintor, il comunista-libertario che voleva cambiare il mondo: oggi il ricordo
- 17 Maggio 2020. Andrea Pubusa su Democraziaoggi. -
- Anche su Aladinpensiero online .
Oggi alle 18 in diretta streaming il Manifesto sardo ricorda Luigi Pintor, con tre protagonisti assoluti della storia del Movimento politico del Manifesto: Luciana Castellina, fondatrice del movimento (insieme a Pintor, Magri, Rossanda, Parlato, Milani ed altri), Marco Ligas, fondatore in Sardegna con Nuto Pilurzu, Salvatore Chessa, Franco Restaino, Cenzino Defraia, Serafino Canepa […]
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Carbonia. Nasce il movimento operaio
17 Maggio 2020
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Puntuale anche questa domenica una tessera per comporre la storia di Carbonia. La prima domenica 1° settembre.
Le vicende della classe operaia del Sulcis vanno ricostruite tenendo conto, innanzitutto, della provenienza geografica e sociale di un proletariato urbano, quasi del tutto nuovo e sottoposto a continui e rapidi ricambi. Nella sua formazione tanto considerevole fu […]
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Antonino Usai, partigiano di Narcao
Eva Zara su Democraziaoggi.
Mio nonno Antonino. Antonino Usai nasce a Narcao, il 28 maggio 1922. Da molti in paese era conosciuto come Nino o Antonio, anche se il nome all’anagrafe è Antonino.
Nelle lettere che inviava alla madre e alla sorella si firmava Nino. […]

È online il manifesto sardo trecentosei.

pintor il manifesto sardoIl numero 306
Il sommario
Luigi Pintor, l’eretico che voleva cambiare il mondo (red), Le criticità del MES (Roberto Mirasola), Lo Statuto dei Lavoratori compie 50 anni (Graziano Pintori), L’impossibile ritorno alla normalità dopo la crisi pandemica (Gianfranco Sabattini), Turchia e dintorni. La Turchia tra zone di influenza e autoritarismo (Emanuela Locci), Coronavirus e privatizzazione delle spiagge (Stefano Deliperi), Riconsiderare il lavoro (Guido Viale), I medici ospedalieri in stand by chiedono di poter lavorare (Claudia Zuncheddu), Appello per il reddito e la garanzia del lavoro culturale in Sardegna (red), Le politiche per il Mezzogiorno e per la Sardegna. Il Piano Sud 2030 (Umberto Allegretti), Un maggio di pace per la riconversione della Rwm (red), I limiti della didattica a distanza (Fiorella Farinelli), Il diritto di sfrattare (Fiammetta Cani), Un combattente e medico palestinese amico del popolo sardo (Paolo Pisu), Incontro con Francesca Sassu (red).

Che succede?

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NOTE SUL DECRETO RILANCIO E SULLE LACRIME DELLA BELLANOVA
15 Maggio 2020 by Forcesi | su C3dem.
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Oggi sabato 16 maggio 2020

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L’ANPI saluta Ezio Bosso, artista di cuore e di Memoria
15 maggio 2020
Nel giorno della sua scomparsa, noi dell’ANPI abbiamo ricordato questo straordinario musicista riportando sulla nostra pagina Facebook un suo meraviglioso post del 27 gennaio 2017, Giorno della Memoria
È morto il musicista Ezio Bosso. Una notizia che ci addolora molto. Per ricordare questo artista, questo uomo meraviglioso riportiamo un suo post […]
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Ezio Bosso, il ricordo dell’amico Paolo Fresu: “La sua poesia luminosa ha fatto bene al mondo”
di Paolo Fresu
Il grande jazzista sardo Paolo Fresu ha ricordato l’amico e collega musicista Ezio Bosso, scomparso ieri all’età di 48 anni per una grave malattia neurodegenerativa.
Ci conoscevamo da vent’anni.
Da quando ci trovammo, assieme ad altri compositori di musiche da film, a suonare assieme a Bologna nel Festival del Cinema Ritrovato. Ezio […]
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Francesco Pranteddu, l’ANPI e il messaggio ai giovani
di Erminia Caria Pranteddu su Democraziaoggi.
Nell’ambito della raccolta, promossa dall’ANPI-Cagliari, di ricordi sulla Resistenza e sull’antifascismo ecco un pensiero per Francesco Pranteddu, uno dei costruttori della nuova ANPI in Sardegna. Il 25 aprile 2020, il secondo dopo la morte di Francesco, colgo l’invito e propongo di ripercorrere insieme l’attività culturale da lui svolta a Cagliari.[…]
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Ezio Bosso, che bella persona!

La morte di Ezio Bosso.
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Da Democrazia e Lavoro Cgil

Lavorare tutti lavorare meno

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Una prospettiva auspicabile, ma problematica: meno lavoro per tutti

di Gianfranco Sabattini

Domenico De Masi, noto docente di Sociologia del lavoro, in “Meno lavoro per tutti” (MicroMega, 3/2020), ritiene che l’evoluzione delle modalità di lavoro nel tempo renda fondata la previsione che il progresso tecnologico possa portare l’umanità alla fine del lavoro coatto. Nella sua narrazione, De Masi prende le mosse dalle forme che il lavoro ha assunto nelle società antiche, sino a pervenire, passando per il Medioevo, alla cosiddetta società industriale sorta a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e giunta, dopo quasi duecento anni, ad assumere la struttura della società post-industriale, la cui dinamica interna lascia spazio per immaginare quali modalità potranno caratterizzare l’organizzazione dell’attività lavorativa nella società del futuro.
La società industriale e il sistema produttivo corrispondente sono nati, ricorda De Masi, alla fine del Settecento, quando “sotto la spinta di tre rivoluzioni politiche – quella inglese, quella francese e quella americana – [ha avuto] inizio una vera e propria rivoluzione produttiva”, che ha cambiato il mondo, come conseguenza degli effetti di due fattori, uno di natura economica e l’altro di natura culturale: il primo determinato dalla comprensione, da parte del Paese (l’Inghilterra), che guidava il processo di cambiamento, dei larghi vantaggi che potevano essere tratti dalla valorizzazione delle risorse a basso costo provenienti dalle colonie; il secondo era la conseguenza della diffusione delle idee illuministe, che ponevano la ragione al centro dell’attività umana e, con essa, la convenienza a “razionalizzare i processi produttivi, programmandoli, organizzandoli e controllandone i prodotti in modo scientifico”.
Con i loro effetti sulle modalità d’impiego del fattore lavoro, i due fattori, quello economico e quello culturale, hanno anche comportato un profondo cambiamento nell’organizzazione della società e nelle propensioni comportamentali dei suoi componenti, riconducibili alla distanza tra casa e fabbrica, ai ritmi sostenuti dell’attività produttiva e al rapido aumento dei livelli di consumo. In tal modo, la fabbrica si è tradotta in un sistema produttivo che, avvalendosi di un triplice input (lavoro umano, moneta e macchine) ha potuto realizzare la produzione delle varie parti di ciascun prodotto; con l’”assiematura”, man mano che il manufatto passava da un reparto all’altro, il processo produttivo terminava con l’uscita dalla fabbrica di “un triplice output: il prodotto finito, il salario dei lavoratori e il profitto degli imprenditori”.
La fabbrica, elemento costitutivo del settore industriale, ha subito nel tempo continui processi innovativi che hanno riguardato la sua razionalizzazione, sino a “subire una paradigmatica impostazione organizzativa negli Stati Uniti, non da parte di umanisti, ma di ingegneri come Taylor e Ford”, le cui idee sono valse a trasformare progressivamente “l’operaio in macchina”, nonché a creare le premesse perché “l’uomo-macchina” potesse essere sostituito con “una macchina vera e propria”, aprendo l’evoluzione della società industriale verso quella post-industriale.
In estrema sintesi – afferma De Masi –, dopo la millenaria fase rurale pre-industriale e la bisecolare fase industriale, tra la “metà del Settecento e la metà del Novecento si sono sviluppati vari fattori che si sono potenziati a vicenda; progresso scientifico e tecnologico, sviluppo organizzativo, globalizzazione, mass media e alfabetizzazione hanno dato vita a una miscela esplosiva che, resa deflagrante da quel terribile detonatore che [è stata] la seconda guerra mondiale, ha generato una società completamente diversa da quella industriale”; quella appunto post-industriale, centrata sulla produzione di beni immateriali, quali soprattutto informazioni e servizi di ogni tipo.
Così come la razionalizzazione della società industriale aveva consentito al mondo della produzione di allestire una crescente quantità di beni, sostituendo progressivamente nei processi produttivi il lavoro con le macchine, allo stesso modo la società post-industriale, con l’introduzione delle nuove tecnologie informatiche, ha continuato ad aumentare i livelli produttivi, sempre con un progressivo impiego di una minor quantità di lavoro.
In termini di mercato del lavoro, l’evoluzione dalla società rurale pre-industriale a quella industriale e post-industrale, ha comportato un travaso di forza lavoro dall’agricoltura a un’industria produttrice di beni materiali, prima, e di beni immateriali, poi. In termini di utilizzazione dei fattori produttivi, la stessa evoluzione ha comportato un continuo “risparmio” di forza lavoro, tanto da rendere possibile nella società post-industriale, che le mansioni di molte unità di forza lavoro siano volte da robot, dai computer e dall’intelligenza artificiale. In termini di organizzazione dell’attività produttiva, infine, con l’avvento della società post-industriale si è avuta la crisi del modello onnicomprensivo della fabbrica, con la perdita dell’originaria funzione di allestire un prodotto compiuto; le componenti opportunamente standardizzate dei vari prodotti possono essere allestite in diverse parti del mondo, per essere poi assemblate nel bene finale, grazie agli scambi globali, in un luogo ancora diverso.
Poiché anche nella società post-industriale il progresso tecnologico ha continuato a crescere e, per effetto della globalizzazione, è stato possibile acquistare prodotti ovunque risultasse più conveniente, al lavoro si sono aperte – a parere di De Masi – “prospettive straordinarie”, che hanno resa superata la questione se le nuove tecnologie creassero più o meno lavoro di quanto ne distruggessero; per cui, il jobless growth (cioè lo sviluppo senza lavoro) è divenuto, per De Masi, “cosa inevitabile e magnifica, i cui effetti vanno ben al di là della fine della fatica”. Inoltre, la crescita senza fatica destituirà di ogni rilevanza la legge di distribuzione del prodotto sociale in base al contributo che ogni unità di forza lavoro ha prestato per produrlo; semmai, verificandosi che il lavoro umano impiegato per costruire un dato prodotto equivale ad una piccola percentuale del valore di mercato di quest’ultimo, resterà da stabilire a chi debba essere attribuita la differenza. In altri termini, resterà da risolvere il problema della distribuzione di “una ricchezza crescente prodotta da un numero decrescente di lavoratori”.
Ora, anche gli economisti tradizionalmente scettici, di fronte alla prospettiva di una crescita senza lavoro – osserva De Masi – cominciano a chiedersi cosa accadrà all’interno di quelle società che si credono ancora fondate sul lavoro, benché questo decresca di continuo; essi non potranno che “accogliere positivamente il fatto evidente che l’attività umana, sempre meno necessaria nella produzione diretta della ricchezza, potrà concentrarsi nell’ideazione di nuovi beni e servizi che poi le macchine produrranno e nell’’invenzione’ di quel tempo libero che l’organizzazione industriale del lavoro [ha] compresso e mortificato”.
A sostegno della sua tesi, De Masi ricorda che l’idea che il progresso tecnologico e l’aumento della produttività potessero portare alla “fine del lavoro” è stata anticipata da una previsione gi John Maynard Keynes, formulata alla fine degli anni Venti del secolo scorso, in un pamphlet dal titolo accattivante: “Le possibilità economiche dei nostri nipoti”. Il grande economista di Cambridge, tenendo conto dell’aumento del progresso tecnologico e della produttività, prevedeva che, dopo un secolo (quindi, circa alla fine del 2030), le popolazioni non sarebbero più state nella condizione di dover lavorare, per cui il problema economico del lavoro in tutte le società avrebbe cessato d’essere fonte di preoccupazioni. Ciò, però, avrebbe creato un nuovo problema: quello di insegnare alla gente a vivere senza lavorare.
La previsione di Keynes era direttamente collegata all’ipotesi che l’aumento della ricchezza, conseguente alla crescita del progresso tecnico e della produttività, fosse accompagnata da una continua diminuzione delle disuguaglianze distributive; un’ipotesi, quindi, sulla fine del lavoro formulata in termini del tutto diversi dal come sembra intenderla De Masi. Com’è possibile, viene spontaneo chiedersi, che la transizione verso la fine del lavoro non sia associata a una politica destinata a contrastare la disoccupazione crescente e la disuguaglianza distributiva?
Secondo De Masi, quella che stiamo vivendo non è che una prima fase delle società post-industriali, in cui è possibile adottare politiche economiche atte a ridistribuire la forza lavoro disoccupata; da un lato, riducendo progressivamente l’orario di lavoro (man mano che si introducono ulteriori innovazioni tecnologiche nelle combinazioni produttive) e, dall’altro lato, creando “nuovi lavori”, per garantire a tutti i disoccupati un “reddito di inclusione durante le fasi di disoccupazione frizionale”, riciclando i disoccupati “con la formazione durante i periodi vuoti che intercorrono tra un lavoro e l’altro” e formando “i lavoratori a fruire del tempo libero, che cresce durante gli anni di lavoro e si prolunga durante gli anni di pensionamento”.
De Masi ritiene fondato pensare che, nella fase ultima dell’evoluzione della società post-industriale, a lavorare saranno solo le poche unità di forza lavoro occupate nello svolgimento delle funzioni creative ed organizzative, mentre tutto il resto della popolazione “consumerà senza produrre, ottenendo direttamente la parte di produzione corrispondente ai suoi bisogni”. A questo punto – conclude De Masi – diventerà inutile qualsiasi forma di reddito di cittadinanza universale e incondizionato, perché la libertà dal bisogno di tutti i cittadini sarà garantita da una nuova Costituzione, attenta “ad evitare che il gruppo creativo non diventi un casta onnipotente e prevaricatrice”, ma sia orientata ad assicurare “un’equa distribuzione del potere, del sapere, delle opportunità, delle tutele e delle modalità più adatte a secondare il godimento del tempo totalmente libero da incombenze lavorative coatte”.
Ciò che De Masi nella sua conclusione trascura di considerare è che, con la fine del lavoro, la distribuzione di quanto resta del prodotto sociale (al netto, deve supporsi, della reintegrazione dei fattori produttivi impiegati e del salario corrisposto all’élite creativa ed organizzativa) tra tutti i cittadini, in funzione dei loro bisogni, non assicura l’eliminazione delle disuguaglianze distributive, mancando ogni possibilità di conformare la distribuzione in funzione dei bisogni individuali, i quali non sono oggettivamente stimabili; per cui, se anche fosse convenuto un qualche criterio in base al quale effettuare la distribuzione del surplus produttivo in funzione degli stati di bisogno individuali, difficilmente potrebbe essere eliminata la disuguaglianza distributiva, della quale la fine del lavoro dovrebbe invece segnare la definitiva rimozione.
In conclusione, nella prospettiva di analisi di De Masi è difficile immaginare la realizzazione di una distribuzione del surplus produttivo senza l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato; solo con un “dividendo sociale” di pari importo corrisposto a tutti i cittadini, può essere realizzata, dopo la fine del lavoro, un’uguaglianza distributiva conforme ad una capacità di acquisto idonea a consentire uno stabile funzionamento del sistema economico e una maggior capacità di tenuta della coesione del sistema sociale. Solo allora l’attività politica, sottratta alla defatigante ricerca, di momento in momento, di un compromesso instabile per la soluzione del problema distributivo, potrà rivolgersi a regolare il godimento del tempo libero, indirizzandolo verso la cura dell’ambiente e all’approfondimento della conoscenza, perché tutti possano viverlo “bene, piacevolmente e con saggezza”, secondo la profezia keynesiana.
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