Monthly Archives: aprile 2020
In tempo di coronavirus
Oltre le nuvole dalla finestra
di Veronica Rosati.
All’inizio di questa emergenza, affacciati ai balconi o nella riservatezza dei nostri salotti, prevaleva l’unanime speranza che, comunque fosse andata, ne saremmo usciti migliori. In un’Italia ancora in quarantena, chi se lo può permettere si sorprende ad osservare dalla sua finestra un mondo nuovo. Ci siamo abituati al silenzio che ha avvolto le nostre città. Non ci sorprendono più le vie vuote e con le stesse auto parcheggiate da un tempo indefinito.
Nemmeno qui, in una vivace cittadina dell’hinterland di Milano.
Nonostante il bombardamento mediatico, la saturazione di informazioni, di dati e di teorie statistiche o scientifiche, non riusciamo né vogliamo abituarci a convivere con il virus. Il Covid-19 ha ora il volto dei nostri cari, di persone con una storia il cui valore prescinde dall’età anagrafica o dalle – ormai famose – patologie pregresse. Il virus è raccontato dal silenzio delle bare caricate sui mezzi militari nella bergamasca, dai rumori artificiali degli ospedali e dal dolore nascosto di chi attende a casa con speranza qualche buona notizia. Abbiamo pianto davanti a Conte e al Papa sentendo tutto il peso della nostra finitudine. Dopo aver corso per decenni da un capo all’altro del mondo, anche semplicemente per una vacanza, ci siamo ritrovati imprigionati nelle nostre piccole case. Ci siamo creduti onnipotenti possessori di una libertà smisurata, figlia di grandi battaglie, ma anche frutto acerbo di un progresso che credevamo scontato compagno di questo lungo e splendido viaggio.
Il Covid-19 ha tolto la maschera soprattutto al rapporto fra il progresso tecnico scientifico e la vita umana. Prima di tutto questo, aleggiava la tacita consapevolezza di essere accompagnati dalla protezione del progresso scientifico. Lo immaginavamo critico, versatile, totalmente al nostro passo. Non poteva essere altrimenti: un mondo globale ed iperconnesso, economicamente avanzato, bulimico di denaro, di comodità che sono diventati vizi e di relazioni virtuali, non poteva che vedere nel progresso l’unico vero padre. Con la consueta presunzione della specie umana ci siamo creduti la generazione migliore. Il culmine della storia, l’ultimo gradino dell’evoluzione darwiniana.
Chi lo immaginava che sarebbe bastato un minuscolo virus venuto dall’altro capo del mondo per far vacillare granitiche certezze? [segue]
Coronavirus. Mobilitiamoci, fin che siamo in tempo, per evitare la catastrofe nella città metropolitana
OGNI GIORNO É PREZIOSO
di Gianni Pisanu
L’emergenza Virus non ha risparmiato la nostra isola. Mentre sulla base degli ultimi dati alcuni studi hanno seppure con prudenza formulato previsioni di “spegnimento” per la maggior parte delle regioni, per la Sardegna non si sbilanciano. Con le Marche e la Basilicata infatti la Sardegna è in una situazione di imprevedibilità sulla base del susseguirsi dei dati.
Le esperienze finora maturate e richiamate negli ultimi giorni da numerosi scienziati fra i quali il Prof. Galli dell’ospedale Sacco di Milano, indicano come strada maestra oltre alla scrupolosa osservanza delle norme che limitano drasticamente i contatti interpersonali, l’isolamento delle persone infettate che oggi sono lasciati nelle loro abitazioni spesso del tutto inadeguate dove oltre a non potersi curare in modo accettabile, costituiscono un grave rischio di contagio per parenti e conviventi.
Il rischio di contagio per i familiari delle persone positive cosiddette isolate è calcolato fra dieci e cento volte superiore alla media. Facile in questo modo lo svilupparsi di sempre nuovi focolai. [segue]
Coronavirus. Che fare?
Che fare?
di Roberto Loddo, Andrea Pubusa e Franco Meloni.
In questo periodo di rivolgimenti, confusione e vita complicata si susseguono nei media preoccupanti notizie sul futuro della nostra società in cui in tutto il mondo la situazione sembra precipitare. Giusto tenersi informati e informate, ma dobbiamo dedicare più tempo a come affrontare la situazione oltre le priorità dell’emergenza. Parliamo della fase due, di “contenimento” del virus, quando ci dovremo considerare tutti dentro un grande ospedale da campo, e poi della fase tre, quella della ricostruzione, quando tutto sarà cambiato, tanto da rendere impossibile riprendere come se tutto fosse stato una parentesi. A noi, attivisti e attiviste dell’informazione, de il manifesto sardo, di Democraziaoggi e di aladinpensiero spetta ragionare su come affrontare queste tre fasi, delle quali non si conosce, se non per pura ipotesi, l’estensione. Sorge l’interrogativo di sempre: che fare? Il dibattito che si è avviato è vasto e approfondito, tanto da rendere chiare una serie di possibili percorsi da praticare. Ovviamente occorre ulteriormente approfondire fino ad arrivare a decisioni condivise e operative. Anche noi, con i nostri portali di informazione, partecipiamo a questo poderoso sforzo di comprensione e di ricerca delle strade da intraprendere. Proponiamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori una serie di articoli condivisi dalle nostre tre redazioni e una serie di iniziative pubbliche online, da svolgersi ognuno da casa nostra e in videoconferenza con lo strumento delle dirette. Saranno incontri per reagire alla impossibilità di vederci e continuare con modalità differenti il lavoro e l’impegno dell’informazione così come siamo abituati e abituate.
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L’articolo che segue dell’economista gesuita Gaël Giraud, apparso su La Civiltà Cattolica, è il primo di una serie condivisi dalle tre News online: il manifesto sardo, Democraziaoggi e aladinpensiero, che ragionano su come affrontare e superare la fase dell’emergenza Covid-19 e sui possibili percorsi da praticare per il futuro del pianeta. L’articolo viene pubblicato per stralci, rinviando la lettura integrale al sito de La Civiltà cattolica.
PER RIPARTIRE DOPO L’EMERGENZA COVID-19
di Gaël Giraud, La Civiltà Cattolica
Ciò che stiamo sperimentando, al prezzo della sofferenza inaudita di una parte significativa della popolazione, è il fatto che l’Occidente, dal punto di vista sanitario, non ha strutture e risorse pubbliche adeguate a questa epoca e a questa situazione. Come fare per entrare nel XXI secolo anche dal punto di vista della salute pubblica? È questo che gli occidentali devono capire e mettere in atto, in poche settimane, di fronte a una pandemia che, nel momento in cui scriviamo, promette di imperversare per il Pianeta, a causa delle ricorrenti ondate di contaminazione e delle mutazioni del virus[1]. Vediamo come e perché.
Il sistema sanitario occidentale e la pandemia
Dobbiamo innanzitutto ribadire, a rischio di creare sconcerto, che la posizione di molti specialisti di salute pubblica è coerente su un punto[2]: la pandemia Covid-19 sarebbe dovuta rimanere una epidemia più virale e letale dell’influenza stagionale, con effetti lievi sulla grande maggioranza della popolazione, e molto seri solo su una piccola frazione di essa. Invece – se consideriamo in particolare alcuni Paesi europei e gli Stati Uniti – lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici.
[omissis]
La diffusa privatizzazione dell’assistenza sanitaria ha portato le nostre autorità a ignorare gli avvertimenti fatti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in merito ai mercati della fauna selvatica a Wuhan. Non si tratta di dare lezioni ex post a nessuno, ma di comprendere i nostri errori per agire nel modo più intelligente possibile nel futuro.
Prevenire eventi come una pandemia non è redditizio a breve termine. Pertanto, non ci siamo premuniti né di mascherine né di test da eseguire massicciamente. E abbiamo ridotto la nostra capacità ospedaliera in nome dell’ideologia dello smantellamento del servizio pubblico, che ora si mostra per quella che è: un’ideologia che uccide. Non avendo mai aderito a tale ideologia, e forti dell’esperienza dell’epidemia di Sars del 2002, Paesi come la Corea del Sud e Taiwan hanno predisposto un sistema di prevenzione estremamente efficace: lo screening sistematico e il tracciamento, puntando alla quarantena e alla collaborazione della popolazione adeguatamente informata e istruita, facendole indossare le mascherine. Nessun confinamento. Il danno economico risulta trascurabile.
Invece dello screening sistematico, noi occidentali abbiamo adottato una strategia antica, quella del confinamento[3], a fronte di una frazione esigua di infetti, e di una parte ancora più piccola tra questi che potrebbe avere gravi complicazioni. Ma, per quanto piccola possa essere, quest’ultima frazione è ancora maggiore dell’attuale capacità di assistenza dei nostri ospedali.
Non avendo altre strategie, è chiaro che il non fare nulla equivarrebbe a condannare a morte centinaia di migliaia di cittadini, come mostrano le proiezioni che circolano all’interno della comunità degli epidemiologi, comprese quelle dell’Imperial College di Londra[4]. Anche se alcuni aspetti di questo documento sono discutibili, esso ha il merito di chiarire che l’inazione è semplicemente criminale. È stata questa prospettiva a indurre Emmanuel Macron in Francia e Boris Johnson nel Regno Unito a rinunciare alla loro iniziale strategia di «immunizzazione di gregge»[5] e a «svegliare» l’amministrazione Trump. Ma troppo tardi: questi Paesi ora rischiano di pagare un prezzo pesantissimo in termini di vite umane per il loro ritardo nell’intervenire adeguatamente.
Il ritorno dello Stato sociale
Il parziale isolamento dell’Europa ha ravvivato l’idea che il capitalismo è sicuramente un sistema molto fragile, e così lo Stato sociale è tornato di moda. In realtà, il difetto nel nostro sistema economico ora rivelato dalla pandemia è purtroppo semplice: se una persona infetta è in grado di infettarne molte altre in pochi giorni e se la malattia ha una mortalità significativa, come nel caso di Covid-19, nessun sistema economico può sopravvivere senza una sanità pubblica forte e adeguata.
I lavoratori, anche quelli più in basso nella scala sociale, prima o poi infetteranno i loro vicini, i loro capi, e gli stessi ministri alla fine contrarranno il virus. Impossibile mantenere la finzione antropologica dell’individualismo implicita nell’economia neoliberista e nelle politiche di smantellamento del servizio pubblico che la accompagnano da quarant’anni: l’esternalità negativa indotta dal virus sfida radicalmente l’idea di un sistema complesso modellato sul volontarismo degli imprenditori «atomizzati».
La salute di tutti dipende dalla salute di ciascuno. Siamo tutti connessi in una relazione di interdipendenza. E questa pandemia non è affatto l’ultima, la «grande peste» che non tornerà per un altro secolo, al contrario: il riscaldamento globale promette la moltiplicazione delle pandemie tropicali, come affermano la Banca Mondiale e l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) da anni. E ci saranno altri coronavirus.
Senza un efficiente servizio sanitario pubblico, che consenta di selezionare e curare tutti, non esiste più alcun sistema produttivo praticabile durante un’epidemia da coronavirus. E questo per decenni. L’appello lanciato il 12 marzo dal Mouvement des entreprises de France (Medef) – il sindacato francese dei datori di lavoro – per «rendere il sistema produttivo più competitivo» tradisce un profondo malinteso sulla pandemia.
Come uscire dall’isolamento?
Se gli operatori sanitari si ammalano, c’è il rischio del collasso del sistema ospedaliero, come sembra stia accadendo in Italia a Bergamo, Brescia e, in misura minore, a Milano. È quindi necessario che lo Stato promuova la diffusione di farmaci anti o retrovirali, in modo da consentire molto rapidamente, ovunque, di alleviare il carico del sistema ospedaliero sull’orlo del tracollo. E che i cittadini di tutti i Paesi mostrino finalmente senso di responsabilità.
Perché il confinamento sia rigoroso, insieme ai noti comportamenti elementari di igiene personale, tutti devono comprenderne il significato e l’utilità. Il confinamento rallenta efficacemente la diffusione del virus e – ripetiamolo –, in assenza di un sistema di screening, rimane la strategia meno negativa a breve termine. Tuttavia, se ci fermiamo a esso, diventa inutile: se usciamo dal confinamento, diciamo, tra un mese, il virus sarà ancora in circolazione e causerà gli stessi decessi di quelli che avrebbe causato oggi in assenza di contenimento.
Attendere, attraverso l’isolamento, che la popolazione si immunizzi – più o meno, la stessa strategia inizialmente proposta da Johnson, ma «a casa» – richiederebbe mesi di confinamento. Per capirlo, è sufficiente tornare al parametro essenziale di una pandemia, R0, il «numero di riproduzione di base», ossia il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto. Finché R0 è maggiore di 1, vale a dire fino a quando un individuo infetto può contagiare più di una persona, il numero di persone infette aumenta in modo esponenziale. Se lasciamo il contenimento senza ulteriori indugi prima che R0 scenda al di sotto di 1, avremo quelle centinaia di migliaia di morti che la pandemia ha minacciato di causare sin dall’inizio.
Tuttavia, affinché l’immunizzazione collettiva porti R0 al di sotto di 1, è necessario immunizzare circa il 50% della popolazione, cosa che – dato il tempo medio di incubazione (5 giorni) – richiederebbe probabilmente più di 5 mesi di reclusione, se ipotizziamo che ci sia oggi un milione di infetti. Un’opzione insostenibile in termini economici, sociali e psicologici. È l’intero sistema di produzione dei nostri Paesi che collasserebbe, a partire dal nostro sistema bancario, che è estremamente fragile.
Per non parlare del fatto che, in questo momento, i più poveri tra noi – rifugiati, persone di strada ecc. – sono costretti a morire non a causa del virus, ma perché non possono sopravvivere senza una società attiva. Senza dimenticare inoltre che non abbiamo alcuna garanzia che i nostri circuiti di approvvigionamento alimentare possano resistere allo shock della quarantena per un tempo così lungo: vogliamo costringere i lavoratori a reddito medio/basso a mettere a rischio la propria vita per continuare, per esempio, a trasportare il cibo per i dirigenti che rimangono tranquillamente a casa o nella loro tenuta in campagna?
È quindi necessario organizzare una «prima» liberazione dal contenimento, al più tardi tra qualche settimana. Prendere questo rischio collettivamente ha senso però solo a una condizione: applicare, questa volta, la strategia adottata in Corea del Sud e a Taiwan con il massimo rigore. Il tempo che stiamo guadagnando chiudendoci in casa dovrebbe servire per:
riportare R0 (che probabilmente era circa 3 all’inizio del contagio) il più vicino possibile a 1;
incoraggiare la riconversione di alcuni settori economici, per produrre in serie i ventilatori polmonari di cui ora hanno bisogno le terapie intensive per salvare vite umane;
consentire ai laboratori occidentali di produrre subito apparecchiature e materiali di screening, mentre si organizzano per realizzare in poche settimane il sistema necessario. Al momento ci sono due enzimi, in particolare, le cui scorte sono molto insufficienti, e quindi limitano la nostra capacità di effettuare screening[6];
produrre le mascherine di protezione, essenziali per frenare la diffusione del virus quando lasciamo la nostra casa.
Se porremo fine al nostro confinamento collettivo quando i nostri mezzi di rilevazione non saranno pronti o mancheranno le mascherine, correremo nuovamente il rischio di una tragedia. Sfortunatamente, oggi è impossibile misurare R0. Pertanto, dobbiamo attendere fino a quando non saremo organizzati per lo screening e pianificare l’uscita ordinata dalla quarantena il più rapidamente possibile.
Cosa succederà a quel punto? Coloro che vengono «liberati» devono essere sottoposti a screening sistematico e indossare le mascherine per diverse settimane. Altrimenti, l’uscita dal confinamento avrà un esito peggiore di quello dell’inizio della pandemia. Coloro che sono ancora positivi verranno quindi messi in quarantena, insieme al loro entourage. Altri possono andare a lavorare o riposare altrove. I test dovranno continuare per tutta l’estate per essere sicuri che il virus è stato sradicato all’arrivo dell’autunno.
La salute come bene comune globale
La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima. La deforestazione – così come i mercati della fauna selvatica di Wuhan – ci mette in contatto con animali i cui virus non ci sono noti. Lo scongelamento del permafrost minaccia di diffondere pericolose epidemie, come la «spagnola» del 1918, l’antrace, ecc. Lo stesso allevamento intensivo facilita la diffusione di epidemie.
A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche. Ma molto presto dovremo imparare la lezione di questa dolorosa primavera: riconvertire la produzione, regolare i mercati finanziari; ripensare gli standard contabili, al fine di migliorare la resilienza dei nostri sistemi di produzione; fissare una tassa sul carbonio e sulla salute; lanciare un grande piano di risanamento per la reindustrializzazione ecologica e la conversione massiccia alle energie rinnovabili.
[omissis] La salute è un bene comune globale e deve essere gestita come tale.
I «beni comuni», come li ha definiti in particolare l’economista americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra il mercato e lo Stato, tra il privato e il pubblico. Possono guidarci in un mondo più resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia.
La salute, ad esempio, deve essere trattata come una questione di interesse collettivo, con modalità di intervento articolate e stratificate. A livello locale, per esempio, le comunità possono organizzarsi per reagire rapidamente, circoscrivendo i cluster dei contagiati da Covid-19. A livello statale, è necessario un potente servizio ospedaliero pubblico. A livello internazionale, le raccomandazioni dell’Oms per contrastare una situazione di epidemia devono diventare vincolanti. Pochi Paesi hanno seguito le raccomandazioni dell’Oms prima e durante la crisi. Siamo più disposti ad ascoltare i «consigli» del Fondo monetario internazionale (Fmi) che quelli dell’Oms. Lo scenario attuale dimostra che abbiamo torto.
In questi giorni abbiamo assistito alla nascita di diversi «beni comuni»: come quegli scienziati che, al di fuori di qualsiasi piattaforma pubblica o privata, si sono coordinati spontaneamente attraverso l’iniziativa OpenCovid19[7], per mettere in comune le informazioni sulle buone pratiche di screening dei virus.
Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.
Alcune organizzazioni del genere esistono già. La Drugs for Neglected Disease Initiative (Dndi) è un eccellente esempio. Un organismo creato da alcuni medici francesi 15 anni fa per il reperimento dei farmaci per le malattie rare o dimenticate: una rete collaborativa di terze parti, in cui cooperano il settore privato, quello pubblico e le Ong, che riesce a fare ciò che né il settore farmaceutico privato, né gli Stati, né la società civile possono fare da soli.
A livello individuale, poi, scopriamo la paura della scarsità dei beni. Ciò può essere un aspetto positivo in questa crisi? Essa ci libera dal narcisismo consumistico, dal «voglio tutto e subito». Ci riporta all’essenziale, a ciò che conta davvero: la qualità delle relazioni umane, la solidarietà. Ci ricorda anche quanto sia importante la natura per la nostra salute mentale e fisica. Coloro che vivono rinchiusi in 15 metri quadrati a Parigi o a Milano lo sanno bene. Il razionamento imposto su alcuni prodotti ci ricorda la limitatezza delle risorse.
Benvenuti in un mondo limitato! Per anni, i miliardi spesi per il marketing ci hanno fatto pensare al nostro pianeta come a un gigantesco supermercato, in cui tutto è a nostra disposizione a tempo indeterminato. Ora proviamo brutalmente il senso della privazione. È molto difficile per alcuni, ma può essere un’occasione di risparmio.
D’altra parte, anche un certo romanticismo «collapsologico»[8] sarà rapidamente mitigato dalla percezione concreta di cosa implichi, nell’attuale situazione, la brutale difficoltà dell’economia: disoccupazione, bancarotta, esistenze spezzate, morte, sofferenza quotidiana di coloro in cui il virus lascerà tracce per tutta la vita.
Sulla scia dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, vogliamo sperare che questa pandemia sia un’opportunità per indirizzare le nostre vite e le nostre istituzioni verso una felice sobrietà e verso il rispetto per la finitudine del nostro mondo. Il momento è decisivo: si può temere quella che Naomi Klein ha definito la «strategia dello shock». Alcuni governi non devono, con il pretesto di sostenere le imprese, indebolire ulteriormente i diritti dei lavoratori; o, per rafforzare ulteriormente la sorveglianza della polizia sulle popolazioni, ridurre permanentemente le libertà personali.
Nel frattempo, come si salva l’economia?
Proviamo a ipotizzare in questa situazione alcune possibili scelte di politica economica:
[omissis]
In Europa, la sospensione delle regole del Patto di stabilità, l’emissione di «obbligazioni corona» o l’attivazione di prestiti del Meccanismo europeo di stabilità sono tutte misure essenziali.
Creare posti di lavoro. Tuttavia, le iniziative appena menzionate sono insufficienti. È necessario comprendere che il sistema di produzione occidentale è, o sarà, parzialmente bloccato. A differenza del crollo del mercato azionario del 1929 e della crisi dei mutui subprime del 2008, questa nuova crisi colpisce innanzitutto l’economia reale. Nella maggior parte delle aziende, al 30% dei dipendenti ai quali venisse impedito di lavorare non corrisponderebbe il 30% in meno di produzione, ma una produzione pari a zero. Se un’azienda inserita in una catena del valore smette di produrre, l’intera catena viene interrotta. Stiamo constatando che le catene di approvvigionamento just-in-time (ossia senza scorte) ci rendono estremamente fragili. Pensiamo alla filiera della produzione e della fornitura del cibo. Naturalmente, alcuni governi sono pronti a inviare la polizia o l’esercito per costringere i lavoratori a rischiare la propria vita per non interrompere le catene di approvvigionamento. Le lavoratrici e i lavoratori posti più in basso nella catena di produzione e approvvigionamento sono i primi esposti e i primi sacrificati. Un’enorme ammissione di impotenza!
Nella maggior parte dei Paesi costretti a praticare il contenimento, il sistema produttivo viene quindi parzialmente bloccato, o lo sarà presto. Le catene del valore globali stanno rallentando e alcune saranno tagliate. Il lavoro è involontariamente «in sciopero». Non siamo solo di fronte a una carenza keynesiana della domanda – perché chi ha i contanti non può spenderli, dal momento che deve rimanere a casa –, ma di fronte anche a una crisi dell’offerta. Questa pandemia ci introduce, dunque, in un tipo di crisi nuovo e senza precedenti, in cui si uniscono il calo della domanda e quello dell’offerta. In tale contesto, l’iniezione di liquidità è tanto necessaria quanto insufficiente. Essere appagati da questo equivarrebbe a dare le stampelle a qualcuno che ha appena perso le gambe…
Solo lo Stato, perciò, può creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire la massa di dipendenti che, quando usciranno finalmente di casa, scopriranno di aver perso il lavoro. L’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza non è neppure nuova: è stata studiata molto seriamente dall’economista britannico Tony Atkinson. Naturalmente, affinché ciò abbia un senso, dobbiamo seriamente pensare al tipo di settori industriali per i quali vogliamo favorire l’uscita dal tunnel. Questo discernimento dev’essere fatto in ciascun Paese, alla luce delle caratteristiche specifiche di ciascun tessuto economico.
È quindi legittimo e indispensabile che gli Stati occidentali, oggi come ieri, utilizzino una spesa in deficit per finanziare lo sforzo di ricostruzione del sistema produttivo che sarà necessario alla fine di questo lungo parto; e lo dovranno fare in modo acuto e selettivo, favorendo questo o quel settore. Ovviamente, il loro debito pubblico aumenterà. Ricordiamo che, durante la Seconda guerra mondiale, il deficit pubblico degli Stati Uniti raggiunse il 20% del Pil per diversi anni consecutivi. Ma il deficit sarebbe molto più grande in assenza di ingenti spese da parte dello Stato per salvare l’economia.
[omissis]
Ricostruire e salvare la democrazia
A questo punto, un possibile errore sarebbe quello di apprezzare l’efficacia dell’autoritarismo come soluzione. «E se le nostre democrazie fossero scarsamente pronte? Troppo lente? Bloccate dalle libertà individuali?». Questo ritornello risuonava già prima della pandemia. Se consideriamo la Cina, la situazione sta sicuramente migliorando, ma l’epidemia non è stata ancora sconfitta, neppure a Wuhan. D’altra parte, è vero che a Pechino sono stati costruiti due ospedali in pochi giorni e che il governo cinese non è in mano alla lobby finanziaria, ma, per trarre i benefici di questi due punti a favore, dovremmo forse rinunciare alla democrazia?
Una volta abbandonato il contenimento in maniera controllata, un’altra pericolosa trappola sarebbe quella di limitarci a ripristinare semplicemente il modello economico di ieri, accontentandoci di migliorare in modo marginale il nostro sistema sanitario per far fronte alla prossima pandemia. [omissis]
In termini di evoluzione biologica, per un virus è molto più «efficace» infettare gli esseri umani che la renna artica, già in pericolo a causa del riscaldamento globale. E questo sarà sempre più così, perché la crisi ecologica decimerà altre specie viventi. È soprattutto la distruzione della biodiversità, in cui siamo da tempo impegnati, a favorire la diffusione dei virus[9]. Oggi molti ne sono consapevoli: la crisi ecologica ci garantisce pandemie ricorrenti. Accontentarsi di dotarsi di mascherine ed enzimi per il prossimo futuro equivarrebbe a trattare solo il sintomo. Il male è molto più profondo, ed è la sua radice che dev’essere medicata. La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare le trasformazioni che, anche ieri, sembravano inconcepibili a coloro che continuano a guardare al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria. Abbiamo bisogno di una reindustrializzazione verde, accompagnata da una relocalizzazione di tutte le nostre attività umane.
Ma, per il momento, e per accelerare la fine della crisi sanitaria, è necessario fare ciò che è possibile, e dunque proseguire negli sforzi per schermare e proteggere la popolazione.
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[1]. Cfr P. Baker – E. Sullivan, «U.S. Virus Plan Anticipates 18-Month Pandemic and Widespread Shortages», in New York Times, 17 marzo 2020.
[2]. Cfr J.-D. Michel, «Covid-19: fin de partie?!» (https://bit.ly/3996Evs), 18 marzo 2020; T. Pueyo, «Coronavirus: The Hammer and the Dance. What the Next 18 Months Can Look Like, if Leaders Buy Us Time» (https://bit.ly/3bjAA9K), 19 marzo 2020.
[3]. Già nel 1347 Pierre de Damouzy, medico di Margherita di Francia, contessa delle Fiandre, raccomandò il confinamento agli abitanti di Reims per sfuggire alla peste nera. Cfr Y. Renouard, «La Peste noire de 1348-1350», in Revue de Paris, marzo 1950, 109.
[4]. Cfr N. M. Ferguson – D. Laydon et Al., «Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID-19 mortality and healthcare demand» (https://doi.org/10.25561/77482), Londra, Imperial College, 16 marzo 2020.
[5]. È noto che la prima tentazione del governo Johnson è stata quella di lanciare il Regno Unito in un esperimento di immunizzazione collettiva. Anche il governo francese è stato tentato da questa «soluzione», sebbene in modo meno esplicito. Su questo argomento, cfr T. Vey, «La France mise sur l’“immunité de groupe” pour arrêter le coronavirus», in Sciences, 13 marzo 2020.
[6]. Si tratta della trascrittasi inversa (AMV o MMLV) e del Taq (o Pfu) che amplifica la reazione chimica, consentendo di identificare la presenza di Covid-19. Questi sono i due enzimi che diversi laboratori stanno cercando di produrre ininterrottamente.
[7]. «Low-cost & Open-Source Covid19 Detection kits», cfr https://app.jogl.io/project/118 e anche hashtag su Twitter: #OpenCovid19
[8]. La collapsologia è un discorso pluridisciplinare interessato al collasso della nostra civiltà. Parte dall’idea che le azioni umane abbiano un impatto duraturo e negativo sul pianeta. Si basa su dati scientifici, ma anche su intuizioni, per cui a volte viene accusata di non essere una vera scienza, ma piuttosto un movimento.
[9]. Cfr J. Duquesne, «Coronavirus: “La disparition du monde sauvage facilite les épidémies”», intervista a Serge Morand, ricercatore del Cnrs-Cirad, in Marianne, 17 marzo 2020.
Che succede?
“CARA URSULA…”. L’EUROPA AL BIVIO
3 Aprile 2020 su C3dem.
Il “dialogo” tra Ursula von der Leyen (“Scusateci. Ora la Ue è con voi”) e il premier Giuseppe Conte (“Cara Ursula, è l’ora del coraggio”), su Repubblica. L’intervento a tre – Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Enrico Letta –: “Tre strade per un accordo europeo sulla crisi”, e quello di Valdis Dombrovskis: “La Ue pronta a favorire gli eurobond” (Repubblica). Cohn-Bendit, J. Habermas e altri: “L’Europa vive o muore!” (appello dalla Germania – Manifesto). Beda Romano, “Bruxelles: no a Piano Marshall extrabilancio contro il virus” (Sole 24 ore). Marta Dassù, “Come vincere il negoziato con la Ue” (La Stampa). Leonardo Becchetti, “La via parte dall’Eurofondo per la disoccupazione” (Avvenire). Lucrezia Reichlin, “La Bce non resti sola o rischiamo la fine dell’Euro” (intervista a Repubblica). Franco Bassanini e Claudio De Vincenti, “Superare lo stallo con due tranche di Eurobond” (Sole 24 ore). “L’Eurobond dei furbi” (editoriale del Foglio). David Carretta. “Le misure economiche straordinarie che l’Europa può prendere” (Foglio). Federico Fubini, “Cina e Usa preparano la ripresa. Così l’Europa resta indietro” (Corriere della sera). Tommaso Frosini, “La democrazia illiberale di Orban non esiste nei vocabolari costituzionali” (Il Dubbio). Marco Bresolin, “Paesi di Visegrad condannati per la chiusura ai migranti” (La Stampa). Parag Khanna, “La pandemia renderà l’Asia più centrale” (intervista al Messaggero).
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I SACRIFICI DA NON SPRECARE
3 Aprile 2020 su C3dem.
Oggi sabato 4 aprile 2020
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—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—–——-
Gente, cazzeggiamo su bambini, cani e bisognini?
Amsicora su Democraziaoggi.
Amiche ed amici, combattenti e reduci di mille battaglie, quanti problemi nascono dalla pandemia! E siccome siamo a casa, cazzeggiamo con opere, azioni, omissioni e col pensiero. Per esempio poco fa mi sono ricordato che quando eravamo piccoli, i nostri genitori ci mandavano con una borsa a fare la spesa e is commissionis [...].
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I bambini ed il Coronavirus
Rosamaria Maggio su Democraziaoggi.
Se fossi una scrittrice per bambini, mi immaginerei questo Coronavirus come un principe del male, pericoloso, infido perché invisibile, cui bisognerebbe contrapporre un personaggio ricco di umanità capace di sconfiggerlo [...].
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Riflessioni in tempo di coronavirus.
di Pierpaolo Loi su Il dialogo. [segue]
Oggi venerdì 3 aprile 2020
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—————————Opinioni, Commenti e “Riflessioni, Appuntamenti—–——-
“Stiamo insomma, in questo snodo epocale, contemplando l’antico dorso di Apollo, senza volto e senza gambe, che ci avverte con il preciso monito «Devi mutare la tua vita!»: la direzione da imprimere a tale necessario cambiamento dovrà essere, già nelle nostre azioni, solidale ed ecologica”. Così si conclude l’editoriale di oggi di Mauro Tuzzolino (pubblicato in contemporanea anche sul blog Democraziaoggi e sul sito della Scuola di Cultura Politica Francesco Cocco). La citazione si riferisce all’incontro del poeta Rainer Maria Rilke con una statua di Apollo situata al Louvre. Ci piace riportare la poesia che per l’occasione scrisse il poeta: un inno al cambiamento o, se vogliamo definirlo religiosamente, alla conversione, nella direzione – come auspica Mauro – dell’ecologia e della solidarietà.
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Non conoscemmo il suo capo inaudito / e le iridi che vi maturavano. Ma il torso / tuttavia arde come un candelabro dove il suo sguardo, solo indietro volto, / resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti / la curva del suo petto e / nel delicato volgere / dei lombi scorrere un sorriso / fino a quel centro dove l’uomo genera.
E questa pietra, sfigurata e tozza / vedesti sotto il diafano architrave delle spalle / e non scintillerebbe come pelle di belva, / e non eromperebbe da ogni orlo come un astro: / perché là non c’è punto che non veda /te, la tua vita. Tu devi mutarla.
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IL “RAPPORTO COVID-19” DELL’ACCADEMIA DEI LINCEI
2 Aprile 2020 by Forcesi | su C3dem.
La Commissione Salute dell’Accademia Nazionale dei Lincei ha reso pubblico un documento – “Rapporto Covid-19” – sviluppato dai suoi soci Guido Forni e Alberto Mantovani insieme al prof. Maurizio Cecconi dell’Università-Medicina Humanitas di Milano. Il documento, che è datato 25 marzo e che sarà aggiornato tutti i mesi, affronta tutti gli aspetti del Coronavirus SARS-CoV-2 e della COVID-19, la malattia che da esso deriva. Dopo la descrizione del virus, inquadrato nella storia delle precedenti malattie da virus, il documento riassume criticamente le odierne strategie medico-epidemiologiche per affrontare la COVID-19.
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La scomoda verità del SARS-CoV-2: siamo davanti a una crisi di paradigma
La recessione innescata dal Covid-19 non sparirà rapidamente. Apre anzi uno spazio di riflessione che creino approcci economici capaci di evitare gli errori del passato
di Roberto Romano su valori.it
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Emergenza coronavirus e oltre. Il contributo degli intellettuali sull’ala del pensiero. La necessità del cambiamento in direzione solidale ed ecologica.
Appunti dal sottosuolo
di Mauro Tuzzolino
Come molti dei personaggi di Murakami Haruki, siamo condotti dalle circostanze a ripiegare nelle nostre solitudini, a discendere nel pozzo della nostra autocoscienza. E come nelle narrazioni di Saramago questa discesa assume una dimensione sociale e collettiva.
E, si sa, il pozzo è metafora di caduta e di rinascita già nelle Sacre Scritture. Il virus ha costretto tutti noi a questa discesa nel pozzo, sul piano individuale e su quello sociale. Ponendoci interrogativi sul nostro recente passato, sulle nostre modalità di condurre l’esistenza, sugli eventuali nessi causali tra modus vivendi e situazione attuale; ma gli interrogativi riguardano a maggior ragione la risalita prossima, anche come esercizio e antidoto al presente, assecondando quel fisiologico bisogno di varcare il confine del nostro attuale limite.
“La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità”, ricorda papa Francesco nella sua recente commovente omelia.
Al culmine della potenza della retorica della tecnica, ne riscopriamo la sua intrinseca fragilità. Quando l’apparato di scienza, tecnologia, economia mostra i propri limiti dinanzi al palesarsi del flusso virale, ci sentiamo nudi, messi di fronte allo specchio della nostra vita, impauriti per la sopravvivenza nostra, dei nostri cari e, in ultima analisi, delle abitudini di esistenza a noi così care. Privi dell’armatura e dei superpoteri che nella quotidianità ci offre l’apparato tecno – sociale, ripiombiamo d’improvviso nel perimetro delle nostre corporeità e torniamo a fare i conti con le domande di sempre.
Domande individuali e collettive sul senso, sulle traiettorie di vita, sul ruolo di ciascuno e sulla direzione del nostro vivere associato.
In questo quadro avvio la mia breve riflessione, sempre in divenire, su alcune piccole lezioni che sto imparando.
• Stiamo riscoprendo l’importanza della comunità di cura. La consapevolezza delle nostre fragilità incrementa il nostro bisogno di avere intorno reti di protezione, che non devono e possono limitarsi alla pur necessaria concentrazione di funzioni di eccellenza. Le riforme sociosanitarie assecondando il principio fordista per cui concentrazione uguale efficacia/efficienza, hanno puntato sulla costruzione di grandi hub iperspecializzati (come non pensare alla vicenda del Mater Olbia in Sardegna?) e, così facendo, abbiamo abbandonato, almeno nel dibattito mainstream, le ipotesi di una sanità capillare e territoriale, capace di offrire prossimità, aiuto, sostegno, ascolto. E le nostre paure diventano solitudini fragili, prive di quel meccanismo comunitario di sostegno e accompagnamento, in particolare nel contesto delle aree interne.
• La scuola giocoforza, con la generosità dei suoi protagonisti, prova a riorganizzare il proprio funzionamento attraverso l’utilizzo della didattica a distanza; quel che emerge tuttavia, aldilà delle performance molto variabili e della inadeguatezza tecnologica, è la centralità della “presenza” nei processi di apprendimento e di costruzione della socialità di base. Ho ascoltato docenti e ragazzi. Questi ultimi si sentono smarriti e rivalutano con convinzione l’importanza dello spazio fisico, del confronto sensoriale come ambiente didattico per eccellenza. E anche qui varrebbe la pena di approfondire sul principio di prossimità, sull’importanza di un presidio sociale insostituibile. La scuola, sembra banale rammentarlo, non è semplicemente un contesto di trasferimento e di condivisione dei saperi; in questo caso la ricchezza di risorse conoscitive disponibili nel web renderebbe del tutto superflua la presenza di un’istituzione come la scuola. Scambio, confronto orizzontale, mediazione dei saperi, educazione alla convivenza e alla tolleranza, incontro di differenze, conflitto entro uno spazio normato, costituiscono valori e principi base di un’istituzione educativa. La drammatica sospensione delle attività scolastiche deve interrogarci su tali questioni; non per riproporre modelli ormai superati dalla realtà, ma per ripensare funzioni, spazi, metodologie, organizzazione. La scuola italiana è una grande risorsa del presente e del prossimo futuro, e tutta la comunità educante deve avere il coraggio di ripensare profondamente sé stessa, approfittando anche dei segnali di riscoperta positiva che il contesto sta producendo.
• Sui beni di prima necessità abbiamo cominciato ad interrogarci sulle filiere organizzative e produttive che rendono possibile il nostro approvvigionamento alimentare. Dalle grandi corporation dell’agroalimentare, ai piccoli produttori sino ai cosiddetti lavoratori dell’ultimo miglio (come li definisce il sociologo Aldo Bonomi), che ci consentono di avere la merce presso le nostre abitazioni. I miei amici pescatori artigianali stanno attraversando, come tanti, un momento drammatico di crisi produttiva soprattutto per l’assenza di infrastrutture logistiche di vicinato. Facciamo una grande retorica sul kilometro zero, valorizzandone correttamente sia l’aspetto della sostenibilità ambientale sia quello della salvaguardia delle nostre produzioni e dei nostri lavoratori. Tuttavia, se non si affrontano le questioni infrastrutturali, materiali ed immateriali, relative ai temi della logistica, della distribuzione e della connessione di territorio e città, continueremo pure la nostra retorica ma le nostre dispense saranno dotate più facilmente di salmone piuttosto che del sarago locale, sempre per rimanere in contesto ittico.
• Questi giorni sono stati il terreno di sperimentazione su larga scala del cosiddetto smart working, che nel caso di specie non è altro che lavoro da casa. O meglio, l’allargamento alla platea dei dipendenti delle modalità del lavoro autonomo di seconda generazione, con la felice definizione di Sergio Bologna. Attenzione ai facili entusiasmi. Lo spazio di lavoro che entra prepotentemente nelle nostre vite private può configurarsi come una violazione, un vero straripamento, con il messaggio non troppo sottinteso che siamo soggetti perennemente al lavoro, sempre disponibili, reperibili, attivabili. Con l’aggravante che il lavoro si individualizza ulteriormente, alterandone la sua dimensione sociale e collettiva, sia sul versante dell’affermazione dei diritti sia su quello del lavoro come funzione di abilitazione sociale. Trovare forme ibride e creative può essere una felice soluzione, immaginando anche luoghi altri di condivisione, informali e capaci rompere le ritualità costrittive dei grigi uffici e l’arcaica stretta correlazione tempo-lavoro.
• La vicenda del sommerso italiano, giustamente sollevata dal ministro Provenzano, ci pone dinanzi ad una delle grandi ipocrisie del nostro paese. “Così come abbiamo sempre sostenuto, l’Italia ha tre Pil: uno ufficiale, di circa 1.600 Mld di euro; uno sommerso, di circa 540 Mld (l’equivalente del 35% di quello ufficiale); uno criminale, che supera abbondantemente i 250 Mld”, ha rammentato in un recente articolo del Sole 24 Ore il presidente di Eurispes.
Conosco molto bene e dal di dentro la realtà sociale ed economica del mezzogiorno d’Italia. La mia prima preoccupazione, pensando alla mia città, Palermo, con il progressivo acuirsi della crisi da Covid, è stata rivolta alle migliaia di persone che praticano nella quotidianità l’arte di arrangiarsi. Il piccolo venditore che staziona all’angolo della strada, il parcheggiatore abusivo, il venditore di rose ai semafori, il cameriere e il muratore a giornata. E il pensiero non può che correre a tutti gli invisibili: che fine ha fatto il piccolo indiano che ogni mattina vende pacchi di fazzolettini sotto casa? Credo che anche questi interrogativi abbiano diritto di cittadinanza su quel che sarà il dibattito per la rinascita.
• Non possiamo inoltre rimanere indifferenti di fronte alla meravigliosa potenza della Natura che, come da topos letterario distopico, riprende il proprio spazio: rimbalzano sui social video e foto con la fauna che prende possesso di luoghi urbanizzati, così come gli istituti di analisi ambientale ci forniscono dati circa la forte diminuzione di inquinamento delle acque, dell’atmosfera e, in generale, di tutti gli ecosistemi. Il rallentamento dell’attività antropica fuga ogni dubbio circa l’impatto delle attività umane sul nostro pianeta, aldilà di ogni sterile dibattito sulla figura della giovane Greta. Questi esiti possono lasciarci indifferenti circa le modalità di produzione del valore? O siamo ancora in tempo per fondare un’economia green alla ricerca tendenziale di un benessere sociale diffuso e reale?
Dovremmo avere la capacità di allargare il nostro sguardo al paradigma dello sviluppo economico, o meglio sarebbe dire del progresso economico. Questo è il tempo, come già fu in occasione della crisi del 2008, in cui si evocano salti di paradigma, certamente necessari su cui da domani concentreremo sforzi e approfondimento. Ma si tratta al contempo di essere realisti; e provare intanto a ribaltare le logiche prevalenti di tipo concentrazionario, spesso funzionali anche ad un esercizio del potere. Centralizzazione vs. territorializzazione. Vale per i ragionamenti di cura, deve valere per orientare le nostre scelte in campo economico, energetico e burocratico. Città intelligenti, certo, insieme a territori intelligenti. Tecnologia come strumento per aumentare e non per sostituire.
Emergono, come in ogni crisi aspetti molteplici, variegati e, spesso, contraddittori. E se da un lato stiamo riscoprendo il valore della prossimità, della solidarietà e della sensorialità nelle nostre relazioni, si insinua altresì, quasi come processo inevitabile, lo spettro di una società funzionalmente immunizzata, che può sacrificare la contaminazione, lo scambio e la reciprocità in nome della ricerca di una performatività rassicurante e apparentemente priva di rischi.
Stiamo insomma, in questo snodo epocale, contemplando l’antico dorso di Apollo, senza volto e senza gambe, che ci avverte con il preciso monito “Devi mutare la tua vita!”: la direzione da imprimere a tale necessario cambiamento dovrà essere, già nelle nostre azioni, solidale ed ecologica.
Messaggio importante
Sono attivi due nuovi numeri di telefono utili per venire incontro alle esigenze dei cittadini che si trovano in situazione di difficoltà a causa del periodo di emergenza legato alla diffusione del Covid-19.
Per le necessità alimentari è attivo il numero 070/6774000, al quale è possibile rivolgersi dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 15,30 alle 17,30.
Il numero 070/6774001, invece, è a disposizione di chiunque avesse bisogno di un supporto psicologico ed è operativo dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13 e dalle 15,30 alle 17,30.
Oggi giovedì 2 aprile 2020
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Coronavirus. “Da europeista sono arrabbiato con l’Europa”
Franco Ventroni su Democraziaoggi.
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Giovannini (ASviS): «Agire oltre la crisi. Team di esperti per la ripartenza»
Luca Mazza venerdì 27 marzo 2020 su Avvenire.it.
La proposta di creare un’unità di «resilienza trasformativa» per rimbalzare in avanti
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Riflessioni sulla pandemia dalla Comunità La Collina
di Ettore Cannavera e Stefano Sacchittella
By sardegnasoprattutto / 2 aprile 2020
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E’ online il manifesto sardo trecentotre
Il numero 303
Il sommario
Per sconfiggere il coronavirus c’è bisogno di scelte equilibrate (Marco Ligas), Lettera aperta al sindaco di Cagliari Paolo Truzzu (Stefano Deliperi), Il tempo di una nuova umanità dipende da noi (Graziano Pintori), La scuola al tempo del Coronavirus (Amedeo Spagnuolo), L’ombra di Draghi (Roberto Mirasola), Emergenza Covid-19: La CSS scrive al presidente e all’assessore alla sanità (Giacomo Meloni), Le cause della recente crisi economica secondo Francesco Saraceno (Gianfranco Sabattini), Sa spesa SOSpesa (Carola Farci), I Borboni Spa (Maurizio Matteuzzi), Turchia e dintorni. La vita al tempo del Covid 19 (Emanuela Locci), La prima, nuova consapevolezza: la natura, l’ambiente (Massimo Dadea), L’otto marzo antimilitarista (Antonella Piras e Mariella Setzu), Perché la RWM raddoppia la produzione di bombe ed esplosivi nonostante l’emergenza? (Graziano Bullegas), Salvarsi (Guido Viale), Africa e nuovo Coronavirus: cosa sono i “Veronica bucket” e perché potrebbero essere utili? (Fabio Piu), Il Coronavirus e i furbetti della fabbrica di bombe Rwm (Roberto Loddo), Covid-19: Un appello per superare la crisi (Antonio Muscas), Ha ragione papa Francesco: siamo tutti sulla stessa barca (Guido Viale), Se vuoi la pace preparala (Franco Meloni), Le tensioni dei tempi attuali (Federico Palomba).
Riflessioni e proposte per il “dopo emergenza Covid-19″ nelle nostre città. Gli orti urbani antidoto alla depressione.
La fine dell’emergenza potrebbe presentarci anche una società migliore. Saremo capaci di coglierne l’occasione?
di Paolo Erasmo
In questo momento drammatico, in attesa che si possano attenuare ed eliminare gli effetti della pandemia, i dibattiti sui media da parte di politici, economisti, sociologi, amministratori… spaziano su tutti gli aspetti della situazione, non solo quindi sulle misure di tipo economico messe in campo dal governo per venire incontro alle persone (e alle imprese) in difficoltà. Tra gli aspetti a mio parere non sufficientemente trattati vi è quello di tipo psicologico. Mi sembra invece importante, me lo hanno insegnato le mie esperienze professionali e di vita, in particolar modo di quella associativa, maturata negli ultimi anni. Anche il disagio sociale di chi ha perso il lavoro non può tradursi in un aiuto solamente economico, pur indispensabile. E allora che fare al riguardo? [segue]
Oggi mercoledì 1° aprile 2020
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—————————Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti—–——-
La scuola e la pandemia
Rosamaria Maggio su Democraziaoggi.
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