Monthly Archives: dicembre 2019
Facciamo 13 !
Lo Statuto della Regione Autonoma della Sardegna prevede all’art.13 “Lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola” – “Su Stadu impari a sa Regioni disponit unu pianu organicu po favoressi sa rinascita economica e sociali de s’Isola”.
Rifinanziamento di un nuovo piano di rinascita per il riequilibrio strutturale della Sardegna rispetto alle Regioni che stanno meglio (trasporti, sanità, istruzione, qualità dei servizi al cittadino e della pubblica amministrazione…): ecco un obbiettivo che può e deve coinvolgerci tutti, come popolo sardo!
Quale democrazia oggi?
Le cause della crisi della democrazia
di Gianfranco Sabattini
Esiste una percezione crescente della crisi delle democrazia in tutto il mondo; secondo Steven Lavitsky e Daniel Ziblatt, autori del recente saggio “Come muoiono le democrazie”, ciò che maggiormente stupisce è il fatto che, a differenza del passato, in cui la “morte” delle democrazie era causata da rivoluzioni o da colpi di Stato perpetrati da gruppi armati, oggi essa è invece determinata da un processo messo in atto dall’interno delle stesse istituzioni democratiche, con mezzi legali e per iniziativa di leader eletti.
Sebbene tra il 1945 e il 1990 i sistemi democratici siano sembrati diffondersi e consolidarsi in tutto il pianeta, in realtà, molte di questi sistemi devono la loro “sopravvivenza” al fatto che, in quel periodo, a causa della Guerra Fredda, sono stati sostenuti dalle potenze occidentali per ragioni prevalentemente ideologiche. Essi, infatti, al di là delle apparenze, erano intrinsecamente minati da un “mal sottile”: come afferma Walter Lippmann in “Il grande vuoto” (un saggio – iniziato negli anni Trenta e finito negli anni Cinquanta del secolo scorso – che, per quanto datato, è considerato una magistrale analisi della crisi delle democrazie liberali, valida ancora oggi), mentre nel passato la difesa delle democrazie è stata resa possibile dal lento consolidarsi, nella coscienza dei cittadini, di una “filosofia pubblica” (intesa come l’insieme delle condizioni civiche che rendevano possibile il funzionamento delle istituzioni democratiche), nella prima parte del XX secolo vi è stata di “una massiccia controrivoluzione popolare”, che ne ha fortemente incrinato il corretto funzionamento.
Si è trattato, sostiene Lippmann, di una reazione all’insufficienza del liberalismo “ad affrontare le miserie e le angosce del secolo”, ovvero all’incapacità delle democrazie liberali a governare con efficienza le società capitalisticamente avanzate nei periodi di guerra e di sollevazioni; ma anche per la loro scarsa idoneità a difendere e conservare la filosofia pubblica nella quale si sostanziava il “costume di vita liberale”. Qual è stato l’impatto delle conseguenze della “controrivoluzione popolare” sul funzionamento delle democrazia?
A parere di Lippmann, quando si vuol mettere in evidenza il malfunzionamento dei regimi democratici, è inevitabile che esso (il malfunzionamento) sia riferito ad “un’alterazione del rapporto tra le masse popolari e i governi”, nel sottinteso che possa esistere tra le prime e i secondi “una relazione normale” e che si sia in grado di stabilire quale essa sia. Per analizzare, dunque, il malfunzionamento dei regimi democratici, ciò a cui occorre fare riferimento è la relazione “che corre tra il potere governativo ed esecutivo da una parte e i votanti nei collegi elettorali dall’altra”. Questa relazione non potrà dirsi normale, finché le funzioni di governo e di rappresentanza non si siano “differenziate”. Si tratta di una condizione ineludibile per un regime democratico, perché dalla tensione e dall’equilibrio tra i due poteri (quello dei governanti e quello dei governati) nascono regole, scritte e non scritte, sulle quali è stato fondato il patto costituzionale della convivenza collettiva.
L’esecutivo è depositario del “potere attivo”, che “chiede e che propone”, mentre alle assemblee rappresentative dei governati compete il “potere che consente, che presenta petizioni, che approva o critica, che accetta o respinge le proposte del governo”. I due poteri sono entrambi necessari, se si vuole che vigano ordine e libertà, ma ciascuno di essi deve essere conforme alla sua natura, in modo da limitare e integrare l’altro; ciò significa che il governo deve essere sempre nella condizione di poter governare, mentre i cittadini devono sempre, al fine di non essere oppressi, poter fare sentire la loro voce attraverso le loro assemblee rappresentative.
Il normale funzionamento delle democrazie, quindi, dipende dalla normalità della relazione tra i due poteri: se l’uno assorbe o distrugge le funzioni dell’altro, è inevitabile che il patto costituzionale venga alterato. Se ciò accade, le democrazie entrano i crisi, non però, secondo Lippmann, per cause attinenti alle vicende esistenziali dei cittadini (propensi, ad esempio, a farsi governare in determinate circostanze da governi autoritari e non da governi liberi), ma per cause che attengono ai loro governi, quando, con la loro inefficienza, rendono le democrazie incapaci di affrontare i motivi delle crisi, sia economiche che sociali e politiche; motivi che, se non curati, continueranno “a corrodere le garanzie contro il dispotismo”, sino alla totale perdita della libertà e alla “conseguente necessità, per restaurarla, di una rivoluzione”.
Ma, sia che si tratti di porre in essere le necessarie azioni per impedire l’ulteriore deterioramento delle istituzioni democratiche, che di impedire il ricorso ad una rivoluzione per il ricupero di tali istituzioni, occorre – a parere di Lippmann – avere un’adeguata consapevolezza circa le funzioni dei due poteri (del governo e delle assemblee rappresentative), della loro natura e delle loro alterazioni. A questo fine è necessario, soprattutto, avere presente il “vero” significato dell’elemento che costituisce il pilastro delle democrazie, cioè del “popolo”; nella percezione dell’opinione pubblica, quest’ultimo ha due significati diversi, che occorre tenere distinti. Quando si parla di “sovranità popolare”, come fonte originaria della legittimità delle istituzioni democratiche, occorre tenere presente che il popolo non coincide con l’elettorato che si pronuncia in un determinato momento, bensì con “l’insieme dell’intera popolazione, compresi i suoi ascendenti e discendenti”, un aggregato quindi che rappresenta il popolo “quale comunità storica”.
L’assunzione che le “opinioni dell’elettorato possano valere come espressione del popolo quale comunità storica” ha originato, secondo Lippmann, il “problema cruciale” delle democrazie moderne, dovuto all’assunzione del “falso postulato” implicante che l’elettorato possa rappresentare integralmente la comunità storica e che le opinioni della stesso elettorato “possano essere accettate senza discussione come autentico giudizio degli interessi vitali di essa”. A causa della differenza esistente tra “popolo come somma di votanti” e “popolo come organica unità di votanti”, i “primi non hanno alcun titolo per considerarsi arbitri dello Stato e per pretendere l’identità dei loro interessi con quelli della comunità”.
Una maggioranza di votanti, perciò, non è il popolo quale comunità storica, per cui la contraria pretesa della maggioranza è stato il “pretesto per giustificare la manomissione del potere esecutivo da parte delle assemblee rappresentative”, nonché l’intimidazione esercitata sugli uomini dell’esecutivo perché fossero soddisfatti prioritariamente gli interessi dell’elettorato.
In tal modo, essendo venuta meno la considerazione del popolo come comunità storica, ovvero come “ininterrotto fluire di individui e di generazioni”, è venuto meno il “cemento” che tradizionalmente l’ha teneva organicamente unita, ovvero è venuta meno la solidarietà non solo “tra coloro che sono ora viventi”, ma anche con “coloro che sono morti e coloro che nasceranno”. Rimossa la comunità storica, quella che tradizionalmente conferiva razionalità e giustificazione all’azione politica dell’esecutivo, “da dove viene – si chiede Lippmann – il dovere e l’impegno di difendere il pubblico interesse?” Senza l’idea di una comunità trascendente – continua Lippmann – perché la maggioranza dell’elettorato della popolazione presente “dovrebbe darsi il pensiero della posterità” e perché la posterità dovrebbe aver riguardo per la maggioranza dell’elettorato? Senza questo “pensiero” e senza questo “riguardo”, una nazione non può progettare razionalmente il proprio futuro, rendendo inevitabile che le strutture del proprio Stato scontino un processo di decadimento.
Dopo il prevalere degli egoismi di parte, che ha determinato la totale dipendenza degli esecutivi dagli elettorati, è seguita la rottura dell’equilibrio tra le due funzioni dello Stato democratico: l’esecutivo ha perduto legittimazione sul piano politico, mentre gran parte delle sue originarie funzioni è passata alle assemblee dominate dalle maggioranze degli elettorati. Questa condizione delle democrazie è stata la risultante di una sorta di “rivoluzione interna che ha ‘inquinato’ il sistema costituzionale degli Stati liberaldemocratici”. Si è trattato di una rivoluzione compiutasi nella prima parte del XX secolo e il suo successo, non casualmente, ha dato luogo all’avvento, in alcuni dei Paesi di più antica democrazia, di regimi liberticidi che hanno indebolito tutte le forme di governo democratico.
Il secondo conflitto mondiale è valso a restaurare, soprattutto in alcuni Paesi dell’Europa occidentale, la democrazia soppressa, senza però che fosse rimossa la falsa credenza che l’elettorato possa rappresentare la comunità storica e che le sue opinioni debbano essere accettate come valutazione degli autentici interessi della stessa. Sebbene le rinate democrazie siano sembrate consolidarsi e diffondersi, in realtà, come si è detto, esse hanno potuto conservarsi per il sostegno dato loro dalle potenze occidentali per ragioni ideologiche, senza però impedire che il “virus” dell’egemonia delle assemblee rappresentative potesse continuare a pervadere e condizionare totalmente il loro funzionamento.
Il contenimento della primazia delle assemblee è venuto però totalmente meno a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, con l’inizio del processo di globalizzazione delle economie nazionali, sorretto dal prevalere dell’ideologia neoliberista. Perché il mondo si è frammentato sotto l’effetto delle forze che hanno sorretto il processo di globalizzazione delle economie nazionali? A partire dagli anni Novanta, nel linguaggio economico e in quello politico, è invalso l’uso del termine “neoliberismo”, come sinonimo di “libero mercato”.
Questo termine ha una “sua storia”; esso è “nato” a seguito dell’elaborazione, negli anni Trenta del secolo scorso, di una linea di pensiero critico dell’originario liberismo “laissezfairista”. Nel 1938, si è svolta a Parigi una conferenza internazionale, intitolata “Colloque Walter Lippman”, organizzata per discutere l’analisi che il famoso saggista e giornalista americano aveva svolto nel libro “The Good Society”, pubblicato nel 1937. Alla conferenza era presente, oltre a Lippmann, il fior fiore degli “ordoliberisti” tedeschi, quali Wilhelm Röpke e Alexander Rüstow e, tra gli altri, i teorici della scuola economica austriaca Friedrich Hayek e Ludwig Mises. Alla fine della conferenza, i partecipanti hanno deciso di dare luogo ad una organizzazione, con lo scopo di promuovere la diffusione del pensiero critico sugli esiti sociali, economici e politivi negaivi del “laizzez-faire” del primo liberismo. Dopo il conflitto, l’organizzazione è stata sostituita, per iniziativa di Friedrich Hayek, dalla Mont Pelerin Society.
Alla fine degli anni Settanta, il neoliberismo proposto dal “Colloque”, per iniziativa del sodalizio della Mont Pelerin Society, ha “cambiato pelle”; esso si è trasformato nella negazione del neoliberismo formulato alla fine degli anni Trenta e ispirato al contributo del keynesismo; in altri termini, esso è stato finalizzato a propagandare la necessità di ridurre la regolamentazione alla quale era stato assoggettato il libero mercato.
L’idea centrale che i neolibersiti montpeleriniani hanno teorizzato del mercato è stata la sua presunta pervasività riguardo ad ogni aspetto della vita a livello globale; così che ogni individuo, per soddisfare nel migliore dei modo i propri interessi, doveva accettare un mondo in cui il prodotto dell’agire umano fosse stato l’esito della conformità di tale agire alle forze di mercato.
Per il neoliberismo montpeleriniano, quindi, perdeva significato ogni distinzione tra economie di mercato e società di mercato; ciò perché, quando i comportamenti umani fossero risultati conformi ai principi dell’ideologia neoliberista, il mercato sarebbe diventato il fondamento di tutto, nel senso che sarebbe esistita solo una società di mercato, una cultura di mercato, valori di mercato e persone plasmate dal mercato, che avrebbero interagito a titolo individuale, sulla base di una valutazione strettamente individuale dei propri interessi, con altre persone ugualmente plasmate dal mercato.
Da qui è derivato un radicale mutamento circa il modo di concepire il funzionamento delle società democratiche, nelle quali cessava completamente il rispetto delle regole che avevano permeato ed educato i popoli ad accettare come irrinunciabili i due poteri sui quali si reggevano gli ordinamenti democratici, nonché a rispettare la contrapposizione dialettica tra esecutivo e assemblee rappresentative; regole che nel tempo si erano radicate, nella percezione dei cittadini, nella forma di una “filosofia pubblica” idonea a costituire il supporto del corretto funzionamento della democrazia.
L’avvento dell’ideologia neoliberista e della globalizzazione è valso a rimuovere dalla coscienza di cittadini tale filosofia pubblica, concorrendo a creare il “grande vuoto” al quale, sia pure con riferimento a tempi e situazioni diverse, accennava Lippmann nel saggio degli anni Cinquanta. E’ così che le moderne società, un tempo regolate e governate da regimi democratici, hanno assistito al crescere dell’importanza di uno sfrenato individualismo; questo, distruggendo la tradizionale azione dell’esecutivo, ha reso possibile che le società democratiche fossero additate come forma di organizzazione sociale superata e irrazionale, fondando così l’dea che alle società industriali moderne si addicano, in quanto più convenienti, forme di “democrazia illiberale”.
Il caso italiano può essere assunto a paradigma rappresentativo di una situazione divenuta comune a gran parte delle società di più antica tradizione democratica; un fenomeno che allo stato attuale rende difficile la ricerca di una possibile strategia con cui porvi rimedio.
Oggi martedì 3 dicembre 2019
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- L’evento sulle pagine dell’UCSI.
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Reddito di cittadinanza: un sollievo per 40mila nuclei familiari sardi
3 Dicembre 2019
A.P. su Democraziaoggi.
Che la Sardegna fosse povera, lo sapevamo già. Il rapporto dell’Inps rendiconto sociale per il biennio 2017-2018 dell’altro giorno non toglie e non aggiunge nulla alle nostre conoscenze o percezioni. L’Isola è povera. Non è di questo che voglio parlare. Voglio accendere il faro sul fatto che in Sardegna sono coinvolti nel […]
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INSULARITA’ IN COSTITUZIONE, SI SVEGLIA SORU…
Insularità bocciata da Soru e la politica ora si spacca
L’intervento controcorrente dell’ex governatore trova sostenitori e critici. Deiana: «Fine di un’ipocrisia». Cossa: «Chiediamo solo pari opportunità»
Su La Nuova Sardegna online.
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…MA QUALCUNO LO DICEVA DA BEN PRIMA.
Insularità, referendum e venditori di orologi taroccati
Tonino Dessì su Democraziaoggi del 17 ottobre 2017 (oltre due anni orsono).
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Crisi climatica: tra speranza e capitolazione
Da oggi lunedì 2 al 13 dicembre 2019 si tiene a Madrid la 25° Conferenza delle Parti dell’ONU sul cambiamento climatico (la COP-25, 25° Conference of the Parties). La Conferenza Onu sul clima arriva quest’anno alla 25° edizione; doveva tenersi in Cile, ma il vertice è stato spostato a Madrid per motivi di ordine pubblico dopo le imponenti manifestazioni di massa degli ultimi mesi e tuttora in atto contro il governo Piñera.
Nella relazione introduttiva il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha parlato della crisi climatica tra speranza e capitolazione. Di vera e propria capitolazione si può parlare in Italia, come risulta dall’articolo di Marco Bersani su Volerelaluna, che sotto riproduciamo.
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Crisi climatica: invertire la rotta
di Marco Bersani, su Volerelaluna.
La questione ambientale è diventata tema dirimente dal momento in cui i rapporti dell’IPPC (Intergovernment Panel on Climate Change, agenzia dell’Onu), fino ad allora tanto autorevoli quanto velocemente rimossi, hanno finalmente incrociato le mobilitazioni di piazza di una nuova generazione di giovani e giovanissimi che, contro la crisi climatica, reclama scelte radicali di inversione di rotta e pretende il diritto al futuro.
Secondo il Centro Euromediterraneo per i Cambiamenti Climatici «entro fine secolo in Italia la temperatura potrà aumentare tra 3 e i 6 gradi», con un’estremizzazione del nostro clima accompagnata da precipitazioni violente alternate a periodi di aridità. Un’evoluzione che si è manifestata in tutta la sua drammaticità già quest’anno, con il primo quadrimestre segnato da una grave siccità con circa un quarto di pioggia in meno, al quale ha fatto seguito un mese di maggio straordinariamente piovoso con grandine e temporali che hanno provocato pesanti danni alle coltivazioni.
La crisi climatica in corso rende evidenti le contraddizioni di un modello di sviluppo dove il tempo delle scelte continua ad essere dettato dall’indice di Borsa del giorno successivo e non dal tempo lungo della permanenza della qualità della vita dentro le comunità territoriali. Questo ha creato nel tempo una situazione drammatica dal punto di vista ambientale, la cui evidenza è dimostrata da pochi ed efficaci dati.
Il dissesto idrogeologico nel nostro Paese interessa un territorio di 50.117 kmq, pari al 16,6% del territorio nazionale. I comuni interessati sono 7.275, pari al 91,1% del totale, mentre, per quanto riguarda le persone, sono a rischio frana 1.281.970 abitanti (2,2%) e a rischio alluvione 8.245.839 (13,9%).
Se analizziamo il degrado del suolo, solo negli ultimi sei anni, circa 80.000 kmq, pari al 26,5% della superficie italiana, hanno subito un peggioramento e, tra questi, 9.000 kmq hanno registrato un’importante perdita di produttività. Nel paragone con gli altri paesi dell’Unione Europea, l’Italia raggiunge un degrado del suolo triplo rispetto alla media.
In campo agricolo, la siccità è diventata l’evento avverso più rilevante, con fenomeni estremi che, nel corso dell’ultimo decennio, hanno provocato danni alla produzione nazionale, alle strutture e alle infrastrutture per un totale pari a più di 14 miliardi di euro. Su un territorio divenuto meno ricco e più fragile per l’abbandono forzato dell’attività agricola in molte aree interne si abbattono ora anche gli effetti dei cambiamenti climatici, favoriti dal fatto che negli ultimi 25 anni è scomparso il 28% della terra coltivata.
Sempre in campo agricolo, l’utilizzo dei pesticidi, pur essendo ufficialmente in calo, con un aumento delle coltivazioni biologiche, che hanno recentemente raggiunto l’11,3% della superficie agricola totale, colloca l’Italia al primo posto in Europa nel rapporto consumo di pesticidi per unità di superficie coltivata, con valori doppi rispetto a Germania e Francia.
Altrettanto allarmante la situazione dell’inquinamento delle aree urbane, dato comune a tutto il continente europeo, ma che vede il nostro Paese collocarsi fra i peggiori. Secondo il rapporto annuale dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA), redatto nel 2018 con dati aggiornati al 2015, ogni anno in Europa sono oltre 422.000 le morti premature dovute all’inquinamento atmosferico. Di queste, quasi 60.000 avvengono in Italia.
Nel 2018 sono stati superati i limiti giornalieri previsti per le polveri sottili o per l’ozono (35 giorni per il Pm10 e 25 per l’ozono) in ben 55 capoluoghi di provincia, in 24 dei quali il limite è stato superato per entrambi i parametri, con la conseguenza diretta, per i cittadini, di aver dovuto respirare aria inquinata per circa 4 mesi nell’anno.
Nonostante gli annunci di voler intraprendere una conversione ecologica dell’economia, l’Italia continua la sua insensata corsa all’oro nero. A confermarlo gli ultimi dati aggiornati da Legambiente, che fotografano la situazione attuale: su 16.821 kmq, sono ben 197 le concessioni di coltivazione, tra mare (67) e terra (130), alle quali si potrebbero aggiungere altre 12 istanze di concessione di coltivazione (7 in mare e 5 a terra). Inoltre, su un totale di 30.569 kmq sono attivi 80 permessi di ricerca, ai quali si potrebbero aggiungere 79 istanze di permessi di ricerca su un totale di 26.674 kmq, e 5 istanze di prospezione a mare su un totale di 68.335 kmq.
Tutto questo ha un costo. Non solo per i valori primari della vita, della salute e della serenità sociale, bensì anche dal punto di vista economico. Secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il costo economico planetario in riferimento all’inquinamento atmosferico è pari a 2,6mila miliardi di dollari all’anno, mentre, per quanto riguarda il nostro Paese, raggiunge la cifra di 97 miliardi di dollari, attribuibile alle spese sanitarie, alla diminuzione della produzione agricola e della produttività industriale. Anche il dissesto idrogeologico chiede il suo tributo, economico, oltre a quello di vite umane e di devastazione dei territori. Negli ultimi 75 anni, il risanamento e la ricostruzione dopo emergenze franose e alluvionali ha raggiunto la cifra di 213 miliardi. Una cifra enorme se si pensa che, secondo le stime dei geologi e le richieste dei Piani delle Autorità di bacino, per mettere in sicurezza tutto il territorio dal rischio idrogeologico, di miliardi ne basterebbero meno di un quinto, 40 miliardi.
I dati sopra riportati (ai quali potremmo aggiungere quelli sui rifiuti, o quelli relativi alle grandi opere) evidenziano una situazione allarmante e la necessità di un intervento indifferibile, tanto più ora che la crisi climatica non è più solo uno spauracchio del futuro ma è divenuta esperienza quotidiana.
Dentro questo quadro, la contraddizione ecologica assume connotati dirimenti e non più differibili, mettendo radicalmente in discussione l’attuale modello economico e sociale e svelando l’insopprimibile alterità tra ciò che è necessario fare, ovvero «stabilizzare il clima al massimo che è ancora possibile, mobilitando tutti i mezzi che si conoscono, indipendentemente dal costo» e ciò che per l’attuale modello è compatibile, ovvero «cercare di salvare il clima nella misura in cui questo non costi niente, o non troppo, e nella misura in cui questo consenta alle imprese di ricavare profitti» (D. Tanuro, L’impossibile capitalismo verde, Edizioni Alegre, 2010).
La crisi climatica obbliga ad andare alla radice del problema. Facendolo, si scoprirebbe come diverse crisi ecologiche si siano puntualmente presentate nella storia dell’umanità, ma nessuna con le caratteristiche dell’attuale shock climatico: se tutte le crisi precedenti erano dettate da una tendenza alla sottoproduzione e alla penuria, questa è la prima dettata, al contrario, dalla sovrapproduzione e dal sovraconsumo, figlia senz’altro dell’attività umana, ma dentro un’epoca storicamente e socialmente determinata: il modello capitalistico e l’economia di mercato. Sempre andando alla radice, si scoprirebbe la necessità di invertire la trasformazione dei concetti di tempo e di spazio innescata dal modello neoliberale: dall’espansione senza limiti dello spazio (pianeta come unico grande mercato) alla riduzione dello stesso, attraverso la riterritorializzazione e l’autogoverno delle produzioni; dalla drastica riduzione del tempo (scelte prese sull’indice di Borsa del giorno successivo) alla sua espansione, misurando le decisioni sulle conseguenze possibili per decine di generazioni future.
Si tratta di ripartire da ciò che diceva Andrè Gorz: «È impossibile evitare una catastrofe climatica senza rompere radicalmente con i metodi e la logica economica che sono condotti da centocinquant’anni» (A. Gorz, Capitalismo, socialismo, ecologia, Manifestolibri, 1992) e mantenere come bussola la regola prima che utilizzava Einstein nei suoi studi: «Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo».
La necessaria inversione di rotta deve partire da un presupposto: il come, cosa, dove e per chi produrre non può essere più lasciato ai liberi spostamenti dei capitali finanziari sul pianeta alla ricerca delle migliori condizioni per la valorizzazione degli investimenti, relegando il protagonismo dei cittadini consapevoli alla sola scelta “a valle” del processo, decidendo cosa consumare. Occorre, al contrario, ridefinire la ricchezza sociale e decidere collettivamente di quali beni e servizi abbiamo bisogno, in quale ambiente vogliamo vivere, cosa e in quali quantità vogliamo produrre, come ci redistribuiamo il lavoro necessario, la ricchezza prodotta, i tempi di vita e di relazione sociale, nonché la preservazione dei beni per le generazioni future.
Solo intraprendendo questa direzione si potrà approdare ad un’alternativa di società che forse dobbiamo ancora declinare, ma che sicuramente non dovrà più avere nulla a che fare con questo modello economico-sociale e con il pensiero unico del mercato.
Oggi lunedì 2 dicembre 2019
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Oggi 2 dicembre “Storie di lavoro femminile” all’hostel Marina
2 Dicembre 2019 su Democraziaoggi.
“Manifattura tabacchi. Storie di lavoro al femminile”, ideazione, testo e regia di Rita Atzeri ed in scena Carla Orru’ e Marta Gessa produzione Il crogiuolo, andrà in scena lunedì 2 dicembre, ore 19.30, all’Hostel Marina, scalette San Sepolcro di Cagliari. Organizza l’Anpi in collaborazione con CoStat, Scuola di Cultura Politica Francesco Cocco.
La rappresentazione si inserisce nella linea di ricerca tematica, portata avanti dalla compagnia Il Crogiuolo […]
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Fondo salva stati, unione bancaria, Fiscal compact: non farsi impressionare dal fracasso leghista e chiedere le modifiche necessarie
2 Dicembre 2019
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Fiscal Compact con le connesse direttive, sistema bancario europeo e fondo salvastati – Mes – sono aspetti tra loro legati. Valutarli divisi può portare solo guai. Le sceneggiate e i toni aggressivi della Lega e del resto della destra in parlamento, da scontro frontale, sono strumentali e servono a coprire i loro stessi errori. […]
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Renato Soru: «Regione green e smart, l’insularità è il passato»
L’ex governatore boccia il movimento che chiede la modifica della Costituzione: «Di difficile realizzazione e con vantaggi molto limitati. Meglio puntare al futuro»
di Luca Rojch, 2 dicembre 2019 su La Nuova Sardegna online.
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Che succede?
SALVA-STATI. STATO E MERCATO. SOLDI E POLITICA. STATO E AUTONOMIE
1 Dicembre 2019 by Forcesi | Su C3dem.
MES: Federico Fubini, “Cosa è vero o falso sul Mes” (Corriere). Stefano Folli, “E’ bene che Conte chiarisca sul Mes” (Repubblica). Paolo Gentiloni, “Salva-stati, non c’è rischio. Nessuno nella Ue complotta contro l’Italia” (intervista al Corriere). Ilario Lombardo, “L’offensiva di Gualtieri: sono pronto anche al veto” (La Stampa). IRI? Romano Prodi, “All’industria non serve una nuova Iri” (Messaggero). Marianna Mazzucato, “L’eredità dell’Iri” (Repubblica). Claudio De Vincenti, “Mano pubblica solo per soluzioni di mercato” (Sole 24 ore). SOLDI E POLITICA: Giuliano Amato e Francesco Clementi, “Nota sul finanziamento della politica” (Camera dei deputati). Michele Ainis, “Ridare trasparenza ai partiti” (Repubblica). AUTONOMIA: Gianfranco Viesti, “Nuova autonomia e vecchi trucchi” (Messaggero). Stefano Bonaccini, “Il testo-Boccia è un grosso passo avanti” (intervista al Secolo XIX). Fabio Tamburini, “Autonomia, basta con il fuoco amico” (Sole 24 ore).
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EUROPA TRA SPERANZE E FERITE. E LA NATO…
1 Dicembre 2019 by Forcesi | su C3dem.
Ursula von der Leyen, “L’Europa sia forte di valori e tecnologia” (intervista all’Avvenire). Sergio Fabbrini, “Conferenza sul futuro dell’Europa: rischi e pregi” (Sole 24 ore). Andrea Bonanni, “Un messaggio UE a Usa e Cina” (Repubblica). Maurizio Ferrera, “Il filo verde dell’Europa”. Josep Borrel, “Pronto a investire per migranti e clima” (intervista a Repubblica). Nello Scavo, “La rotta degli orrori: i migranti nei Balcani” (Avvenire). Angelo Panebianco, “Neonazionalismi, le nostre fragilità” (Corriere della sera). Ernesto Galli Della Loggia, “L’antisemitismo che l’Europa non sa vincere” (Corriere della sera). Romano Prodi, “L’ostacolo della Francia alla difesa comune della Ue” (Gazzettino). NATO: Jens Stoltenberg, “Nato sempre necessaria per la difesa dell’Europa” (intervista al Sole 24 ore) e “L’Europa resti vicino agli Usa” (intervista a Repubblica). Maurizio Molinari, “C’è la Cina nell’agenda della Nato” (La Stampa).
Papa Francesco a Greccio: il significato del Presepio, Admirabile signum
[Domenica 1 dicembre 2019 a Greccio]
LETTERA APOSTOLICA Admirabile signum
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE
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Che succede?
Una domanda alle Sardine: il nemico è il populismo o l’ingiustizia sociale?
di Tomaso Montanari su Volerelaluna
Tutto ciò che va contro Salvini, tutto ciò che riporta in piazza la gente dalla parte giusta, va bene: giusto pensarlo e giusto dirselo. Ma lo strepitoso successo delle Sardine comporterà infine un’erosione elettorale della destra, o alla fine lascerà intatte le ragioni di quel consenso? Una domanda ineludibile: e che vale sia sul brevissimo termine delle elezioni emiliane, sia su quello più medio-lungo. Perché è evidente che un altro mandato di Bonaccini sarà probabilmente meno peggio di un’Emilia Romagna nera, ma, se poi Bonaccini governerà come finora ha governato, la Lega non potrà che crescere ancora, e infine vincere (e lo stesso discorso vale per la Toscana).
Marco Revelli ha notato che le critiche alle Sardine assomigliano ai discorsi della gente che dà buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio. Ha perfettamente ragione, ma, come ha scritto George Orwell, «per difendere il socialismo, occorre cominciare attaccandolo».
Leggendo i tweet entusiasti del peggior PD e i peana che si susseguono sui grandi giornali che hanno avuto un ruolo cruciale nel demolire la sinistra; sapendo che a Torino vi confluiscono le Madamine Si Tav e i vertici della Compagnia di San Paolo, a Milano i più accesi sostenitori dell’Expo e a Firenze il sottobosco politico del governo delle Grandi Opere, la domanda che affiora alle labbra è: siamo di fronte a una gigantesca strumentalizzazione, o c’è qualcosa, nelle Sardine stesse, che ne autorizza questa tranquillizzante interpretazione “di sistema”?
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Un’impertinente correlazione
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Il manifesto del movimento individua il proprio nemico nel “populismo”. Il che significa considerare alla stessa stregua il consenso al Movimento 5 Stelle e quello al sovranismo neofascista di Salvini: è questa, mi pare, una prima connotazione “di sistema”. Ma ammettiamo che il vero bersaglio sia la Lega: siamo sicuri che considerarla la causa del nostro male collettivo, e non l’effetto di un altro male più antico e profondo, sia la strada giusta? Personalmente, non credo che il successo dell’estrema destra sia la malattia. Credo invece che quel consenso sia il sintomo mostruoso della vera malattia: l’enorme ingiustizia sociale che ha sfigurato questo Paese. La destra estrema appare l’alternativa – nera, terribile, portatrice di morte – a un ordine mondiale che si predicava senza alternative. E invece le nostre Sardine sembrano convinte – almeno a leggerne i testi – che il problema sia il populismo: e non l’ingiustizia e la diseguaglianza (parole assenti dai loro manifesti).
Per capire meglio, sarebbe necessario esplicitare alcuni punti della pars costruens del manifesto: «Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie». Un testo che diventerebbe chiaro, e interpretabile, se di questi politici fossero fatti i nomi.
Il passo chiave, invece, è quello in cui si legge: «Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto». Ora, chi potrebbe contestare tutto questo? Ma rimane una domanda: è bellissimo che chi è in grado di aiutare gli altri, si ribelli alla sporca retorica della estrema destra, ma non dovremmo forse anche chiederci perché ci siano così tanti “altri” da aiutare? E, soprattutto, non dovremmo domandarci se il punto critico non stia nello smontaggio dello Stato (cioè nel progetto della Costituzione), che questi “altri” avrebbe dovuto aiutare? Ancora: non sarà che il silenzio e la solitudine di questi “altri” è il nostro vero problema?
In piazza con le Sardine sembrano esserci soprattutto i “salvati”, o almeno è questa l’estrazione delle guide del movimento. Certamente sono salvati ben diversi da quelli che stanno davanti alla televisione, e tacciono di fronte al dilagare della destra. Ma questi salvati finalmente in movimento hanno coscienza delle ragioni per cui i “sommersi” votano in massa per Salvini, o ancora più in massa non vanno a votare?
Quando poi si legge come descrivono Milano («La città dove oggi celebriamo i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, che ha dato i natali ad Alessandro Manzoni, ospitato Giuseppe Verdi, dove c’è il Teatro alla Scala, tempio della musica classica e della lirica riconosciuto a livello mondiale»), si capisce perché Giuliano Ferrara, incontenibilmente entusiasta delle Sardine, le abbia definite: «un movimento spontaneo di fiancheggiamento dell’establishment».
C’è da sperare che i prossimi giorni gli diano torto, e che dalle Sardine arrivino risposte chiare e concrete sulle scelte da fare: a partire dalla disponibilità a scendere in piazza coi ragazzi dei “Fridays for Future”. E poi su molte delle questioni spartiacque: sono accettabili gli accordi con la Libia, quale politica del suolo e del territorio è sostenibile, cosa fare dell’autonomia differenziata, e via dicendo? Non si tratta di avere un programma, ma di capire da che parte stanno, davvero, le Sardine. Perché siamo tutti felici che lo spazio pubblico torni a riempirsi di cittadini che non intendono cedere alle sirene dei nuovi fascismi, e sono il primo a voler credere nel valore positivo e liberatorio di questo ritorno collettivo in piazza, che per tanti versi allarga il cuore. Ma se si trattasse di cittadini che sostanzialmente vogliono che l’Italia resti quella che è, fascisti esclusi, saremmo al punto di partenza: perché se l’Italia rimane quello che è – cioè un Paese atrocemente diseguale, con un’economia che uccide e un’ingiustizia crescente – i fascisti continueranno a veder aumentare il loro consenso. Ma se invece le sardine saranno anche un po’ come i salmoni, e sapranno andare contro la corrente del pensiero unico, allora forse avremo una speranza in più.
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Una impertinente correlazione
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Le giovani promesse del bene comune
di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 25 novembre 2019
Si tratta di ripensare una nuova resistenza (…) In questo senso, l’indignazione delle coscienze contro il contagio dell’odio, che si manifesta in questi giorni nelle piazze del nostro Paese dove i giovani sono stipati come sardine, se avrà la capacità di essere voce non solo “contro” ma anche “per un orizzonte sociale nuovo”, e dunque saprà approdare alla “politica”, può suscitare speranza. Questo lavoro di ricostituzione e riappropriazione dell’orizzonte del bene comune sarà lungo, richiederà fatica e resistenza; ma le nuove generazioni possono esserne protagoniste efficaci.
Tutti denunciano il crescere nel nostro Paese di frustrazioni, disillusioni mescolate a rabbie e rancori. La nostra convivenza è grama per le troppe situazioni di precarietà, di esclusione, di concreta e ingiusta povertà, sofferta in particolare dalle fasce più deboli della popolazione. I desideri di mutamento della situazione sembrano non trovare vie di realizzazione, accrescendo così il senso d’impotenza di molti cittadini di fronte ai mali denunciati: illegalità, corruzione, inconcludenza dei politici… È sempre più faticoso trovare convergenze e visioni condivise dell’avvenire sociale, mentre viene progressivamente a mancare la fiducia negli altri e la speranza nell’edificazione di una convivenza bella e buona. La crisi della politica è innanzitutto una crisi di fiducia verso quelli che hanno l’incarico di vigilare sul bene comune e sull’interesse generale: ambizioni personali smisurate, manovre, calcoli elettorali, promesse non mantenute, lontananza dalla vita reale dei cittadini, carenza di visioni a lungo termine, comportamenti demagogici e populisti sono diventati insopportabili.
Il comportamento di alcuni, troppi, getta discredito sull’insieme dei politici e impedisce di vedere il comportamento virtuoso di chi vive la politica come servizio. Ma la società non può fare a meno della politica, la quale è l’affermazione di un “noi, insieme” che trascende i particolarismi, gli interessi individuali e definisce le condizioni di una vita condivisa.
Per questo si tratta di ripensare il “contratto sociale” e di definirlo in termini nuovi, che affermino il primato del bene comune e sappiano ispirare il comportamento nel vivere insieme e nell’abitare il pianeta.
Contratto sociale nel quale siano inscritte non solo libertà e uguaglianza, ma anche fraternità, senza la quale le altre necessarie urgenze sociali restano fragili.
Si tratta di ripensare una nuova resistenza a questa dominante che attraversa l’Europa e che si nutre di affermazione dell’io individuale e di esclusione dell’altro, di chi è debole, e dell’erigere a presidio identità contro gli altri. In questo senso, l’indignazione delle coscienze contro il contagio dell’odio, che si manifesta in questi giorni nelle piazze del nostro Paese dove i giovani sono stipati come sardine, se avrà la capacità di essere voce non solo “contro” ma anche “per un orizzonte sociale nuovo”, e dunque saprà approdare alla “politica”, può suscitare speranza.
Questo lavoro di ricostituzione e riappropriazione dell’orizzonte del bene comune sarà lungo, richiederà fatica e resistenza; ma le nuove generazioni possono esserne protagoniste efficaci.
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Oggi domenica 1° dicembre 2019: primo giorno dell’ultimo mese dell’anno 2019.
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Domani 2 dicembre “Storie di lavoro femminile” all’hostel Marina
Su Democraziaoggi.
“Manifattura tabacchi. Storie di lavoro al femminile”, ideazione, testo e regia di Rita Atzeri ed in scena Carla Orru’ e Marta Gessa produzione Il crogiuolo, andrà in scena lunedì 2 dicembre, ore 19.30, all’Hostel Marina, scalette San Sepolcro di Cagliari. Organizza l’Anpi.
La rappresentazione si inserisce nella linea di ricerca tematica, portata avanti dalla compagnia Il […]
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Carbonia. Vessati in miniera e negli spacci aziendali, dove l’ACaI si riprende il salario
1 Dicembre 2019
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Quattordicesimo post sulla vita e il lavoro nella Carbonia delle origini. I precedenti ogni domenica a partire dal 1° settembre.
La vita in miniera è così, capisquadra, sorveglianti e ingegneri hanno il compito di vigilare sulla massa operaia, imponendo una disciplina rigida e obbedienza al limite della ottusità, della crudeltà persino: all’ordine del giorno sospensioni […]
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La Confederazione Sindacale Sarda verso l’VIII Congresso
RILEVANTI NOVITA’ IN CASA CSS
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il comunicato del segretario generale della Css Giacomo Meloni.
Venerdì 29 novembre 2019 si è riunito il Consiglio Naz. le della Confederazione Sindacale Sarda-CSS presso il salone dell’Oratorio parrocchiale di San Massimiliano Kolbe in via Sulcis a Cagliari [segue]