Monthly Archives: settembre 2019
Oggi la Conferenza dell’Asarp.
Oggi, Giovedì 5 settembre 2019 a Cagliari nell’Hotel Regina Margherita, alle ore 16.00, si terrà la Conferenza Regionale “Salute Mentale, Diritti Libertà Servizi” organizzata dall’Asarp, l’associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica. La Conferenza, fa seguito ai lavori della Conferenza Nazionale Salute Mentale che si è tenuta a Roma, con il Patrocinio del Ministero della Salute, il 14 e 15 giugno scorso, i cui documenti preparatori e conclusivi potranno essere visionati sul sito conferenzasalutementale.it. [segue]
Oggi giovedì 5 settembre 2019
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Una perfetta torna al posto di Salvini. Bene o male?
5 Settembre 2019
Red su Democraziaoggi.
Luciana Lamorgese, una prefetta torna al Viminale. Potentina, 66 anni, una vita al ministero.
Che una donna vada al Viminale è una buona notizia. Siamo sicuri che non indosserà giubotti o magliette delle varie forze, giù, giù fino alla polizia locale, come ha fatto fino a ieri il suo predecessore. Che venga dall’amministrazione, consigliere […]
Il risveglio della ragione
LA RAGIONE CHE HA SBLOCCATO LA CRISI
di Luigi Ferrajoli
C’era bisogno di un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisse i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale e fosse alieno dall’accanimento contro i più deboli e indifesi
C’è una ragione di fondo che impone la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa – poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole – è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche – di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione – è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento – esibito, ostentato – contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
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Luci e ombre di un governo diverso
Giulio Marcon su
5 Settembre 2019 | Sezione: Editoriale, Politica
Con l’insediamento del “Conte-bis” si apre una fase politica che promette di essere diversa rispetto a quella del precedente governo giallo-verde. Ma alla bontà di alcuni punti del programma e di alcuni nuovi ministri fanno da contraltare le ombre e le incognite su decreti sicurezza, spese militari, investimenti pubblici, sistema fiscale e bancario.
Parte un governo nuovo, diverso da quello del passato. Certo, migliore: scompaiono dal radar di governo il virulento Salvini e alcune politiche scellerate come la flat tax e la cosiddetta autonomia differenziata in salsa leghista. Si rompe il connubio liberista-populista. Diventano ministri persone di qualità come Provenzano, Fioramonti, Pisano, Boccia.
Nel programma dei 29 punti ci sono cose nuove, che non possono non essere apprezzate: il Green New Deal, la promessa di una politica economica espansiva e di sostegno al welfare, alla scuola, all’istruzione, il salario minimo, l’impegno sull’Agenda 2030, la web tax, la promessa della legge sull’acqua pubblica e altro ancora.
Ma ci sono anche cose negative: i decreti sicurezza non vengono cancellati (ci si limita a una loro “rivisitazione” e si rimanda a una futura legge sull’immigrazione), le spese militari non vengono tagliate (e nemmeno i cacciabombardieri F35), il richiamo al “cuneo fiscale” è del tutto vago (tutto dipende da come verrà declinato), sugli investimenti pubblici non ci sono impegni concreti, solo due righe insignificanti sul sistema bancario e zero parole sulla tobin tax.
Vedremo come tutto ciò si concretizzerà. Le incognite sulle misure specifiche e la tenuta del governo sono molte. Quello che conta è il merito delle scelte: spazzare via i decreti sicurezza è dirimente, una questione di civiltà e di democrazia. Così come stanziare più soldi per la scuola, per gli ospedali, per i servizi sociali. Ci sono emergenze sociali in questo paese: la povertà non è stata di certo “abolita”, le diseguaglianze continuano a essere profonde, le condizioni dei giovani sono drammatiche. La questione sociale – insieme a quella ambientale – deve tornare al centro delle scelte.
Il paese è in stagnazione, l’economia e l’apparato industriale (e la finanza) galleggiano in una situazione di grandissimo rischio sistemico, anche per il contesto globale. Il paese non ha bisogno – come dice Conte – di “novità”, ma di una vera e propria svolta, come invece più volte in questi anni ha chiesto Sbilanciamoci!: più investimenti pubblici e meno inventivi fiscali alle imprese, più lavoro con diritti e meno precariato, più lotta ai cambiamenti climatici e meno sussidi ambientalmente dannosi (16 miliardi di euro), più soldi per l’accoglienza dei migranti e la cooperazione e meno spese militari.
Aspettiamo il nuovo governo alla prova dei fatti, a partire dalla prossima Nota di aggiornamento del DEF.
Ecco il nuovo Governo
Domani giovedì 5 settembre i ministri giureranno davanti al Capo dello Stato.
Ecco il Governo.
Giuseppe Conte – Presidente del Consiglio.
L’elenco dei ministri:
Vincenzo Spadafora – Ministro delle Politiche giovanili e Sport
Elena Bonetti – Ministro delle parti opportunità
Paola Pisano – Ministro dell’innovazione tecnologica
Federico D’Incà – Ministro dei Rapporti col Parlamento
Fabiana Dadone – Ministero della Pubblica Amministrazione
Giuseppe Provenzano – Ministro per il Sud
Luigi Di Maio – Ministro degli Esteri
Alfonso Bonafede – Ministro della Giustizia
Stefano Patuanelli – Ministero dello Sviluppo Economico
Sergio Costa – Ministro dell’Ambiente
Nunzia Catalfo – Ministro del Lavoro
Teresa Bellanova – Ministro delle Politiche agricole
Luciana Lamorgese – Ministro dell’interno
Lorenzo Guerini – Ministro della Difesa
Roberto Gualtieri – Ministro dell’Economia
Enzo Amendola – Ministro degli Affari Europei
Dario Franceschini – Ministro della Cultura con delega Turismo
Roberto Speranza – Ministro della Salute
Paola De Micheli – Ministro delle Infrastrutture e Trasporti
Lorenzo Fioramonti – Ministro dell’Istruzione
Francesco Boccia – Ministro agli Affari Regionali
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[Il Fatto quotidiano] Governo Conte 2, ecco la lista dei ministri del nuovo esecutivo: da Gualtieri al Tesoro a Lamorgese al Viminale. Tutte le biografie
La storia della medicina
di Piero Marcialis.
52. Koch, il batteriologo.
Il tedesco Robert Koch (1843-1910) divide con Louis Pasteur il vanto di aver fondato la microbiologia.
Studiò all’Universita’ di Gottinga, dove insegnavano il fisiologo Georg Meissner e l’anatomista Friedrich Henle, pioniere della batteriologia.
Prestò servizio come medico militare nella guerra franco-prussiana, poi fu medico di paese nel villaggio di Wollstein.
Qui iniziò le sue ricerche: dimostrò che il carbonchio era causato non da miasmi e contagi ma da un bacillo; appassionato di fotografia inventò la fotografia microscopica e nel 1877 pubblicò un articolo con foto di batteri.
Nel 1880 è chiamato a Berlino, dirige l’Istituto di Sanità.
Nel 1882 annuncia la scoperta del bacillo della tubercolosi.
Nel 1884 scoprì il vibrione del colera.
Viaggiò molto: in Sudafrica per studiare la peste dei bovini, in India per la peste bubbonica, a Giava per la malaria.
Nel 1890 propose come rimedio alla malattia la tubercolina, un estratto di batteri in glicerina, che però non risulterà efficace.
Nel 1891 venne creato per lui l’Istituto delle Malattie infettive, dove lavorerà fino quasi alla morte e dove furono deposte le sue ceneri.
Nel 1905, ai tanti riconoscimenti, si aggiunse il premio Nobel.
Morì a Baden-Baden il 27 maggio 1910.
Un suo monumento è a Clausthal-Zellerfeld, sua città natale.
Oggi mercoledì 4 settembre 2019
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Bene Conte bis, ma non è che ci sia trasformismo?
4 Settembre 2019
Amsicora su Democraziaoggi.
Lo so che rompere le scatole è fastidioso. Ma io le rompo lo stesso. Siete tutti felici, grilli e piddini e sinistra varia per il Conte bis. E teoricamente lo sono anch’io, non foss’altro perché togliersi dai piedi un ministro che gira con una maglietta con scritto “Polizia locale” è un atto doveroso, di semplice buon senso. […]
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Che succede?
Il dibattito sulla fase.
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VERSO IL GOVERNO DI BISANZIO?
3 Settembre 2019 by Forcesi | su C3dem.
Arturo Parisi, “Caro Romano, giusto cercare l’intesa con gli M5S ma il metodo è sbagliato” (intervista al Mattino). Piero Ignazi, “Perché il Pd rischia di più” (Repubblica). Sabino Cassese, “Iscritti contro elettori” (Corriere della sera). Angelo Panebianco, “Votare non è un gioco” (Corriere della sera). Jean-Luis Cebrian, “Alleanza con i populisti in Italia e in Spagna, vale la pena di tentare” (La Stampa). Stefano Folli, “Verso il governo di Bisanzio” (Repubblica). Alessandro Campi, “Ma i veri temi del dissenso restano nascosti” (Messaggero). Vladimiro Zagrebelsky, “Il nuovo umanesimo di Conte alla prova dei migranti” (La Stampa). Elena Cattaneo, “Il sistema istruzione-ricerca alla base del rilancio del paese” (Messaggero). Antonio Funiciello, “L’adulazione malattia mortale dei leader” (Foglio).
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M5S: anche in questa vicenda ha adottato le procedure più democratiche o meno a-democratiche
3 Settembre 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Quando si parla del M5S, la maggior parte degli osservatori perde il senno e dice le cose più stravaganti e insensate. Insinua i dubbi più atroci, avanza le ipotesi più oscure. Prendete Grillo e Casaleggio padre. Se ne sono dette di tutti i colori. Sono stati descritti come degli intriganti, assetati di potere, dietro […]
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La storia della medicina
51. Pasteur, nascita della microbiologia.
Un francese, che non era medico, è una delle figure più importanti della storia della medicina.
Louis Pasteur nasce il 27 dicembre 1822 a Dole nel Giura (oggi in Borgogna-Franca Contea, capitale Besançon).
Professore di fisica al Liceo di Digione nel 1848, l’anno seguente è docente di chimica all’Università di Strasburgo, poi a Lille, poi a Parigi, per vent’anni.
Una vita metodica, durante la quale affronta uno dopo l’altro i grandi problemi legati all’agricoltura, agli animali, all’uomo.
I primi studi riguardarono la cristallografia, poi le cause della fermentazione e della putrefazione, qui scopre che non si tratta di semplici processi chimici, ma che ne sono causa certi microorganismi.
Nel periodo di Lille, zona viticola, dimostra che sono i microbi a far inacidire il vino e il latte e mostra il rimedio nella pastorizzazione, cioè l’eliminazione dei microbi col calore, procedimento che da lui prende il nome.
Si dedica successivamente alla prevenzione del carbonchio, che minacciava all’epoca di rovinare la zootecnia francese.
Secondo il metodo di Jenner inoculò negli animali un germe attenuato a bassa virulenza, ne risultò l’immunizzazione.
Il successo forse più celebre lo conseguì con la scoperta del siero antirabbico, riducendo la mortalità da rabbia a meno dell’uno per cento dei casi.
Nei festeggiamenti del suo settantesimo compleanno a Parigi intervenne il medico inglese Joseph Lister (del quale parleremo prossimamente) e disse: “Non c’è in tutto il mondo una persona cui la scienza medica debba quanto a lei”.
Pasteur morì a Marnes-la Coquette il 28 settembre 1895.
Impegnati per salvare la Terra e i viventi
Road Map per l’emergenza climatica
29.08.2019 – Guido Viale su pressenza
A un anno dall’inizio dello sciopero solitario di Greta Thunberg possiamo misurare l’enorme risultato che una sola persona, priva di ogni potere, è riuscita a produrre:
Un milione e mezzo di giovani in tutto il mondo si sono svegliati, hanno capito che gli stiamo rubando il futuro, e forse anche la vita, sono scesi in piazza per protestare (e lo rifaranno, più numerosi e forti, tra il 20 e il 27 settembre) e stanno moltiplicando le loro iniziative riempiendo di eventi dirompenti il calendario di molti paesi;
Stampa e Tv, mute fino a pochi mesi fa, hanno cominciato a raccontare quello che sta succedendo al pianeta, compreso spiegare (per es. La Stampa del 29.8) che non c’è più posto per politiche di “crescita”, per quanto virtuose: de profundis per le politiche di tutti i paesi;
Tra la popolazione più informata, trasformata, come tutti, in consumatori, cresce la consapevolezza di dover porre fine a uno stile di vita insostenibile (per chi uno “stile di vita” può permetterselo: poche centinaia di milioni di persone). Innanzitutto molta meno carne, ma sotto tiro ci sono anche viaggi aerei, vacanze esotiche, auto private, condizionatori, abbigliamento, moda, case troppo grandi;
Molte imprese corrono ai ripari verniciandosi di verde: i capibastone dell’industria Usa dichiarano che tra i loro fini non c’è più solo il profitto, anche se non si è mai visto che i profitti diminuiscano se non sotto la pressione di lavoratori sfruttati e consumatori imbrogliati;
I più in ritardo di tutti sono i politici: quelli negazionisti, come Trump e Bolsonaro, non si vantano più delle politiche apertamente distruttive che perseguono. Tutti gli altri, che si riempiono la bocca di ambiente da decenni senza fare niente, sono ancora lì a misurare i decimi di punto di PIL che qualsiasi misura ambientale potrebbe sottrargli. La nuova Presidente delle Commissione europea Ursula Von der Leyden annuncia un fondo per fare fronte ai cambiamenti climatici; ma a chi andranno quei soldi? Se tutti i fondi stanziati per la crisi economica sono finiti in bocca alle banche, quelli per il clima, se mai saranno stanziati, rischiano la stessa fine. Per questo è ormai urgente mettere in chiaro alcuni punti:
Non ci si può limitare alla protesta e alla denuncia. Occorre pensare anche alle cose da fare, muovendosi su due piani: pressione sulle istituzioni e sui media, con rivendicazioni da mettere a punto un po’ per volta; e mobilitazione dal basso per cambiare insieme il nostro stile di vita, facendo cose che si possono fare anche in pochi senza chiedere permesso. Valgono le ingiunzioni promosse da Extinction Rebellion: “dite la verità, agite subito, convocate il pubblico”, ma nell’ordine inverso: senza momenti collettivi non si infrange il muro di omertà che ha nascosto le cose finora, né si può intraprendere iniziative che coinvolgano chi non si è ancora mobilitato. Gli interlocutori principali sono due: i lavoratori di fabbriche e aziende, da contattare sia direttamente che con la mediazione dei sindacati, e i “territori”, o “comunità”, facendo leva sul tessuto associativo: comitati di lotta, società sportive, parrocchie, centri sociali. Le scuole, dove sono nati gli scioperi del venerdì, possono diventare sedi e riferimenti per ogni quartiere.
I temi più immediati da affrontare sono quattro:
Decarbonizzazione, cioè elettrificazione con fonti rinnovabili. Non tutti dispongono di un tetto da solarizzare (e ci sono anche i senzatetto), ma in tutti i quartieri gli interventi possibili per produrre energia rinnovabile e risparmio energetico sono centinaia: possono venir individuati e progettati, esigendo dalle amministrazioni locali la formazione e la messa a disposizione di squadre interdisciplinari di tecnici (un lavoro interessante per migliaia e migliaia di giovani laureati e diplomati). La ristrutturazione degli edifici offrirà per anni milioni di posti di lavoro a nativi e migranti a tutti i livelli di qualificazione.
Mobilità: si tratta – bisogna avere il coraggio di dirlo – di abbandonare per sempre e in pochi anni l’auto privata, sia tradizionale che elettrica, per sostituirla con trasporti pubblici più efficienti, più comodi, più economici, sia di linea (treni, tram e bus) che personalizzati (taxi singoli e collettivi, car sharing, trasporto a domanda per passeggeri e merci). Una transizione che non può essere affidata solo alle autorità: va organizzata dal basso con la creazione di mobility manager di quartiere e di caseggiato (e non solo quelli, del tutto inefficienti, che esistono già a livello di azienda) individuando e rivendicando le risorse necessarie: affidare al mercato una demotorizzazione discriminatoria, come ha cercato di far Macron con le tasse sul diesel, è il modo migliore per far fallire tutto. E si è visto.
Agricoltura e alimentazione: non basta ridurre la carne; ci vuole un’agricoltura ecologica, di prossimità, gestita da piccole aziende, che consenta il “ritorno alla terra” a decine di migliaia di giovani acculturati che non aspirano ad altro e ad altrettanti migranti già occupati, ma da mettere in regola. La transizione può essere facilitata dai gruppi di consumo solidale (gas) con un rapporto diretto tra chi produce o trasforma il cibo e chi lo consuma;
Territorio: per metterlo in sicurezza bisogna demolire gli edifici insicuri, ma soprattutto piantumare. Nel mondo c’è ancora posto per mille miliardi di nuovi alberi: quanto basta per riassorbire una parte significativa del CO2 emesso negli ultimi due secoli…
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Road Map per l’emergenza climatica
(Foto di https://www.facebook.com/gretathunbergsweden)
Oggi martedì 3 settembre 2019
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Intellettuali a favore del governo giallo-rosa
3 Settembre 2019
Red su Democraziaoggi.
Pubblichiamo due appelli di intellettuali democratici a favore del governo Conte bis. La particolarità positiva dei due interventi è ch’essi non esprimono una pura adesione all’idea di formare un nuovo esecutivo a maggioranza gallo-rosa, ma che in essi si danno delle indicazioni precise ed organiche sul che fare. L’elemento comune è il richiamo alla centralità […]
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Governo, la bozza del programma M5s-Pd in 26 punti: taglio tasse sul lavoro e maggiore flessibilità Ue. Poi conflitto d’interessi, evasione fiscale, riforma giustizia, revisione concessioni e taglio parlamentari. Su Il Fatto quotidiano.
E’ online il manifesto sardo duecentottantanove
Il numero 289
Il sommario
“Assemblea”: cooperazione e organizzazione della “Moltitudine” (Gianfranco Sabattini), Capitalismo e depressione collettiva (Amedeo Spagnuolo), Un’altra cafonissima estate lungo i litorali sardi. Magari fosse l’ultima (Stefano Deliperi), Le 5 ASL (Massimo Dadea), Turchia e dintorni: La Turchia e gli altri attori internazionali in Libia (Emanuela Locci), Vivere l’emergenza sanitaria: come l’ “ottimizzazione” può oscurare il rapporto umano (Aldo Lotta), Crisi Porto Canale di Cagliari e licenziamenti: quando la Regione potrebbe fare ma non fa (Luana Farina), Una conferenza sarda per la salute mentale (Gisella Trincas), Road Map per l’emergenza climatica (Guido Viale), Il nodo irrisolto della leadership del M5 Stelle (Alfonso Gianni), Il mondo in basso cresce in silenzio (Raúl Zibechi e Juan Wahren).
Oggi lunedì 2 settembre 2019
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Conte 2: una partita difficilissima, occorre una vasta mobilitazione democratica
2 Settembre 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Per me, che sono stato qualificato, con una certa disapprovazione, “grillino”, il nuovo governo a guida Conte, dovrebbe apparire entusiasmante. Non nego di aver pensato fin dal marzo del 2018 che questa fosse la soluzione più sensata e non ho mancato di criticare la propensione per i pop-corn di Renzi. Ho sempre creduto tuttavia […]
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Quattro ragionamenti spiccioli.
Tonino Dessì su fb.
Non so se – fra le persone di area csx e fra chi è di sinistra e non del PD, ma anche fra i simpatizzanti non di destra del M5S – sia del tutto chiara la collocazione personale che si prospetta loro (me compreso), qualora, a seguito del voto sulla Piattaforma Rousseau, questa legislatura italiana si interrompesse anticipatamente nei prossimi giorni.
Certamente si andrebbe a elezioni. [segue]
Che succede?
GOVERNO GIALLOROSSO: OPPORTUNITÀ E RISCHI
1 Settembre 2019 by Forcesi | su C3dem.
Romano Prodi indica le possibili priorità per un governo giallorosso: “Gli scogli da superare per garantire la crescita” (Messaggero). I pro e i contro di un governo giallorosso secondo Marco Damilano: “La possibilità e la trappola” (Espresso). Le critiche di Massimo Cacciari: “Tutti senza radici” (Espresso). L’ironia del direttore di Repubblica, Carlo Verdelli: “Un matrimonio bellissimo”. La Stampa pubblica tre interessanti articoli: Maurizio Molinari, “Fra M5S e Pd un patto sui diritti”; Niccolò Zancan, “Il sindaco di Bologna: i grillini si muovono in un modo ignobile”; Federico Geremicca, “La sfida di Zingaretti: via le correnti per cambiare i dem”. L’Avvenire pubblica un editoriale di Vittorio E. Parsi: “Nessuno (o quasi) sarà come prima”, e, ieri, una lettera di Ernesto Preziosi: “Una risposta alla crisi della politica”. Su governo italiano e scenario europeo scrive Sergio Fabbrini sul Sole 24 ore: “Italia-Europa: nuovo governo, nuovi problemi”. Sul possibile governo giallorosso e i problemi dell’economia: Salvatore Rossi, “Rischio recessione. Non c’è il paracadute“. Ferruccio De Bortoli, “Acrobazie e silenzi sui numeri” (Corriere della sera). Ferdinando Giugliano, “L’occasione per l’economia”; Tito Boeri, “La discontinuità in due voci” (Repubblica). Matteo Renzi rilascia un’intervista al Sole 24 ore: “Governo per il Pil o non avrà i nostri voti”.
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Europa, Europa
L’Europa del futuro secondo Giuliano Amato
di Gianfranco Sabattini
La “Treccani” ha pubblicato in un libro snello il testo della voce “Europeismo”, di Altiero Spinelli scritto per l’”Enciclopedia del Novecento”, opera dedicata dalla celebre Casa Editrice al pensiero del secolo discorso. Il testo è seguito da un saggio di Giuliano Amato, che dell’Istituto di gestione della Casa Editrice è stato Presidente; questo saggio è una “robusta” chiosa ai “temi” e ai “fili rossi” che hanno caratterizzato, secondo Spinelli, le diverse fasi in cui si è articolata l’evoluzione dell’europeismo: “i precedenti storici, con la centralità nel primo Novecento degli Stati sovrani e del nazionalismo; gli europeisti e l’europeismo, con i due percorsi del federalismo e del funzionalismo; quindi, i protagonisti che hanno occupato la scena durante e dopo la seconda guerra mondiale, prima i leader, poi le grandi potenze e i singoli Paesi europei, ultime le orze politiche; e infine ciò che ne è uscito e ciò che dovrà ancora uscire sul terreno dell’integrazione europea”.
I “temi” sono esposti tenendo conto dei diversi “fili rossi” (simboleggianti i valori che in momenti diversi hanno ostacolato gli ideali dell’europeismo), con riferimento ai quali Spinelli narra degli attori e delle vicende cui essi hanno dato vita. A parere di Amato, di tali “fili”, tre sembrano “sovrastare” tutti gli altri: la forza che l’idea di Stato-nazione ha di continuo esercitato sulla costruzione dell’Europa unita, il federalismo, pensato “come antidoto per neutralizzarne gli eccessi devastanti”, e infine il funzionalismo, che è risultato “l’alternativa preferita dagli Stati al federalismo”.
Lo Stato-nazione – afferma Amato – è stato per Spinelli “la matrice delle immani tragedie del secolo”; lo è stato non “in ragion della statualità, ma del pernicioso nutrimento che questa ha avuto, da un lato dal nazionalismo aggressivo e dall’altro dalla concezione della sovranità come fonte di poteri assoluti, esclusivi, sempre legittimati a farsi valere anche con le armi”. Il federalismo era inteso dall’estensore del famoso Manifesto di Ventotene (“Per un’Europa libera e unita”), non come strumento per smantellare gli Stati-nazione, ma “come messa in comune delle sole, grandi politiche trasversali: politica militare, politica estera, politica economica e monetaria”. Sarà questo uno degli obiettivi il cui perseguimento solleverà le maggiori resistenze da parte dei singoli Stati; resistenze delle quali lo stesso Spinelli era consapevole, al punto da indurlo – secondo Amato – a desistere dall’impostare “i concreti svolgimenti dell’integrazione europea” sulla realizzazione di un impianto federalista, optando per un metodo di azione politica, quello del funzionalismo, che pur non corrispondendo al suo disegno, consentisse di “influire sulla direzione e sui risultati degli indirizzi maggiormente sostenuti”.
Il funzionalismo – ricorda Amato – era stato già sperimentato dagli Stati che con esso, soprattutto durante lo svolgersi del secondo conflitto mondiale, avevano messo insieme diverse funzioni, affidandone l’esercizio ad “una gestione tecnica unica”. Questo genere di funzionalismo non metteva in discussione la sovranità degli Stati, ma offriva un metodo più facile da seguire sulla via dell’integrazione europea. Così è stato con la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, poi con l’Euratom e con la Comunità Europea; e via via che il funzionalismo avesse consentito un approfondimento della solidarietà tra gli Stati aderenti al disegno europeo, sarebbe stato possibile realizzare ulteriori avanzamenti nel processo dell’integrazione.
Tuttavia Spinelli, per quanto accettasse il metodo del funzionalismo, era consapevole – sostiene Amato – che ad esso non ci si dovesse affidare, “poiché senza la politica si sarebbe esaurito nella gestione del presente”; ma, ob torto collo, lo ha accettato, accomunandolo “al federalismo nella condivisa ripulsa dell’intergovernativismo”, in cui Spinelli vedeva “il contrario dell’integrazione”. Un’integrazione che, invece, il funzionalismo, anche se non condiviso, contribuiva a creare, perché fungeva da “trampolino” per il lancio di iniziative politiche inserite nella prospettiva della realizzazione del federalismo.
L’intreccio dei tre “fili rossi” descritti (Stato-nazione, federalismo e funzionalismo) ha caratterizzato e condizionato, durante i primi decenni postbellici, la formazione e la vita della Comunità Europea, che secondo Spinelli non era una comunità “reale e istituzionalizzata”, ma solo un’unione di Stati impegnati ad assolvere funzioni comuni; ciononostante, il processo di integrazione ha potuto avviarsi, grazie al funzionalismo, contando su “una larga anche se passiva simpatia popolare” e sull’azione di forze politiche che, da un lato, sono sempre state condizionate dall’”avversario permeante”, costituito dalla non rimossa abitudine di pensare entro le categorie dello Stato-nazione, e dall’altro lato, non hanno mai potuto muoversi tra “istituzioni consolidate”, in quanto non ancora scoperte.
E’ stata, questa, una situazione che, negli anni Settanta, ha spinto Spinelli a sostenere la necessità di passare dall’unione doganale all’unione economica e monetaria, al fine di arrivare alla tanto agognata “voce unica” per la soluzione dei problemi economici e monetari di tutti i Paesi facenti parte della Comunità. Questo passo in avanti sulla via dell’integrazione è parso possibile a Spinelli, che negli ultimi anni della sua vita, alla fine degli anni Ottanta – ricorda Amato – è giunto ad affermare che “senza ‘visionari’ come lui gli ‘statisti’ non avrebbero saputo dove andare, ma gli stessi visionari, senza il realismo degli statisti, non sarebbero andati da nessuna parte”. Nel commentare questa riflessione finale di Spinelli alla vigilia della trasformazione della Comunità in Unione Europea e nel prevedere la probabile forma futura dell’integrazione, Amato si limita ad illustrare solo ciò che è andato storto, mancando di rilevare gli errori del realismo degli statisti che, se per un verso, hanno saputo portare i “visionari” da qualche parte, per un altro verso, li hanno spinti, non sempre inintenzionalmente, verso una strada cosparsa di trabocchetti che sarebbero valsi sicuramente a deludere Spinelli, se fosse sopravvissuto.
All’inizio degli anni Settanta, c’è stata la prima elezione del Parlamento europeo, giudicato da Spinelli – secondo Amato – decisivo per l’avvento dell’Europa federale, ma che si è risolto “in quella che era e rimane un’unione di Stati”. Tuttavia, l’elezione del primo Parlamento europeo è stata un primo passo verso una maggiore integrazione; tutto sembrava muovere nella direzione giusta, al punto che l’elezione del Parlamento è stata seguita negli anni successivi da una serie di trattati che hanno trasformato la Comunità Europea in Unione Europea; essi hanno disciplinato, con la firma dell’Atto Unico Europeo, il completamento del mercato interno e, con quella del Trattato di Maastricht, l’introduzione dei famosi parametri che hanno fissato i requisiti economici e finanziari cui gli Stati dell’Unione avrebbero dovuto attenersi per consentire l’attuazione di una stabile politica monetaria comune e la costituzione di un’area valutaria per l’introduzione di una moneta unica governata da una Banca Centrale Europea. Sul piano istituzionale – continua Amato – si è trattato di manifestazioni di maggiore integrazione, che tuttavia esprimevano anche qualcosa di più, ovvero il rafforzamento di quella identità comune che, all’inizio del processo era molto più debole delle identità nazionali.
Eppure – secondo Amatao – è stato proprio il Trattato di Maastricht “ad aprire gli spazi più larghi a quell’Europa non comunitaria, ma intergovernativa, nei cui moduli operativi gli Stati avrebbero giustapposto i rispettivi interessi nazionali”; è ciò che accaduto affidando il governo della moneta a una politica monetaria unificata nella Banca Centrale Europea, ma confidando nel coordinamento delle politiche nazionali, rimaste di competenza dei singoli Stati membri. Le vicende connesse all’introduzione dell’euro e alla costituzione dell’eurozona saranno poi le cause delle corrosione di quello “strato di identità comune che lo stesso euro aveva contribuito a creare”.
Tutti gli effetti negativi connessi a tali vicende, congiuntamente ai disagi creati dal dilagare del fenomeno incontrollato dell’immigrazione, sono stati, a loro volta, la causa del sopraggiungere della crisi economico-finanziaria culminata nella Grande Depressione del 2007-2008 e del prevalere della difesa degli interessi nazionali manifestatasi nella “forma di autodifesa e di chiusura verso l’esterno”; crisi strumentalizzata da movimenti politici che ne hanno fatto motivo di attacco alla stessa Europa, considerata colpevole di non aver saputo offrire adeguate difese degli interessi dei singoli Stato membri.
Quale la causa della crescente disaffezione dall’Europa originata dai movimenti politici che hanno “cavalcato” il malcontento? Strana e poco convincente la risposta di Amato; egli, infatti, sostiene che solo nei primi decenni della costruzione dell’Europa unita sono prevalse considerazioni connesse alla profonda motivazione suscitata dagli orrori della guerra e dai crescenti benefici assicurati dalla creazione del mercato interno; successivamente, però, attenuandosi la memoria degli effetti disastrosi della guerra e dei benefici riscossi, i crescenti sintomi del sopraggiungere della Grande Depressione hanno divaricato gli interessi dei singoli Stati rispetto al disegno dell’integrazione economico-politica dell’Europa.
In queste condizioni – afferma Amato – i vantaggi “dell’essere europei hanno perso nitore e quello che era stato vissuto come un valore aggiunto [il processo di integrazione] è sembrato a molti un valore sottratto [...], ove non si fosse tornati a far leva sulla differenze nazionali”. Senza più la forza del messaggio messianico iniziale e senza il ricorso dei vantaggi derivanti dallo stare insieme, “l’azione politica europea ha perso vigore e è sempre più arretrata davanti ai nazionalismi, sino al punto che questi hanno dettato l’agenda alle stesse forze politiche fedeli all’europeismo”.
Cosa si può fare per contrastare i nazionalismi? A parere di Amato occorre prioritariamente ripristinare la fiducia degli Stati nei confronti dell’Europa, combattendo i nazionalismi, migliorando la governance dell’eurozona, rendendo più flessibile l’uso delle istituzioni europee per lasciare maggior spazio alle diversità nazionali, aumentando l’autorità dell’Europa, attenuando l’intergovernativismo e individuando un insieme di settori e di materie nei quali “sia possibile dotarsi di più Europa”. Solo in questo modo sarebbe possibile, per Amato, ristabilire un positivo rapporto di fiducia fra tutti i cittadini e le istituzioni europee, nella certezza che, sebbene il clima non sia più quello dei primi decenni, non per questo esso è diventato “così desolante come può sembrare attualmente”.
Per una reale ripresa del processo di integrazione – continua l’ex Presidente dell’Istituto Treccani – occorre essere consapevoli che ad alimentare il processo degenerativo dell’europeismo hanno molto contribuito le crisi che si sono succedute negli ultimi decenni e che hanno portato ad “irrigidirsi le identità e le difese nazionali”; non si tratta – secondo Amato – di atteggiamenti anti-europei, ma piuttosto di “una predisposizione a-europea”. Stando così le cose, diventa allora necessario tener conto dei mutamenti che sono avvenuti nella cultura europeista durante il succedersi delle generazioni post-belliche; poiché tali cambiamenti ci sono stati (non foss’altro che per l’affievolimento della forza che ha connotato l’ideale dell’Europa unita subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale), è inevitabile che si accetti la conseguenza che essi (i cambiamenti) portino con sé “un nuovo vento a favore dell’Europa, anche se, certo, non possiamo sapere cosa ne uscirà”, ovvero se sarà un “Europa Federale”, quale quella che era nei sogni di Spinelli, oppure un’”Europa Diversificata” nei suoi livelli di integrazione.
In conclusione, accedendo all’idea che siano cambiati nelle nuove generazioni i canoni della cultura europeista, Amato conclude affermando che i futuri modelli di Europa possono essere solo due: quello di un’”Europa a due velocità” e quello di un’”Europa ‘Multicluster’”: il primo modello si rifarebbe ad un’Europa suddivisa in gruppi di Stati propensi ad adottare politiche comuni differenziate; l’altro a un modello di un’Europa caratterizzata dalla condivisione differenziata delle politiche comuni per ciascun gruppo (cluster) di Paesi. A parere dello stesso Amato è difficile, perdurando lo stallo attuale, prevedere quale sarà il modello finale di Europa; due fatti è però possibile prevedere: il primo è che, anche nel perdurare delle critiche anti-europee, l’Unione sarà in grado di “sopravvivere in attesa di tempi migliori”; il secondo è che, dopo la difficile esperienza della Brexit, il pericolo di una fuoriuscita dall’euro è destinato a rientrare. Si tratta di due previsioni che spingono Amato a nutrire l’ottimistica fiducia nella circostanza che l’Unione Europea non sia “avviata a perdere pezzi”, in quanto sembra piuttosto probabile che “ne acquisti”.
Sbrigativa conclusione questa di Amato; egli continua a nutrire fiducia nell’efficacia delle tradizionali iniziative consistenti nel trovare nuove ragioni per la conservazione dell’inossidabile intergovernativismo come fonte di “più Europa”; per quanto rinvenga nel miglioramento della governance dell’euro una delle condizioni per promuovere il rilancio del processo di integrazione dei Paesi europei, stranamente egli sorvola sul fatto che sono proprio le regole convenute per il governo della moneta unica la causa prima di tutti i mali del processo d’integrazione; perciò, sin tanto che non saranno cambiate tali regole, nessun modello alternativo d’Europa potrà evitare lo stato di crisi perenne dell’originario progetto europeo.
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