Monthly Archives: settembre 2019

E’ la “partecipazione” la chiave per combattere gli squilibri territoriali, soprattutto per superare o almeno attenuare le disuguaglianze sociali

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Gli aspetti negativi degli squilibri tra i territori subregionali

di Gianfranco Sabattini

Aurelio Bruzzo, docente di Politica economica presso l’Università degli studi di Ferrara, ha pubblicato di recente, a cura del Dipartimento di Economia e management della stessa Università, il “Quaderno DEM, n. 6/2019”, dal titolo “Situazione socio-economica e politica di coesione in Emilia-Romagna a fine 2018”. L’autore, utilizzando documenti ufficiali sugli esiti delle misure adottate dall’Amministrazione regionale dell’Emilia-Romagna, nell’ambito della politica di coesione sociale dell’Unione Europea, analizza i valori assunti dalle principali variabili socio-economiche nel contesto dell’area (in anticipo di due anni rispetto alla fine del periodo di programmazione 2014-2020 della succitata politica di coesione).
A parte i risultati, di per sé importanti (sui quali vale la pena di riflettere), che Bruzzo ha ottenuto con la sua analisi, il lavoro è rilevante anche perché può essere assunto a “metro e misura” dei ritardi che non permettono alla Sardegna, da settant’anni impegnata a promuovere un processo omogeneo di crescita e di sviluppo di tutta l’area regionale, di fare altrettanto; ovvero, di non condurre un’analisi socio-economica come quella compiuta da Bruzzo, per la mancanza della documentazione tecnica della quale la Regione Sardegna avrebbe dovuto e potuto da tempo dotarsi.
Avvalendosi dello stato di attuazione del Programma Operativo Regionale FEST dell’Emilia-Romagna alla fine del 2018, Bruzzo compie una valutazione dei risultati che si stanno profilando a seguito della politica di coesione, con l’obiettivo di “sollecitare l’attenzione da parte sia degli studiosi, che dei policy maker” sugli effetti di tale politica a livello locale; obiettivo, questo, solitamente “trascurato e sottovalutato”, nonostante che dalla maggior coesione sociale realizzata a livello locale, attraverso gli investimenti infrastrutturali e produttivi previsti dall’attuazione dei POR regionali, dipenda “il conseguimento di un più elevato livello di sviluppo socio-economico”, non solo delle singole regioni, ma anche dell’intera area economica nazionale alla quale esse appartengono.
Al riguardo è bene ricordare che il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) è uno dei principali strumenti finanziari della politica regionale dell’Unione europea, il cui scopo è quello di rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale, per ridurre il divario fra le regioni più avanzate e quelle in ritardo sulla via dello sviluppo. L’impiego del fondo si inserisce quindi all’interno della politica di coesione comunitaria, con l’obiettivo fondamentale di supportare e promuovere il processo di integrazione economica del Vecchio Continente. A tal fine, la politica di coesione europea, col concorso nel finanziamento delle misure adottate di ogni Stato membro, si propone di perseguire la creazione di posti di lavoro, il miglioramento della competitività tra le imprese, la crescita economica, lo sviluppo sostenibile e il “miglioramento della qualità della vita dei cittadini in tutte le regioni e le città dell’Unione europea”. Il miglioramento-sviluppo delle qualità della vita è dunque stabilito a livello regionale, e solo indirettamente a livello locale.
Bruzzo ha condotto la sua analisi, non a livello regionale, ma locale, considerando in particolare la Provincia di Ferrara, in quanto rappresentante “la porzione del territorio regionale notoriamente meno sviluppata”; in quanto tale, sarebbe stato logico attendersi una particolare attenzione verso di essa da parte dell’Amministrazione regionale, mediante una più consistente destinazione di risorse, in considerazione della specifica finalità assegnata alla politica di coesione dal Trattato sul funzionamento dell’UE, “di perseguire un più ‘armonioso’ livello di sviluppo economico all’interno del territorio europeo”.
Sulla base dell’analisi dei dati risultanti dalla documentazione disponibile, Bruzzo ha accertato che l’attuazione della politica di coesione in Emilia-Romagna è stata “del tutto ottimale” e che il periodo di programmazione 2014-2020 potrà concludersi, per la Regione, “entro la scadenza prevista, senza imbattersi nelle difficoltà sofferte da buona parte delle altre Amministrazioni regionali”. Stando infatti alle informazioni diffuse dall’Agenzia per la Coesione Territoriale (un ente pubblico, vigilato direttamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che ha l’obiettivo di sostenere, promuovere ed accompagnare programmi e progetti per lo sviluppo e la coesione territoriale), le altre Amministrazioni regionali alla fine del 2018 apparivano in ritardo rispetto all’Emilia-Romagna, al punto che alcune di esse risultavano impossibilitate “ad assumere in tempo utile tutti gli impegni previsti dai rispettivi Programmi”.
Però, la valutazione dell’azione della Regione Emilia-Romagna può essere considerata positiva solo per quanto riguarda l’attuazione della politica di coesione sociale dallo stretto punto di vista degli obblighi operativi; non altrettanto può dirsi nei confronti dell’impatto socio-economico manifestatosi concretamente sull’intero territorio regionale, considerato questo nella sue articolazioni territoriali. A livello territoriale, i dati disponibili, hanno consentito di rilevare come, dal punto di vista di molte grandezze socio-economiche, la provincia di Ferrara sia stata penalizzata sul piano demografico e, più specificatamente, su quello della popolazione residente: a partire dal 2010, tale provincia ha invertito il suo precedente trend crescente, facendo presumere che esso, in assenza di adeguate contromisure di medio e lungo periodo, sia destinato a proseguire; dal 2013, l’occupazione è stata caratterizzata da un andamento tendenzialmente negativo, mentre ancora più preoccupante sono risultati il livello e l’andamento della disoccupazione, mantenutasi su posizioni più elevate rispetto a quelli regionali; infine, se si considera l’aggregato maggiormente rappresentativo circa il livello di sviluppo economico di un’area territoriale, il valore aggiunto pro-capite nella Provincia di Ferrara ha assunto, alla fine del periodo 2014-2020, valori inferiori rispetto alla media nazionale e ancor più rispetto a quella regionale
Le cause di tutti questi aspetti, a parere di Bruzzo, sono sicuramente situate in buona parte all’interno del territorio ferrarese, che risulta tradizionalmente arretrato da molti punti di vista, non solo da quello economico; esse, però, ricadono anche all’esterno, in considerazione del fatto che la crescita e lo sviluppo della provincia di Ferrara, dipendono, oltre che dalle sue relazioni economiche con le altre regioni italiane, anche da quelle con le restanti province emiliano-romagnole. Sulla posizione economico-sociale di maggior debolezza della Provincia di Ferrara, rispetto alle altre province della regione di appartenenza, avrebbe dovuto intervenie con maggiore oculatezza la politica di coesione sociale co-finanziata dall’Unione Europea, che ha come obiettivo “il conseguimento di uno sviluppo equilibrato e bilanciato sia tra le varie regioni ed aree urbane europee sia al loro interno, al fine di evitare in tal modo il permanere nel lungo periodo di porzioni di territorio in condizioni di arretratezza socio-economica”.
La conoscenza del modo in cui sono avvenute le erogazioni effettuate a livello territoriale, quale quella offerta dall’accesso al “portale web”, coordinato dal “Dipartimento per le Politiche di Coesione” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha consentito di accertare come le risorse stanziate, distinte per ambiti tematici, sono state distribuite a livello locale; nel caso della Regione Emilia-Romagna, le erogazioni in attuazione della politica di coesione della Comunità Europea, secondo il programma 2014-2020, sono state caratterizzate da una loro maggiore concentrazione nell’area del capoluogo (quelle godute dalla Provincia di Bologna sono risultate maggiori del 40% rispetto a quelle destinate alla Provincia di Ferrara).
Appare evidente, secondo Bruzzo, che la politica di coesione sociale attuata in Emilia-Romagna (e, generalizzando, in tutte le regioni caratterizzate da diffusa arretratezza economica), invece di favorire “il riequilibrio intra-regionale che dovrebbe essere uno dei primari obiettivi di tale politica”, ha incrementato la forza attrattiva dei centri regionali privilegiati, a causa della concentrazione territoriale delle erogazioni. Le risultanze empiriche evidenziano infatti che la distribuzione territoriale degli investimenti effettuati nella Regione Emilia-Romagna è avvenuta a scapito delle aree periferiche, dando luogo ad un processo di sviluppo regionale squilibrato, sorretto da una logica di “causazione circolare cumulativa” negativa.
La conseguenza di ciò sarà che, a causa di questa logica, le iniziali differenze territoriali, in termini di crescita economica e di sviluppo sociale, saranno destinate ad accentuarsi, con il pericolo (spesso reale come, ad esempio, sta a dimostrare l’esperienza della Sardegna, afflitta dal fenomeno dello spopolamento dei comuni delle zone periferiche) che, lasciando le disuguaglianze territoriali incontrastate, si finisca – afferma Bruzzo – per modificare la struttura produttiva, demografica ed urbanistico-territoriale delle regioni; da aree regionali “tendenzialmente policentriche” (in cui i vari centri urbani possono stabilire tra loro un valido rapporto di complementarietà per la promozione di un processo di crescita e sviluppo condiviso) si passerà ad aree regionali dove prevarranno solo alcuni centri dominanti (o, al limite, solo uno), lasciando a quelli periferici, nel migliore dei casi, un ruolo marginale, e nel peggiore, una sicura estinzione.
Per evitare il consolidarsi degli esiti della logica di causazione circolare cumulativa negativa, sarebbe importante, sottolinea Bruzzo, cercare di approfondire, attraverso un approccio interdisciplinare, quali sono le cause che danno luogo agli esiti produttivi, demografici ed urbanistico-territoriale indesiderati a livello locale. E’ questo un tema da sempre dibattuto, ma mai affrontato razionalmente; l’approccio interdisciplinare evocato da Bruzzo, implicherebbe che le regioni arretrate (ma, in generale, tutte, indipendentemente dal loro livello di sviluppo) si dotassero di una “matrice di contabilità sociale”. Ciò al fine di acquisire informazioni utili per la predisposizione di “modelli” di politica di sviluppo regionale che tengano conto del modo in cui si distribuisce il prodotto sociale a livello locale, a seguito dell’attuazione degli interventi attuativi della politica di coesione, considerando tale distribuzione come causa ed effetto dei processi di formazione del prodotto sociale.
Il successo riscosso dal sistema di contabilità sociale nelle sue applicazioni ai Paesi sottosviluppati è da attribuirsi principalmente alla sua caratteristica di utilizzare, nelle decisioni assunte, i dati puramente economici in combinazione con informazioni di carattere sociale. Ma non basta, per contrastare le disuguaglianze sub-regionali, occorrerebbe anche che le regioni decentrassero il processo decisionale, realizzando le condizioni compatibili con la partecipazione delle popolazioni locali alla determinazione degli investimenti destinati alle infrastrutture e ai comparti produttivi che maggiormente possono contribuire alla valorizzazione della risorse locali.
Solo in questo modo la crescita e lo sviluppo territoriale possono diventare la condizione necessaria e sufficiente per assicurare una coesione sociale diffusa nell’intero territorio delle singole regioni; quindi, permettere che gli esiti della maggior coesione sociale siano distribuiti in modo da evitare il permanere e l’approfondimento delle disuguaglianze territoriali e di quelle sociali esistenti.
Tra l’altro, una più larga partecipazione dal basso nella determinazione degli interventi servirebbe, come sottolinea Bruzzo, a recidere la correlazione spesso esistente tra le decisioni di distribuzione territoriale degli investimenti e i “processi socio-politici”, che nell’esperienza delle politiche regionali di sviluppo risultano spesso connessi alla formazione delle disuguaglianze; è noto come i processi socio-politici nelle regioni arretrate siano all’origine dell’”affievolimento” del ruolo e della funzione degli imprenditori, i quali, partecipando all’attuazione della politica di sviluppo delle regioni, hanno spesso privilegiato di svolgere il ruolo di “imprenditore da trasferimento di risorse pubbliche”, piuttosto che quello di “imprenditore da re-investimento”. Anche per la rimozione di queste collusioni improprie, la partecipazione dal basso nella determinazione della politica regionale di crescita e di sviluppo può risultare strumentale rispetto al contenimento delle disuguaglianze territoriali.

Oggi venerdì 13 settembre 2019

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democraziaoggi-loghetto Domusnovas: in calo le commesse, Rwm manda a casa 160 lavoratori. Mobilitazione subito per la riconversione!
12 Settembre 2019
A.P. su Democraziaoggi.
Era nell’aria. La Rwm, che fabbrica bombe a Domsunovas, nei prossimi mesi manderà a casa 160 lavoratori. La notizia è stata data con un comunicato inviato a tutti i dipendenti. La ragione del drastico taglio di forza lavoro viene motivata con il divieto di export di armi verso l’Arabia Saudita. L’inibizione consegue alle […]
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gesualdi-alla-mem-12-9-19
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Salvini? Come il mio amico Fisietto
13 Settembre 2019
Amsicora su Democraziaoggi.
Sapete chi mi ricorda Salvini? Mi ricorda Fisietto, un mio amico e vicino di casa di Carbonia. Fisietto era infatuato di divise e carabinieri. Quando era molto piccolo aveva la passione per i soldatini, carri armati e simili, che comprava nei limiti delle sue possibilità. Il suo gioco preferito era fare battaglie, nelle quali voleva […]
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usala-14-sett-19L’evento su fb.

DIBATTITO sul Ceta: 2) Chi non si oppone e richiede scelte ponderate

lampada aladin micromicroSu Aladinpensiero online: https://www.aladinpensiero.it/?s=Ceta+Vanni+Tola
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In argomento ripubblichiamo l’articolo di Vanni Tola, su Aladinpensiero del 19 luglio 2018.
header-home-ceta_00sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola.
Trattati internazionali per regolamentare gli scambi commerciali. Il governo “naviga a vista” rischiando di andare a sbattere. Il caso del trattato con il Canada (CETA) che ha finora favorito l’export italiano e che il governo non intende ratificare.
Negli ultimi decenni si sono attivate nel mondo complesse manovre di riposizionamento delle grandi potenze capitalistiche intercontinentali che hanno al centro la questione di una nuova regolamentazione dei commerci transnazionali, l’allargamento dei mercati, la ridefinizione di quelle che un tempo si chiamavano “aree d’influenza” delle grandi nazioni. Tale processo ha dato origine alla programmazione e stipulazione di diversi trattati commerciali intercontinentali i più noti dei quali sono certamente il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e il più recente CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) del quale sentiremo parlare in Italia in questi giorni. [segue]

DIBATTITO sul Ceta. I) Chi si oppone

POLITICA
Bellanova apre al «Ceta» ma anche Zingaretti è contro
L’agro bottino. Bufera trasversale contro la neo ministra favorevole al Trattatto di libero commercio e agli Ogm
Monica Di Sisto*
su il manifesto EDIZIONE DEL 12.09.2019 PUBBLICATO 11.9.2019, 23:59
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«Il Lazio dice No al #Ceta. Chiediamo al Parlamento di fare lo stesso, difendiamo i nostri produttori e sapori da commercio ingiusto senza regole». Questo Tweet non è di un pericoloso sovranista, ma dell’attuale segretario del Pd Nicola Zingaretti che nel 2017 si unì agli oltre2mila enti locali italiani che chiesero con mozione o delibere, sotto il Governo Gentiloni, di non ratificare il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Canada, il Ceta. Ma la nuova ministra all’Agricoltura del Pd nel Governo Conte Bis Teresa Bellanova forse non lo sa, e nelle interviste sui «primi cento giorni del suo dicastero» lancia la caccia agli «sciamani» che, come Zingaretti, si sono opposti a quel trattato.
[segue]

Oggi giovedì 12 settembre 2019

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democraziaoggi-loghetto Domusnovas: in calo le commesse, Rwm manda a casa 160 lavoratori. Mobilitazione subito per la riconversione!
12 Settembre 2019
A.P. su Democraziaoggi.
Era nell’aria. La Rwm, che fabbrica bombe a Domsunovas, nei prossimi mesi manderà a casa 160 lavoratori. La notizia è stata data con un comunicato inviato a tutti i dipendenti. La ragione del drastico taglio di forza lavoro viene motivata con il divieto di export di armi verso l’Arabia Saudita. L’inibizione consegue alle […]
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La storia della medicina

piero-di-liciadi Piero Marcialis
59. Le donne in medicina.
Parlando della medicina nel XIX secolo non si può trascurare di parlare dell’ingresso delle donne in campo medico, che finalmente si realizza in quest’epoca.
Non che non ci fossero precedenti storici.
Abbiamo accennato alla figura di Trotula e altre dottoresse nella scuola di Salerno (vedi in Aladinpensiero del 18 luglio scorso), ma restano fatti isolati nella storia.
Fino a metà ‘800 e oltre, le donne sono relegate a fare le assistenti, come capita ad alcune di loro nel rapporto col marito.
L’ingresso a pieno titolo, ottenuto non senza fatica, delle donne nella disciplina avviene negli Stati Uniti: per la prima volta una donna si laurea in medicina.
È il 1849.
Elisabeth Blackwell (1821-1910), inglese di nascita, emigrata con la famiglia negli Stati Uniti, dopo una prima giovinezza di sacrifici, in seguito alla morte del padre, si dedica allo studio della medicina quando una amica malata le confida che avrebbe sofferto meno di quanto ha subito se a curarla fosse stata una donna. [segue]

CAMBIAMENTI CLIMATICI: ecologia dei grandi incendi

ffe611f4-b071-424c-aab0-e0f5f353da38di Pietro Greco, Rocca.
Tre grandi incendi – tre grandi insiemi di incendi – hanno caratterizzato questa estate, mandando in fumo milioni di ettari di foreste. Due di questi fuochi enormi hanno avuto l’onore delle cronache: quello che ha interessato la foresta boreale in Siberia e quello che ha interessato la foresta tropicale in Amazzonia. Il terzo di cui si è parlato poco o nulla e che ha dimensioni, almeno come numero di incendi che l’hanno caratterizzato, riguarda la foresta tropicale nell’Africa centro-occidentale.
Questi grandi fuochi hanno un filo rosso in comune: sono favoriti dal gran caldo e dai cambiamenti del clima globale. Ma hanno cause e, forse, effetti diversi. Le une e gli altri ci interessano direttamente.
[segue]

Oggi mercoledì 11 settembre 2019

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———————Opinioni,Commenti e Riflessioni———————————
democraziaoggi-loghettoFascisti con Salvini e Meloni, l’ignoranza in piazza
11 Settembre 2019
Giulio Lobina su Democraziaoggi.
I fascisti nelle piazze ci sono già stati, e sappiamo che fine hanno fatto. Che oggi, tra le file del centro destra, in piazza Montecitorio ci fossero fascisti col braccio teso non deve meravigliare.
Dovrebbe meravigliare, invece, che da quella piazza se ne siano andati a casa senza i giusti provvedimenti delle forze di polizia. Basta […]

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Riforme istituzionali: quali priorità?
11 Settembre 2019
Massimo Villone – Presidente Comitato per la democrazia costituzionale, su Democraziaoggi.
Il Comitato per la democrazia costituzionale, tramite il suo presidente, chiede al nuovo governo di discutere delle riforme istituzionali, dando priorità alla legge elettorale e a un sistema regionale fondato sull’eguaglianza fra i territori e le aree storiche del Paese.

Nel suo discorso programmatico il Presidente Conte ha […]
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Toti Mannuzzu
10 Settembre 2019
Andrea Pubusa, su Democraziaoggi.
Salvatore (Toti) Mannuzzu
Anche Toti ci ha lasciato. Sapevo da tempo che stava molto male. Ma la notizia del decesso di un amico è sempre traumatica. È morto questa mattina intorno alle 6 all’ospedale civile di Sassari. E’ una perdita grave per la Sardegna. Toti è stato magistrato di Magistratura democratica e deputato […]
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Liberu lancia la raccolta delle firme per una legge elettorale proporzionale
10 Settembre 2019
Andrea Pubusa, su Democraziaoggi.
Ai primi di ottobre parte la raccolta delle firme per una legge d’iniziativa popolare
Abbiamo battagliato per anni, come Comitato per la democrazia costituzionale – CoStat, anche con due ricorsi al Tar e uno al Consiglio di Stato. Ma nulla si è smosso in questa isola di morti (politicamente parlando). Destra e sedicente […]
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Che succede?

c3dem_banner_04NUOVO GOVERNO VECCHI PROBLEMI?
Su C3dem, 10 Settembre 2019.
Marcello Sorgi, “Una pericolosa atmosfera di conflitto” (La Stampa). Arturo Parisi, “Vedo tutto incollato con lo sputo” (intervista al Foglio). Franco Monaco, “Nuovo governo, vecchi problemi” (Settimana news). Paolo Mieli, “I dubbi e le fortune di una nuova alleanza” (Corriere della sera). Marco Damilano, “Il governo e il fossato” (Espresso). Norma Rangeri, “Giochiamo una partita difficile” (Manifesto). Francesco Riccardi, “Non servono cose da poco” (Avvenire). Alessandro Campi, “La mitezza non basta, al paese serve una scossa” (Messaggero). Ilvo Diamanti, “L’antisalvinismo che rilancia Salvini” (Repubblica). Claudio Cerasa, “Storia segreta del capitombolo politico di Salvini” e “Il fisioterapista del popolo” (Foglio). Michele Salvati, “L’instabilità politica nell’Italia dei due populismi” (Corriere della sera). Mauro Calise, “Ma il governo può durare soltanto se innova” (Mattino). Dario Di Vico, “La fretta è un errore” (Corriere). Roberto Speranza, “Alleanza con il M5s anche alle regionali” (intervista a Repubblica). Sergio Fabbrini, “Un governo europeo non fatto in Europa” (Sole 24 ore). Nadia Urbinati, “I terreni su cui giocare una sfida necessaria” (Corriere della sera). Emilia Patta, “Riforme costituzionali per la legislatura, legge elettorale alla fine” (Sole 24 ore). Antonio Floridia, “Che cosa ci aspetta sulla legge elettorale” (Manifesto). Carlo Bertini, “Il Pd tenta Renzi per stoppare la scissione: prendi la presidenza” (La Stampa). Romano Prodi, “Immigrazione, ci vuole prospettiva” (intervista ad Avvenire), “Multinazionali, ora serve l’intervento dei governi” (Messaggero).
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Anteprime.
rocca-18-15sett19E’uscito Rocca. N. 18 del 15 settembre 2019, online.
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LA SCOMMESSA: TRASFORMARE IL M5S IN FORZA ISTITUZIONALE
Su C3dem, 7 Settembre 2019.
Adriano Sofri non ha torto: “La gioia immensa di non morire nell’Italia di Salvini” (Foglio). Roberto D’Alimonte, “La scommessa: trasformare il M5S in forza istituzionale” (Sole 24 ore). E’ già quasi fatto dice Claudio Cerasa: “Lo show del Movimento 5Tsipras” (Foglio). Ma Franco Venturini dice che servirebbe un Di Maio due: “Che cosa serve agli Esteri” (Corriere). Vittorio E. Parsi, “Di Maio, la sfida della Farnesina” (Avvenire). Nicola Zingaretti intervistato da Repubblica: “Non si governa da nemici”. Va bene, dice Paolo Pombeni, però questo è “Un governo senza golden share” (Il quotidiano). Fulvio De Giorgi su Avvenire punta sul retroterra cattolico democratico cui questo governo dovrebbe guardare: “Un governo di alto-sinistra, se sa svoltare”. Massimo Giannini spiega come vede “La Cosa giallo-rossa” (Repubblica). Nando Pagnoncelli avverte: “Conte due, inizio in salita: no dal 52%” (Corriere della sera). Piero Ignazi, “E’ tornato il bipolarismo, ma il Pd si gioca la pelle” (intervista a Il Fatto). Francesco Verderami: “Che farà Renzi? I dubbi di Palazzo Chigi” (Corriere della sera). LE COSE DA FARE: Guido Tabellini indica i due nodi: debito pubblico e Mezzogiorno (“Deficit e coraggio”, Foglio). Andrea Orlando, “La riforma della giustizia va ridiscussa da capo” (intervista a La Stampa). Francesco Pallante: “Una Speranza per i malati non autosufficienti?” (Manifesto).

La storia della medicina

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58. La mano di una donna nella prima radiografia della storia.
La ricerca che ha caratterizzato il secolo XIX di strumenti atti a migliorare la diagnostica si chiude con una clamorosa scoperta: l’uso dei raggi X.
Ancora una volta non è un medico, ma un fisico, Wilhelm Conrad Rontgen, che porta un tale contributo alla scienza medica: dopo lo stetoscopio, il laringoscopio, l’otoscopio, ora con la radioscopia si può fare una diagnosi guardando dentro il corpo umano, dentro qualsiasi corpo ferito o traumatizzato.
È l’8 novembre 1895 che Rontgen, sperimentando il raggio ignoto, si accorge che esso crea una incerta luminosità su uno schermo. Frappone la sua mano e vede sullo schermo l’immagine delle sue ossa. Pensa che si possa fermare quell’immagine su una lastra fotografica.
Chiama sua moglie, Anna Berta Ludwing, e le chiede di tenere la mano ferma sulla lastra mentre lui proietta il raggio, cosa che lei fa per 15 minuti. Si forma sulla lastra la prima radiografia della storia: le ossa della mano di Anna Berta col suo anello matrimoniale.
Il 28 dicembre Rontgen comunica al mondo la sua scoperta: Uber eine neue Art von Strahlen, Su un nuovo tipo di raggio.
Lo chiama raggio X, perché sconosciuto, i tedeschi lo chiamano raggio Rontgen.
La scoperta fa rapidamente il giro del mondo: già nel 1896 è usata negli Stati Uniti per una frattura; un anno dopo già esiste in Inghilterra un reparto di radiologia.
Certo, ancora si ignorano gli effetti nocivi dei raggi X, ma presto saranno noti e tutte le precauzioni verranno adottate.
Nel 1901, dopo la laurea honoris causa in medicina a Würzburg, Röntgen ebbe il premio Nobel per la fisica.
Morì a Monaco il 10 febbraio 1923, quattro anni dopo Anna Berta, che gli era stata compagna per 50 anni.
Aveva 78 anni, essendo nato a Lennep il 27 marzo 1845.

Beni comuni

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Il governo razionale dei beni comuni e il problema della scarsità
di Gianfranco Sabattini

Il continuo dibattito sulla natura e l’uso dei beni comuni è condizionato dall’incertezza che pesa sulla loro definizione; da esso tuttavia sembra “emergere” una definizione che considera beni comuni tutte quelle risorse che risultano necessarie alla vita (perché preordinate a soddisfare stati di bisogno di particolare rilevanza per gli individui) e che, investendo i diritti fondamentali delle persone, si caratterizzano per la non esclusione dall’uso generale, con conseguente non assoggettabilità ad un prezzo, quale corrispettivo per il loro uso.
In tempi di crisi economica persistente, il dibattito pubblico in corso in Italia tende a porre la gestione dei beni comuni in controtendenza rispetto all’assoggettamento delle risorse alle logiche del mercato. Tuttavia, le incertezze persistenti sulla definizione di bene comune impediscono che dal dibattito emergano le linee di una politica di riforma istituzionale utile a prefigurare una loro razionale gestione; ciò, al fine di sottrarre i beni comuni alla cosiddetta “tragedia dei commons” che, in considerazione della loro non esclusione dall’uso generale, potrebbe condurre alla loro totale “distruzione”.
Il governo razionale dei beni comuni può essere infatti prefigurato solo tenendo conto, al pari di tutte le risorse economiche, della loro scarsità. Ciò perché, il fatto d’essere di proprietà comune comporta che all’intera platea dei proprietari sia assegnato a titolo individuale il diritto d’uso, mentre a nessuno di essi è concessa la facoltà di escludere gli altri. Se i proprietari che dispongono del diritto d’uso sono troppi, le risorse di proprietà comune potrebbero essere esposte al rischio della sovrautilizzazione; le stesse risorse, potrebbero essere esposte anche al rischio della sottoutilizzazione, a causa, ad esempio, di una definizione del diritto di proprietà dei beni comuni che potrebbe “margini” di interferenza nelle modalità del loro uso (come accade, per esempio, in Italia, nell’uso di ciò che resta dei cosiddetti “usi civici”, la cui utilizzazione da parte dell’operatore pubblico – di solito i comuni – è spesso contestata dall’intera comunità municipale, titolare del diritto di proprietà). In entrambi i casi, i proprietari dei beni comuni sarebbero “condannati” a subire gli esiti negativi della “tragedia dei commons”.
La “tragedia” è connessa al rischio che i beni comuni possano essere gestiti, come sostengono i “benecomunisti”, da operatori diversi dai loro legittimi proprietari, in quanto fruitori; i titolari della proprietà indivisa di beni devono infatti sostituirsi direttamente a qualsiasi forma di potere, privato o pubblico, nel determinare come gestire la conservazione e le forme di fruizione di tali beni. Tuttavia, perdurando lo stato di scarsità, la loro gestione di questi beni non può prescindere dalle leggi economiche tradizionali che indicano le modalità ottimali, sia per la loro conservazione, che per il loro uso.
La proprietà comune, in quanto riferita all’insieme dei soggetti che compongono una determinata comunità, è diversa dalla proprietà pubblica. A differenza dei beni comuni, quelli di proprietà pubblica possono essere gestiti direttamente dagli enti pubblici proprietari, sulla base di processi decisionali maggioritari (cioè sulla base delle maggioranze politiche pro-tempore esistenti). Poiché l’insieme dei proprietari-fruitori dei beni comuni non dispone di autonomi meccanismi decisionali, l’esercizio del diritto di proprietà comune e la gestione dei beni cui tale forma di proprietà si riferisce devono essere delegati alla responsabilità di un “soggetto operante” (quale, ad esempio, una cooperativa) che deve esercitarli in nome e per conto del delegante, la comunità, in funzione della volontà collettiva che essa esprime.
Con riferimento al governo e all’uso dei beni comuni, sorgono perciò gli stessi problemi presenti ancora oggi in Italia in molte realtà territoriali, con riferimento agli antichi “usi civici”, dove gli enti locali, sulla base di decisioni maggioritarie, amministrano risorse che, in quanto beni comuni, possono essere gestite solo dalla comunità olisticamente intesa come “un tutto”.
Il suggerimento di Elinor Ostrom, l’economista premio Nobel che ha approfondito il tema dei beni comuni, si presta poco ad essere utilizzato per realizzare in termini efficienti il governo della proprietà di tali beni, secondo forme cooperative. L’intento del suo contributo è stato quello di pervenire ad una teoria adeguatamente specificata delle azioni collettive, mediante le quali un gruppo di operatori può organizzarsi volontariamente per utilizzare il frutto del suo stesso lavoro, o dei suoi beni di proprietà indivisa.
La Ostrom non crede nei risultati delle analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale, ma solo nelle spiegazioni empiricamente confermate del funzionamento delle organizzazioni umane relative a specifiche e particolari realtà. Ciò perché, secondo la Ostrom, le analisi teoriche condotte a livello di intero sistema sociale comportano l’astrazione dalla complessità dei contesti concreti, per cui diventa probabile il rischio di rimanere “intrappolati” in una “rete concettuale” che astrae dalle realtà particolari.
Molte analisi condotte a livello di intero sistema sociale sarebbero perciò niente di più che metafore; ma affidarsi a metafore per gestire specifiche realtà può portare a risultati sostanzialmente diversi da quelli attesi. Un conto è spiegare come possono essere gestite in modo efficiente le risorse scarse di proprietà comune di una comunità di pescatori, oppure quelle di una comunità di allevatori; altro conto è spiegare come può essere realizzato, in condizioni di equità e di giustizia distributiva, il governo di tutte le risorse di proprietà comune di una determinata comunità nazionale.
In Italia il dibattito su come affrontare i problemi connessi alla realizzazione di uno stato del mondo più confacente alla gestione dei beni comuni si è svolto sinora prevalentemente con riferimento alla struttura istituzionale esistente. Questa, a causa dell’egemonia della logica capitalistica, secondo i “benecomunisti” avrebbe subito trasformazioni tali da determinare la crescente privatizzazione delle risorse disponibili. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata realizzata la distruzione dell’economia pubblica e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico; processo, questo, che, non essendo ancora ultimato, è giusto motivo di preoccupazione per i “benecomunisti”.
Il movimento “benecomunista”, dotato prevalentemente di un’anima giuridica, considera i beni comuni, non già come beni economici aventi caratteri peculiari, ma come dei diritti universali, la cui definizione non può essere “appiattita” su considerazioni esclusivamente derivanti dalla teoria economica. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, il giurista che è stato tra i primi ad introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, [...] allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità ‘comune’ di un bene può sprigionare tutta la sua forza», in funzione della soddisfazione dei diritti universali corrispondenti ai bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani.
I “benecomunisti” sostengono che, per evitare lo smarrimento della loro vera qualità comune, i beni comuni devono essere tolti dal mercato e salvaguardati giuridicamente per garantire a tutti la loro fruibilità. Ma come? Rodotà manca di dirlo; mentre è ineludibile, considerata la loro natura di risorse scarse, la necessità che siano stabilite le procedure da istituzionalizzate per governare la proprietà e la gestione dei beni comuni. Ciò al fine di evitare che la sola definizione dal lato del consumo di tali beni (intesi come fonte di soddisfazione di diritti universali) li esponga al rischio di un loro possibile spreco.
Tra l’altro, è necessario pervenire a una precisa definizione dei beni comuni, anche per stabilire quali dovrebbero essere realmente, tra le risorse disponibili, quelle da sottrarre alle leggi di mercato; se ci si riferisce, ad esempio, al trasporto pubblico locale, la mobilità delle persone nel territorio è un bene comune o è solo, tra gli altri, un bene il cui governo deve essere lasciato alle leggi di mercato? L’interrogativo potrebbe essere esteso ad una molteplicità di situazioni, sino ad includere nella classe dei beni comuni la maggior parte di tutto ciò che di momento in momento viene prodotto ed utilizzato all’interno del sistema sociale.
L’incertezza nella definizione dei beni comuni causa l’impossibilità di fare appropriati passi in avanti nella riflessione sulla riorganizzazione del quadro istituzionale che sarebbe necessario per una loro razionale gestione. I “benecomunisti”, mancando perciò di uscire dalla vaghezza definitoria su cosa sia un bene pubblico e quali siano le condizioni che valgono a trasformare una data risorsa in bene comune, “soffrono” dell’atteggiamento di chi è sempre propenso a valutare ex ante le proposte destinate a fare fronte a specifiche emergenze, senza il conforto di una valutazione sia pure potenziale ex post della loro desiderabilità ed attuabilità. Essi, infatti, trascurano che le proposte formulate in sede preventiva, senza un confronto con la modalità necessarie alla loro attuazione, corrono il rischio di rivelarsi fallimentari a posteriori.
Inoltre, le critiche che i “benecomunisti” rivolgono alla situazione istituzionale esistente mancano di prefigurare una struttura istituzionale alternativa, idonea ad esprimere “una progettualità di lungo periodo”. Tali critiche, infatti, si limitano ad affermare, in astratto, gli ostacoli che si oppongono al rispetto del mandato costituzionale che coniuga l’equità distributiva con l’efficienza economica e gestionale delle risorse delle quali dispone il Paese, mancando di considerare i problemi connessi con la forte territorializzazione che caratterizza di solito i beni comuni; nessun cenno viene fatto, inoltre, alle “politiche di infrastrutturazione” necessarie per garantire, a livello nazionale, l’accesso all’uso dei beni comuni localizzati solo in un dato territorio.
Per queste ragioni, le critiche dei “benecomunisti” tendono a risultare, dal punto di vista economico, quasi delle “scatole vuote”, utili solo a mobilitare sul piano ideologico l’opinione pubblica contro gli esiti della logica capitalistica; si tratta di critiche del tutto prive di ogni riferimento alla struttura istituzionale che dovrebbe essere realizzata, per garantire, a livello di intero sistema sociale ed economico, un razionale soddisfacimento dei diritti universali cui si fa riferimento. In altri termini, i “benecomunisti” mettono il carro davanti ai buoi, nel senso che la loro progettualità risulta finalizzata, non a prefigurare un possibile riformismo istituzionale, utile a consentire una gestione razionale dei beni comuni di proprietà collettiva, ma solo a correggere e contenere gli esiti indesiderati del funzionamento dei sistemi sociali capitalistici attuali; tutto ciò senza preoccuparsi di evitare gli esiti negativi dell’eccessiva propensione a rifiutare quanto dell’economia standard può risultare ancora idoneo a governare e salvaguardare i beni comuni.
Ciò sarebbe invece necessario, al fine di evitare che il rischio connesso al rifiuto ideologico delle leggi dell’economia standard possa causare anche inintenzionalmente la formulazione di strategie riformiste di lungo periodo svincolate dalla realtà. Uno dei peggiori sbagli che si possa commettere, nelle condizioni in cui versa attualmente l’Italia sul piano sociale ed economico, è pensare che una proposta astratta possa essere realmente attuata; sarebbe il peggior servizio reso al Paese, per via del fatto che esso finirebbe con l’essere ulteriormente penalizzato sovrastato dal funzionamento del proprio sistema economico in assenza di regole certe e concrete.

Oggi martedì 10 settembre 2019

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2 senza-titolo1
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democraziaoggi loghettoConte: mitezza e buon senso. Ma basta?
9 Settembre 2019
Amsicora su Democraziaoggi.
Ad una prima valutazione cosa si può dire delle dichiarazioni programmatiche di Conte? Che nelle sue parole c’è molta mitezza e buon senso. Importanti in un paese che ha Salvini, Berlusconi, la Meloni e Renzi. Ma basta per dare la scossa? Ad essere sincero, la sensazione è che si sia perso quel carattere positivamente provocatorio […]
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il_Manifesto_quotidiano_comunistaEDITORIALE de il manifesto
Giochiamo una partita difficile
Il nuovo governo. Da oggi con il governo M5S-Pd-LeU, si apre una nuova stagione politica. Che sarà costellata di ostacoli, contrapposizioni, rivalità, passi falsi. E non sarà facile centrare gli obiettivi previsti. Anche perché i conti vanno fatti tenendo ben presenti le condizioni economiche. Che sono deboli. Però da Conte fino all’ultimo parlamentare che sostiene questa alleanza, tutti sanno che siamo in presenza di qualcosa di più di una semplice scommessa
Norma Rangeri
(Segue) Su il manifesto, EDIZIONE DEL 10.09.2019

Laudato si’ e agenda Onu 2030. Documentazione

76c6f681-fe5e-44fc-aedf-c4649b725b5f APPUNTI per l’introduzione (a cura di Franco Meloni e Ignazio Boi).
L’iniziativa di oggi segue quella tenutasi il 16 maggio ultima-locandina-laudato-sidello scorso anno intitolata “La politica risponda alle istanze della Laudato si’ sulla cura della casa comune” con un’ulteriore precisazione: “Se le analisi e le preoccupazioni del Papa sono giuste, occorre trovare le strade per una loro traduzione nell’azione politica. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale”.
[segue]

La Quinta infamia di Sciaboletta.

Le infamie dei Savoia e noi

sciabolettaL’infame Re Savoia Vittorio Emanuele III detto “Sciaboletta”

di Francesco Casula

9 settembre 1943: la fuga ingloriosa Vittorio Emanuele III (più noto come Sciaboletta) si macchiò, indelebilmente e ignominiosamente di ben 5 infamie, con conseguenze devastanti per la Sardegna e l’Italia intera.

1.La partecipazione alla 1° Guerra mondiale, caldeggiata dal suddetto tiranno sabaudo. La Sardegna, alla fine del conflitto, avrebbe contato ben 13.602 morti. Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.

2. Il fascismo: fu lui a nominare capo del Governo Mussolini.

3. La firma delle leggi razziali.

4. La seconda Guerra mondiale.

5. L’Olocausto: ad iniziare da quello sardo.
[segue]

La storia della medicina

piero-di-liciadi Piero Marcialis

57. Otoscopia, Jean Pierre Bonnafont.
È abbastanza normale che un medico militare acquisti competenze specifiche in tema di ferite da taglio e da arma da fuoco, meno frequenti altre specialità. Caso unico quello dell’inventore dell’otoscopio.
Jean Pierre Bonnafont (1805-1891), medico militare francese, prende parte nel 1830 alla campagna d’Algeria, si laurea anzi al suo ritorno nel 1834, proprio con una tesi sulle piaghe da arma da fuoco.
Jean Pierre aveva fin da studente sviluppato un interesse particolare per la cura dell’orecchio, sulla possibilità di studiare meglio il condotto uditivo.
Così nello stesso anno di laurea inventa il primo otoscopio, che altri perfezioneranno nel tempo, sulla base di una semplice idea: indirizzare all’interno del condotto uditivo una sorgente luminosa.
Bonnafont ha anche altri meriti oltre a quelli acquisiti nella cura e nella chirurgia dell’orecchio: per esempio si deve a lui la misura igienica che ogni soldato abbia la propria gavetta (gamella) personale per il consumo del cibo; studi sulle malattie coloniali, sull’organizzazione dei soccorsi in guerra.
Per i suoi meriti militari e professionali ebbe molti riconoscimenti: ufficiale della Legion d’onore, membro della Accademia di medicina.