Monthly Archives: maggio 2019
Che succede?
“L’EUROPA CHE VOGLIAMO”
8 Maggio 2019 by Forcesi | su C3dem
“L’Europa che vogliamo” è il titolo dell’editoriale della rivista di Città dell’Uomo, “Appunti di politica e cultura”. Un interessante intervento di Romano Prodi a Matera riassunto da Massimo Franchi sul Manifesto: “Prodi a tutto campo sull’Europa“. Alla vigilia della ricorrenza della Dichiarazione Schuman, un articolo di mons. Bruno Forte: “L’Europa non può ignorare le radici etiche e spirituali” (Corriere della sera). Sulle prossime elezioni europee scrivono Michele Salvati (“Le parole che non sentiamo nella campagna elettorale”, Corriere della sera), Angelo Panebianco (“L’inerzia non giova all’Unione europea“, Corriere) e Mauro Calise (“Se l’Europa diventa terra di conquista”, Messaggero). Su Il Foglio David Allegranti la vede così: “Pd e M5S programmi gemelli”. Da rilevare l’intervista a Italia Oggi del politologo Carlo Galli: “Sbagliato disprezzare il populismo” e un editoriale di Leonardo Becchetti e Alberto Mattioli su Avvenire: “Un intervento sul debito per dare fiducia ai popoli”. Qualche annotazione nell’intervista al Mattino di Francesco Occhetta sj, “Un male la venerazione dei leader, ma alla fine vincerà chi coopera”.
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IL NAZIONALISMO DEI VULNERABILI E LA SUA RIVOLTA ANTILIBERISTA
6 Maggio 2019 by Forcesi | su C3dem
Emanuele Felice, su Repubblica, esorta il Pd: “Tutti a scuola da Pedro, contro i fantasmi del passato”. Ilvo Diamanti mostra la diffidenza degli elettori Pd verso il M5S: “Pd e M5S, è distanza continua” (Repubblica). Paolo Mieli ironizza: “I 5 stelle travestiti da sinistra” (Corriere della sera). L’interessante analisi di Nadia Urbinati sul Corriere: “Il nazionalismo dei vulnerabili e la sua rivolta antiliberista”. Di taglio diverso l’analisi di Guido Tabellini sul Foglio: “I conservator-sovranisti”. Dall’Istituto Cattaneo uno studio su “Gli italiani e l’Europa. Insoddisfazione, ma non disaffezione”. L’attrice impegnata Juliette Binoche: “Una società più giusta è possibile” (Repubblica). Sul Corriere un’intervista di Federico Fubini a Enrico Morando: “L’euro incompleto ci ha tradito”, e una di Giovanni Bianconi a Giuseppe Pignatone: “I politici usano le inchieste”. Sul Sole 24 ore una ricerca che dice: “Classe media sempre più povera, perso dal 2008 il 12%”. Qualche giorno fa Mauro Magatti ha indagato una realtà sociale drammatica: “Solitudine globale” (Corriere). Marco Girardo (Avvenire): “Un milione di poveri in meno nel 2018”, e il commento di Chiara Saraceno (Repubblica): “I rimedi alla povertà dei bambini”.
Sabato 11 maggio 2019
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La Scuola di Cultura Politica Francesco Cocco su Il Risveglio della Sardegna. Sono iniziati i valori di ristrutturazione. Occorrono nuovi fondi. Appello alla generosità dei sostenitori.
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Revisione costituzionale: riduzione dei parlamentari o della democrazia?
11 Maggio 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Taglio di oltre un terzo il numero di deputati e senatori: la Camera ha approvato il testo, confermando quello trasmesso dal Senato. Si tratta della prima delle due letture conformi prevista per le riforme costituzionali. La legge potrebbe essere approvata […]
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Solitudine e fatica di vivere:
la nuova minaccia globale
Il World Economic Forum ha posto la questione della «sostenibilità umana» tra i principali rischi a cui sono esposte le società contemporanee
di Mauro Magatti su Il Corriere della Sera.
Regione. Che succede a Palazzo?
Le cuoche di Lenin e le commesse di Solinas
di Raffaele Deidda
Al padre della rivoluzione russa Vladimir Ilic Uianov, noto con lo pseudonimo di Lenin, si attribuisce comunemente l’affermazione secondo la quale anche una cuoca potrebbe assurgere alle più alte cariche pubbliche. Nel senso che chiunque viva in uno stato di uguali può essere posto nelle condizioni di accedere ad un percorso di conoscenza, con conseguente preparazione ed esperienza, che lo renda potenzialmente capace di svolgere le più importanti funzioni pubbliche.
Nell’articolo ”I bolscevichi conserveranno il potere statale?”, pubblicato nell’ottobre del 1917, poche settimane prima della rivoluzione, però Lenin scrisse: “Non siamo degli utopisti. Sappiamo che una cuoca o un manovale qualunque non sono in grado di partecipare subito all’amministrazione dello Stato. Esigiamo però la rottura immediata con il pregiudizio che solo dei funzionari ricchi o provenienti da famiglia ricca possano governare lo Stato, adempiere il lavoro corrente, giornaliero di amministrazione. Noi esigiamo che gli operai e i soldati coscienti facciano il tirocinio nell’amministrazione dello Stato e che questo studio sia iniziato subito o, in altre parole, che si cominci subito a far partecipare tutti i lavoratori, tutti i poveri a tale tirocinio”.
Non risulta, però, che le cuoche russe siano mai uscite dalle cucine del Cremlino.
Non risultano neppure contributi di rilievo nella gestione della cosa pubblica da parte dei cuochi, delle cuoche, delle guardarobiere, delle igieniste dentali e dei camerieri portati da Silvio Berlusconi al Parlamento e nei Consigli Regionali quando il Cavaliere era il dominus dello scenario politico italiano. Sarà che a questi non sono stati fatti frequentare i corsi di alta formazione che Lenin aveva previsto per le cuoche? Fatta eccezione, forse, per quello breve di apparizione nei media, dov’era sufficiente scuotere la testa in segno di dissenso quando qualcuno parlava male del signore di Arcore.
[segue]
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
I versi originari di Martin Niemöller [*] recitano: «Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».
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[*] Niemöller, il pastore luterano che ispirò Bertold Brecht, di Tonino Bucci, Liberazione del 24/05/08.
Che succede in Italia?
NUMERO PARLAMENTARI. CASO SIRI. SALONE DEL LIBRO. RAI. AUTONOMIE
8 Maggio 2019 by Forcesi | su C3dem.
Sulla proposta di legge di modifica costituzionale relativa al numero dei parlamentari un ampio materiale nel blog di Stefano Ceccanti. La cronaca parlamentare di Andrea Fabozzi: “Taglio e zitti. Riforma pronta per gli spot elettorali” (Manifesto). L’intervista di Maurizio Martina al Corriere della sera: “La nostra sfida a Lega e 5stelle: solo una Camera da 500 membri”. CASO SIRI: Massimo Villone, “Come si manda via un sottosegretario ingombrante” (Manifesto). Sabino Cassese, “Perché i 5 stelle protestano solo adesso?” (intervista a Il Dubbio). Giovanni Orsina, “La giustizia in campagna elettorale” (La Stampa). CASO SALONE DEL LIBRO: Vladimiro Zagrebelsky, “In difesa della Costituzione” (La Stampa). Emilio Gentile, “Il fascismo non è la vera minaccia. Temo di più le urne deserte” (intervista al Corriere). Sabino Cassese, “Al Salone del libro ci sarò, un liberale deve fare così” (intervista al Messaggero). Gaetano Azzariti, “Farlo partecipare nega uno dei fondamenti della Carta” (intervista a Repubblica). Marco Revelli, “Un macigno che pesa sulla politica” (Manifesto). RAI: Giandomenico Crapis, “Giornalisti cattolici a me” (Manifesto). AUTONOMIE: Michele Ainis, “L’autonomia come sopruso” (Repubblica).
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Il pane e le spranghe [di Nicolò Migheli]
By sardegnasoprattutto / 10 maggio 2019/ Culture/
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Torino svela il gioco perverso delle istituzioni italiane: scaricare sui singoli la fatica dell’antifascismo [di Vito Biolchini]
By sardegnasoprattutto / 10 maggio 2019/ Culture/
UN TAGLIO RADICALE. MEMORIA E PLURALISMO IN PERICOLO DI VITA.
UN TAGLIO RADICALE. MEMORIA E PLURALISMO IN PERICOLO DI VITA. MANIFESTAZIONE A CAGLIARI MERCOLEDI’ PROSSIMO PER SCONGIURARE IL PERICOLO DI SOPPRESSIONE DEL SERVIZIO PUBBLICO DI RADIO RADICALE
Ordine dei giornalisti della Sardegna
Il pericolo concreto che Radio radicale possa cessare le trasmissioni e le pubblicazioni online quotidiane dei lavori del Parlamento e dei principali eventi di attualità politica e istituzionale è motivo di allarme e di seria preoccupazione per i giornalisti italiani e per tutti coloro che hanno a cuore la libertà di informazione. [segue]
Il viaggio del Dollaro che produce ricchezze e povertà
Il dollaro base dell’interconnessione globale delle economie nazionali
di Gianfranco Sabattini
Dopo la crisi del 2007/2008, la scienza economica ha perso gran parte della sua credibilità; ciò perché gli economisti sarebbero stati incapaci di prevedere quanto stava per sopraggiungere e non sarebbero stati all’altezza di suggerire strategie utili a porvi rimedio. Per capire i processi attraverso i quali gli esiti della crisi si sono diffusi per gran parte del mondo, occorre tener presente che il “veicolo” è stato la moneta base degli scambi internazionali, il dollaro; a ragione, molti ritengono che, al pari della “circolazione sanguigna”, questa particolare valuta trasporti le “sostanze nutritive”, il potere d’acquisto, del quale si nutre il mercato globale degli scambi.
Il cattivo funzionamento del processo attraverso il quale tale potere si forma e si distribuisce, infatti, è la causa principale delle crisi, che ricorrentemente colpiscono il sistema degli scambi internazionali, i cui effetti negativi sono tanto più gravi, quanto maggiore è il grado di interconnessione delle economie nazionali all’interno del mercato globale.
La globalizzazione, se ha reso il mondo più piccolo, lo ha reso però, contemporaneamente, più complesso; ciò perché, come sottolinea Dharshini David, giornalista economica della “BBC News”, in “Il mondo in un dollaro”, il mercato globale, nel quale si sostanzia la globalizzazione, è un contesto al cui interno “una parola detta da un banchiere di Washington o Berlino può portare alla fame i pensionati greci, o un giovane a lasciare la famiglia per attraversare a piedi l’Africa subsahariana in cerca di una vita migliore”; la “contrazione” economica del mondo, realizzata dalla globalizzazione, esprime una “forza impersonale” che procura vantaggi ad alcuni, a danno di altri, e alla quale è impossibile sottrarsi.
Prescindendo della distribuzione dei suoi effetti distributivi, la globalizzazione può essere pensata come l’economia-mondo, espressa da “tutte le transazioni, le interazioni, gli acquisti e gli accordi che riconosciamo come scambi”; le forze espresse da questa economia globale sono determinate dalle azioni degli individui sparsi per il mondo, nella veste di lavoratori, consumatori, risparmiatori, imprenditori e speculatori; comunque sia – afferma la giornalista – “una cosa è certa: siamo tutti soggetti a queste forze e, indipendentemente dalla nostra capacità di controllarle, è importante sapere come funzionano e come si ripercuotano sulla nostre vite”.
Quando si acquista qualcosa in un punto qualsiasi del globo, ma fuori dagli Stati Uniti d’America, non si paga l’oggetto acquistato in dollari, sebbene il dollaro, come si è detto, rappresenti il supporto monetario degli scambi in ogni parte del mondo. Per questo fatto, si potrebbe essere indotti a pensare, sbagliando, che il dollaro sia solo una delle tante valute esistenti; ma non è così. Il dollaro, infatti, sottolinea la Dharshini David, non “è una valuta come tante”; esso non è solo la valuta emessa da uno dei Paesi più potenti del mondo, e sicuramente il più potente sul piano economico; è anche il “volto” dell’importanza economica dell’America e dei suoi interessi sparsi per ogni dove: avere “un dollaro, o non averlo, può determinare come vivono le persone dall’altra parte del mondo”.
L’importanza assunta dal dollaro non è recente, ma risale ai tempi della “Dichiarazione di indipendenza” degli Stati Uniti; con la “diplomazia del dollaro”, infatti, gli Stati Uniti hanno potuto estendere la loro influenza sui Paesi dell’America Latina ed avere accesso ai loro mercati. Questa particolare forma di diplomazia è stata estesa anche fuori dal continente americano, sino a consentir agli USA di assumere una posizione mondiale dominante al termine del secondo conflitto mondiale. Dopo il 1945, infatti, il dollaro è diventato la valuta di riserva del mondo, trasformandosi nello strumento più importante e affidabile nella ricostruzione post-bellica dell’economia internazionale, prima, e nella costruzione dell’economia globale, poi.
La globalizzazione, infatti, è stata realizzata sulla base della circolazione internazionale del dollaro, considerato lo strumento fiduciario col quale era “possibile collegare le persone” e garantire la stabilità finanziaria globale. In altre parole, la globalizzazione si è affermata in quanto è stato possibile trasformate il dollaro nel “linguaggio finanziario che sostiene le nostre vite, indipendentemente dalle banconote e dalle monete che usiamo ogni giorno” [...] In breve, potremmo vedere nel dollaro l’agente della globalizzazione” che connette tra loro, non solo i singoli individui, ma anche i singole Stati ai quali essi appartengono. Anche la Russia e la Cina, i principali antagonisti e competitori degli USA, usano il dollaro: molti cittadini della prima preferiscono il dollaro al rublo, mentre la seconda investe gran parte del valore dei suoi surplus commerciali in titoli del debito pubblico americano, mostrando di avere molta più fiducia nel dollaro che in ogni altra valuta.
L’ascesa della potenza del dollaro, sino all’apoteosi a metà del XX secolo, riflette l’attuale ordine mondiale monetario; un ordine che, seppur caratterizzato da un ridimensionamento dell’originario potere della valuta statunitense rispetto all’immediato dopoguerra, continua ad essere fondato sulla valuta del Paese a “stelle e strisce”, perché ritenuta affidabile e garante della stabilità; affidabilità e garanzia che il dollaro ha continuato ad assicurare all’economia mondiale anche dopo lo scoppio della crisi del 2007/2008, come dimostra il fatto che esso abbia continuato ad essere il denaro che “lubrifica” gli ingranaggi dell’economia mondiale e il collante che impedisce il crollo dei traffici internazionali. Ciò può essere dimostrato – come fa Dharshini David – immaginando il “viaggio intorno al mondo” di una banconota da un dollaro, spesa, ad esempio, nell’acquisto in un negozio americano di una radio prodotta in Cina.
La Cina, notoriamente, negli ultimi decenni, è stata protagonista di un processo di crescita sostenuta dall’impiego di tecniche di produzione low-cost, che le hanno consentito di accumulare crescenti avanzi commerciali, in parte investiti nei bond del debito pubblico americano e, in parte, utilizzati per acquistare il carburante per l’alimentazione del motore che sorregge il proprio sviluppo.
Una delle fonti di approvvigionamento di petrolio della Cina è la Nigeria, Paese africano produttore; il dollaro ipotetico acquisito dalla Cina con l’esportazione della radio venduta ad un consumatore americano viene dunque trasferito in Nigeria, Paese arretrato, anche se ricco di risorse naturali, e sovrappopolato. Per procurarsi le derrate alimentari necessarie per assicurare l’alimentazione agli oltre 190 milioni di abitanti, il Paese africano si rivolge all’India esportatrice di riso ed i dollari da questa “incassati” non rimunerano solo il lavoro dei contadini produttori di riso, ma vendono utilizzati, come accade alla Cina, per importare petrolio dall’Iraq, al fine di sostenere il suo crescente sviluppo fondato sulla produzione ed esportazione di tecnologie e di operatori informatici e di dotarsi delle infrastrutture necessarie.
Da queste prime triangolazioni commerciali appare chiaro come, alla loro base vi sia, da un lato, l’”oro nero”, e dall’altro lato, il dollaro, come unità di misura delle merci scambiate e intermediario degli scambi; per tutti i Paesi sin qui considerati, il petrolio è essenziale per la loro sopravvivenza, ma risulta essenziale anche per la supremazia del dollaro all’interno di un ordine globale che, almeno per il momento, ha il proprio epicentro nel Medio Oriente e, in particolare, nell’Arabia Saudita. Si tratta di un epicentro che racchiude Paesi tutti interessati, più o meno, al controllo delle riserve della materia prima che “fa girare il mondo” e, per questo motivo, i Paesi mediorientali sono uno contro l’altro armati, costantemente esposti al rischio di guerre locali. Tale stato di cose non è privo di conseguenze per il “viaggio del dollaro intorno al mondo”.
Un’area geografica, costituita da Paesi costantemente esposti al rischio di dover affrontare una guerra, ha bisogno di armi; a fornire queste ultime è la Russia, specializzata prevalentemente in tale tipo di produzione che alimenta le esportazioni nei Paesi mediorientali e nel resto del mondo, consentendo ad essa (la Russia), non solo di realizzare una possibile ”integrazione nell’economia mondiale per rivendicare un potere economico pari a quello politico”, ma anche per rimediare, con le importazioni, a ciò che la propria economia in difficoltà non le consente di disporre. Per la Russia, la vendita di armi, sebbene si tratti di un’operazione “discutibile”, costituisce pur sempre una fonte di entrate che, nella logica della contabilità economica nazionale, costituisce un flusso di risorse molto proficuo, oltre che sul piano politico, anche su quello economico. Il valore di tali risorse in entrata non è espresso in rubli, ma in dollari, i cui gestori, gli oligarchi che controllano le esportazioni di armi, per lo più depositano, per ragioni economiche, politiche e personali, presso accreditate banche dei Paesi occidentali.
Il dollaro in viaggio per il mondo, quindi, dopo essere arrivato in Russia dai Paesi acquirenti di armi, si diffonde per diverse destinazioni estere. La Germania è una delle destinazioni tra le più attrattive dei dollari russi; proprio per questo, non casualmente, il Paese più ricco e potente dell’Europa è stato il più restio ad approvare le sanzioni occidentali applicate alla Russia dopo l’annessione dell’Ucraina, trattandosi del Paese fornitore di gran parte delle materie prime energetiche delle quali la Germania ha bisogno per i suoi consumi civili e produttivi. Ma anche il Regno Unito, dopo la crisi globale del 2007/2008 e soprattutto dopo la Brexit, è diventato un luogo ancora più sicuro, nel quale il dollaro russo ha potuto essere proficuamente depositato, per finanziare convenienti investimenti immobiliari e profittevoli operazioni finanziarie.
Malgrado la Brexit, grazie al “passporting” (il diritto delle società di servizi finanziari operanti nell’Unione Europea di poter condurre attività transfrontaliere in qualsiasi Stato membro dell’Unione senza dover sottostare al rilascio di specifiche autorizzazioni), il Regno Unito si è confermato il custode mondiale del dollaro, per via del fatto che ha continuato ad essere lo “snodo centrale” delle finanza mondiale per l’accesso ai mercati finanziari europei delle banche americane ed asiatiche. Sotto forma di rendimento reso dai dollari investiti nei bond del debito pubblico dei Paesi europei gravati da un alto debito pubblico consolidato, il dollaro termina il suo “viaggio intorno al mondo”, rientrando nel Paese che lo ha emesso.
In conclusione, tornando a casa – afferma Dharshini David – il dollaro ha compiuto il suo giro intorno al mondo “passando elettronicamente da una banca all’altra, ha distribuito redditi, oliato gli ingranaggi del commercio e della prosperità e consolidato i rapporti di forza tra gli Stati”; in questo processo circolatorio, ogni anno migliaia di miliardi di dollari lasciano l’America, ma altre migliaia di miliardi vi arrivano. Non tutti gli Stati e non tutti i ceti produttivi in essi operanti fruiscono in termini di equità distributiva della creazione della ricchezza resa possibile dalla circolazione del dollaro intorno al mondo.
Negli ultimi anni è cresciuto il convincimento che la globalizzazione, sorretta dal dollaro, abbia supportato un modus operandi del capitalismo, che ha concorso a favorire, nonostante l’enorme crescita della ricchezza prodotta, la sua disuguale distribuzione tra tutti gli Stati e tra tutti i ceti sociali coinvolti. Una delle conseguenze di tale stato di cose è stata la crisi della Grande Recessione del 2007/2008. Con il suo superamento, osserva la Dharshini David, i posti di lavoro potranno anche tornare a crescere, ma meno di quelli che saranno necessari per il pieno impiego delle forze lavorative disponibili; ciò a causa della maggior produttività totale dei fattori dovuta all’introduzione nei processi produttivi dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica. Se, per un verso, la produttività continuerà a rappresentare il presupposto per aumentare la crescita, per un altro verso essa si trasformerà nel problema maggiore col quale saranno chiamati a “fare i conti” sia gli economisti che i governi.
Alcuni osservatori sono del parere che l’origine delle ricorrenti crisi del capitalismo globalizzato sia, non solo il dominio esercitato dal dollaro nel finanziamento del libero svolgimento dei traffici mondiali, ma anche l’ideologia produttivistica che lo sorregge, che fa del continuo aumento della produttività il presupposto della crescita senza limiti della ricchezza mondiale, che viene però inegualmente distribuita. Ma la crescita maldistribuita tra gli Stati e tra i ceti sociali partecipanti al processo che la origina possiede in sé un meccanismo intrinseco equitativo, che costringerà obtorto collo economisti e governi a porre rimedio alle implicazioni negative della crescente produttività sul piano della ineguale distribuzione dei suoi risultati.
A dimostrare la necessità del rimedio può essere utile ricordare l’esperimento mentale sugli esiti negativi della concentrazione della ricchezza, formulato già nel XIX secolo, in “Progresso e libertà”, dall’economista americano Henry George. Se il progresso scientifico e tecnologico indotto dalla competitività internazionale continuerà a determinare l’espulsione definitiva di quote della forza lavoro dalle attività produttive e l’aumento delle disuguaglianze distributive, allora è possibile pensare ad un momento in corrispondenza del quale la produzione potrà essere ottenuta azzerando totalmente l’occupazione. In tal modo, i titolari delle attività produttive potranno appropriarsi del valore dell’intera produzione, conseguita senza l’impiego di alcun lavoratore. A questo punto, la produzione, rimanendo invenduta, mancherebbe di tradursi in ricchezza reale, riducendo il sistema sociale a vivere all’interno di un’economia funzionante in regime di uno stato stazionario regressivo.
Questo limite, afferma George, al quale conducono “le invenzioni economizzanti il lavoro può sembrare molto remoto perfino impossibile a raggiungersi; ma è un punto verso cui tende sempre più fortemente il progresso delle invenzioni”. Si tratta, perciò, di un limite da tenere nella debita considerazione, pena la possibilità che il capitalismo si “infili” realmente nel tunnel di una crisi irreversibile.
Venerdì 10 maggio 2019
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La Scuola di Cultura Politica Francesco Cocco su Il Risveglio della Sardegna. Sono iniziati i valori di ristrutturazione. Occorrono nuovi fondi. Appello alla generosità dei sostenitori.
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Francesco Cocco e Andrea Raggio di fronte alla sinistra nominale
10 Maggio 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
—————————————————–E’ disponibile——
Save the date Arregordarì Punta de billete Annótatelo
Giovedì 9 maggio 2019
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La Scuola di Cultura Politica Francesco Cocco su Il Risveglio della Sardegna. Sono iniziati i valori di ristrutturazione. Occorrono nuovi fondi. Appello alla generosità dei sostenitori.
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Autonomia differenziata: le regioni ricche vogliono star da sole
9 Maggio 2019
Gianna Lai su Democraziaoggi.
E vada pure in malora questo Meridione, che vive di assistenza e di indennizzi e che si papperà quasi tutto il Reddito di cittadinanza! Più soldi al Nord, noi delle tre regioni più ricche non vogliamo comunque portar via niente alle altre, semplicemente vogliamo tenerci i nostri, il nostro residuo fiscale, e deciderne direttamente […]
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Siri-Barracciu: due casi con soluzioni opposte
9 Maggio 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
In due ore di riunione, senza scontri plateali, Giuseppe Conte rispetta le indicazioni e decide di “licenziare” l’esponente leghista ottenendo la fiducia dei suoi ministri e terminando la riunione senza la conta che, seppur simbolica, avrebbe sancito la rottura tra la Lega e il capo del governo. “E’ la vittoria degli onesti”, dice Luigi Di Maio. […]
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Francesco Cocco: un punto di riferimento.
di Roberto Mirasola su il manifesto sardo.
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Le dichiarazioni programmatiche del Presidente della Regione, Christian Solinas
Non abbiamo trovato sui siti istituzionali della Regione le dichiarazioni programmatiche che il presidente Christian Solinas ha pronunciato oggi, 8 maggio, in Consiglio Regionale. Il sito dell’Amministrazione si limita alla notizia della presentazione delle dichiarazione medesime e all’elenco dei nuovi assessori. Il sito del Consiglio regionale è allo stato del tutto disastrato.
Qualche ulteriore informazione-video sulla pagina fb del Consiglio regionale. La rete ci ha invece fornito una serie di sintesi. Tra queste la più completa ci è apparsa quella pubblicata sul sito Sardegna Report, da cui abbiamo tratto quanto sotto riportiamo. Ci riserviamo di dare conto del documento integrale, non appena sarà reso disponibile, doverosamente e come obbligo di legge, da parte della presidenza della Regione. Al via i commenti, nei prossimi giorni, con un’anticipazione tranchant di Tonino Dessì.
(segue)
Europa, Europa
La Germania e l’Europa: intervista a Achim Truger
di Alessandro Bramucci
Sbilanciamoci. 2 Maggio 2019 | Sezione: Apertura, Europa
Ue al bivio/ Gli errori dell’Europa, una Germania con l’economia che rallenta e fatica a cambiare modello, il ritardo dell’Italia. L’analisi di Achim Truger.
Achim Truger è dall’aprile 2019 professore di finanza pubblica presso l’istituto di socio-economia dell’università di Duisburg-Essen ed è membro del consiglio di esperti economici del governo tedesco. Si occupa di politiche fiscali ed è stato un critico dell’austerità in Europa e dei limiti alla spesa pubblica in Germania. Visita spesso l’Italia e legge molto bene l’italiano.
A breve ci saranno le elezioni europee. In Italia, in Germania, come in altri molti paesi dell’Unione è cresciuto sensibilmente il malcontento nei confronti delle istituzioni europee ma anche dell’idea stesse di Europa unita. Ha ancora senso parlare oggi di Europa?
Assolutamente sì e occorrono buone idee per rafforzarla. Il problema e che negli ultimi dieci anni dall’Europa sono arrivate proposte spesso sgradite. L’Europa ha proposto politiche economiche di stampo fortemente neoliberale come una politica monetaria indipendente, rigidi trattati fiscali, deregolamentazione dei mercati, insieme a quelle che amichevolmente vengono definite riforme strutturali ma che in realtà significano tagli alla spesa pubblica e al welfare. Questo tipo di politiche hanno chiaramente dimostrato il loro fallimento con la crisi dell’euro colpendo duro nelle cosiddette “periferie” dell’Europa, specialmente in Italia. Non c’è quindi da sorprendersi se l’atteggiamento verso l’Europa non sia poi così benevolo. Questo non significa che l’idea stessa di Europa o che l’amicizia tra popoli sia responsabile di politiche sbagliate e irrazionali. Occorre riflettere seriamente su che cosa fare e proporre riforme istituzionali serie sia a breve che a lungo termine. Tuttavia dato il contesto politico attuale diventa sempre più difficile trovare punti di accordo e se continua così bisogna preoccuparsi davvero per la tenuta dell’Europa. Trovo triste che non sia più la diplomazia e la politica estera a mantenere le relazioni tra i Paesi europei quanto piuttosto i ministri delle Finanze che cercano di darsi ordini a vicenda ognuno facendo i conti in tasca all’altro. Certo, per le persone nei Paesi colpiti non è un buon segnale.
In Germania crescono le diseguaglianze. In base a dati Eurostat, la quota dei disoccupati che sono a rischio povertà è del 70 per cento, il più alto nell’Unione europea. Quali sono, secondo lei, le cause delle crescenti diseguaglianze? Quali sono i suoi suggerimenti a riguardo?
La crescita delle diseguaglianze in Germania è un argomento controverso. Molti economisti si occupano di questo tema mostrando ad esempio come dal 1995 le disuguaglianze siano aumentate enormemente. C’è bisogno di un’analisi seria a riguardo. Il coefficiente di Gini è senza dubbio uno strumento, ma non il solo. Il tasso di povertà come anche il tasso di concentrazione della ricchezza sono altri importanti indicatori. Ma occorre molto di più. Credo che nel complesso sia importante monitorare il contesto socio-istituzionale nel quale le persone vivono e lavorano. Penso ad esempio all’aumento della precarietà, al rincaro del costo degli affitti, alla paura della povertà in età avanzata. Tutti questi fattori hanno contribuito al crescente senso d’insoddisfazione e ingiustizia sentito da molti in Germania. Occorre prendere sul serio questi segnali. Non basta dire come fanno alcuni che il coefficiente di Gini dal 2005 non ha subito grossi cambiamenti per liquidare il problema. Il problema c’è, eccome, e occorre fare qualcosa al più presto. Certamente ci sono tante ragioni che contribuiscono a spiegare l’aumento delle diseguaglianze, come ad esempio il cambiamento tecnologico. Anche se personalmente credo che ci siano delle chiare cause politiche. Negli ultimi 30-40 anni abbiamo assistito alla progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, le cosiddette riforme strutturali. Mentre le imposte sulle imprese sono diminuite, lo Stato sociale è stato gradualmente smantellato. Questo tipo di deregolamentazione ha portato all’indebolimento della contrattazione salariale, all’indebolimento dei sindacati e quindi a una ad una bassa crescita dei salari nel Paese. Si è voluto creare inoltre un settore a bassi salari, i cosiddetti “mini-jobs”. Queste sono tutte ragioni che contribuiscono a spiegare l’evoluzione del reddito primario insieme a tassazione e trasferimenti operati dallo Stato sociale nella distribuzione secondaria del reddito. Spesso il dibattito si è limitato alle tasse. Credo che sia importante che i ricchi paghino più tasse, rafforzando così lo Stato sociale, ma penso che si debba tornare molto più indietro nel senso di regolamentare di nuovo il mercato del lavoro. Solo così si possono rafforzare le posizioni dei lavoratori e dei sindacati contribuendo alla crescita dei salari. Anche l’introduzione del salario minimo ha avuto un ruolo importante e trovo positivo che sia cresciuto, anche si può fare ancora di più.
Il Consiglio Economico – di cui lei fa parte – ha rivisto al ribasso le previsioni di crescita della Germania anche in base ai segnali negativi che arrivano dall’economia mondiale sottolineando la forte dipendenza dell’economia tedesca dall’export. Prevede nei prossimi anni un cambiamento nel modello di crescita tedesco?
A marzo il Consiglio ha rivisto allo 0,8 le previsioni per l’anno corrente basandosi in gran parte sul fatto che gli ultimi due trimestri del 2018 sono stati molto più deboli del previsto facendo di conseguenza abbassare il tasso di crescita medio per il 2019. Tuttavia se si guarda alle dinamiche della congiuntura economica prevista per il 2019 su base trimestrale, sembra che la crescita rimanga ancora relativamente sostenuta. Allo stesso tempo, le esportazioni sono diminuite insieme ad altri fattori negativi che nelle ultime settimane hanno fatto aumentare le preoccupazioni per l’economia tedesca. Se ci sia il pericolo di una vera e propria recessione o sia soltanto una breve fase negativa del ciclo è difficile da dire ma il rischio di recessione è senza dubbio aumentato. Ci sono inoltre i rischi legati alla Brexit, qualora si dovesse arrivare all’uscita non concordata del Regno Unito. Ci sono poi i rischi legati alla Cina e all’andamento dell’economia cinese anche in vista di una possibile escalation della guerra commerciale. Si potrebbe dire che la Germania ha già apportato un leggero cambiamento al suo modello economico. Mentre fino alla crisi finanziaria il settore estero ha contribuito in gran parte alla crescita del Paese, è adesso la domanda interna ad avere un ruolo trainante. Dopotutto è l’economia nazionale che al momento tira e che può quindi compensare nel caso di eventuali recessioni all’estero. Certo che se si dovesse registrare davvero una caduta delle esportazioni e degli investimenti allora ci sarebbe il pericolo reale di una recessione in Germania. In questo senso non si può ancora parlare di un definitivo cambiamento del modello economico. Personalmente credo che ci sia bisogno di un cambiamento nel modello di crescita per essere meno dipendenti dal commercio estero e far crescere di più la domanda domestica. Surplus elevati nella bilancia commerciale a lungo termine non funzionano e portano anche a reazioni di tipo politico come con Trump, rappresentando di fatto un rischio di instabilità per il Paese.
L’Italia è uno dei paesi dell’Europa “del Sud” che continua a soffrire maggiormente della crisi. Pensa che l’Italia sia stata svantaggiata dall’attuale assetto monetario ed istituzionale dell’Europa?
L’Italia è davvero un caso tragico. Trovo la questione molto importante e trovo che ciò che sta accadendo, inclusi i problemi che deve affrontare il governo nelle istituzioni europee, non sia dovuto alla crisi economica o alle attuali politiche, quanto piuttosto a problemi che risalgono in parte al passato. L’Italia ha avuto una pesante eredità e, considerato il contesto attuale, è estremamente difficile per il Paese uscire dalla crisi da solo. Molti sostengono che l’Italia ha bisogno di riforme strutturali. Non ne so molto della struttura economica italiana e temo che molti di quelli che fanno suggerimenti a riguardo ne sappiano altrettanto poco. Mi chiedo come queste riforme strutturali possano veramente favorire la crescita e l’occupazione e non piuttosto aggravare la crisi. L’Italia è stata tra i protagonisti del processo di unificazione europeo ma ha perso progressivamente capacità di negoziazione e spazi di manovra. Nel mercato interno ora l’Italia si trova a competere con i paesi dell’Est Europa. C’è poi stata la globalizzazione e l’entrata della Cina dell’economia globale. Tutti questi fattori hanno colpito duramente il ruolo politico ed economico dell’Italia. Allo stesso tempo le regole fiscali europee hanno ridotto il controllo della spesa pubblica come strumento di politica economica. La politica monetaria è ora in mano alla Banca centrale europea e l’Italia non ha più la capacità di svalutare, tantomeno quello di finanziare, la spesa pubblica. Questi sono gradi di libertà che il Paese ha perso e che rendono l’uscita dalla crisi molto difficile. Ritengo che sarebbe stato intelligente aiutare l’Italia prima. Credo inoltre che nell’attuale contesto istituzionale sia molto difficile per l’Italia tornare alla crescita senza maggiori possibilità di spesa o perfino senza l’aiuto di altri Paesi. Al momento è difficile cooperare con il governo italiano anche perché questo sta cercando lo scontro aperto. Dall’altro lato se l’Italia dovesse sprofondare di nuovo nella crisi sarebbe la fine dell’euro. Ci si sarebbe dovuti arrivare molto prima, prima della fase dei ricatti e dei contro-ricatti. Penso che a questo punto non si tratti più solo di economia. Dobbiamo ristabilire la fiducia tra i popoli. Come ho detto, una situazione molto brutta e deprimente.
Quale strategia si sente di suggerire all’Italia anche alla luce delle ultime riforme dell’attuale governo M5S-Lega?
Anche se al momento il governo sta cercando lo scontro e le riforme potrebbero risultare in qualche modo dubbiose (non conosco i dettagli di queste politiche), occorre dare all’Italia più margine di manovra. Se l’Italia dovesse concentrarsi esclusivamente sul consolidamento dei conti pubblici, c’è il rischio che la crisi si aggravi ancora di più. Credo che ciò di cui l’Italia ha bisogno nel medio e lungo termine sia una politica macroeconomica europea insieme ad una strategia di politica industriale europea, in cui l’Italia – ed in particolare il Sud del Paese – svolgano un ruolo centrale.
Lei è uno degli esponenti di spicco tra gli economisti eterodossi in Germania ed Europa. Qual è la sua visione della disciplina economica?
Occorre separare il pluralismo metodologico da quello che invece è il pluralismo in tema di politiche economiche. Si può essere metodologicamente “mainstream” o perfino neoclassici e tuttavia progressisti dal punto di vista delle politiche. I modelli saranno solo più complessi, ma funziona nel senso che si può arrivare a valutazioni e proposte sostanzialmente differenti da quelle ortodosse. Non bisogna essere per forza metodologicamente eterodossi. Certo che, se si è keynesiani, l’impostazione di base è già differente ed è quindi più facile supportare certe posizioni rispetto a un economista neoclassico. Per quanto riguarda il lavoro del Consiglio, per me è importante che le proposte di politica economica seguano un approccio ispirato dalla pluralità delle teorie economiche. Per quanto riguarda la disciplina economica in quanto tale, io mi considero pluralista anche in ambito metodologico e trovo che negli ultimi 10-15 anni si sia fatto molto. La scienza economica si è aperta a nuove metodologie, si lavora molto di più con i dati, si sono aperti nuovi orizzonti di ricerca come l’economia comportamentale e tanto altro. Penso inoltre che, per avere un vero approccio multi-paradigmatico in economia, sia importante imparare la storia economica, conoscere la storia del pensiero economico, nel senso della storia dei dogmi del pensiero economico, come anche la filosofia, la filosofia della scienza e la metodologia. L’insegnamento di queste tematiche dovrebbe essere rafforzato nei programmi di economia delle università. In questo modo si potranno formare degli economisti più aperti e con un ampio orizzonte culturale, che sappiano capire e interpretare un ampio spettro di dottrine economiche insieme ai loro risvolti politici. In ultima analisi, economisti che sappiano consigliare meglio la politica. Questo è possibile solo se si ha una formazione economico-culturale più ampia possibile. In fondo la visione di Keynes era simile.
Qual è il ruolo del Consiglio di esperti economici della Germania?
Il Consiglio di esperti economici è stato istituto per legge nel 1963. I cinque consiglieri vengono anche comunemente definiti i cinque saggi. È un organismo indipendente che ha il compito di monitorare l’andamento economico del Paese ed eventualmente di formulare proposte di politica economica nei cosiddetti “quattro punti magici”: crescita economica continua e sostenuta, alti livelli di occupazione, stabilità dei prezzi, equilibrio nei conti con l’estero. Il Consiglio ha iniziato la sua attività negli anni Sessanta influenzato da uno spirito keynesiano, si può dire. Quello era il tempo in cui la politica economica aveva un ruolo fondamentale nel guidare il ciclo economico. Negli anni Settanta e Ottanta è poi arrivata la svolta monetarista e da allora si può dire che il Consiglio è in gran parte d’ispirazione conservatrice e ordoliberale. I cinque saggi sono nominati dal Presidente federale su proposta del governo federale, ma di solito solo tre sono nominati dal governo, mentre uno è nominato dalle organizzazioni degli industriali e l’altro dai sindacati. Io sono stato nominato dai sindacati.
Prenderà il posto di Peter Bofinger, l’unico economista di tradizione keynesiana nel Consiglio, che ha spesso espresso il voto di minoranza. Come funziona e qual è il ruolo del voto di minoranza all’interno del Consiglio? Ha intenzione di seguire l’esempio del suo predecessore?
La possibilità di esprimere il voto di minoranza è sancita dalla legge. Se uno o più di uno dei membri non condivide le posizioni del Consiglio, questo o questi hanno la possibilità di esprimere posizioni alternative. Al Consiglio spetta l’obbligo di metterle agli atti. In passato sono stati espressi numerosi voti di minoranza e a Peter Bofinger, che è stato per quindici anni nel Consiglio, spetta il record di voti di minoranza. Certamente io ho opinioni simili a quelle di Bofinger ma non posso dire in anticipo se utilizzerò o meno questo strumento. Dipende dagli argomenti che si affronteranno di volta in volta e dalle proposte che vengono fatte e ovviamente se io possa accettarle o no. Credo che la migliore rappresentazione dell’attività del Consiglio sia proprio quella formulata nel testo di legge. Il Consiglio deve prendere in considerazione diverse ipotesi discutendone il loro impatto senza tuttavia formulare raccomandazioni specifiche per un determinato provvedimento. Questa è anche la mia visione dell’economia. In materia di politica economica c’è un ampio spettro di possibili raccomandazioni a disposizione e, a mio avviso, spetta al Consiglio presentare questo spettro chiarendone bene le condizioni e le conseguenze. Finché questo spettro viene appropriatamente rappresentato, non c’è motivo di esprimere voti di minoranza.
Quale sarà il suo ruolo all’interno del Consiglio? Prevede spazi di cambiamento nella politica economica del governo tedesco?
Non ci sono delle responsabilità specifiche anche se le previsioni economiche sono una delle attività principali. Per questo tipo di lavoro c’è anche un gruppo di 15 economisti che lavora a tempo pieno per il Consiglio e che svolge un ruolo fondamentale nella preparazione del materiale prima che gli stessi consiglieri se ne occupino personalmente. In passato mi sono occupato molto di conti pubblici, di politiche fiscali e di tassazione e continuerò con questo tipo di lavoro anche nel Consiglio. Al momento trovo interessante che il dibattito economico in Germania sia di nuovo ripreso. Per anni non c’è stato alcun dibattito serio ma negli ultimi mesi si è tornati a discutere del Patto di stabilità e crescita e del tetto al debito pubblico. Ci sono molti economisti che iniziano a dire come queste regole fiscali lascino troppo pochi spazi di manovra rendendo gli investimenti sempre più difficili. Si fanno anche proposte di riforma a riguardo, anche se a me sembra che sia la politica a non voler recepire il messaggio. All’interno del ministero delle Finanze ci sono già delle idee su come si potrebbe fare ad avviare, ad esempio, un fondo per gli investimenti. A mio avviso questo è già un segno positivo. Tuttavia per quanto riguarda il freno al debito pubblico occorrerebbe cambiare la Costituzione con una maggioranza di due terzi il che non è sicuramente facile. Tuttavia qualcosa sta cambiando. Il momento critico arriverà proprio nel caso dovesse realizzarsi una congiuntura economica negativa per il Paese. Il deficit aumenterà, aumentando di conseguenza la pressione sui conti pubblici. Sarà allora da vedere se la maggioranza degli economisti sarà per un consolidamento dei conti, per uno stimolo fiscale o per guidare un programma di stimolo economico. Staremo a vedere. Io spero in quest’ultimo.
Commenti
Tonino Dessì su fb.
Dichiarazioni programmatiche del Presidente della Regione.
Nihil novum sub sole.
Descrittive, notarili, ripetitive di cose già scritte, dette, sentite, con annunci di “deroghe” poco incoraggianti (le solite, eh).
Altra pagina inutile da commentare.
Diversità nella continuità, continuità nella diversità.
Per il resto rinvii.
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Una buona sintesi anche quella di Alessandra Carta su SardiniaPost.
L’idea di Sardegna illustrata da Solinas: “Ripartiamo dalla crisi, è un’occasione”
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