Monthly Archives: aprile 2019
Oggi mercoledì 24 aprile 2019
Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti————————-
Il 5 maggio a Nuxis nei luoghi della latitanza dell’Avv. Cadeddu, capo di Palabanda. Partecipate!
20 Aprile 2019
Nell’ambito delle iniziative su “Sa die de Sa Sardinia” ci rechiamo, accompagnati dalla locale Associazione Le Sorgenti, in pellegrinaggio laico nelle campagne di Nuxis nella Grotta di Conch’è Cerbu, dove l’Avv. Salvatore Cadeddu, capo della rivolta di Palabanda, trascorse alcuni mesi della sua latitanza fra la fine del 1812 e i primi mesi del 1813, […]
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Il 25 aprile del capitano verde a Corleone
24 Aprile 2019
Carlo Dore jr., su Democraziaoggi.
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Oggi giovedì 24 aprile 2019
Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti————————-
Il 5 maggio a Nuxis nei luoghi della latitanza dell’Avv. Cadeddu, capo di Palabanda. Partecipate!
20 Aprile 2019
Nell’ambito delle iniziative su “Sa die de Sa Sardinia” ci rechiamo, accompagnati dalla locale Associazione Le Sorgenti, in pellegrinaggio laico nelle campagne di Nuxis nella Grotta di Conch’è Cerbu, dove l’Avv. Salvatore Cadeddu, capo della rivolta di Palabanda, trascorse alcuni mesi della sua latitanza fra la fine del 1812 e i primi mesi del 1813, […]
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Spazi civici a Cagliari: il problema ( che non si vuole affrontare) è la gestione
La vicenda del “palazzo sorcesco”. Ristrutturazione (sa fabbrica de Sant’Anna) e il problema (mai affrontato adeguatamente) della gestione*. Oggi su L’Unione Sarda. Aladinews ne parla da tempo.
* Per la gestione di questo come di altri spazi/edifici occorre un apposito regolamento che il Comune di Cagliari non ha ancora adottato (nonostante le promesse anche a fronte delle nostre sollecitazioni**), dovendo ricorrere pertanto quando necessario a regolamentazioni ad hoc, che si prestano a critiche in fatto di dubbia imparzialità nelle scelte dei contraenti. Siamo fiduciosi che la prossima Amministrazione affronterà questa problematica non appena insediata. Al riguardo chiediamo che i candidati Sindaci inseriscano questo impegno nei programmi con i quali si presentano e chiedono il voto agli elettori (Francesca Ghirra e Matteo Lecis Cocco-Ortu conoscono bene l’argomento, che era stato oggetto di un incontro con l’Osservatorio dei beni comuni della Sardegna). Ne terremo conto. Noi assicuriamo fin d’ora la nostra collaborazione.
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UN ESERCIZIO GIAPPONESE. Città di Cagliari. REGOLAMENTO SULLA COLLABORAZIONE TRA CITTADINI E AMMINISTRAZIONE PER LA CURA, LA GESTIONE CONDIVISA E LA RIGENERAZIONE DEI BENI COMUNI URBANI[Aladinews 4 marzo 2017]
Abbiamo preso il Regolamento di Torino e l’abbiamo letteralmente ricopiato sostituendo a Città di Torino Città di Cagliari. E’ solo un esercizio alla “giapponese”, come si diceva un tempo perché erano i giapponesi i maestri del ricopiare/imitare. Oggi, invece, sono considerati tali soprattutto i cinesi. A prescindere, in questo caso vogliamo solo sostenere che a redigere un regolamento sui beni comuni urbani, di cui la Città di Cagliari è priva, basta poco: basta appunto copiare intelligentemente dalle migliori regolamentazioni (a cui corrispondano buone pratiche) conosciute. Noi vorremmo però arrivare all’approvazione formale di un regolamento (da parte del Consiglio comunale) attraverso un percorso di condivisione con i cittadini attivi e le loro organizzazioni associative. Spetta al Comune e, in particolare ai consiglieri comunali (tutti: di maggioranza e di minoranza) e, ovviamente, al Sindaco e alla Giunta, di avviare questo percorso partecipativo per arrivare rapidamente alla meta. Al riguardo il Laboratorio sulla Sussidiarietà (www.labsus.org) guidato dal prof. Gregorio Arena fornisce ogni necessario e qualificato supporto. Spetta poi all’Amministrazione comunale di dotarsi di un’adeguata organizzazione di carattere gestionale perché tutto venga concretamente attuato nel migliore dei modi. (Franco Meloni direttore di Aladinews e componente dell’Osservatorio Beni Comuni della Sardegna).
Europa, Europa
EUROPA. Lo spettro del sovranismo
partiti e movimenti
chi sono? e come si presentano alle elezioni europee?
Speciale di Ritanna Armeni e Andrea Gaiardoni, su Rocca.
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Europa: ragioni soggetti
effetti
di Ritanna Armeni
Indigniamoci pure contro il sovranismo e il populismo. Contro l’ondata xenofoba e di destra che travolge buona parte del mondo. Preoccupiamoci di come questa possa influire sulle prossime elezioni europee. C’è da avere paura. C’è davvero uno spettro che si aggira per l’Europa e non è certo quello previsto da Karl Marx nel suo Manifesto. Poi, dopo l’indignazione, la preoccupazione, facciamoci anche delle domande e tentiamo delle risposte. Perché siamo arrivati a questo punto? Quali sono i movimenti economici che sono alla base di un cambiamento epocale? Quali gli sconvolgimenti sociali che l’hanno provocato? Quali le assenze che hanno agevolato l’emergere del mondo brutto e cattivo che abbiamo di fronte? Chi sono i «nuovi barbari» che hanno distrutto le nostre certezze nel progresso, nella modernità, nei buoni sentimenti? È quello che fa egregiamente Marco Revelli nel suo libro «Politica senza politica». Sottotitolo: «Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre viste».
Lo studioso torinese, sempre attento e fuori dagli schemi e dai luoghi comuni, va alle radici della situazione che si vive in tante parti del mondo. Fa un’analisi, dà una spiegazione.
Intanto chi sono i soggetti protagonisti del sovranismo? Basta guardare i dati delle ultime elezioni nel mondo per rendersene conto.
per rancore e per rabbia
Il mondo si è rovesciato quando l’America profonda e sconfinata colpita dalla crisi economica ha votato Trump, abbandonando la political correctness di Obama, negando l’illusione di una globalizzazione progressista guidata dai grandi centri finanziari, rifiutando con Hillary Clinton l’impegno per i diritti individuali ormai sganciati da sviluppo sociale del liberal americani. Sono stati i farmers delle grandi pianure abbandonate dal progresso, il ceto medio marginalizzato delle piccole e medie città degli Usa, i metallurgici delle cinture dell’acciaio, i minatori del Kentucky. In gran parte, un tempo, elettori del partito democratico che si sono uniti nel voto allo zoccolo duro del partito repubblicano. Per rancore e per rabbia più che per fiducia, per un senso di tradimento, per un residuo, solo un residuo, di speranza di rivincita e di protezione. Si capisce meglio la crisi del modello progressista americano se si tiene presente che in questi ultimi anni hanno perso la casa trenta milioni di famiglie.
Rancore, abbiamo detto. Sì rancore. Il libro di Marco Revelli ci racconta come abbia attraversato l’oceano e sia diventato la Brexit inglese. Anche in questo caso l’esame sociale dei voti al referendum dovrebbe far riflettere. Se il sì all’Europa si è registrato nella Londra della City, nei centri della economia e della finanza globale e si è ridotto a volte considerevolmente fra gli abitanti delle campagne, nei vecchi insediamenti industriali ormai distrutti delle Midland, qualche ragione ci sarà. Il partito della Brexit è ancora una volta quello segnato dalla crisi della old economy. Il tipico elettore remain – scrive Revelli – è una ragazza scozzese con educazione universitaria. Il tipico elettore leave è un lavoratore manuale maschio che ha lasciato la scuola a sedici anni.
L’analisi può continuare verificando gli stessi risultati in Francia, dove la vittoria alle presidenziali di Emmanuel Macron non deve ingannare. La legge elettorale francese non può cancellare che il partito di Marine Le Pen ha ottenuto il voto delle famiglie con reddito basso, dei non acculturati, degli abitanti delle neglette campagne francesi (quelle da cui provengono i Gilets Jaunes). Ancora una volta, il fronte sovranista e populista è sostenuto da chi ha meno, da chi è stato colpito dalla globalizzazione e emarginato dal progresso.
la politica senza la politica
Marco Revelli fornisce, numeri, date, statistiche, analisi per molti paesi. Le caratteristiche sociali, i motivi di delusione, ribellione, rabbia sono sempre gli stessi, anche se declinati in modo differente in un mix che prevede xenofobia, omofobia, tentativi di ritorno a una tradizione che rifiuta ogni progresso culturale e come sappiamo, nei paesi dell’est, in autoritarismo razzista. Victòr Orban è il rappresentante più forte del «sovranismo di Visegrad». «Il suo modus operandi – scrive Revelli – riecheggia i risentimenti di quelle che un tempo erano chiamate classi lavoratrici, amareggiate a causa della stagnazione economica e piene di rancore verso una classe politica lontana e incestuosa».
Eppure sbaglierebbe chi pensasse che le motivazioni dei nuovi barbari siano solo economiche. Loro si sentono abbandonati, traditi, defraudati. Non hanno subìto solo il ridimensionamento del reddito ma anche «un processo di erosione dell’autostima, di cancellazione dell’identità collettiva e dell’identità individuale». Si tratta di una «folla solitaria», di «un’enorme massa d’individui che si sente abbandonata».
Il vento sovranista soffia più impetuoso e distruttore perché oggi c’è un’assenza, anzi come dice lo studioso torinese, un assordante silenzio. È la politica che manca, sono i partiti e la sinistra che hanno dato forfait lasciando coloro che rappresentavano soli e in balia della disperazione e del rancore. C’è da meravigliarsi se si sono affidati a forze nuove che hanno dato risposte facili, che sembrano venire incontro a delusioni e a paure? Questo è avvenuto. «La politica senza politica», senza cioè progetti di cambiamento che coinvolgano i soggetti che la ristrutturazione del mondo del lavoro ha emarginato distruggendo condizioni economiche ambientali e culturali non può che produrre quel che abbiamo sotto gli occhi. Ridare la parola, rompere il silenzio, rinnovare una presenza non è questione elettorale. È questione, molto, ma molto, più seria e importante.
Ritanna Armeni
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Tra i palazzi della politica europea
di Andrea Gaiardoni
C’è un nuovo confine in Europa. Sulle cartine non è segnato, non ancora almeno, ma sempre più sta i contorni del sovranismo assumendo i contorni di una frattura, di una profonda faglia ideologica che spacca in due il vecchio continente. Viene giù dal Mar Baltico, corre sulla frontiera tra Germania e Polonia, ingloba Repubblica Ceca, Austria, Slovenia, Croazia. E poi risale verso est, verso l’Ungheria, fino all’enormità della Russia. È l’onda sovranista, un miscuglio di nazionalismi, populismi, formazioni più o meno esplicitamente xenofobe, fieramente di destra, antieuropeiste, che strizzano l’occhio ora a Putin, ora a Trump, alla ricerca di un punto d’equilibrio che, oggi, sembra ancora lontano. Ma che esiste, a fatti e a proclami. Nel gruppone dei sovranisti si può inserire in pianta stabile, ma non ancora preponderante, anche l’Italia. O almeno così vorrebbe Matteo Salvini, leader della Lega, che ambirebbe a prenderne addirittura il timone con la fondazione di un nuovo gruppo, al termine della prossima tornata elettorale europea, alla fine di maggio.
i contorni del sovranismo
Per chiarezza: il termine «sovranismo», secondo l’enciclopedia Treccani, indica la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione». Come dire: a casa nostra decidiamo noi. L’esatto opposto di un’Europa intesa come federazione di Stati, con una sintonia d’intenti economici, sociali e politici.
All’interno di questo «movimento», per così definirlo, c’è in realtà un po’ di tutto: dai partiti di governo in Polonia e in Ungheria (stati che si sono distinti in questi ultimi anni per aver attuato politiche ultraconservatrici e liberticide, e sui quali pendono procedure d’infrazione proprio da parte della Commissione Europea per violazione dei diritti umani) all’estrema destra xenofoba, dagli euroscettici (eufemismo) ai populisti.
In generale si tende a racchiudere in questo ampio recinto proprio le formazioni politiche che alzano la bandiera della chiusura dei propri confini. Come l’Ungheria di Victor Orban. Che in nome della difesa assoluta delle proprie frontiere, e di tutto ciò che al suo interno accade, ha di fatto ridotto rilevanti spazi di libertà: ha rifiutato in ogni modo l’accoglienza ai migranti, ha bloccato l’ossigeno dei finanziamenti alle Ong, ha spazzato via i vagabondi, messo la sordina ai media, condizionato l’indipendenza dei giudici, calpestato i diritti sociali con la riforma del diritto allo sciopero. Da queste parti non abita più la solidarietà.
O come il resto del cosiddetto Gruppo di Visegrad (l’alleanza politica, culturale e militare che lega, oltre all’Ungheria, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia). Con qualche distinguo però: il rapporto con la Russia di Putin ad esempio. Cordialissimo con Viktor Orban, mentre è pessimo con il premier polacco Mateusz Morawiecki (per motivi non soltanto politici ma economici), il quale ha invece stretto una solida alleanza con gli Stati Uniti. Il che pone un serio problema di coesistenza.
la galassia della destra radicale
Comunque sia, la frattura geografica e ideologica esiste, è reale e torna a dividere ovest ed est. Una frattura che nel breve periodo potrebbe pesare sulle elezioni che disegneranno il prossimo Parlamento Europeo. Molti slogan a effetto, titoloni sui giornali: uno spettro, a volte solo agitato, a volte fomentato, che davvero s’aggira tra i palazzi della politica europea, ma che probabilmente avrà minor impatto rispetto a quel che si teme.
Stando alle stime più ottimistiche, a oggi, l’insieme dei partiti euroscettici, sommando i potenziali seggi dei partiti più intransigenti e quelli più «soft», raccoglierebbe tra i 150 e 170 seggi al Parlamento Europeo (ma c’è anche chi accredita i sovranisti di 90 seggi e non di più), sui 705 posti disponibili, pari a circa il 20% del totale.
In questo schieramento sono compresi l’Ecr (il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei), l’Enf (Europa delle Nazioni e delle Libertà) e l’Efdd (Europa delle Libertà e della Democrazia Diretta). Da questi raggruppamenti, dopo le elezioni, dovrebbe nascere l’Eapn (Alleanza Europea dei Popoli e delle Nazioni), promossa proprio dal leader della Lega, Matteo Salvini, in un incontro che si è tenuto alcuni giorni fa a Milano, al quale hanno partecipato varie forze politiche: dal tedesco Jorg Meuthen (Afd, Alternative für Deutschland) al finlandese Olli Kotro (Finn Party), fino al danese Andres Vistisen (Dansk Folkeparti). Salvini, al termine dell’incontro ha dichiarato sui social: «Orgoglioso della prima conferenza internazionale di quest’alleanza che parla di futuro, per riportare al centro il lavoro, la famiglia, la sicurezza, la tutela dell’ambiente. Noi guardiamo avanti, con l’obiettivo di riportare i Popoli al governo anche in Europa». Per poi aggiungere: «In questa nuova Europa non c’è spazio per i nostalgici e nemmeno per i burocrati, per i banchieri, per i buonisti». Ancor più esplicito Jörg Meuthen, portavoce federale di Afd: «Da oggi vogliamo dimostrare che le forze patriottiche e di destra hanno intenzione di non frammentarsi nel Parlamento Europeo, ma di procedere insieme con uno stesso scopo, vale a dire rivedere tutta la politica europea che oggi provoca danni a tutti i cittadini europei. Vogliamo riformare l’Unione europea e il Parlamento Europeo, ma senza distruggerli. Vogliamo portare un cambiamento radicale».
Salvini può anche contare sul sostegno del Rassemblement National di Marine Le Pen e dei sovranisti austriaci. Ma i «pesi massimi» del sovranismo ancora non si sono esposti. Fidesz, il partito del premier ungherese Orban, fa ancora parte del PPE (Partito Popolare Europeo) nonostante una minaccia di espulsione sostenuta anche dal presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker: «Da almeno due anni Orban si è allontanato dai valori di fondo cristiano-democratici del Partito popolare europeo» – è il parere di Juncker. «E se Orban non condivide questi valori, il suo posto è fuori dal Ppe». Ma una decisione non è stata ancora presa. Mentre Diritto e Giustizia (Pis), partito del premier polacco Kaczynski, continua a far parte di ECR, nonostante i tentativi di corteggiamento, per così dire, di Salvini. Pochi giorni fa l’eurodeputato Ryszard Legutko, braccio destro del premier e autorevole esponente del Pis, ha definito positivi gli incontri tra Kaczynski e Salvini, ma ha bocciato l’idea della cosiddetta «opzione zero» proposta dal leghista: vale a dire cancellare i gruppi esistenti che attualmente accolgono i partiti della destra più radicale e formarne uno nuovo. L’EAPN, appunto. «Per noi questo piano è semplicemente irrealistico», ha tagliato corto Legutko. «Per noi la base del futuro dovrà continuare ad essere l’Ecr».
critiche dall’Italia
Anche gli altri partiti della destra italiana non vedono di buon occhio l’iniziativa e si collocano in ordine sparso. Stabilmente nel PPE Forza Italia, con Antonio Tajani, peraltro attuale presidente del Parlamento Europeo, che critica apertamente il vicepremier leghista: «L’alleanza con Alternative für Deutschland equivale a mettere a repentaglio l’Italia» – commenta Tajani. «È un partito che attacca il governo tedesco accusandolo di essere stato troppo morbido nei confronti della Grecia, ma anche dell’Italia e del Portogallo».
Fratelli d’Italia fa invece parte del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr). E anche Giorgia Meloni non è stata tenera con Salvini: «Precisiamo: i veri sovranisti siamo noi, loro sono populisti» – ha dichiarato. «Il nostro obiettivo è costruire una nuova maggioranza in Europa che vada dai popolari ai populisti con noi dei Conservatori e Riformisti a fare da ponte. Da questo punto di vista è un bene che Orban sia rimasto nel Ppe perché spinge nella nostra direzione».
Critiche sono arrivate anche dal Movimento 5 Stelle, che non si può propriamente definire formazione di destra, ma che in quest’alveo sta cercando di costruirsi una casa solida a livello europeo. «Sono preoccupato per questa deriva di ultradestra a livello europeo, con forze politiche che faranno parte del gruppo con cui si alleerà la Lega che, addirittura, in alcuni casi, negano l’Olocausto» – ha dichiarato Luigi Di Maio. Per la cronaca, il 23 gennaio scorso i deputati di Afd hanno abbandonato l’aula del Parlamento bavarese durante la commemorazione della Shoah, rispondendo così alle critiche della comunità ebraica che li aveva accusati di minimizzare i crimini nazisti e l’Olocausto. Al momento i 5 Stelle sono membri dell’EFDD, nono- stante abbiano tentato di aderire (respinti) al gruppo dei liberali Alde.
In sostanza una galassia profondamente divisa, apparentemente inconciliabile, tutti alla disperata ricerca di un «ruolo chiave» e assai poco amalgamabile attorno a un programma, a una visione che vada oltre l’assemblaggio elettorale. Che diverge non soltanto sulle alleanze, ma anche sulle prospettive. A partire da quelle economiche. Il «giocattolo» europeo fa comodo a molti Stati, soprattutto dell’Est Europa. Gli ultimi dati ufficiali, che risalgono al 2017, certificano che l’Ungheria ha versato all’Unione 820 milioni di euro, incassando 4,049 miliardi. Per restare al Gruppo di Visegrad: la Slovacchia ha versato 646 milioni di euro per riceverne 2,662 miliardi. La Repubblica Ceca 1,361 miliardi contro 4,690. Cifre ben più alte per la Polonia: 3,048 miliardi di euro versati nel 2017, con un ritorno di 11,921 miliardi. Vuol dire che a Varsavia, ogni settimana, arrivano 170 milioni di euro. Economie che, senza troppi giri di parole, non sopravvivrebbero senza gli aiuti europei. Un dato che aiuta anche a comprendere come mai alcune formazioni estremiste, da sempre critiche nei confronti dell’Ue, abbiano sfumato le loro posizioni non appena conquistato un ruolo di governo.
l’ultimo sondaggio:
Ppe in calo, ma sempre in testa
Insomma, l’onda sovranista non sembra avere ancora la forza per travolgere l’Unione Europea. Secondo l’ultimo sondaggio realizzato da Eurobarometro, il 27 marzo scorso, il PPE (Partito Popolare Europeo) sarebbe in testa con 188 seggi (ne perderebbe 29 rispetto agli attuali 217), seguito da S&D (il gruppo dei Socialisti e democratici) con 142 seggi (attualmente ne ha 186, dunque un calo drastico di 44 seggi). La vera notizia è che questi due gruppi, assieme, non avranno la maggioranza dei seggi all’Europarlamento: non accadeva dal 1984. Terza forza, sempre stando alle rilevazioni di Eurobarometro, sono i liberali di Alde (72 seggi), poi l’alleanza dei Verdi (51 seggi, ne perderebbe uno soltanto) e la Sinistra Unitaria Europea (49 seggi).
E il gruppo dei sovranisti? L’Enf, il gruppo più forte, conquisterebbe 61 seggi, seguito da Ecr (53) e Efdd (30 seggi). Anche immaginando un’improbabile alleanza di questi tre gruppi si arriverebbe ai numeri di S&D.
Non proprio una spallata. Ma una presenza sì e anche di un certo peso: la destra radicale c’è e conquista spazi di consenso e di visibilità fino a poco tempo fa impensabili. I movimenti sovranisti fanno attualmente parte, con differenti gradazioni d’intensità, delle maggioranze di governo in 11 paesi dell’Unione Europea. Oltre all’Italia e alle già citate Polonia e Ungheria, c’è l’Austria, la Finlandia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, la Bulgaria, la Romania, la Lettonia e la Grecia.
È lecito chiedersi: i rappresentanti di questi paesi eletti a Bruxelles come si comporteranno in tema di politica estera, di accoglienza, di rispetto dei diritti umani? L’European Council for Foreign Relations, in una ricerca pubblicata pochi mesi fa, ha scritto che «i partiti antieuropeisti potrebbero bloccare il Parlamento europeo dopo le elezioni di maggio». Bloccare forse è eccessivo, ma ostacolare e condizionare certamente sì. Anche perché, nel lungo periodo, nulla esclude che il blocco sovranista possa addirittura crescere. Sottovalutare, oggi, il peso di questa presenza sarebbe un grave errore.
Andrea Gaiardoni
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Le illustrazioni sono tratte da Rocca
Martedì 23 aprile 2019
Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti————————-
Abbiamo impugnato la legge elettorale sarda
20 Aprile 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Il 5 maggio a Nuxis nei luoghi della latitanza dell’Avv. Cadeddu, capo di Palabanda. Partecipate!
20 Aprile 2019
Nell’ambito delle iniziative su “Sa die de Sa Sardinia” ci rechiamo, accompagnati dalla locale Associazione Le Sorgenti, in pellegrinaggio laico nelle campagne di Nuxis nella Grotta di Conch’è Cerbu, dove l’Avv. Salvatore Cadeddu, capo della rivolta di Palabanda, trascorse alcuni mesi della sua latitanza fra la fine del 1812 e i primi mesi del 1813, […]
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La Costituzione nata dalla Resistenza è ormai l’unica arma di “resistenza” contro il dilagante degrado
23 Aprile 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Sa die de Sa Sardigna. Domenica 28 aprile 2019
Sa die de Sa Sardigna
Domenica 28 aprile 2019 – Edizione 2019
Programma delle manifestazioni a Cagliari
Per una LETTURA MESSIANICA della CRISI. Parlano i TEOLOGI.
Cristo non è un cognome
PER UNA LETTURA MESSIANICA DELLA CRISI
I nomi da dare alle cose non a partire da sé, ma a partire dagli altri. Uno della Trinità ha patito: la sofferenza entra in Dio che si scambia con gli uomini, la prassi messianica è assumere la sofferenza e rendersi vicini all’uomo sfinito. “Il messia sono io”
di Giuseppe Ruggieri
Quella che voglio offrirvi è una meditazione teologica sulla crisi che stiamo attraversando. Il Novecento è stato percorso da crisi varie. Quella che oggi caratterizza il nostro essere in questo mondo trova la sua origine nella dissoluzione dell’Impero sovietico dal dicembre 1990 al dicembre 1991, con il conseguente trionfo dell’economia occidentale come unico vincitore rimasto sul terreno, trova la sua articolazione politica nel discorso del presidente Bush dell’11 settembre 1990 sul “nuovo ordine mondiale”, sfocia nella criminale guerra all’Iraq ad opera delle potenze occidentali, compresa la nostra, matrice vera del fondamentalismo violento dell’Islam, ma corrode anche al suo interno la cultura dell’Occidente. Lo Stato di diritto è in frantumi, le grandi dichiarazioni sulla pari dignità delle donne e degli uomini tutti, a partire da quella delle Nazioni unite del 1948 sono diventate carta straccia.[1] Di questa crisi tuttavia non dobbiamo mai occultare il vero agente, più o meno occulto e ultimo beneficiario: il capitalismo finanziario.
Il teologo non ha in proprio analisi da offrire in concorrenza con le letture sociologiche, economiche, culturali. Come diceva il vecchio Karl Barth egli è unicamente affidato alla lettura dei giornali e alla Bibbia. Ed è alla luce della Parola di Dio che cerca di comprendere il senso di quello che ci sta succedendo, di quanto raccontano i giornali e gli altri mezzi di comunicazione. Alla sorgente della Parola attinge i nomi da dare alle cose. Impresa certamente difficile, ma compito urgente e necessario per ogni scriba “divenuto discepolo del regno dei cieli, simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13, 52).
Il coraggio di dare un nome alla crisi
«Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in Borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”»[2].
Cosa dice papa Francesco in questo brano della sua esortazione “Evangelii Gaudium”? Non emette una teoria economica, non fa un’analisi sociologica. Enumera alcuni dati che sono sotto gli occhi di tutti.
Il primo tocca la prassi della comunicazione, ciò che fa notizia nei giornali e nella televisione di ogni giorno: non fa notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre fa notizia il ribasso di due punti in Borsa.
Il secondo fatto si riferisce ad un costume purtroppo diffuso: si getta il cibo, quando c’è gente che soffre la fame.
A questi fatti papa Francesco dà una serie di nomi: la prassi della comunicazione nella nostra società si chiama “esclusione”, mentre lo spreco del cibo quando ci sono affamati che ne hanno bisogno, si chiama inequità. Gli altri nomi dati a questi fatti sono perifrasi di questi due: la legge del più forte, la cultura dello scarto; gli esclusi in particolare vengono chiamati rifiuti, avanzi.
I nomi che il papa dà ai fatti sono già per se stessi – attenzione! – un giudizio netto, di ordine morale, che sfocia in una pratica: non si può più tollerare il fatto, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e dell’inequità. Quei nomi rivelano cioè, per il fatto stesso di essere pronunciati, l’opzione etica del papa. Non sono argomenti; dare il nome non è un argomento, è la fonte degli argomenti. Dare il nome è un atto primario, costitutivo dell’essere umano.
Qual è infatti la portata dell’atto del nominare? La Genesi, nella seconda narrazione della creazione, dice che non è Dio che dà il nome all’uomo, ma è l’uomo che riceve il potere di dare i nomi: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici” (Gen 2, 19-20a). E poi man mano per sempre l’uomo darà il nome ai propri figli, a cominciare da Eva. È lei che chiama il suo primogenito “Caino” perché è convinta di averlo acquistato da Dio (dal verbo qanah, in ebraico).
Nell’atto di nominare si celebra la libertà dell’uomo
Il testo della Genesi fa una distinzione che a noi può apparire strana. Dio “sta a vedere” come l’uomo chiama gli esseri viventi, non le cose inanimate. Dare il nome è un compito che ci viene affidato lì dove c’è vita. Dio ci affida questo compito e sta a vedere, per “vedere” il nome che diamo a tutto ciò che vive, nome che quindi risulta imprevedibile, proprio perché dove c’è vita c’è la libertà. Colpisce anzitutto la passività di Dio rispetto all’uomo che deve dare un nome. Perché?
Nell’atto di nominare si celebra la libertà dell’uomo. L’uomo infatti proprio allora può mentire o non mentire, dare agli esseri viventi e ai loro rapporti un nome che non corrisponda alla realtà dei fatti, ma soltanto ai propri interessi. Questa è la menzogna, radice di ogni violenza, come spiega Gesù nel vangelo di Giovanni. Gesù rimprovera i Giudei (che per lo più, nel IV vangelo, stanno come sinonimo per il mondo che non crede, non in primo luogo per il popolo dei Giudei) rimprovera coloro che non ascoltano le sue parole e li chiama così, “figli del diavolo”, perché? Perché è il diavolo che fin dall’inizio è il principio di ogni violenza e menzogna. E ciò perché egli parla a partire dalle cose che gli appartengono (Giov 8, 43-44). La menzogna è dare un nome a partire da me, da ciò che è mio, mentre la verità è dare un nome a partire dall’altro.
Noi pensiamo che l’anziano che muore assiderato non faccia notizia, perché ci voltiamo dall’altra parte e preferiamo non essere disturbati nel nostro quieto vivere; consumiamo e buttiamo via più di quanto abbiamo di bisogno perché volutamente ignoriamo la fame degli altri. Per questo nella nostra società del cosiddetto benessere non si usa dare il nome a questi fatti, come invece fa papa Francesco. O meglio diamo altri nomi. Ad esempio, gli uomini e le donne che abbandonano il loro paese perché c’è la fame o la guerra, sono invasori, mettono a rischio i nostri posti di lavoro, sono terroristi. L’ultimo, il più terribile, lo abbiamo dato a quei migranti che hanno costretto il capitano della nave a non riportarli in Libia ma a portarli verso un porto sicuro. Li abbiamo chiamati “pirati”. Ecco la menzogna.
E allora comprendiamo perché Dio sta a vedere, come uno spettatore. E comprendiamo altresì la profonda intuizione, all’inizio del Novecento, dell’ebreo Walter Benjamin, in un meraviglioso articolo pubblicato anche in italiano, “sulla lingua dell’uomo”, secondo il quale l’uomo nel dare i nomi, rivela se stesso, si rivela a sé, agli altri, a Dio[3]. Perché dare il nome implica una scelta, o quella di parlare a partire dalle cose che ci appartengono, oppure di parlare a partire dall’altro, avvicinandosi a lui, con un atto di responsabilità nei suoi confronti, ascoltandolo.
Il nome dato da Gesù
Chiediamoci allora quale fu il nome che Gesù diede a coloro che papa Francesco ha chiamato esclusi, deboli, scarto operato dall’economia che guida il nostro sistema. Per comprenderlo, dobbiamo partire dalle sue scelte, quelle che segnarono la sua esistenza pubblica. Furono tre le scelte di Gesù, fondamentali. La prima fu quella di mettersi al seguito di Giovanni Battista e forse, stando almeno alla notizia del IV vangelo (Giov 3, 22-26) si mise a battezzare come lui. Ma poi ne prese le distanze e fece una seconda scelta che, come dice il padre Nolan, il domenicano che vive in Sudafrica e ha ispirato la lotta all’ “apartheid”, è una “chiave insostituibile per comprendere la mente e le intenzioni di Gesù”. Questi ritenne che non era prioritario invitare il popolo a farsi battezzare con un battesimo di penitenza. “Egli decise che era necessario qualcosa d’altro, qualcosa che aveva a che fare con i poveri, i peccatori e i malati – le pecore perdute della casa d’Israele.”[4]
La terza scelta poi fu quella di affrontare la morte. Ma fermiamoci per ora alla seconda, perché è quella che ci fa comprendere meglio le parole di Francesco.
Chi erano coloro ai quali Gesù volse la sua attenzione? I vangeli li indicano con termini vari: poveri, ciechi, storpi, lebbrosi, affamati, quelli che piangono, peccatori, prostitute, agenti delle tasse, ossessi, perseguitati, prigionieri, affaticati e oppressi, piccoli, ultimi, folla che non conosce la legge. Secondo l’opinione dei farisei, espressa in Giov 7, 49, «questa gente che non conosce la Legge è maledetta». Per Gesù invece la folla è: “pecore che non hanno un pastore” (Mc 6, 34 = Mt 9, 36). Matteo in aggiunta sottolinea due volte che Gesù “è stato inviato alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15, 24; cf. 10,6). A tutti costoro, assieme ai miti, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per la sua causa, ai quali egli si sente inviato per annunciare l’amore del Padre, Gesù dà un nome: “beati”. Non è un nome che hanno ricevuto per la posizione che occupano, né perché soffrono. No, è il nome che Gesù dà a partire dalla sua conoscenza del Padre. Il nome che Gesù dà lo può dare solo lui, perché viveva nell’intimità del Padre. Perché nelle Beatitudini “beati” significa semplicemente questo: quelli che Dio predilige nel mondo. Soffrano o non soffrano, questo è il significato; lo ha spiegato molto bene il padre Dupont nel suo grande Commentario alle Beatitudini. Questo è il significato del termine “beati”. Quelli che Dio ama.
Cosa muove allora Gesù a dar loro questo nome? I vangeli sinottici ci aprono uno spiraglio dicendoci che Gesù nei loro confronti aveva un sentimento di partecipazione alla loro sofferenza di tipo “fisico”, “corporeo”; i vangeli usano un termine che ha sempre un significato messianico: Gesù sentì “nelle viscere” – (noi abbiamo tradotto questa parola con “compassione”, non dice molto, bisogna tradurla alla lettera) – si sentì sconvolto “nelle viscere” al vedere quella gente Quello è il termine che usano i vangeli. Si tratta del verbo splanchnizomai (alla lettera: commuoversi nelle viscere), applicato esclusivamente a Gesù (con pochissime eccezioni che confermano l’uso cristologico).
Allora perché noi chiamiamo Gesù Messia? Gesù non fu come tutti i messia proclamatisi in quel tempo: chi era un sollevatore politico, chi era atteso come il condottiero che avrebbe portato la guerra contro i Romani, contro i nemici di Israele ecc. I discepoli lo chiamarono così perché il più grande dei profeti, Isaia, aveva predetto che questa figura attesa, il Servitore di Dio, si sarebbe caricato delle nostre sofferenze, uomo dei dolori che ben conosce il patire, e, mentre noi tutti eravamo come un gregge e ognuno di noi seguiva la sua strada, lui fu condotto come pecora muta al macello. Ma Dio stesso gli avrebbe dato una discendenza (cf. Is 52, 13 – 53, 12, il quarto canto del Servitore). E quindi sebbene Gesù non si fosse mai chiamato messia, i discepoli lo chiamarono prevalentemente così, senza disdegnare altri nomi (Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, Signore, ma anche “servo” come attesta il Pastore di Erma, etc. ). Fu per questo motivo che le profezie di Isaia diventarono per i primi discepoli una griglia attraverso la quale leggere la vicenda di Gesù di Nazaret.
E allora: le vittime della crisi vengono chiamate esclusi e merce di scarto da Papa Francesco il quale proprio così dice la verità, e si rivela a sé, a noi tutti e a Dio; Gesù dà loro il nome di beati perché lui conosce i sentimenti del Padre e noi diamo a Gesù il nome di messia perché conosciamo che egli si è caricato dei nostri dolori ed è stato per questo esaltato dal Padre. Ma fin dalle origini, a partire da Antiochia nel primo secolo, noi ci chiamiamo cristiani, cioè messianici, perché Cristo significa messia, e cristiani significa messianici; ma ormai abbiamo tutti scambiato Cristo per un cognome e perciò c’è poco da fare…
Il messia sono io
(cioè noi tutti)
Emmanuel Lévinas, autore rigorosamente ebreo anche se grande amico dei cristiani, fino ad accettare di fare una conferenza sul significato filosofico dell’incarnazione (Un Dio uomo?),[5] raccolse nel 1963 una serie di testi pubblicati lungo una ventina d’anni nei quali risale alle sorgenti del pensiero ebraico, che – dice lui – l’Occidente cristiano aveva occultato. Uno di questi testi è dedicato all’identità del messia. Per spiegare quale sia questa identità (Lévinas era un ebreo, non aspettava un Messia), per spiegare chi dovesse essere considerato messia Lévinas, alla maniera di un vero e proprio maestro talmudico, citava un brano della Bibbia, quindi l’interpretazione che ne aveva dato un rabbino del passato, e quindi la sua interpretazione (lui amava fare letture dei testi del Talmud avendo appreso l’esegesi talmudica alla scuola di un grande maestro di cui non conosciamo il nome). Il brano della Bibbia commentato da un maestro del passato è quello di Geremia 30, 21, che riporta le parole del profeta sulla restaurazione futura di Israele: “Avranno come capo uno di loro, un sovrano uscito dal loro popolo; io lo farò avvicinare a me ed egli si accosterà. Altrimenti chi rischierebbe la vita per avvicinarsi a me? Oracolo del Signore”. Il maestro è un certo Nachman, un maestro talmudico vissuto in Babilonia e morto nel 320 d. C., che commentava così: Se è tra i viventi allora sono io. È scritto: «Il suo capo sorgerà dal suo interno, e il suo sovrano dai suoi ranghi».
Di questo commento di Nachmann tradizionalmente, dice Lévinas, si dava questa interpretazione: siccome lui si riteneva un discendente di David, allora se il messia è uno del suo popolo, diceva, sono io! No, non è questa l’interpretazione dice Lévinas e propone un’altra interpretazione: “il Messia è il principe che governa in maniera tale che la sovranità non sarà più sottratta a Israele. È l’interiorità assoluta del governo. C’è forse un’interiorità più radicale di questo, in cui il Me comanda a se stesso?” (Lévinas chiama l’Io “Me”, come complemento oggetto, perché l’Io si costituisce per Lévinas solo quando diventa responsabile dell’altro. Questo è l’ipseità, quando io posso dire Me a qualcuno che mi risponde e mi sta di fronte e soprattutto assumo la sua sofferenza). Continua Lévinas: “Il Messia è il re che non comanda più dal di fuori: questa idea di Geremia è condotta da Rav Nachman fino alla sua logica conclusione. Il Messia sono Me, ed essere Me è essere Messia. Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri. D’altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice “Me”? L’ipseità è definita da questo non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri. Tutte le persone sono Messia.” [6]
Non sto a spiegare il pensiero di Lévinas e la sua filosofia della coscienza umana. Mi limito a dire, che contrariamente a tutto l’idealismo e alla stessa fenomenologia di Husserl e Heidegger, egli era convinto che noi perveniamo alla coscienza di noi stessi non nell’autoaffermazione della nostra identità rispetto a tutto ciò che è diverso da noi, ma solo nell’incontro con l’altro. L’io autentico è quello che comanda a se stesso, ma perviene a questo stato solo nella misura in cui ha preso su di sé la sofferenza degli altri. Ma è proprio questa la concezione tradizionale ebraica della figura del messia. E non a caso il capitolo centrale del libro della sua maturità, Altrimenti che essere, è dedicato proprio a questo, alla “sostituzione”, perché l’uomo che veramente arriva a se stesso è colui che si sostituisce all’altro.
Il ministero dello scambio
Per me, leggendo le sue pagine, è stata immediata la coincidenza del suo pensiero con quello di un altro grande ebreo, Paolo, sullo “scambio” come centro profondo del vangelo e del suo messaggio. Si tratta del testo di 2Cor 5, 17-21, ma tradotto da un grande teologo tedesco, Erich Przywara, tradotto anche qui alla lettera. Come io ho tradotto alla lettera lo splanchnizomai, così lui traduce alla lettera la parola katallagé di Paolo, che significa “scambio”. Noi lo traduciamo per lo più in “riconciliazione”, ed è un significato possibile perché è derivato, però il significato principale è “scambio”. Dio ci ha scambiato con se stesso in Gesù Cristo e Gesù, che non conosceva peccato, è stato fatto perfino peccato da Dio, scambiato con l’uomo peccatore, sostituito a noi, e Gesù ci ha lasciato “il ministero dello scambio”, cioè della sostituzione all’altro. Questo è l’essere messianico. È per questo che Lévinas può dire: il messia sono io, ed è per questo che se credete in Gesù potete dire – ognuno di voi – : il messia sono io. Rileggiamo pertanto in tal modo quel brano di 2Cor 5, 17-21:
«17 Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. 18 Tutto questo però viene da Dio, che ci ha scambiati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero dello scambio. 19 Era Dio infatti che scambiava con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola dello scambio. 20 In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi scambiare con Dio. 21 Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.»
Il testo della 2° ai Corinti è un testo densissimo, che contiene tutto il vangelo, e unisce in un nesso ormai inestricabile la realtà dell’uomo storicamente esistente e il Padre di Gesù. Giacché l’uomo non è natura o essenza astratta, ma è sempre carico di storia, quella del rifiuto e quella del desiderio dell’amore. Le religioni che cercano di ricostituire e mantenere il legame dell’uomo con Dio sono tutte strade di purificazione dell’uomo dal peccato, in diverso modo dal buddismo a tutte le altre. Il cristianesimo no. Il cristianesimo annuncia il perdono mentre l’uomo è peccatore, annuncia l’amore e impone di proclamare l’amore mentre l’uomo è peccatore. “In questo Dio ci ha dimostrato il suo amore per noi perché il Figlio suo, mentre eravamo peccatori, è morto per noi”.
La prassi messianica
Dice il papa nell’intervista che dà al direttore della Civiltà Cattolica nell’agosto del 2013:
«Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità [7]. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».[8]
L’immagine della Chiesa come ospedale da campo, in cui il medico di fronte alla gravità delle ferite, non sta a indugiare sulle condizioni del ferito, ma interviene immediatamente, è alquanto strana. È la negazione di qualsiasi ideologia religiosa, di qualsiasi dottrina del diritto naturale sulla quale è stata costruita la cosiddetta dottrina sociale della chiesa, di qualsiasi filosofia politica che ha guidato il cosiddetto impegno politico dei cattolici. Il papa dice che tutto ciò è secondario davanti all’impegno primario: anzitutto curare, “poi potremo parlare di tutto il resto”.
Il criterio primario
La sofferenza dell’altro diventa così il criterio primario che deve spingere la mia coscienza ad agire, mi deve rendere responsabile. Nel libro di Giobbe c’è a tal proposito un testo bellissimo che io amo forse più di tutti gli altri testi della Bibbia. Dice: “All’uomo sfinito è dovuta pietà/hesed dagli amici, anche se si fosse allontanato dal timore di Dio” (6, 14). Davanti all’uomo sfinito non c’è religione, non c’è nulla, c’è semplicemente da rendersi vicini a lui, con l’hesed, che indica pietà, solidarietà, misericordia. La distretta umana – anche quella del peccato – esige comunque la pietà/hesed, termine che nell’AT comprende quello di misericordia. La sofferenza per il vangelo di Gesù è più di un sacramento. Come dice papa Francesco nella Evangeli Gaudium è la stessa “carne sofferente di Cristo nel popolo”.[9]
La Trinità ha patito
Se non comprendiamo tutta la portata teologica e umana della sofferenza, ogni discorso sulla prassi dei cristiani, cioè dei messianici, diventa profondamente falsata. La portata teologica della sofferenza la dobbiamo leggere nella stessa storia della fede in Gesù come Messia. I discepoli all’inizio rifiutarono quella che ho chiamato la terza scelta di Gesù: la disponibilità ad affrontare la morte. Nel modo più realistico e crudo ce lo dice il vangelo di Marco che nota, al momento dell’arresto di Gesù, come “tutti allora abbandonandolo fuggirono” (Mc 14, 50). Quando i discepoli superarono lo choc e cominciarono a sperimentare il Crocifisso risorto ancora presente in mezzo a loro, dovettero accettare che la sua morte coinvolgeva la volontà stessa di Dio che, proprio per il dono totale che egli aveva fatto della sua vita, lo aveva esaltato. Da quel momento coloro che credettero e continuano ancora adesso a credere in Gesù sono obbligati a comprendere il nesso tra sofferenza e Dio. Il IV vangelo formula chiaramente il nodo che le generazioni seguenti dovevano sciogliere: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. È questa la gloria del Figlio sulla croce, perché la gloria del Figlio, nel IV vangelo, è quella che appare sulla croce. Gesù nel quarto Vangelo risorge sulla croce. La gloria del Padre (anzi,stando al significato originale del termine kabod, che significa “pesantezza”), la pesantezza di Dio che irraggia la gloria del Padre si manifesta in colui che adempiendo la sua volontà accetta fino in fondo di donare la propria vita. Ma questo significa riportare la sofferenza del Crocifisso dentro Dio stesso. Ed è proprio qui che inizia il travaglio della mente dei cristiani. Giacché questo implica che la storia di Gesù, figlio di Dio, sia assunta all’interno della vita stessa di Dio, di un Dio che allora “patisce”, anzi “muore”, come Tertulliano enunciava già con semplicità e senza approfondimenti in Adversus Marcionem II, 16. E il nodo viene sciolto in qualche modo nel VI secolo con la cosiddetta formula teopaschita, sostanzialmente accolta da papa Ormisda nel 521: “Unus de Trinitate passus est”, e poi confermata nel 553 dal Costantinopolitano II che ci chiede di credere che “al Verbo di Dio incarnato e fatto uomo, appartengono sia i miracoli che le sofferenze che volontariamente ha sopportato nella sua carne”.[10]
La Trinità ha patito, la sofferenza entra in Dio. Ovviamente c’è tutto un approfondimento teologico che si è misurato su questo, ed è uno dei temi più forti della teologia attuale. Ma questo è il punto: Deus patiens, un Dio che patisce, la sofferenza entra nella sfera propria di Dio. Ma alla luce di questo possiamo comprendere il detto di Giobbe: l’uomo che soffre, sia religioso o no, si sia allontanato o no dal timore di Dio, ha diritto alla nostra partecipazione, al nostro hesed che sta a significare “magnanimità, disponibilità dell’umano a rinunciare a se stessi ed essere per l’altro”[11]. La sofferenza è lo strato più profondo dell’umano, quello che richiede una solidarietà assoluta, senza condizioni. Nella sofferenza dell’altro, così com’è, nella sua cruda realtà, senza nessuna spiegazione aggiunta, neppure di ordine religioso, l’uomo è chiamato a rispondere di se stesso all’altro. È la sofferenza dell’altro che ci detta allora la prassi adeguata.
Questa fu la prassi messianica di Gesù davanti alle ferite non solo fisiche, ma anche morali della gente che incontrava. Ai peccatori e alle prostitute, emarginati dalla società religiosa del suo tempo, Gesù offre immediatamente la sua vicinanza, come prossimità dell’amore misericordioso di Dio. Al popolo della terra, am ha aarez, che egli percepisce come un gregge disperso egli si sente vicino in modo viscerale, si preoccupa della sua sussistenza, comanda ai discepoli di distribuire quel poco che hanno: non di moltiplicare i pani ma di distribuire quel poco che hanno, ciò da cui verrà la sovrabbondanza. Al lebbroso emarginato dalla società civile e religiosa, con gli stessi sentimenti, offre la possibilità di reintegrarsi subito nella società religiosa.
La lacerazione del 1789 determinò una svolta nella prassi dei cristiani. La chiesa si sentì estromessa dal nuovo assetto sociale e culturale. Quando cominciò lentamente, nel corso dell’800, a invitare i cristiani ad assumere la loro responsabilità nella società considerata nemica della Chiesa, lo fece in nome di una dottrina sociale che un grande storico e teologo al tempo stesso, come il padre Chenu, considerò una ideologia orientata al controllo delle dinamiche sociali.[12] Una ideologia che prendeva le distanze dalle altre concorrenti, come il liberalismo da una parte e il socialismo dall’altra, innalzando così steccati secondari rispetto alla prima urgenza, rappresentata dalla sofferenza delle vittime, e causando un enorme esodo del mondo operaio.
La prassi messianica non prende posizione di fronte alle ideologie. Parafrasando un detto di Gesù, potremmo dire che “Dio sa che avete bisogno di tutte queste cose”, il pane e tutto il resto. Ma il primato resta ad altro, al Regno di Dio annunciato alle vittime del sistema che ogni volta condiziona brutalmente il nostro essere nel mondo. Il cristiano, come Gesù resta un “apocalittico”, per lui “passa lo schema di questo mondo”, egli vive nella apokaradokia della creazione. Apokaradokia significa disperazione. È nella disperazione che la creazione attende la liberazione e la gloria dei figli di Dio (cf. Rom 8, 19-21), perché è stata sottomessa controvoglia al male, alla caducità. L’urgenza del cristiano è un’altra, curare le ferite, senza chiedere a nessuno chi sia, ma sapendo che egli resta amato da Dio, “beato”.
Questa non è una condanna delle ideologie e della politica che ad esse si alimenta. È soltanto il faro che il vangelo del messia Gesù accende sulle vicende della storia. E del resto a ben guardare cosa accomuna i politici più lungimiranti del secolo passato, pur così diversi gli uni dagli altri: da Gramsci, a Rodano, a Berlinguer, da Dossetti a La Pira, a Moro, se non la preoccupazione di alleviare le sofferenze delle vittime del nostro sistema? Ma qui, sulla politica, il discorso diventa diverso e non sta a me il parlarne.
Giuseppe Ruggieri
[1] Articolo 13:
Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
Articolo 14:
Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
[2] Evangelii Gaudium 53: 24 novembre 2013.
[3] “… l’uomo comunica la sua propria essenza spirituale nella sua lingua. Ma la lingua dell’uomo parla in parole. L’uomo quindi comunica la propria essenza spirituale (in quanto essa è comunicabile) nominando tutte le altre cose. … Non si obietti che non conosciamo altra lingua al di fuori di quella dell’uomo: che non è vero. Solo nessuna lingua denominante conosciamo oltre quella dell’uomo … L’essenza linguistica dell’uomo è quindi di denominare le cose.” Walter Benjamin scrisse il suo saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo nel 1916. Adesso in W. Benjamin, Opere complete I. Scritti 1906-1922, 281-301. La citazione a p. 281.
[4] A. Nolan, Jesus before Christianity, London 1992, 27
[5] Lévinas pronunciò quel testo alla Semaine des intellectuels catholiques sul tema Qui est Jésus Christ (Bruxelles 6-13 marzo 1968), su invito dello storico René Rémond che allora presiedeva il Centro cattolico degli intellettuali francesi. La sessione in cui prese la parola Lévinas era presieduta da Claude Bruaire.
[6] E. Lévinas, Difficile liberté,4 Paris 2006, 120.
[7] Prossimità è un’altra delle parole chiave di Lévinas per dire chi è il Messia.
[8] È il cuore del messaggio contenuto nella lunga intervista (ben 29 pagine della rivista) che Papa Francesco ha concesso al direttore di «La Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro. Un colloquio di sei ore avvenuto il 19, il 23 e il 29 agosto 2013.
[9] Evangelii Gaudium, 24
[10] Conciliorum oecumenicorum denegeraliumque decreta 1, Turnhout 2006, 178.
[11] H.J. Stoebe, E. Jenni-Cl. Westermann, Theologisches Handwörterbuch zum Alten Testament, 1, Gütersloh 2004, 611.
[12] M.-D. Chenu, CHENU (M.D.) La Doctrine sociale de l’Eglise comme idéologie, Paris 1979
Lunedì 22 aprile 2019
Giornata mondiale della Terra.
Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti————————-
Abbiamo impugnato la legge elettorale sarda
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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In Italia il tema dirimente è la questione morale: il PD nella bufera, la Lega al bivio, il M5S incalza.
22 Aprile 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Gli Editoriali di AladinNews.
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE E FUTURO DELL’UOMO – DI VERA NEGRI ZAMAGNI, su politicainsieme.com.
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FORUM DISUGUAGLIANZE: una nuova stagione di giustizia sociale
di Fiorella Farinelli, su Rocca.
E’ al presidente Mattarella – a chi altri, in questa fase della politica italiana? – che il 20 marzo scorso sono state consegnate le «15 proposte per la giustizia sociale» elaborate dal Forum Diseguaglianze Diversità, promosso da Fabrizio Barca, economista ed ex ministro del governo Monti. Due anni di lavoro intenso, finanziato tra gli altri da Fondazione Con il Sud, Fondazione italiana Charlemagne, Fonda- zione Uniplus, cui hanno partecipato oltre cento ricercatori e, in decine di seminari e di incontri, organizzazioni della società civile come Action Aid, Caritas italiana, Cittadinanza Attiva, Dedalus Cooperativa Sociale, Fondazione Basso, Legambiente, Uisp.
Il risultato è un ponderoso (ma lo stile comunicativo è fluido e brillante) Rapporto di 160 pagine, fatto di analisi scientifiche puntuali e di proposte. Alcune più prevedibili e altre radicalmente innovative, come quella di far partecipare alla gestione delle imprese non solo le rappresentanze dei lavoratori (come avviene da tempo in Germania) ma anche quelle dei consumatori e dei territori coinvolti, o quella di distribuire a tutti i diciottenni «un’eredità di cittadinanza» di 15.000 euro, senza alcun vincolo di utilizzo. Obiettivo dichiarato, incidere sul dibattito pubblico e sui programmi e sull’azione dei partiti politici.
A convergere sul senso della proposta dichiarando il proprio impegno, i segretari generali di Cgil Maurizio Landini e Cisl Annamaria Furlan, un grappolo di assessori al sociale e al lavoro di città come Napoli, Palermo, Milano, Bologna e di sindaci, professori e rettori, amministratori di imprese, esperti nei diversi ambiti scientifici.
Per lo più positivi anche i commenti comparsi su autorevoli organi di informazione. Della carta stampata – da Espresso e Avvenire, che sono partners dell’iniziativa, al Fatto Quotidiano e al mensile cattolico Vita – e del web, che nelle «15 proposte» hanno riconosciuto una base possibile o un nuovo punto di partenza per la costruzione di un programma di una forza politica di sinistra. Ma quale?
il prisma della diseguaglianza
Sono indubbiamente di sinistra, comunque, la natura e il profilo politico del Rapporto. L’idea che non basti denunciare le diseguaglianze e che sia necessario agire. Che non si possa farlo intervenendo soltanto a valle, con dispositivi risarcitori o redistributivi, ma cambiando le condizioni a monte che hanno prodotto e continuano a produrre l’esplosione delle diseguaglianze. Che un’alternativa esiste e che bisogna costruirla per trasformare i sentimenti di rabbia e di rancore in una nuova stagione di emancipazione che sviluppi la giustizia sociale. Contrastando non una sola faccia del prisma della diseguaglianza – quella delle differenze di reddito – ma le molte che la compongono e che la generano. Le differenze nell’accesso all’istruzione e alla conoscenza, alla sanità, al lavoro. Le disparità di genere. Quelle che riguardano l’aspettativa di vita, la possibilità di ricorrere a farmaci e terapie, il rapporto con le tecnologie. Quelle che, nell’Italia fatta da due Italie, derivano dall’essere nati e risiedere in un territorio piuttosto che in un altro, o dall’essere figli di italiani o di genitori venuti da altri paesi, o dal subire maggiori o minori danni dalle crisi e dai disastri ambientali, o dall’appartenere a una generazione invece che a un’altra.
Perché se è vero che negli ultimi trent’anni a livello globale le diseguaglianze sono significativamente diminuite per l’uscita dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi, indiani e di altri paesi in via di sviluppo (ma ci sono ancora più di 30 anni di differenza nell’aspettativa di vita tra un italiano e un abitante del Ghana), nello stesso periodo in Italia e in tutta Europa si sono bloccati i processi di riduzione della forbice iniziati dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con addirittura un’inversione di tendenza nel nostro paese, dove siamo tornati a una diseguaglianza di redditi analoga a quella che avevamo negli anni Settanta (e in più, secondo Eurostat, con un indice di diseguaglianza di genere al 43,7 contro il 39,7 della media europea).
In estrema sintesi, se nel 1995 il 10% più ricco degli italiani (pari a 5 milioni di adulti) deteneva metà della ricchezza del paese, nel 2016 ne possiede una quota superiore al 60%. I numeri parlano chiaro. Nel 2017 le persone a rischio di povertà o di emarginazione sociale erano il 29% circa della popolazione, il 12% in condizioni di grave deprivazione materiale, il 14% di povertà relativa. Una cifra doppia rispetto agli anni 80, e con uno spiccato coinvolgimento dei giovani, delle famiglie composte di stranieri, di residenti nelle aree meridionali. E poi, a cascata, le diseguaglianze nell’accesso al lavoro, i differenziali di risultati scolastici, di accesso alla cultura, di capacità di utilizzo delle nuove tecnologie e via andare.
strategia d’intervento
Ma nel documento del Forum l’obiettivo non è fare le pulci, come succede altrove, ai provvedimenti dell’attuale governo, da «quota 100» al «reddito di cittadinanza». Lo sguardo è molto più profondo e più lungo, e il punto di vista presenta un profilo decisamente strategico. Le 15 proposte sono raggruppate in tre campi tematici. Il primo, dedicato a tecnologie, ricerca, innovazione. Il secondo al lavoro. Il terzo all’equità intergenerazionale.
È il primo campo quello che contiene il maggior numero di proposte (10), tutte accomunate dalla necessità di realizzare una maggiore giustizia sociale nell’accesso all’informazione, all’istruzione, al sistema sanitario e ai farmaci; e di tutelare le fasce deboli rispetto non solo all’innovazione tecnologica ma anche a politiche ambientali indifferenti al loro impatto sociale. Evidente, sul tema degli investimenti e degli incentivi ecologici, l’imperativo di renderli sostenibili – conciliando giustizia sociale e ambientalismo – per chi è in situazione economica più svantaggiata. Sono i jilets jaunes ad indicare che politiche anche corrette, come quelle che disincentivano la mobilità stradale basata sugli inquinanti carburanti tradizionali, sono destinate ad essere fortemente contrastate se quel cambiamento finisce col peggiorare le condizioni di vita di settori ampi della popolazione. Analogamente, non si può pensare di sviluppare l’efficientamento energetico degli alloggi, senza incentivi ecologici che siano modulati sulle diverse disponibilità economiche di chi deve sostenerne la spesa.
Ma ricadono in questo ambito anche proposte più complesse e di più difficile attuazione se non in un contesto sovranazionale condiviso, come quelle che puntano a tagliare le unghie ai grandi big del digitale, riducendone la possibilità di esercitare il dominio sulla vita della popolazione. Un dominio economico e culturale tanto più forte quando si esercita su chi ha meno capacità di padronanza culturale e di pensiero critico.
le proposte sul lavoro
Nel secondo campo trovano posto le proposte sul lavoro. Fuori da ogni subalternità alla logica unilaterale del profitto capitalistico, il succo è che si propone di restituire potere ai lavoratori. Con lo sviluppo della contrattazione e l’estensione a tutti i lavoratori delle tutele e garanzie definite dai contratti nazionali. Con l’introduzione di un salario minimo non inferiore a 10 Euro l’ora. Con la democratizzazione del governo e della gestione dell’impresa tramite la partecipazione agli organi di direzione non solo dei rappresentanti dei lavoratori ma anche di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti dagli effetti delle attività produttive, da quelle dei consumatori a quelle dei territori di riferimento. Italsider, Taranto, e mille altri casi insegnano.
equità tra le generazioni
Il terzo campo è dedicato all’equità tra le diverse generazioni («Una generazione lasciata indietro») ed è qui che si trovano le proposte più innovative e anche le più controverse, come emerge da queste prime settimane di discussione. La più importante comporta una riforma dell’imposta di successione, eliminata dal secondo governo Berlusconi e solo parzialmente ripristinata dai governi di centrosinistra (e tuttora significativamente più bassa tra quelle previste nella maggior parte dei paesi ricchi) con cui disporre delle risorse in grado di assicurare una sorta di «eredità di cittadinanza» in forma di 15.000 euro netti ad ogni diciottenne nato in Italia. Universalistica e senza vincoli di utilizzo «per pagare qualsiasi attività in grado di accrescere la libertà sostanziale». La libertà di istruzione non vincolata al luogo di residenza dei genitori, di investire in progetti imprenditoriali costruiti con altri, di «conoscere il mondo per imparare culture e lingue diverse nel solo modo possibile», per avere le chances di crescita e di responsabilizzazione rispetto al proprio futuro che oggi sono solo dei figli delle famiglie privilegiate. Un dispositivo rigorosamente universalistico proprio per convincere a contribuirvi i più abbienti. E per cominciare a restituire alle generazioni più giovani quello che le politiche degli ultimi decenni hanno tolto loro.
una possibile rigenerazione della sinistra politica
Va da sé che questa come altre proposte, più o meno radicali, disegnano un terreno di rigenerazione della sinistra politica proprio perché impongono una svolta netta rispetto al progressivo accomodamento a un esistente che si è finito col considerare come oggettivo e sostanzialmente immodificabile. Ripercorrendo, nel mutato mondo di oggi, i valori dell’eguaglianza, della solidarietà, della giustizia sociale. Di una democrazia dinamica, di una politica orientata non all’accettazione ma alla trasformazione della realtà. Quello che serve per ridefinire, oltre alle politiche programmatiche, un’identità politica riconoscibile e attrattiva. Ma, mentre il Rapporto del Forum Diseguaglianze comincia ad essere conosciuto e dibattuto in molti luoghi della società provocando commenti, interventi, proposte di integrazione e di modifica che vengono inviati ai suoi promotori, si è ancora in attesa di reazioni esplicite da parte dei suoi destinatari principali. Che non sono, come è evidente, il solo presidente Mattarella.
Fiorella Farinelli
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Noi con te. In Europa La Sinistra antirazzista, femminista, ecologista.
Martedì 23 aprile alle ore 11.00 nell’Hostel Marina, alle scalette di San Sepolcro a Cagliari si svolgerà la conferenza stampa di presentazione con i candidati e le candidate della Sardegna alle europee per il collegio Isole della Lista “La Sinistra”.
La lista, promossa da Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana, L’Altra Europa e altre forze politiche e movimenti sociali, si oppone al neoliberismo e al nazionalismo, con l’obiettivo di costruire un nuovo spazio politico, un’alternativa da progettare insieme ai cittadini/e, alla pari, e che promuova un forte progetto femminista, ecologista, antirazzista.
Durante la conferenza stampa interverranno i candidati e le candidate della Sardegna: l’insegnante e attivista femminista Maria Cristina Ibba, e l’ex operaio Alcoa e ingegnere ambientale Omar Tocco insieme al giornalista Corradino Mineo, capolista della lista nel collegio Isole. Interverranno inoltre Pierluigi Mulliri, segretario regionale di Rifondazione Comunista in Sardegna, Salvatore Multinu responsabile regionale di Sinistra Italiana e Roberto Loddo per il manifesto sardo e l’Altra Europa.
Preghiera per noi, per tutte e tutti: un cammino per tornare umani e restare umani. Buona Pasqua a tutte e a tutti!
Il 6 aprile u.s. si è tenuta a Roma un’assemblea intitolata RIUNIRE I POPOLI FRANTUMATI. Questi in sintesi i contenuti: “Il grido dei popoli, il grido dei poveri, il grido della terra perchè la storia continui, nell’assemblea romana di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri. Una lettura messianica della crisi. Le urgenze maggiori: l’unità umana, nessuno straniero; il denaro suddito, non sovrano; la Terra onorata come madre, custodita, mantenuta feconda; il ritorno del volto; disimparare l’arte della guerra”. All’inizio dei lavori è stata coralmente recitata una preghiera, coinvolgente e ricca di vitali significati. La riproponiamo fuori da quel contesto, per celebrare l’odierna domenica di Pasqua di Resurrezione.
Dio Vivente. Dio dai molti nomi.
Il tuo vero nome è superiore ad ogni conoscenza,
ma sei venuto a mostrarti a noi nell’uomo Gesù di Nazareth,
che è immagine visibile e trasparente dell’invisibile tuo volto.
Dio, nostro Padre e Madre,
che in molti modi, in molti tempi e luoghi,
hai parlato ai popoli tramite profeti,
manda il tuo Spirito in noi qui radunati.
Mandaci luce per vedere e intraprendere,
insieme ad ogni persona di buona volontà,
il cammino della grande necessaria impresa
che questo tempo richiede alle nostre coscienze,
con urgenza e insistenza:
un cammino per tornare umani e restare umani,
donne e uomini, vecchi e giovani, di ogni casa e paese,
e della casa comune, questo nostro pianeta;
un cammino per riunire i popoli frantumati all’interno
da un vivere feroce, come rivali e non come soci;
popoli divisi tra loro da visioni che immiseriscono
l’unica umanità, bella nella sua varietà,
immagine multipla dei tuoi molti nomi e luci;
- umanità offesa e deturpata
dal peccato di dominio, violenza e sfruttamento;
- umanità violata dalle guerre volute e progettate,
con armi studiate e vendute per erigere torri di denaro;
- umanità venduta, vittima per vittima,
sul mercato del dolore e della morte;
- umanità la cui casa comune, il pianeta,
è pericolante nel suolo e nell’aria;
- umanità divisa nella carne dell’uomo e della donna,
fatta merce e peccato, invece di onore, pace e gioia;
- umanità che nega ai giovani speranze e progetti
proponendo nichilismi e astuzie.
Oggi ti ringraziamo perché,
in questo nostro tempo profondamente turbato e pericoloso,
riconosciamo che non ci fai mancare luci sul cammino,
come è stato in modo speciale il Concilio di mezzo secolo fa,
e la sua ripresa oggi nella Chiesa
che vuole essere sinodale, fraterna,
ecumenica, operatrice di pace, assetata di giustizia e misericordia,
in cordiale solidarietà con tutta l’umanità,
in dialogo e collaborazione con tutte le religioni
e spiritualità umane.
Riconosciamo con gratitudine
che, tra le angosce e del momento presente,
Gesù Cristo ci ripete: “Ma viene un tempo ed è questo…”
in cui “adorarti in Spirito e verità” (Gv 4,23),
cioè intimamente, sinceramente e fattivamente.
Oggi ci siamo riuniti a lavorare sui
nostri compiti attuali,
aiutaci a vedere, volere e fare
ciò che è giusto e buono per amore del mondo.
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La fatica e il coraggio di essere uomini.
di Salvatore Loi, Guamaggiore 1971.
Mi hanno sempre colpito due frasi del Vangelo: una è di San Luca “ma il Figlio dell’uomo, alla sua venuta, troverà forse la Fede sulla terra?” (Lc. 18,8) e l’altra è di San Matteo “per il moltiplicarsi dell’iniquità si raffredderà la carità di molti” (Mt. 24,12).
A pensar bene sono due frasi drammatiche: sembra che Gesù veda con amarezza tempi in cui fede e amore entreranno in agonia. E l’agonia della fede e dell’amore coincide con l’agonia di Dio nel mondo, ma anche con l’agonia dell’uomo.
Forse oggi essere uomini significa vivere accettando la terrificante condizione umana senza lasciarsene vincere.
Se abituassimo i nostri occhi a superare le barriere dell’apparenza e il nostro cuore ad avere il coraggio di guardare fino in fondo anche ciò che non vorremmo vedere, ci accorgeremmo che siamo povera gente presa dalla paura di tutto.
Il peggio è che questo tutto te lo senti di fronte e di spalle e di fianco e non riesci ad afferrarlo, te lo senti in fondo al cuore e non sai che sia.
Siamo spesso come il povero ebreo errante che sente su di sè il peso di una vita che non riesce a portare, come il pellegrino in viaggio verso una terra che desidera e teme. Gente seduta alla porta di casa a sognare e mentre sogna si accorge che arriva la fine e che il sogno finisce.
La nostra esperienza non è stata voluta per uscire dalla condizione di ogni uomo: guai a coloro che per essere cristiani dimenticano di essere uomini.
È stata voluta come un momento in cui insieme potessimo ricuperare dal fondo del nostro essere quella nostalgia di fede e di amore che ci facessero sperare che è ancora possibile essere uomini veri, con Dio e in Dio.
Il mistero dell’uomo, ha scritto il Concilio Vaticano II, trova spiegazione alla luce del mistero di Cristo. Perciò abbiamo cercato di porre Cristo al centro della nostra esperienza: la sua Parola, il suo Sacrificio e la sua Carità.
Non è che la sua presenza abbia reso la nostra vita più superficialmente tranquilla.
Io non mi so dire perché Dio preferisca piangere con l’uomo piuttosto che dargli una gioia che l’uomo non ha la felicità di costruirsi, ma so, voglio sapere che Dio non è tanto occupato da non ascoltare il pianto di chi non sa ricevere, come di chi non sa dare.
La presenza di Dio: ora consolante e ora sconvolgente, però tale che non ci toglierà la fatica di essere uomini.
Ci darà solo il coraggio di esserlo fino in fondo, se noi vorremo.
Buona Pasqua
Domenica 21 aprile 2019. E’ Pasqua!
Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti—————-Auguri————————-
Auguri a tutti di buona Paska manna!
21 Aprile 2019
Auguri a tutti di Buona e Felice Pasqua!
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Cultura Politica. Materiali per le politiche urbane
La sfida di Ada Colau: “Rivincere a Barcellona e cambiare l’Europa”
Su MicroMega
Appena uscito in Spagna il libro “Ada Colau, la ciudad en común” di Steven Forti e Giacomo Russo Spena, riedizione aggiornata del libro pubblicato in Italia nel 2016. Ne proponiamo un estratto che illustra le strategie dell’alcaldessa che il 26 maggio prossimo si giocherà la sfida elettorale per la permanenza a sindaca: “Dobbiamo insistere sul municipalismo, soltanto così possiamo contrastare l’ondata nera e costruire una vera alternativa”. E intanto cresce la rete internazionale con le altre città che rappresentano esperienze virtuose nel mondo.
Oggi sabato 20 aprile 2019
Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti————————-
Abbiamo impugnato la legge elettorale sarda
20 Aprile 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Il 5 maggio a Nuxis nei luoghi della latitanza dell’Avv. Cadeddu, capo di Palabanda. Partecipate!
20 Aprile 2019
Nell’ambito delle iniziative su “Sa die de Sa Sardinia” ci rechiamo, accompagnati dalla locale Associazione Le Sorgenti, in pellegrinaggio laico nelle campagne di Nuxis nella Grotta di Conch’è Cerbu, dove l’Avv. Salvatore Cadeddu, capo della rivolta di Palabanda, trascorse alcuni mesi della sua latitanza fra la fine del 1812 e i primi mesi del 1813, […]
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Le “comunarie” del Pd e del centro sinistra di Sassari pensando a Eleonora d’Arborea. Non sembra vero ma, nella grande divisione e confusione che regna da sempre nel Pd e nel centro sinistra, l’unica idea pervenuta (peraltro di padre ignoto) è stata quella di affidarsi alla Magistratura prima ancora che ciò potesse rendersi necessario per accidente o incidente politico. Nasce cosi l’idea di candidare alla carica di Sindaco uno “sconosciuto”, politicamente parlando, del quale si ignorano le potenziali capacità e le eventuali esperienze pregresse nella pratica della politica e nella amministrazione della cosa pubblica. L’unica caratteristica nota del candidato è la professione fino ad ora esercitata. Chi lo conosce afferma che si tratta di un buon giudice ormai prossimo alla pensione, di una persona moralmente ineccepibile, con molte idee e qualche proposta originale su come governare la città. Non c’è alcun motivo per dubitarne. L’interrogativo è un altro. Ha le competenze e la necessaria capacità politica per svolgere il gravoso compito che è costato lacrime e sangue al suo predecessore? O si pensa realmente che la cosa più intelligente da fare, per superare l’impasse amministrativa ormai cronica nel nostro territorio, sia quella di affidarsi alla magistratura per derimere le beghe di un ceto politico straordinariamente litigioso? Ho il sospetto che, in fondo in fondo, il pensiero guida di chi ha proposto la candidatura sia stato proprio questo. Un giudice per governare bene. Un “Giudicato”. Il nuovo Giudicato di Torres per dare vita alla Città Metropolitana da tempo auspicata. Anche il suo nome di battesimo rafforza tale ipotesi. Si chiama Mariano, come Mariano IV di Arborea. (V.T.)
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