Monthly Archives: marzo 2019
SardegnaCheFare? Il Dibattito
IL SARDISMO DEI SARDI. I sardismi della campagna elettorale. Il nome della Giunta e la ‘cosa’.
di Salvatore Cubeddu.
Su Fondazione Sardinia
- prima parte;
- seconda parte.
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RIPENSARE LA SINISTRA IN SARDEGNA
di Roberto Loddo,
Su il manifesto sardo.
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Le mie dimissioni
di Paolo Maninchedda
Sul sito del Partito dei Sardi.
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Regionali, Mauro Pili: “La sconfitta è mia, personale e politica. Sconfitta dura e severa”.
Su CagliariPad.
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Cambiare tutto perché nulla cambi
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 27 febbraio 2019/ Società & Politica/
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Solinas vince, tutti gli altri perdono. E il centrodestra va subito all’assalto delle coste: chi farà opposizione?
di Vito Biolchini
Su vitobiolchini.it
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La Sardegna non è leghista
di Danilo Lampis.
Su JacobinItalia. (1 marzo 2019), ripreso anche da Aladinews.
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Cattolici e Politica da rigenerare.
Inclusione e relazioni per rigenerare la politica
di Luigi Franco Pizzolato*
Riprendendolo da C3dem [15 Febbraio 2019 by Forcesi], pubblichiamo l’editoriale del n. 6/2018 di “Appunti di cultura e politica”, rivista promossa dall’Associazione “Città dell’uomo”.
Che cosa ha da dire il «cattolicesimo democratico» di fronte all’attuale situazione politica italiana? Appare silente. Non tanto perché è stato rimosso dagli spazi di rappresentanza politica, ma soprattutto perché gli pare di camminare su un terreno sconosciuto dove non valgono i suoi stessi fondamentali. Eppure, ad almeno uno di questi non può rinunciare: all’inesausta partecipazione alla costruzione del bene comune, che sempre deve fare i conti con la natura umana – e quindi anche cristiana – delle proposte politiche sul tappeto e con il consenso, che, solo, può creare la pace sociale.
Si dice che l’accoppiata, eterogenea, delle forze che sono oggi al potere ha come comune denominatore il populismo. Per altro già dentro il sistema prima vigente si erano manifestate pulsioni populistiche – con il craxismo, con il berlusconismo, con il renzismo – che avevano sempre più indebolito la mediazione politica e degli organismi sociali; e, per di più, senza avere a compenso una qualche carica utopica tale da fare accettare il limite del decisionismo; e senza promuovere un’equità, che sola, nelle crisi socio-economiche, può tacitare l’invidia sociale. Infatti, il contenimento del debito pubblico è sì sacrosanto, ma non scalda i cuori, specie dei giovani disoccupati.
Il nuovo populismo si manifesta in aperta posizione anti-sistemica, con una volontà di palingenesi politica. Certo, anche la (nostra) democrazia (costituzionale) ha la parola «popolo» e qualcuno ha, giustamente, osservato che la democrazia e il populismo sono due gemelli siamesi rissosi, costretti a stare insieme perché hanno entrambi il principio della sovranità del popolo (1). Ma il popolo della nostra democrazia costituzionale si autolimita mediante una legge fondamentale perché sa che anche una maggioranza potrebbe impazzire (si pensi ai tragici nazionalismi del XX secolo); suddivide i poteri che agiscono nel suo nome; manifesta la sua sovranità attraverso vari livelli di espressione del potere – locale, nazionale, sovranazionale –, diversificati per ambiti di esercizio e per modalità di elezione; prevede e favorisce diversi organismi sociali di partecipazione (gruppi culturali, organizzazioni professionali, sindacali) e politici (partiti, movimenti) e la sua volontà vuole costruirsi lungo un percorso di dibattito quotidiano: acciocché nessuno possa dire «io sono il popolo», ma si dica sempre «anch’io sono popolo». Tanto meno è soggetto al populismo il sapere scientifico – e perciò ci cruccia il caso dei vaccini –, che non soggiace né a sensazioni né a interpretazioni ermeneutiche – come il giudizio storico e politico –, ma a verifiche sperimentali.
Il popolo della nostra Costituzione cede il proprio potere legislativo alla rappresentanza parlamentare e solo nel momento della designazione di essa il popolo agisce «in quanto tutto». La Costituzione poi vuole che gli eletti non siano «specchio» del popolo ma rappresentanti capaci di dibattimento e di decisioni che si facciano carico di tanti punti di vista, non solo della propria interfaccia elettorale. E ciò non solo perché tanti occhi vedono meglio di uno, ma per creare pace sociale, trovando la più alta concordia possibile tra posizioni di partenza diverse che, se messe solo alla conta, porterebbero a una rigidità o prepotente (della maggioranza) o paralizzante (nella impossibilità numerica di maggioranza). Il populismo trova terreno di coltura non nelle democrazie ideologiche, dove si dà battaglia per idee forti diverse e le persone sono partecipi del dibattito, ma – come è avvenuto – nelle democrazie consociative, dove i partiti fanno accordi al vertice e si crea una casta di rappresentanti che si auto-rappresenta e risponde alla struttura politica che li designa o li impone. La nostra deideologizzazione ha voluto poi che il popolo non si trovasse più di fronte alle classiche alternative sistemiche (comunismo-liberismo, destra-sinistra), ma alla frustrante constatazione che «sono tutti – banalmente – uguali».
La crisi economica poi è sottratta nella sua complessità al controllo diretto del popolo che però, senza bussole ideali e cognizioni tecniche, facilmente la imputa all’irresponsabilità o all’interesse politico delle élite e al servilismo verso i poteri forti che i politici coltivano per averne il sostegno. Così il popolo si giudica migliore dei suoi rappresentanti. Del resto, gli stessi grandi manager, iscritti a un albo perenne e ristretto, poco hanno fatto per accreditare il prestigio della competenza, con il loro curriculum infarcito di insuccessi, e però ben remunerato. È proprio in reazione a queste posizioni del sistema che si sta producendo l’attuale populismo, che è tenuto unito soprattutto dal «nemico sistema». La lotta sociale di un tempo diventa oggi lotta contro la casta da parte di un «popolo» allo stato liquido (gente). Mentre le forze vincenti, singolarmente prese, hanno proposte politiche e basi sociali e perfino antropologiche – e geografiche – diverse, che rendono difficile la loro stessa mediazione interna. Ma sanno farsi carico di comuni emozioni politiche che la politica ideologica, e sempre più straniata, del passato aveva cancellato, più accentuatamente nei «governi tecnici». Così agli avversari non resta che esorcizzare il páthos della maggioranza populista con l’irrisione, a cui essa per altro presta il fianco. Per i più anziani, adusi a una politica progettuale e ideologica, il panorama è spiazzante, perché non vedono un progetto. Il programma è consono alla natura movimentistica: pragmatico e granulare, non di rado contraddittorio; sale dalla galassia delle pulsioni politiche, che sono sdoganate anche nel linguaggio. Tutto ciò potrà non piacere, ma bisogna abituarsi a ragionare a partire non dal background culturale ma dalla parzialità fattuale. Senza comunque rinunciare a inserirsi costruttivamente nel dibattito politico.
Dico costruttivamente perché nelle forze tradizionali, e soprattutto in quelle più strutturate ideologicamente, sta prevalendo un’altra logica, che il cattolicesimo democratico deve altrettanto denunciare. È indubbio che dentro l’attuale maggioranza l’unità populistica sia seraccata da linee di frattura che la scompongono in aggregazioni di diversa natura, che sono latamente ideologiche. Infatti, convivono tendenze liberistiche e tendenze sociali, tendenze particolaristiche e tendenze solidaristiche. Per dirla in breve: il M5S non ha la stessa natura della Lega. Tanto che arduo è gestire la loro coalizione (o, meglio, coabitazione forzata). Procedono, infatti, per così dire, a realizzazioni alterne: oggi reddito di cittadinanza a me, domani flat tax a te. Se a questa disunità si aggiungono improvvisazioni e errori di inesperienza che provocano conati di rissa, c’è spazio per le opposizioni di coltivare la speranza antica: «Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non può reggersi» (2). Sperano, insomma, che l’attuale sistema esploda o imploda. Stando magari a gustare lo spettacolo di una fine agognata, renzianamente, «sgranocchiando pop corn».
Il fatto è che la sorgente donde quelle forze sono, entrambe, sgorgate non è disseccata: è il rancore contro il vecchio sistema. Conforme alla tesi di Max Scheler (3), le nuove forze razionalizzano e mettono in comunicazione il risentimento da esclusione di ceti e di parti considerevoli della società e uniscono i trascurati «rancorosi», che sono legione, nella causa comune della lotta al sistema. Chi, come la generazione tra i ventenni e i quarantenni, non trova inserimento – in specie economico e lavorativo – non ha lo stesso modo di giudicare le forze politiche che hanno i «garantiti» e non ha le stesse remore a sparigliare le carte, quando la partita per essa sarebbe comunque compromessa. Meno male che il populismo nostrano usa in senso politico e istituzionale, non in senso rivoluzionario, questa parte cospicua di popolo e non l’abbandona all’eversione nichilista. Il largo consenso, così in fretta conquistato, lo ha sottratto alle sfibranti dinamiche elitarie – ma anche al tirocinio – dei piccoli gruppi testimoniali e lo ha costretto, in un certo senso, ad assumere rapidamente un ruolo di leadership e non di pura protesta. Purché il fumo del nichilismo non penetri nelle stanze stesse del potere.
Ma ciò trova ostacolo proprio in un’opposizione costruttiva, che non si lasci accecare dalla connotazione antisistemica globale fino al punto da non vedere le linee di frattura interne alla maggioranza e sappia invece cogliere le differenze, al di là di un’annebbiata unità: insomma, non si deve tenere un’indistinta equidistanza, privilegiando il giudizio sintetico antipopulista e antisistemico – come se nascondesse un preciso disegno politico olistico –, ma si deve fare emergere le diverse linee di tendenza, richiamandole, anche loro malgrado, a uno spessore ideologico o comunque a una dignità di pensiero politico.
Ci sono, infatti, presenze a cui possiamo ascrivere tendenze al nazionalismo con venature autarchiche e all’etnocentrismo, al sovranismo, allo Stato minimo, al dominio del mercato; altre che assumono il contrasto alla povertà e ai privilegi, una cura per l’ambiente, una visione di Stato che non rinunci a compiti di indirizzo, una lotta alla corruzione. Si è in presenza di un mix che va da un’appassionata e sregolata ricerca di utopia fino a un pragmatismo iperrealistico e egoistico; di pulsioni umanitarie sociali e di spinte identitarie prepotenti. Abbiamo seri dubbi che il modo migliore di agire, da parte di chi è consapevole delle ragioni che accomunano l’attuale maggioranza e di quelle che la disarticolano, sia la creazione di una falange compatta di tutte le forze altre, indipendentemente dalle posizioni ideologiche di esse («da Macron a Tsipras», come si usa dire). Un composto di questo tipo farebbe prevalere la dinamica «sistema» rispetto a quella «antisistema» sulla logica della distinzione trasversale. Le forze attuali trarrebbero forza dal loro aspetto antisistemico e le forze che vi si oppongono sarebbero viste come frusti campioni del vecchio sistema, e inevitabilmente liquidate come casta. La lotta politica si radicalizzerebbe in una battaglia senza esclusione di colpi, in una specie di apocalittica Armaghedòn (4) dall’esito incerto e comunque per tutti perdente.
A tale «ammucchiata» osta non solo un calcolo elettorale – che lasciamo ai contabili furbi –, ma soprattutto la vocazione del cattolicesimo democratico che è di includere il più possibile nel confronto democratico e nella decisione politica le differenze, non di emarginarle, sempre alla luce di un progetto. Tanto più se quelle forze hanno ragioni da rappresentare e costituiscono una cospicua porzione – o addirittura maggioranza – di popolo verso la quale si deve nutrire attenzione e rispetto.
Meglio è allora prendere in seria considerazione gli spazi di dialogo che si aprono dentro le proposte politiche, lungo le linee di frattura tendenzialmente ideologiche o programmatiche, che segmentano l’universo della maggioranza cosiddetta populista, e dialogare con quelle che presentino maggiori affinità programmatiche e, alla base, ideologiche. Meglio è, per la qualità della politica, operare sempre un discernimento, dichiarando, sì e motivatamente, i dissensi, ma anche le adesioni o le affinità, iuxta modum, per creare una disciplina di serietà che rompa con le contrapposizioni d’obbligo. Se non avvertono la logica del pre-giudizio globale, è più facile che le forze antisistemiche entrino in un discorso relazionale e evolvano verso una politica di rappresentanza di tutta la nazione e non di rappresentanza speculare dei soli desideri dell’elettorato di partenza, al quale solo si sentono oggi chiamate a rispondere. Insomma, già così si infrangerebbe un caposaldo del populismo.
Ma un incontro fecondo implica che le forze di opposizione rompano i ponti con il sistema in quanto esso ha indebolito o ostacolato il coinvolgimento dei cittadini; abbiano, esse per prime, una linea programmatica definita; accostino la composita maggioranza cosiddetta populista secondo una linea di tendenza precisa e non opportunistica. Solo così potranno forzare il blocco e solo così, casomai, gli schieramenti si potranno ricomporre secondo più compiuti e schietti parametri politici, al di là di una – contingente – opposizione sistema-antisistema. Non per tattica – ripetiamo – ma per ricreare concordia e pace sociale. La forza inclusiva appartiene alla democrazia rappresentativa della nostra Costituzione, che cerca la mediazione consensuale, non alla democrazia decisionista la quale punta sulla conta dei voti – amico vs. nemico – e sulla esclusione dell’avversario e del perdente.
Nella «nostra» democrazia anche il – temporaneo – «perdente» è tenuto a custodire e gestire la sua dignità di partecipazione, collaborando nei limiti e negli spazi di una posizione di minoranza, anche se in forme più complementari e parziali che assertive e globali. La missione inclusiva è all’origine del metodo del cattolicesimo democratico e sociale, ai quali, entrambi, si iscrive «Città dell’uomo». È il modo in cui, dopo la lezione della Costituente, ha operato Aldo Moro, fino a pagare con il prezzo della morte, onde acquisire all’area democratica italiana le forze che allora erano antisistemiche; è il metodo, più recente, dell’Ulivo: stare comunque dentro i processi e individuare con pazienza i modi per renderli più umani, facendo leva sulle posizioni che meglio promuovano la funzione relazionale dell’uomo e privilegino le povertà, meglio se riconducendo politicamente le povertà emergenziali al quadro delle povertà strutturali da sanarsi.
Ma non possiamo alla fine non constatare che la politica europea troppo poco sta facendo per creare una governance autorevole e cede di fronte alle logiche mercantili e contabili, favorendo gli esiti più negativi degli inizi del XXI secolo: il cannibalismo della mondializzazione e il terrorismo delle identità chiuse. Questa impotenza dà a molti la fondata impressione che siano proprio e solo questi movimenti populisti a riportare alla ribalta le essenze tradìte dalla politica, sia pure con lo scandalo del loro disordinato e ruspante appello al sovranismo e di un approccio inusuale alle regole economiche. Ci chiediamo, insomma, con una punta di tristezza, se per contrastare un liberismo selvaggio e condizionarlo, per rendere insomma più popolare e meno mercantile l’Europa, non sia necessario ut scandala eveniant.
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(1) D. Palano, Populismo, Editrice Bibliografica, Milano 2017.
(2) Mc 3, 24.
(3) M. Scheler, Il risentimento nell’edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975.
(4) Ap 16,16.
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* Luigi Franco Pizzolato è professore emerito di Letteratura cristiana antica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Save the date – Punta de billete – Prendi nota
Lunedì 1° aprile p.v. con inizio alle ore 17, presso lo Studium Francescano in via principe Amedeo 20, si terrà un incontro-dibattito sulla tematica “Cattolici e Politica”, organizzato dall’Ufficio della Pastorale Sociale e del Lavoro e dall’Associazione Amici Sardi della Cittadella di Assisi. Brevi relazioni introduttive di Ignazio Boi, di Gianni Loy e di un esponente del Progetto Policoro. Segue il dibattito. (Coordinamento di Mario Girau e Franco Meloni). Maggiori dettagli nei prossimi giorni.
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Oggi mercoledì 6 marzo 2019
Mercoledì delle ceneri
Memento homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris.
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Arregordarì chi pruini sesi e pruini asa torrai.
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Remember, man, that you are dust and unto dust you shall return.
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Ricorda, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai. Parole tratte dalla Bibbia (Genesi III, 19) e pronunciate da Dio quando scacciò Adamo dal paradiso terrestre: la Chiesa cattolica le ripete nel rito delle Ceneri come la più forte condanna contro ogni superbia e vanagloria dell’uomo.
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————-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti&Appuntamenti&Thedayafter———————
Inizia l’era Zingaretti. Cosa farà e cosa sarà il PD?.
6 Marzo 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Ciò che sorprende nella elezione di Zingaretti è che, dopo un anno di campagna elettorale interna, non si sa ancora cosa farà da leader. Dopo il risultato, le domande degli ascoltatori alla trasmissione Raitre del primo mattino “Prima pagina“, ad esempio, erano tutte volte a conoscere gli indirizzi programmatici del neosegretario e la stessa […]
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In argomento: la rassegna stampa a cura di C3dem.
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Reddito di cittadinanza, primo giorno.
6 Marzo 2019
A.P. su Democraziaoggi.
Oggi parte il reddito di cittadinanza. Per me è un giorno felice e infelice insieme. Positivo perché – come dice Di Maio – “lo Stato finalmente si occupa degli invisibili, di persone che sono state alla periferia di questo Paese e dei temi politici. Da oggi 5 milioni di persone potranno potenzialmente accedere” […]
Che succede?
PRIMARIE PD, IL RISVEGLIO DELLE COSCIENZE
5 Marzo 2019 by sammarco | su C3dem.
Romano Prodi, intervistato dal Corriere: “Il Pd può chiudere con il passato. Io sono quasi tornato a casa” (e sulla manifestazione di sabato a Milano contro il razzismo: “E’ il risveglio delle coscienze, la democrazia arretra ma la gente reagisce”, a Repubblica). Enrico Letta, intervistato da Repubblica: “Dopo 5 anni riprendo la tessera del Pd. Mai più partito dell’antipatia”. Pierluigi Castagnetti, “Parliamo all’intelligenza del paese” (intervista all’Avvenire). Nicola Zingaretti, intervistato da La Stampa: “Il sovranismo è un imbroglio, vinceremo sradicando la paura”. Ilvo Diamanti: “Più di sinistra e più istruito, ecco come cambia il popolo dei gazebo” (Repubblica). Roberto D’Alimonte: “In atto il riequilibrio tra Pd e M5S” (Sole 24 ore). Carlo Calenda, “Guai a chiudersi nei vecchi recinti” (intervista all’Avvenire). Massimo Cacciari, “Il nuovo segretario si gioca tutto alle europee, se perde tornano i renziani” (intervista a Il Dubbio). Andrea Orlando: “Perché al Pd non servono né i 5stelle né D’Alema” (colloquio col Foglio). Poi i molti opinionisti: Aldo Cazzullo, “L’uscita dal limbo” (Corriere); Antonio Polito, “Che cosa cambia a sinistra: speranze e illusioni” (Corriere); Salvatore Vassallo, “Contropiede riformista” (Qn); Marcello Sorgi, “L’opposizione riparte da Torino” (La Stampa). Alessandro Campi, “La sfida nel partito e ai gialloverdi” (Gazzettino); Mauro Calise, “Il futuro del Pd e il rischio del deja vu” (Mattino); Stefano Folli, “I primi passi della sfida ai 5 stelle” (Repubblica); Emanuele Macaluso, “Vincere senza sputare sul passato” (Il Dubbio); Norma Rangeri, “La retorica del cambiamento nella continuità” (Manifesto); Marco Revelli, “Attento Zingaretti, questo non è un voto di fiducia al partito” (intervista a Il Fatto); Antonio Padellaro, “Dieci domande al segretario” (Il Fatto).
Il 3 febbraio u.s. organizzato dalla Comunità di San Rocco a Cagliari, si è tenuto un interessante incontro sulla figura del pontefice Paolo VI, recentemente proclamato santo da papa Francesco. La relazione introduttiva è stata tenuta da Armando Mura. Ne pubblichiamo una trascrizione, rivista dallo stesso Autore e inviataci dalla Comunità di San Rocco, che ringraziamo per avercela fornita.
COMUNITA’ DI SAN ROCCO – Cagliari
COMMEMORAZIONE DI SAN PAOLO VI
ASPETTI UMANI E SPIRITUALI
di Armando Mura
Per illustrare la vita e l’insegnamento del grande pontefice Giovanni Battista Montini non basterebbe un convegno di studi. Io quindi modestamente cercherò di cogliere alcuni aspetti umani e spirituali della sua personalità incominciando dalla prima formazione. [segue]
Il DILEMMA di MASSIMO ZEDDA
Il DILEMMA di MASSIMO ZEDDA: Capo dell’opposizione del Consiglio regionale o Governatore della Città di Cagliari e della sua area metropolitana?
Alla luce di una sorta di riproposizione delle città-stato, una “singolare” lettura per aiutare Massimo Zedda nelle sue riflessioni al fine di decidere se rimanere Sindaco di Cagliari o (tornare a) fare il consigliere della Regione Autonoma della Sardegna.
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Abbiamo letto sulla stampa (qui facciamo riferimento alla rivista online Lettera43) quanto segue. “Il 18 febbraio il sindaco di Napoli Luigi De Magistris ha scritto su Facebook che «entro quest’anno faremo un referendum per la totale autonomia della Città di Napoli: avremo così più risorse economiche, meno vincoli finanziari, più ricchezza, più sviluppo, meno disuguaglianze». «Successivamente – aggiunge De Magistris – proveremo a realizzare, se lo vorranno anche le altre popolazioni del Sud, un referendum per l’autonomia differenziata dell’intero Mezzogiorno d’Italia»”. Come è noto l’autonomia differenziata è prevista da una norma della Costituzione (Titolo V, articolo 116) ma riguarda solo le Regioni prese singolarmente (ed è quanto rivendicano e probabilmente otterranno a breve la Lombardia, il Veneto e l’Emilia e Romagna), non certo le città e nemmeno le aree metropolitane. Concordiamo pertanto con quanti affermano che allo stato quella di De Magistris è “una provocazione piuttosto che una proposta concreta”. Tuttavia l’uscita di De Magistris, non nuova rispetto ad altri più articolati ragionamenti, si pone sulla strada del riconoscimento di molta più autonomia per le città (in Sardegna riguarda soprattutto Cagliari e Sassari), evocando, almeno come suggestivo punto di arrivo, le istituzioni e le vicende storicamente realizzate delle “città-stato”, nella penisola italiana, in Europa e nel mondo. Ecco perché c’è parso pertinente il richiamo a uno stratega politico indiano, Parag Khanna, che sull’argomento ha scritto un libro intitolato “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”, che il prof. Gianfranco Sabattini ha recentemente recensito sulla nostra News, facendo una disamina fortemente critica, ma tuttavia cogliendo le suggestioni dei ragionamenti dell’Autore. Riproponiamo lo scritto di Sabattini, riferendolo un po’ per celia un po’ per provocazione sia alle posizione del Sindaco di Napoli, sia alla scelta che il Sindaco di Cagliari dovrà fare tra la continuità del suo attuale mandato amministrativo – con l’importanza che esso ha e che potrebbe straordinariamente assumere – e quello ben più modesto – in termini di potere e di visibilità anche se rassicurante sul piano strettamente personale – di consigliere regionale, primo sconfitto o, se volete, secondo vincitore dell’elezione regionale di domenica 24 febbraio.
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Quali risposte in positivo alla crisi degli Stati democratici occidentali?
E’ proprio vero che le città-Stato e le tecnocrazie possono rimediare ai limiti della democrazia?
di Gianfranco Sabattini*
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Lo scienziato politico indiano, Parag Khanna, considerato una figura di spicco del think tank di Washington “New America Foundation” e dell’”European Council on Foreign Relations”, ha pubblicato di recente “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”. Nel libro Khanna sostiene che la democrazia, il regime politico più accreditato presso gran parte dei sistemi economici più avanzati, può sottrarsi ad un irreversibile declino, solo se le sue istituzioni riusciranno a migliorare le loro performance; secondo il politologo indiano, infatti, è il degrado istituzionale delle democrazie a determinare l’insoddisfazione degli elettori, per il contenimento della quale non esiste che una via: assegnare il governo delle comunità democratiche a squadre di tecnocrati.
A parere di Khanna, le istituzioni democratiche hanno ormai perso credibilità circa la loro adeguatezza a risolvere i problemi del mondo contemporaneo; in particolare, i riti celebrati ricorrentemente in occasione delle consultazioni elettorali per il rinnovo del personale politico servono solo a portare “allo scoperto ampi strappi nel tessuto delle nazioni senza che si sia stilata un’agenda condivisa sul modo in cui ricucirli”. I limiti della democrazia, quindi, per Khanna, non stanno solo nella sua incapacità di risolvere in modo adeguato gli stati di bisogno dei governati, ma anche nel modo in cui essa funziona; conseguentemente, la “democrazia, da sola, non basta più”, occorre supportarla, anzi sostituirla, con l’apporto di tecnocrati professionali.
Per assicurare la sostituzione della democrazia non c’è bisogno – afferma Khanna – “né di guerre né di rivoluzioni – e nemmeno di una parentesi dittatoriale -, bensì di un’evoluzione tecnocratica”, che porti il sistema politico ad essere fondato “sulle analisi degli esperti e sulla pianificazione a lungo termine anziché sulle improvvisazioni senza respiro e prospettiva tipiche del populismo”. A differenza del mondo politico tipico delle democrazie, sempre propenso ad adottare non disinteressatamente provvedimenti ad hoc di breve respiro, la tecnocrazia, secondo il politologo indiano, ha la “virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare inclusivamente il massimo vantaggio per la società) che meritocratica (dotata di leader molto qualificati e non corrotti”; essa, perciò, è strumento atto a far sì “che la scienza politica possa aspirare a diventare qualcosa di degno del suo nome: un approccio rigoroso all’amministrazione”.
Inoltre, la tecnocrazia non perde tempo a discutere se occorra allargare o restringere lo spazio da riservare all’iniziativa privata o a quella pubblica, in quanto essa (la tecnocrazia) predilige sempre agire perché sia la prima che la seconda cooperino per agire nel modo più efficace; è questo il motivo per cui sono sempre più numerosi i cittadini che credono nella competenza degli esperti, anziché in quella del personale politico, per decidere quali obiettivi devono essere perseguiti nell’interesse del Paese. A supporto di questo suo convincimento Khanna si rifà ad una ricerca del World Values Survey (un progetto di ricerca globale, che esplora i valori e le fedi delle persone, di come esse cambiano nel tempo e quale impatto sociale e politico hanno), dalla quale risulta che la percentuale dei cittadini europei e americani che ritiene essenziale vivere in un regime democratico è diminuita da due terzi a meno di un terzo del totale, mentre la quota di cittadini americani che crede che debbano essere gli esperti, anziché i politici, a decidere cosa è meglio fare per il Paese è salita dal 32 al 49%. Fatti, questi, che consentono a khanna di poter affermare, a sostegno della sua tesi, che sempre più cittadini “desiderano ardentemente un governo migliore, che sappia bilanciare democrazia e tecnocrazia”.
L’obiettivo che Khanna, con il suo libro, intende perseguire è quello di redigere un “promemoria” per vivere la trasformazione della democrazia attraverso “una combinazione di ciò che sappiamo e di ciò che possiamo immaginare su quello che significa progettare un governo efficiente che sia veramente al servizio dei cittadini”. Alcune delle sue proposte, avverte Khanna, potranno essere percepite come irrealistiche nelle attuali condizioni delle istituzioni e della politica, ma egli ammonisce che la storia punirà quei sistemi politici che non si predisporranno al cambiamento.
Khanna non si limita ad auspicare una trasformazione “ab imis” della forma di governo democratico, ma la estende anche alle dimensioni prevalenti degli Stati; secondo lui, la ricerca della “forma ideale dello Stato più adatta ai tempi non è un astratto esercizio filosofico, ma una necessità ricorrente”; ciò, perché le dimensioni degli Stati e i regimi democratici non sarebbero più strumenti idonei a consentire ai governi di risolvere i problemi del mondo attuale, essendo caratterizzati più dall’incapacità di fare qualcosa che di reagire, senza alcuna coerenza, al manifestarsi degli eventi negativi. Nel corso degli ultimi decenni, a parere di Khanna, gli studiosi dei problemi politico-istituzionali sono stati sempre impegnati ad individuare le dimensioni dello Stato ed il regime politico più convenienti, in funzione della complessità delle emergenze che maggiormente assillano i cittadini.
Dopo la fine della Guerra fredda, l’attenzione degli studiosi si è indirizzata verso l’individuazione del modo più conveniente per “capitalizzare” la creazione di un mercato mondiale, ovvero di un “mondo dominato dalla geoeconomia anziché dalla geopolitica”. Con il consolidarsi della globalizzazione delle economie nazionali, quindi, la concentrazione della produzione e l’approfondirsi dell’interdipendenza tra i vari sistemi produttivi, si sarebbero poste le premesse – afferma Khanna – per la nascita di quello che gli storici economici hanno definito “Stato commerciale” o “Stato di mercato”. Successivamente, gli strateghi della globalizzazione hanno previsto che i centri di potere del mercato mondiale sarebbero divenuti degli “agglomerati urbani di città-Stato analoghi a quelli che nel Medioevo formavano la Lega anseatica”.
La ricerca delle dimensioni dello Stato e della forma di governo più convenienti è proseguita ulteriormente con l’avvento dell’era dell’informazione digitale, portando ad individuare nell’”info-Stato” l’evoluzione modificata, ma più adattata ai tempi, dei modelli precedentemente indicati di “Stato commerciale”, di “Stato di mercato” e di “Agglomerato urbano di città-Stato”. A differenza dei modelli precedentemente individuati, l’info-Stato, a parere di Khanna, non “si fida più del mercato” e della tradizionale sua mano invisibile; esso crede piuttosto nell’azione congiunta del settore privato e di quello pubblico, ai fini dell’attuazione di piani strategici economici finalizzati alla soddisfazione degli stati di bisogno dei cittadini e realizzati sotto la guida esperta di una “tecnocrazia diretta”. In tal modo, secondo Khanna, l’info-Stato esprimerebbe una “democrazia postmoderna [...] che combina priorità dal basso e management tecnocratico”.
Il mondo è composto principalmente da Stati che ancora privilegiano la grande dimensione e la celebrazione dei riti propri delle democrazie elettorali; ma osservandole da vicino diventa facile capire, a parere di Khanna, le loro inefficienze e le insoddisfazioni dei loro cittadini. E’ questa la ragione per cui, secondo il politologo indiano, la piccola dimensione e la tecnocrazia costituiscono la via della salvezza degli Stati che agiscono su scala globale; ciò richiede però che i grandi Stati democratici riescano per tempo a maturare la consapevolezza che la grande dimensione e la democrazia non sono più in grado di garantire con successo la stabile soddisfazione dei bisogni delle loro società. Pertanto, gli Stati attuali potranno salvarsi solo muovendo “verso modelli di governance migliore”, in cui l’apertura alla riduzione delle dimensioni “si accompagni a una tecnocrazia orientata agli obiettivi”.
I grandi Stati democratici potranno pervenire a questo risultato – afferma Khanna – se riusciranno a superare il grave deficit teorico del pensiero occidentale, che ancora confonde la politica con la governance, tralasciando tra l’altro di considerare che, per legittimarsi, la democrazia deve poter realizzare ciò che promette; il suo fallimento, secondo Khanna, è riconducibile al fatto che i riti elettorali sui quali essa è fondata esprimono un sistema di distribuzione di responsabilità, “non un modo per realizzare progetti. La legittimazione procedurale [...] della democrazia non può mai sostituire del tutto la legittimazione dei risultati [...] della fornitura dei servizi di base dei cittadini”.
Inoltre, è molto più probabile che la legittimazione dei risultati possa avvenire nei piccoli Stati, anziché in quelli più grandi. L’idea che i piccoli Stati potessero costituire dei modelli di organizzazione politica è sempre stata considerata impraticabile; ma nel mondo attuale, sostiene Khanna, la sovranità è in via di trasferimento dagli Stati-nazione alle città-Stato, e la primazia ed il prestigio dei primi sono sempre più in declino, in quanto ciò che conta è il successo, che per il politologo indiano non ha nulla a che fare con la dimensione. Di conseguenza, le città-Stato sono destinate a rappresentare le fondamenta per la soluzione di tutte le “sfide che stanno al cuore di questo XXI secolo”. Ovviamente, osserva Khanna, essere un piccolo Stato ha i suoi costi, e proprio per questo alla loro conduzione si addice meglio la tecnocrazia piuttosto che la democrazia; quest’ultima non insegna le virtù del risparmio, o almeno non quanto lo fa la consapevolezza dei tecnocrati di dover fare assegnamento solo su di esso per provvedere a fornire servizi nella quantità e qualità attese dai cittadini.
La superiorità dei tecnocrati in competenza ed iniziativa, rispetto al personale politico, è dovuta al fatto che, a parere di Khanna, una “buona tecnocrazia” ispira sempre il suo comportamento alla “fede dell’utilitarismo”, inteso quest’ultimo, non solo come propensione a massimizzare il risultato economico, ma, anche e soprattutto, a massimizzare il benessere sociale, attraverso l’espansione e la protezione della “libertà individuale e la promozione di opportunità e vantaggi giusti e uguali per tutti”.
Concludendo, Khanna afferma che riporre fiducia su una buona tecnocrazia non significa che le decisioni democratiche dei cittadini e i fini utilitaristici siano in contrasto tra loro; per legittimarsi i tecnocrati devono prestare tutta la loro attenzione alle decisioni dei cittadini e spendersi per realizzarne i fini. Durante questo processo, essi non possono decidere di agire discrezionalmente, perché, se ciò avvenisse, i cittadini disporrebbero di un accesso all’informazione come mai era stato possibile prima dell’avvento dell’informazione digitale, vogliono e possono avere rapporti con esperti in grado di rispondere ai loro desiderata.
Sin qui Khanna; la sua analisi dell’auspicabile evoluzione che possono subire le forme dello Stato e del regime democratico nell’interesse delle comunità solleva non poche perplessità. La prima è riconducibile alla recente esperienza del nostro Paese: i tecnocrati, che erano alla guida dell’Italia in occasione della recente crisi finanziaria non hanno certamente dato prova di lungimiranza e d’essersi ispirati ad un’ideologia utilitaristica nel senso di Khanna. Le loro politiche di austerità non sono andate molto più in là di una spanna dal loro naso; le loro severe politiche di austerità sono state cosi lontane dalle aspettative dei cittadini da costringerli solo “a stringere la cinghia”, senza che la contrazione della spesa pubblica abbia prodotto una ripresa dell’economia e un miglioramento della sicurezza dei cittadini. Ma, a parte questa lamentazione su quanto è accaduto in Italia con la tecnocrazia al potere, l’analisi di Khanna induce a riflessioni preoccupate ben più significative.
Intanto, al di là dell’entusiasmo che sembra riporre sulla sua proposta, quella di fronteggiare le sfide del mondo attuale attraverso una contrazione delle dimensioni dello Stato e la rinuncia alla democrazia sinora sperimentata, Khanna poco si sofferma sui limiti delle forme assunte dalla globalizzazione e nulla dice sul modo in cui andrebbero rimossi. Anzi, tacendo e sorvolando sulle cause che hanno determinato la crisi economica mondiale dell’ultimo decennio, Khanna sembra voglia farne ricadere la responsabilità su due specifici versanti: da un lato, sulle resistenze opposte alla riduzione del ruolo dello Stato-nazione; dall’altro lato, sui regimi democratici, per la loro presunta strutturale incapacità di effettuare previsioni credibili e di reagire in tempi rapidi contro gli effetti negativi del ciclo economico, con politiche lungimiranti e affrancate dai condizionamenti degli interessi consolidati.
L’analisi e il promemoria di Khanna sembrano quindi suggerire riforme dell’organizzazione statuale e del regime democratico, idonee non tanto a migliorare le capacità di governo delle comunità, quanto ad assecondare appropriate per assecondare la formazione di un mercato mondiale, in conformità agli interessi dei poteri che hanno plasmato la globalizzazione a loro immagine e somiglianza. In altre parole, le proposte di Khanna appaiono un subdolo promemoria a sostegno di una politica mondiale consona alla formazione di un mondo fatto di “piccole patrie”, prone più agli interessi di chi controlla il mondo che a quelli dei cittadini che compongono le singole comunità.
Inoltre, a parere di Khanna, il famoso detto di Churhill, secondo cui la democrazia sarebbe la “peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le altre”, dovrebbe essere ripensato; sì!, ma non per le ragioni indicate dal politologo indiano, ma per rafforzarla e garantirne il funzionamento, per il ruolo che essa svolge a tutela dei destinatari degli esiti delle azioni di chi governa. Al contrario di quanto può pensare Khanna, non è vero che i cittadini siano univocamente interessati alla massimizzazione del risultato che può essere perseguito coi mezzi a disposizione. Ciò è tanto più vero, quanto più l’impiego dei mezzi a disposizione è affidato a tecnocrati, fuori da ogni controllo diretto dei cittadini; questi ultimi, contrariamente a quanto pensa Khanna, oltre ad essere interessati alla massimizzazione del risultato finale, sono anche fortemente motivati a conoscere le possibili conseguenze che possono derivare, a danno della loro esistenzialità, dal modo in cui i mezzi sono impiegati.
Oggi i cittadini, potendo accedere ad una produzione di conoscenza informatizzata come mai è stato possibile in passato, sono sicuramente più informati, ma certamente non sono garantiti riguardo alle procedure utilizzate per la produzione della conoscenza alla quale possono liberamente accedere. E’ questa la ragione per cui, nel mondo attuale e in quello di un tempo a venire sufficiente lungo, la democrazia risulta insostituibile. Essa consente ai cittadini di autoproteggersi, attraverso il dibattito pubblico circa il modo in cui i mezzi possono essere impiegati per la soddisfazione dei loro stati di bisogno; ciò che può essere garantito solo da una organizzazione democratica delle comunità, fondata sul funzionamento di istituzioni idonee a consentire lo svolgersi di un approfondito dibattito pubblico riguardo alle alternative d’impiego dei mezzi.
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*Su Aladinews, e anche su Avanti online
Donne della Resistenza. Madri della Costituzione.
- Donne della Resistenza. Madri della Costituzione. La pagina fb dell’evento.
Oggi martedì 5 marzo 2019 – Verso lo sciopero di venerdì 15 marzo 2019.
Cattolici e Politica
CATTOLICI E POLITICA. INTERVENTI DI SANDRO CAMPANINI, ERIO CASTELLUCCI E GIOVANNI BAZOLI
27 Febbraio 2019 by Forcesi | su C3dem.
Sandro Campanini ha rilasciato un’intervista in due tempi [il primo tempo] a Carlo Cefaloni nell’ambito di un dibattito aperto sul sito di Città Nuova (“Cattolici, forum civico e potere”). Su Avvenire, nei giorni scorsi, l’intervento del vescovo di Modena, Erio Castellucci: “Cattolici e politica. Viene un tempo di Sinodo, non certo di supplenza”. Su La Stampa un’intervista a Giovanni Bazoli che auspica “Un nuovo concilio ecumenico contro la crisi dell’Occidente”.
————————Save the date – Punta de billete – Prendi nota ———–
Lunedì 1° aprile p.v. con inizio alle ore 17, presso lo Studium Francescano in via principe Amedeo 20, si terrà un incontro-dibattito sulla tematica “Cattolici e Politica”, organizzato dall’Ufficio della Pastorale Sociale e del Lavoro e dall’Associazione Amici Sardi della Cittadella di Assisi. Brevi relazioni introduttive di Ignazio Boi, di Gianni Loy e di un esponente del Progetto Policoro. Segue il dibattito. (Coordinamento di Mario Girau e Franco Meloni). Maggiori dettagli nei prossimi giorni.
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La Sardegna ha perso il Banco.
La Sardegna s’impoverisce ancora. Il Banco di Sardegna scompare fagocitato da BPER
4 Marzo 2019
Antonio Sassu, già Presidente del Banco di Sardegna, su Democraziaoggi.
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«Lavorare per un futuro migliore»
«Lavorare per un futuro migliore»
22/02/2019 – di Fulvio Perini su Volerelaluna.
In preparazione del centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), è stato predisposto un documento dal titolo «Lavorare per un futuro migliore». Hanno partecipato all’elaborazione rappresentanti dei Governi, delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori e degli esperti di organizzazioni come l’Oxfam o di multinazionali della compravendita di lavoratori come la multinazionale Adecco, compreso il direttore del World Economic Forum di Davos. A presiedere la commissione sono stati Stefan Lofven, presidente svedese, e Matamela Cyril Ramaphosa, presidente sudafricano.
[segue]
Oggi lunedì 4 marzo 2019
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Come rilanciare la lingua sarda? – 3 Marzo 2019. Michele Podda a domanda di Andrea Pubusa risponde. Su Democraziaoggi.Michele Podda ha scritto un libro “Sardu totunu”, Sandhi ed., nel quale delinea un percorso per il rilancio della lingua. Il tema è vitale. Diceva Cicitu Masala che ad una comunità puoi togliere molto, ma se le togli la lingua, muore. Noi, a giudicare […]
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PD. Zingaretti segretario, ora occorre la svolta
4 Marzo 2019
Red su Democraziaoggi.
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Caro Maninchedda…
3 Marzo 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Che succede?
PRIMARIE PD, UN PASSAGGIO CRUCIALE
2 Marzo 2019, by sammarco |su C3dem
Arturo Parisi, “Un passaggio cruciale per risalire dall’astensione” (intervista a Repubblica ed. Bologna); Franco Monaco, “Pd, il gioco delle primarie: trova le differenze tra i tre” (Il Fatto); Fabio Martini, “Zingaretti a pranzo a casa Prodi per farsi consigliare” (la Stampa); Massimo Giannini, “Pd, la vera posta in gioco delle primarie” (Repubblica); Giuseppe Provenzano, “Al popolo perso della sinistra dico: venite e cambiateci” (intervista al Manifesto); Nicola Zingaretti, “Con i moderati per sfidare la nuova destra” (intervista al Corriere); Roberto Giacchetti, “Renzi è la punta di diamante dell’opposizione” (intervista a La Stampa); Claudio Cerasa, “Il tragico vuoto dell’alternativa” (Foglio).
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DIBATTITO. Ripensare la sinistra in Sardegna. Roberto Loddo su il manifesto sardo.
- Dopo la sconfitta. Massimo Dadea su il manifesto sardo.
Un commento del Direttore. “Che Zingaretti vinca le primarie e inauguri una nuova stagione del Pd è un auspicio perché sono sicuro cambierebbero in meglio molte cose, soprattutto per un’inversione della deriva a destra del paese, di cui il Pd è largamente responsabile, ma per cambiare direzione il Pd deve necessariamente cambiare se stesso. Diceva De Gasperi (credo sia sua la frase) che “la DC è un partito di centro che guarda a sinistra”, mentre il Pd di Renzi è diventato “un partito di centro che guarda a destra”. E’ possibile che, con la vittoria di Zingaretti, Renzi e i suoi fondino un nuovo partito dignitosamente collocato al centro, lasciando che il resto del Pd si ricostruisca a sinistra. Possibile, ma non so quanto probabile. Vedremo. Non è indifferente per noi, della sinistra senza appartenenze (perlomeno oggi), l’evoluzione del Pd verso posizioni di sinistra o il suo permanere al centro in posizioni neo-liberiste, ma noi non possiamo attendere e distrarre le nostre energie da un impegno che a noi si addice. Appunto quello di ricostruire un percorso di sinistra, forse più semplicemente definibile di democrazia. Che l’approdo sia “un luogo accogliente e riconoscibile per chiunque voglia agire l’uguaglianza, la democrazia e l’autodeterminazione della Sardegna”? Sarebbe bello, giusto e dunque ci si deve lavorare, “praticando l’obbiettivo”, cioè anticipando per quanto possibile oggi ciò che si vuole raggiungere domani. A presto per ulteriori considerazioni che l’intervento di Roberto merita.”
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Voglio sapere
Voglio sapere
David Maria Turoldo
Io voglio sapere
se Cristo è mai stato creduto,
se l’evento è reale e presente,
se è venuto e viene e verrà;
o sia appena un’invenzione
per un irreale giorno del Signore
di contro al cupo giorno dell’uomo.
Io voglio sapere
se veramente qualcuno crede
e come è possibile credere;
se almeno i fanciulli
– avanti ogni cultura –
vedono ancora la faccia del Padre.
Io voglio sapere
se l’uomo è una fiera
ancora alle soglie della foresta:
se la ragione è una rovina
se i fatti hanno una ragione
se la ragione è ancora utile.
Io voglio sapere
se ci sono ancora gli assoluti
o se io sono sacerdote
di colpevoli illusioni;
se è vero che saremo
finalmente liberi se saremo
ancora liberi se saremo mai liberi.
Io voglio sapere
se cantare è ancora possibile
se da ricchi canteremo ancora
se dipingere è ancora possibile
se la bellezza esisterà sempre,
se possibile sarà ancora contemplare.
Io voglio sapere
se la vita è solo meretricio
se il vostro vivere è appena una difesa
contro la vita degli altri:
se qualcuno, almeno qualcuno
crede che tutti gli uomini
sono una sola umanità.
Io voglio sapere
se l’uomo cresce
se c’è un altro avvenire
se la scienza non sia la morte
e la sua macchina non sia la nostra
bara d’acciaio.
Io voglio sapere
se esiste una forza liberatrice:
se almeno la Chiesa non sia
la tomba di Dio,
l’ultima sconfitta dell’uomo.
Io voglio sapere
se la pace è possibile
se giustizia è possibile
se l’idea è più forte della forza:
quest’uomo bianco
il più feroce animale
sempre all’assalto
contro ogni altro uomo
o maledetta Europa.
Io voglio sapere
se Cristo ha ancora un senso
di chi ha fede ancora in un futuro.
Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se la Chiesa ha mai creduto
che sia veramente risorto.
Perché allora è una potenza,
schiava come ogni potenza?
Perché non battere le strade
come una follia di sole,
a dire “Cristo è risorto, è risorto”!
Perché non si libera della ragione
non rinuncia alle ricchezze
per questa sola ricchezza di gioia?
Perché non dà fuoco alle cattedrali,
non abbraccia ogni uomo sulla strada
chiunque egli sia,
per dire solo: “È risorto”!
E piangere insieme,
piangere di gioia?
Perché non fa solo questo
dire che tutto il resto è vano?
Ma dirlo con la vita con mani candide
occhi di fanciulli.
Come l’angelo del sepolcro vuoto
con la veste bianca di neve nel sole,
a dire: “Non cercate tra i morti
colui che vive”!
Mia Chiesa amata e infedele,
mia amarezza di ogni domenica,
Chiesa che vorrei impazzita di gioia
perché è veramente risorto.
E noi grondare di luce
perché vive di noi:
noi questa sola umanità bianca
a ogni festa
in questo mondo del nulla e della morte.
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L’APPELLO DI PEOPLE – PRIMA LE PERSONE
Il nostro è un appello a tutte e a tutti: diamo vita a una grande iniziativa pubblica per dire che vogliamo un mondo che metta al centro le persone.
La politica della paura e la cultura della discriminazione viene sistematicamente perseguita per alimentare l’odio e creare cittadini e cittadine di serie A e di serie B.
Per noi, invece, il nemico è la diseguaglianza, lo sfruttamento, la condizione di precarietà.
Inclusione, pari opportunità e una democrazia reale per un Paese senza discriminazioni, senza muri, senza barriere: per questo promuoviamo a Milano il prossimo 2 marzo una mobilitazione nazionale.
Perché crediamo che la buona politica debba essere fondata sull’affermazione dei diritti umani, sociali e civili.
Perché pensiamo che le differenze – legate al genere, all’etnia, alla condizione sociale, alla religione, all’orientamento sessuale, alla nazione di provenienza e persino alla salute, non debbano mai diventare un’occasione per creare nuove persone da segregare, nemici da perseguire e ghettizzare o individui da emarginare.
Noi siamo per i diritti e per l’inclusione.
Noi siamo antirazzisti, antifascisti e convinti che la diversità sia un valore e una ricchezza culturale.
E nel ribadire Prima le Persone diciamo che servono, in Italia e in Europa, politiche sociali nuove ed efficaci, per il lavoro, per la casa, per i diritti delle donne, per la scuola e a tutela delle persone con disabilità.
Noi ci battiamo per il riscatto dei più deboli e per scelte radicalmente diverse da quelle compiute sino a oggi in materia di immigrazione, politiche di inclusione, lotta alle diseguaglianze e alla povertà.
Vogliamo mobilitarci insieme per un’Italia e un’Europa più giuste e aperte.
Un’Europa nella quale venga sconfitta la spinta del neonazionalismo che porta nuove barriere, che fomenta la violenza, che fa del migrante un capro espiatorio.
Noi siamo per un’Europa che voglia scommettere con convinzione su una rivoluzione delle politiche economiche, sociali e del lavoro a tutela di tutte le persone.
Perché ciascuno di noi è prima di tutto persona.
Noi vogliamo un Paese del quale tornare a essere orgogliosi senza dimenticare mai le grandi sfide di chi l’aveva immaginata, diversa, da come è oggi.
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- Per firmare.