Monthly Archives: gennaio 2019
NewsLetter
PER UNA RISCOSSA DELLA SOLIDARIETA’
4 Gennaio 2019 by Forcesi | su C3dem
Nuovo intervento-appello dei quattro esponenti di area cattolica Leonardo Becchetti, Marco Bentivogli, Mauro Magatti e Alessandro Rosina, che tornano a propugnare la nascita di un “Forum civico” per andare oltre il populismo e il sovranismo e ricostruire solidarietà e cooperazione, e di esso disegnano le coordinate (“Riscossa urgente”, Il Foglio). Qui il link al precedente intervento. Mauro Magatti interviene anche sul Corriere della sera criticando il governo per l’assenza di attenzione ai temi della scuola e della formazione (“L’era della digitalizzazione e la formazione che serve”). Un intervento di Luigino Bruni su Avvenire critica l’orientamento ostile al terzo settore e al volontariato presente nella legge di bilancio (“La buona Italia da non umiliare”). La Civiltà Cattolica pubblica un editoriale del suo direttore Antonio Spadaro, ripreso da Avvenire, in cui si indicano alcuni criteri per una riscossa della politica (“Si deve tornare ad essere popolari”). Massimo Adinolfi commenta la catechesi di papa Francesco nella prima udienza generale dell’anno: “Fede e morale, un nuovo lessico”. Così pure Enzo Bianchi su Repubblica: “Se il papa dice ‘meglio ateo che ipocrita’”.
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Elezioni sarde. Dalla parte degli elettori
Elezioni regionali: Poesia
4 Gennaio 2019, su Democraziaoggi
S’INZERTU
di Micheli Podda
Su deghennoe, si esseret bonu
lu faghiat po totus un’imbentu:
de candidare, a lumene tentu,
unu chi no at fama ne issonu
ma su programma presentet a tonu
ch’a donzi sardu lu fatat cuntentu
sos politicos frimen unu patu
de mantenner impare unu cuntratu.
In cue b’apat, bene iscritu a pinna
de dare terras a sos triballantes
pastores, massajos e frabicantes
apan bonu balanzu e bida dinna
sos zovanos abbarren in Sardinna
imparande arte e istudiantes
turismu, cumerciu tecnolozia
a dare intròitu a s’economia.
Faghimus contos: Murgia so credende
b’intrat cumbintu paris cun sos suos
Pili cun Maninchedda totas duos
chi est dovere lu sun cumprendende
de sos ateros tres mi so pessende
bastat chi nd’intret unu; sos concruos
sun chi custos sun bator, e sortios
bimchen, ca ater sunu dividios.
Si b’intrat Zedda, cheret postu in craru
chi est solu unu sardu progressista
Desogus, chene Maio nen Batista,
solu in Sardinna si chirchet imbaru
Solinas tenet su partidu raru
de Lussu, Melis, Columbu sardista
dasset fora Salvini e Berluscone
e gasi podet intrare a cumone.
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Per la Sardegna servono candidati serendipitosi
di Raffaele Deidda su Aladinews.
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Incontro con i Candidati Governatore della Regione, promosso dalla Diocesi di Cagliari – Ufficio della Pastorale del Lavoro. Cagliari, chiesa di Santa Restituta, 12 gennaio 2019.
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Oggi venerdì 4 gennaio 2019. Di sicurezza e altro
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Costituzione: come opporsi all’erosione silenziosa?
4 Gennaio 2019
Carlo Dore jr. su Democraziaoggi.
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ASGI: illegittimo negare l’attracco in un porto sicuro.
Il manifesto sardo pubblica un appello di impegno civile a difesa della legalità a fronte di una politica senza più legge lanciato da Asgi – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione.
- Su il manifesto sardo.
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LEGGE DI BILANCIO E DECRETO SICUREZZA: LA PROTESTA S’APPELLA ALLA CONSULTA
Forcesi su C3dem
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Un commento di Tonino Dessì, su fb.
Di anagrafi e di porti.
A scanso di equivoci e di strumentalizzazioni, considero corretto quello che ha dichiarato il Presidente Mirabelli.
Il contrasto alla legge razzista si fa con appropriate modalità giuridiche, al fine di provocare il pronunciamento del giudice delle leggi.
Un avvertimento al quale mi associo per auspicare che la protesta politica non rischi di restare propaganda.
Se si ritiene che la legge sia ingiusta, bisogna impugnare di fronte a un giudice i provvedimenti governativi attuativi, chiedendone anche la sospensione cautelare e in quella sede sollevare l’eccezione di costituzionalità.
Un problema analogo, sia pure tecnicamente diverso, si pone per la mancata accoglienza dei profughi nei porti italiani.
Furbescamente il Governo sta precludendo in modo generalizzato l’accesso ai porti senza aver formalmente adottato un atto motivato di portata generale, in assenza del quale anche le dichiarazioni del solo Ministro dell’Interno, verbali, non tradotte in un provvedimento scritto e non motivate giuridicamente sotto i profili della sicurezza dello Stato, o dell’ordine pubblico, o della sanità pubblica, cosa che peraltro richiederebbe il concerto anch’esso scritto del Ministro delle Infrastrutture, se non pure di altri ministri, come appunto quello della salute, sono del tutto inesistenti.
La furbata consiste nel fatto che proprio perché inesistente (ancorchè assentito tacitamente dalle autorità direttamente subordinate al Governo), l’ordine non si concretizza materialmente in un atto impugnabile.
Tuttavia un potere concomitante dei Sindaci di ordinanza, finalizzata ad ammettere l’accesso ai porti civili per motivi contingibili, di straordinarietà e di urgenza -pericolo per la vita e per l’integrità e la salute dei profughi salvati in mare- attinenti a competenze e a responsabilità che sono loro proprie (tutte: il Comune è nel proprio ambito territoriale ente a competenza generale, restando esclusa solo la materia della sicurezza dello Stato), può aprire un conflitto giuridico che spetterebbe al Governo tentare di superare ricorrendo a provvedimenti autoritativi formali, anch’essi impugnabili, ovvero impugnando le ordinanze sindacali.
In quelle sedi si aprirebbe la via giurisdizionale alla contestazione dell’esercizio illegittimo dei poteri governativi.
Insomma, se si vuol giocare la partita fino in fondo, i mezzi ci sono.
Altrimenti tutto resterà circoscritto alla polemica mediatica, con tutti i rischi di incomprensione e di scarsa durata dell’attenzione pubblica che ne conseguono.
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EUROPA. Il giudizio universale di maggio
Nel 2019 l’euro compie vent’anni, e non si può dire che sia un giovanotto molto desiderato. Da quel lontano 1999, anno nel quale entrò nel sistema finanziario una nuova moneta che doveva unire una parte forte del mondo ricco (ed erano undici degli Stati europei, compresa l’Italia che era entrata per il rotto della cuffia e con una tassa apposita, poi restituita ai cittadini), al 2002, quando monete e banconote entrarono concretamente nei portafogli e famiglie e imprese si fecero due conti; al 2011, anno della grande paura del default greco; al 2018, con l’assalto dei populisti alla cattedrale monetaria. Vent’anni.
Nel mezzo, ci sono stati gli attacchi alle Due torri, le guerre in Iraq e Afghanistan, le primavere arabe dall’altra parte del Mediterraneo e la Grande Recessione proveniente dall’altra parte dell’oceano Atlantico. La guerra in Siria, la crisi dei rifugiati, gli accordi e i disaccordi sul clima che intanto continuava a riscaldarsi, il trionfo cinese sulla globalizzazione. Dei tanti disastri, molti sono stati attribuiti all’attuale ventenne euro, alcuni più genericamente alla più vecchia e più larga Europa; tutti alle élite che nell’ultimo ventennio – e anche prima – hanno guidato questi processi, in quelle stanze non fisiche, fatte di reti di relazioni, competenze e persino linguaggio, che connettono Bruxelles e le capitali europee. Per questo le elezioni che si terranno a maggio per eleggere il nuovo parlamento europeo si presentano, più che come un rinnovo, come un giudizio universale, populisti vs Europa. Poco importa che i cosiddetti populisti, che più correttamente bisognerebbe chiamare nazionalisti, siano distinti e divisi, quando non confusi, sul da farsi: nel giudizio universale di maggio saranno accomunati dalla viscerale retorica contro i mostri di Bruxelles, contro l’Europa unita, contro le sue leggi che limitano e umiliano le sovranità nazionali.
Sarà un voto importante, nel quale tutti coloro che hanno creduto o credono ancora che nell’unione europea (senza maiuscole) ci sia una possibilità di progresso per le sue popolazioni dovranno trovare il modo per non essere schiacciati dall’etichetta di establishment; e i nuovi establishment – perché tali sono, almeno in Italia, Ungheria, Polonia, Austria, Repubblica Ceca – dovranno trovare il modo per nascondere le contraddizioni e i conflitti che «l’unione dei nazionalismi» porta con sé. Se ne è avuto un primo esempio proprio nella trattativa sul bilancio italiano, con i cosiddetti alleati dei gialloverdi d’Italia schierati in prima fila tra i «falchi» che reclamavano un maggior rigore finanziario. Ma quest’esempio non porta a sperare bene, perché proprio nella lunga trattativa che ha portato alla fine all’accordo che ha evitato per ora all’Italia la procedura d’infrazione c’è stato il trionfo delle parole e l’oscuramento dei fatti.
l’indeterminatezza utile alla manovra
Sulla parte italiana delle barricate di parole, molto già si sa: tutto è iniziato la sera in cui la manovra è stata varata, e i suoi proponenti hanno voluto non solo – com’è legittimo anzi doveroso – mettere nero su bianco il rispetto delle promesse elettorali, ma farlo sfidando le regole contabili europee.
Rapidamente quella sfida è diventata essa stessa l’oggetto della manovra, facendo passare in secondo piano quelli più concreti con i loro punti forti e deboli: cos’è, esattamente, «quota 100» sulle pensioni? Chi, dove, quando andrà in pensione? E sarà possibile costruire in pochissime settimane la macchina amministrativa per introdurre il reddito per i poveri? Chi, dove, quanti sono i poveri? L’indeterminatezza di questi capitoli della manovra – i più importanti, ma non i soli, ci sono poi rilevanti modifiche fiscali che sono state un po’ oscurate – è tornata utile nella fase successiva, quella della trattativa.
Eh già, perché i toni di sfida e trionfo iniziali si sono man mano stemperati, i due azionisti del governo hanno fatto un passo di lato per far entrare in scena, a giorni alterni, presidente del consiglio e ministro dell’economia, a gestire la trattativa, resa necessaria dal fatto che il semplice bullesco annuncio di voler spezzare le reni all’Europa ha spezzato un bel po’ di risorse qui in Italia, accelerando una fuga dei capitali già iniziata da maggio.
E nella trattativa è tornata utile la totale indeterminatezza delle misure «bandiera»: una aggiustatina ai requisiti, un’altra elle previsioni sulle adesioni, un piccolo rinvio, qualche finestra in più ed ecco venire fuori qualche miliardo di spesa in meno per il 2019.
Ne servivano ancora altri, e allora sono stati tagliati anche quei pochi investimenti, che in realtà erano comparsi a un certo punto un po’ a caso nella lista della manovra, tra l’altro proprio per compiacere l’Europa che lamentava l’assenza di spese in conto capitale, destinate davvero a stimolare la crescita.
Un ulteriore aiutino – per la eterogenesi dei fini, e anche dei conti – è venuto dalla correzione delle ottimistiche previsioni sul Pil: il fatto che l’Italia è quasi in recessione in realtà peggiora tutto, nella sostanza, e anche i conti pubblici; però la riduzione del Pil previsto ha consentito al governo gialloverde di mantenersi sopra la soglia simbolica del 2% del deficit (la stessa cifra assoluta di deficit sarebbe risultata in una percentuale inferiore, se avesse avuto, al denominatore un Pil più grande).
polvere sotto futuri tappeti
Dunque non c’è stato nessun tradimento o annacquamento delle misure populiste – anche se tra gli elettori gialloverdi il dubbio serpeggia – per il semplice motivo che le stesse misure erano già ampiamente annacquate o vaghe da prima. C’è stato un rinvio delle spese più grosse di qualche mese e nessuna nuova entrata reale e strutturale per finanziarle: come nella più antica tradizione italiana, la polvere sotto futuri tappeti.
Da parte europea, si è acconsentito a questo gioco per non forzare troppo la mano in vista delle elezioni, e anche perché le stesse rigidissime regole europee da tempo si prestano a eccezioni, flessibilità, annacquamenti vari. Lo diciamo non con rimpianto o delusione: è stata la linea della Commissione, quella di non ammettere di aver sbagliato linea negli anni duri della crisi e trovarsi a contrattare flessibilità con tanti pesi e tante misure. E non ha portato né ad aiutare davvero i governi amici dell’Europa né a dare una immagine nuova, diversa, dell’Europa e delle sue istituzioni, capace di contrastare i populismi.
trionfo di due ipocrisie
Terreno sul quale l’Europa, richiamandosi ai suoi princìpi fondatori, potrebbe invece davvero fare la differenza. Colpendo i regimi in formazione laddove attaccano le libertà, demoliscono gli sforzi verso la parità di genere, chiudono le frontiere e alzano muri. Inaugurando una nuova politica economica comune, chiedendo ai Paesi in surplus commerciale e fiscale di fare da locomotiva per gli altri. Combattendo il dumping fiscale e salariale, nonché quello in tema ambientale. Usando insomma gli strumenti che ci sono, a Bruxelles, e costruendone di nuovi. Invece c’è stato il trionfo di due ipocrisie, due false manovre: quelle populiste, che promettono senza mantenere oppure mantengono le promesse a spese dei più deboli e delle generazioni future; e quelle rigoriste, ridotte ormai al simulacro di se stesse ma ancora in piedi, se non altro come alimento alla contro-propaganda antieuropea.
Roberta Carlini
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ROCCA 1 GENNAIO 2019
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Dibattito&Commenti
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Il voto meridionale ai 5 stelle
31 Dicembre 2018 by Forcesi | su C3dem
Secondo la vulgata maggioritaria, il voto a valanga che il Mezzogiorno ha riservato al M5S si spiega con la voglia, quasi atavica, di assistenzialismo delle popolazioni meridionali, espressione, a sua volta, di una generalizzata predisposizione al lamento e alla rivendicazione di compensazioni e di risarcimenti quale conseguenza necessaria per il fatto di essere ultimi. Ultimi per ricchezza, per qualità dei servizi, per infrastrutture, etc. In effetti, dall’intervento straordinario in poi, sino alla sperimentazione delle prime politiche di sviluppo locale, le risorse in più destinate al Mezzogiorno hanno avuto questa motivazione: contrastare le asimmetrie che condannavano il sud a subire processi di crescita molto più lenti rispetto a quelli delle aree più avanzate del Paese. E tuttavia, nonostante gli ingenti flussi finanziari che dalla Cassa per il Mezzogiorno sino ai fondi strutturali europei che si sono riversati nel sud, la questione del ritardo meridionale resta in tutta la sua portata di questiona nazionale. Colpa dei meridionali? Delle loro classi dirigenti? Della cattiva politica? Del familismo, tratto tipico della società in tutti i suoi livelli? Dello scarso capitale sociale? Della criminalità organizzata? Di una pubblica amministrazione arcaica? Di una naturale inclinazione delle popolazioni a preferire la rendita alla innovazione? Dello scarso senso del bene comune? Certo, quelle elencate, insieme a chissà quante altre ancora, sono plausibili cause di una arretratezza che continua inesorabilmente a spingere il sud verso la periferia di un Paese, l’Italia, che di per se già vive – come ha acutamente osservato il cardinale Bassetti – una situazione di “sospensione”: può progredire, ma potrebbe anche regredire. Tutto dipende da quale “visione” prevale: quella della chiusura, della difesa di un piccolo mondo antico oppure quella della apertura e della rinascita del sogno europeo. E, soprattutto per la società meridionale, tutto dipende da quale speranza essa si lascia abitare.
Il voto meridionale ai 5 stelle, in dimensioni che neppure la Dc negli anni d’oro riusciva a raggiungere, con il conseguente prosciugamento del Pd, trova in una fragorosa domanda di cambiamento la sua motivazione prevalente. Sì, il voto ai 5stelle, esprime nel profondo una speranza: non una generica speranza di cambiamento, bensì quella di un riscatto e di uno sviluppo. Si è trattato, indubbiamente, di una speranza malriposta e poco pensata, ma pur sempre, espressione di una volontà di “prendere le distanze dalla interpretazione rancorosa del passato e del presente”, come ha di recente osservato Panebianco. Si è sempre affermato che il voto nel sud è stato un voto clientelare, di scambio, difficilmente catturabile da una idea di politica come bene comune. Ebbene, da questo punto di vista, le elezioni del 4 marzo hanno rappresentato una grande discontinuità: un pezzo significativo della società meridionale ha voluto esercitare, come mai prima, la libertà di voto: ha voluto dire basta con i cacicchi locali; basta con i loro cerchi magici; basta con la pervasività di una politica che colonizza ogni ganglio della vita delle persone. Un pezzo di società che rifiuta qualunque forma di paternalismo statale, che non è disposta a nascondere i propri vizi dietro un ridicolo revanscismo borbonico paradossalmente contiguo alla cultura nazional-populista. Un pezzo di società civile che non ne poteva più dei soliti politici candidati a tutto pur di conservare la loro fetta di micropotere, con il solito linguaggio inconcludente ma presuntuosamente onnisciente che nascondeva pochezza progettuale e povertà spirituale. I soliti politici che quando li incrociavi per strada cambiavano direzione.
A questo pezzo importante di società meridionale la classe dirigente democratica, che negli ultimi decenni ha egemonizzato l’amministrazione di tutte le Regioni del sud, non ha saputo offrire non dico un disegno ma almeno qualche cenno di politica riformista, tranne rare eccezioni come Guglielmo Minervini, l’assessore alle politiche giovanili e alla trasparenza della Regione Puglia, purtroppo, scomparso qualche anno fa al quale si devono gli unici innovativi interventi di sviluppo dal basso attraverso la valorizzazione dei “bollenti spiriti giovanili”.
Nessuna espressione della politica autoreferenziale è in grado di interloquire con questa società non solo perché non possiede la grammatica giusta ma neppure quella cultura del progetto che ha contraddistinto il grande pensiero meridionalista. Come avverte De Rita “non è questione di casta o non casta; davanti al rischio di deriva occorre una élite competente e capace di farsi carico della crisi”. Occorrono quelle minoranze profetiche di choc di cui parlava Maritain, linfa essenziale della democrazia nei momenti di crisi. Ma per formare queste élite, queste minoranze profetiche occorre una idea generale di società intorno alla quale catalizzare le competenze e le passioni. Una visione che oggi non è dato scorgere. La crisi del Pd si spiega anche in questi termini. Nessuno nel Pd oggi è capace di visione.
Col risultato, che questo pezzo di società civile meridionale, disillusa di fronte alla pochezza pentastellata, si trova davanti ad un bivio: potrebbe rifugiarsi nell’astensionismo o peggio, consegnarsi ormai esausta alle lusinghe demagogiche e perciò estremamente pericolose della Lega nazionale di Salvini. Un epilogo che potrebbe segnare la fine della questione meridionale non per raggiungimento degli obiettivi ma per consunzione della società meridionale.
Luigi Lochi
Elezioni sarde. Dalla parte degli elettori: le nostre (prime) richieste alle organizzazioni politiche e ai candidati
Per la Sardegna servono candidati serendipitosi
di Raffaele Deidda
Il neologismo serendipità deriva dal termine inglese serendipity, originato da Serendip, il nome persiano dell’attuale Sri Lanka. Fu lo scrittore inglese Horace Walpole che nel 1754 utilizzò il termine ispirato dalla spiritosa fiaba I principi di Serendip: “Facevano sempre nuove scoperte, per caso e per intelligenza, di cose che non andavano minimamente cercando”. Il termine ha così assunto, nel tempo, il significato di “trovare una cosa non cercata o imprevista mentre se ne cerca un’altra” .
Così l’idea di un andamento che dispone a trovare cose inaspettate mentre si sperimenta o si opera in tutt’altra direzione, e magari con tutt’altri fini, si è progressivamente introdotta nelle cognizioni di umanisti, filosofi, economisti ed è andata ad occupare un posto rilevante nella storia delle scoperte scientifiche. Dal viagra della società farmaceutica Pfizer alla penicillina di Fleming, dalla mela di Newton alla vasca di Archimede fino ad internet, prodotto dalla paranoia della Guerra Fredda. Da esclusivo appannaggio di pochi scienziati, con internet il web si è trasformato in quell’esperienza vissuta quotidianamente dalla moltitudine dei suoi frequentatori.
Alcuni studiosi si sono interrogati sulla possibile esistenza di una relazione fra serendipità e politica oggi che la polis non esiste più, sostituita da un villaggio globale che è altra cosa rispetto a quell’universo compiuto in cui individuo e collettività si fondevano in una sfera del politico che era socialità in azione. L’uomo inteso come “animale politico” sembra quasi scomparso dall’orizzonte della nostra esperienza per rimanere nei luoghi comuni. L’uomo politico attuale è concepito come colui che fa o che dovrebbe fare politica, che dovrebbe spendere parte del proprio tempo nella sfera pubblica al servizio delle istituzioni. Sembra invece che la politica, lungi dal farsi fulminare dal colpo di genio, si comporti come se tutto fosse lasciato al caso. Soprattutto nel nostro paese, apparentemente dinamico negli umori e nelle tensioni ideali ma in realtà statico e in perenne ricerca di un evento rivelatore che possa determinare un cambiamento. Per poi rimanere deluso dal cambiamento stesso e dagli attori politici che lo promettono, lo annunciano, senza avere le necessarie capacità e risorse per realizzarlo compiutamente.
Il fatto è che la politica, come la scienza, dovrebbe prendere spunto dalla massima di Pasteur: “La fortuna favorisce le menti preparate”. Quelle menti, cioè, disponibili a rivisitare in termini innovativi le proprie visioni della realtà. Se ad osservare gli eventi non c’è una mente preparata, anche l’incontro fortuito con interessanti contributi di idee di cui s’ignorava l’esistenza, e che soprattutto non si sarebbero mai impattati restando fermi in una linea di ragionamento tradizionale, è improbabile che venga colto nella sua importante novità. Se un autorevole istituto di ricerca effettuasse una rilevazione di quali e quante menti politiche realmente preparate “al servizio delle istituzioni” siano oggi attive in Italia, a tempo pieno o a tempo parziale, potremmo amaramente scoprire che sono decisamente poche. Le altre, molte, menti politiche non preparate sono quelle che hanno un concetto riduttivo della serendipità e che forse conoscono solo la descrizione data dall’americano Julius H. Comroe: “La serendipità è cercare un ago in un pagliaio e trovarci la figlia del contadino”.
In Sardegna si voterà per le elezioni regionali il prossimo 24 febbraio. E’ troppo pretendere che chi si candida a vincerle sia dotato di “mente preparata” non per ricercare la propria fortuna personale o per incensare la propria, statica, quanto improduttiva autoreferenzialità? E’ troppo sperare che sia reale la volontà di chi si candida alla guida della Regione di voler unicamente perseguire il bene comune dei sardi nella consapevolezza delle difficoltà, senza mirabolanti promesse che poi non potranno essere mantenute?
Non è troppo, sono le condizioni minime perché l’azione politica possa produrre effetti benefici per l’intera società sarda. In questa direzione, ricercando e sperimentando le migliori pratiche di governo, la serendipità può venire in aiuto consentendo di individuare soluzioni insperate ai problemi e percorsi virtuosi di sviluppo socio-economico. Purché a governare vi siano menti preparate, serendipitose. Le altre continuino pure a cercare l’ago nel pagliaio, chissà che non vi trovino la figlia del contadino.
Il Bene si fa strada: bene!
Decreto sicurezza e disobbedienza, quid juris?
3 Gennaio 2019
Red su Democraziaoggi.
Il CoStat, nella sua iniziativa sulla c.d. Legge Sicurezza del dicembre scorso, aveva lanciato un appello ai sindaci sardi per una “disobbedienza” verso quelle norme discriminatorie dei migranti in riferimento ai diritti fondamentali; questi, in quanto inviolabili, riguardano la persona a prescindere dal possesso della cittadinanza. Ora alcuni sindaci di importanti città italiane si muovono in questa direzione, con l’obiettivo d’investire la Corte Costituzionale della questione. Ecco, in sintesi, un quadro, in punto di fatto e di diritto, della vicenda.
[segue]
Elezioni sarde. Punta de billete/Save the date
- La pagina fb dell’evento. DOCUMENTAZIONE: il messaggio dei Vescovi sardi.
Che succede?
INIZIO 2019. Le PAROLE di MATTARELLA (e di FRANCESCO)
2 Gennaio 2019 by Forcesi |su C3dem
Il discorso agli italiani di fine anno di Sergio Mattarella ha avuto un largo seguito. Tra i commenti. Daniela Preziosi, “Mattarella, argine contro il cattivista” (Manifesto); Michele Serra, “Il coraggio di parlare di bontà” (Repubblica); Vladimiro Zagrebelsky, “Il bisogno di archiviare il rancore” (La Stampa); Mario Ajello, “Tra le due Italie il presidente ne sceglie una” (Messaggero); Mauro Calise, “L’Italia da ricucire al tempo dei social” (Mattino); Luciano Fontana, “Il tempo perduto delle illusioni” (Corriere della sera); Claudio Tito, “Cambio di stagione al Colle” (Repubblica); Raffaele Salinari, “Anno nuovo, confini vecchi” (Manifesto). La catechesi di papa Francesco alla prima udienza generale dell’anno lancia un messaggio netto: Salvatore Cernuzio, “Meglio vivere da atei che andare in chiesa e poi odiare gli altri” (La Stampa). Sul papa vedere anche Domenico Agasso, “Il papa rivoluziona la comunicazione” (La Stampa) e Alberto Melloni, “Il ribaltone del papa per dare voce alla sua chiesa” (Repubblica).
Oggi giovedì 3 gennaio 2019
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Fico: «Il faro che indica la strada è la centralità del Parlamento»
3 Gennaio 2019
Roberto Fico
[Democraziaoggi] Avviamo un dibattito sulla crisi del Parlamento e i suoi possibili rimedi. Lo facciamo – ovviamente – senza tifo da stadio e senza dar fiato a chi fino a ieri ne è stato, con la sua azione, la causa. Lo facciamo perché non chiudiamo gli occhi su quanto è avvenuto nei giorni scorsi con l’approvazione della manovra e per evitare che mali pregressi possano perpetuarsi. Pubblichiamo pertanto due scritti: anzitutto una Lettera del Presidente della Camera al Sole 24, cui segue secondo intervento con un excursus sulla crisi del Parlamento e sulle possibili proposte di rivitalizzazione.
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Per la centralità del Parlamento: vecchi mali e nuovi rimedi
3 Gennaio 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Che succede? Ragioni per disperare, ragioni per sperare.
DECRETO SICUREZZA. Sicuri, da chi?
di Fiorella Farinelli, su Rocca
C’è un filo nero a legare le diverse materie trattate dal cosiddetto Decreto Salvini, convertito in legge il 3 dicembre scorso. Contrarietà, perplessità, segnalazioni di sicure contraddizioni con principi costituzionali e con trattati internazionali si concentrano da settimane soprattutto sulla parte relativa a «immigrazione e protezione internazionale».
Ma a leggerla bene anche quella su «sicurezza e criminalità» non scherza. Dice, per esempio, che a minacciare la sicurezza della gente perbene ci sarebbero i mendicanti che l’accattonaggio lo esercitano in «modo molesto» (punibili con arresto da 3 a 6 mesi) e i parcheggiatori abusivi, peggio se recidivi (da 6 mesi a 1 anno di car- cere).
Fa ridiventare reati penali (non lo erano più, significativamente, dal 1948) il blocco stradale e l’ostruzione di linee ferroviarie, forme di lotta classiche dei più classici tra i movimenti. Inasprisce (da 1 a 3 anni) le pene per promotori e organizzatori di occupazioni di immobili e terreni. Estende il Daspo, il divieto di accesso agli stadi, anche a presidi sanitari, fiere, mercati, spettacoli pubblici. Introduce nelle città sopra i 100mila abitanti l’utilizzo da parte delle forze dell’ordine, vigili compresi, della pistola elettrica che immobilizza con scariche ad alto voltaggio. Col rischio – secondo Amnesty International che classifica il Taser tra gli strumenti di tortura – di provocare arresti cardiaci e di determinare gravi conseguenze sul feto nel caso di donne incinte (a Genova in effetti la pistola elettrica ha già ucciso un ecuadoregno nel corso di un Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Sono solo alcune delle perle di una norma che non nasconde affatto la convinzione che siano solo questione di ordine pubblico la marginalità, la povertà estrema, persino le forme tipiche del conflitto sociale. Miserie, tensioni, contagi e connessioni tra povertà e criminalità, si può davvero prevenirli solo con una maggiore deterrenza e risolverli con il carcere? O l’intenzione autentica non è trovare soluzioni, ma gonfiare ancora di più l’onda delle paure e della criminalizzazione? È una ricetta infallibile per alimentare altro risentimento, altro disprezzo, altro odio, un mix che porta diritto alla voglia dell’uomo forte al potere. A rammentarlo c’è, tra le altre, anche la storia recente del nostro Paese.
grandi e piccole angherie contro gli immigrati
Anche sull’immigrazione non c’è solo la demonizzazione dei richiedenti asilo e di quanti li accolgono e li aiutano ad integrarsi. Nel mirino della legge ci sono anche gli immigrati stabilizzati, i cinque milioni e più di «regolari», in Italia da anni, che lavorano, fanno impresa, pagano le tasse, hanno famiglia, mandano i figli a scuola, si sposano con cittadini italiani. Con grandi e piccole angherie, tutte contrassegnate da pregiudizi e ostilità, e dall’intenzione evidente di «far cassa». Sono l’aumento da 200 a 250 Euro della tassa per l’avvio delle pratiche di cittadinanza, che si aggiunge a quelle già salate per il rinnovo, ogni due anni, dei permessi di soggiorno. È il prelievo del’1,5% sul money transfer, i 5 miliardi circa di Euro che vengono inviati ogni anno in aiuto delle famiglie rimaste nei paesi d’origine. Un giochetto che vale da solo 60 milioni annui, con tanti saluti non solo al ruolo tradizionale delle «rimesse dei migranti» che, ai tempi in cui ad emigrare per povertà eravamo noi, sono state importantissime per il nostro sviluppo economico , ma anche all’ attuale slogan leghista dell’ «aiutiamoli a casa loro».
Ma il peggio viene con il prolungamento da 24 a 48 mesi del termine per la conclusione dei procedimenti relativi alla cittadinanza, sia quelli richiesti per lunga residenza che quelli per matrimonio con un italiano o un’italiana. Che scandalo che un figlio di genitori stranieri nato in Italia arrivato ai 18 anni possa, se la chiede, accedere più facilmente alla cittadinanza . E che attacco subdolo all’identità nazionale che si possa farlo a soli tre anni dal matrimonio con un cittadino o cittadina italiani.
Nella prima bozza del testo del Decreto c’era del resto anche di più, per l’accesso alla cittadinanza si richiedeva, tra le altre condizioni, che ci fossero anche l’«incensuratezza dei familiari conviventi», l’«assenza di pericolosità sociale», la «condotta irreprensibile», un «reddito pari almeno all’assegno sociale», requisiti che neppure i più proni all’equazione immigrazione eguale delinquenza – come sembra essere qualche grillino – ce l’hanno fatta a digerire del tutto. Hanno digerito con facilità, invece, che anche sulle richieste già avviate di cittadinanza (che sono tante ormai tra gli stabilizzati di lunga durata: nel 2017 le «naturalizzazioni» sono state 200mila), pesi la decisione retroattiva di richiedere come requisito indispensabile il superamento di un test di italiano di livello B1 – superiore a quello richiesto per la conferma dei permessi di soggiorno. E senza l’ombra di un’offerta formativa di tipo nuovo assicurata dalla scuola pubblica. Persino la lingua del paese di accoglienza – promessa e chiave dell’integrazione – ridiventa, come ai tempi del ministro Maroni – una sorta di strumento di «sanzione» della condizione di immigrato.
protezione umanitaria circoscritta
E poi viene il clou. Gli argomenti che, secondo Salvini e il suo governo, hanno giustificato la decisione di procedere per decretazione (che l’articolo 77 della Costituzione limita ai soli casi di necessità ed urgenza), cioè l’«invasione» via mare dei migranti e il fatto che, se sono pochissimi (nell’insieme non più del 15%) i richiedenti asilo che ottengono lo status di rifugiato e la protezione internazionale, sono stati finora circa il 25% quelli che hanno ottenuto una «protezione umanitaria», un permesso di due anni con cui provare a integrarsi, imparare l’italiano, fare corsi di qualificazione professionale, trovare un lavoro, uscire da quello in nero e cominciare una nuova vita.
È qui che scattano, con la falsa rappresentazione di un fenomeno assai distante, per dati numerici, dalla tipologia dell’ «invasione», i provvedimenti centrali della norma. La quasi totale eliminazione della protezione umanitaria – circoscritta a casi di assoluta eccezionalità (da malattie gravissime a premi per atti eroici), l’esclusione di coloro che non ottengono l’asilo dai luoghi di accoglienza organizzati dai Comuni che assicurano i primi passi sulla via dell’integrazione e la deportazione in quelli, gestiti dallo Stato, che sono simili piuttosto a luoghi di detenzione, e un insieme di altre limitazioni. Il divieto, per esempio, di iscriversi alle anagrafi comunali per ottenere almeno una regolare residenza. Il taglio delle risorse destinate ai Comuni per gli Sprar, l’obbligo di restare nei Centri cosiddetti di identificazione per 180 giorni (finora erano 90, ed è la stessa polizia a dire che se nei primi due mesi non si riesce ad avere un accertamento, non ci si riesce di sicuro solo perché se ne allungano i tempi).
Ad essere smantellato, in sintesi, è il solo sistema dell’accoglienza comunale che, tenendo conto che tra i richiedenti asilo ci sono anche persone che non lo ottengono perché scappano dalla povertà e che tuttavia tentano questa strada perché dal 2013 in Italia non ce n’è nessun’altra, ha finora contrastato con più di un successo l’esposizione dei migranti a un abbandono che porta quasi inevitabilmente alla microcriminalità (e del peggio che può seguirne), e proprio distribuendo i migranti nelle piccole località dove è più facile integrarsi ed entrare nel lavoro. Tutto ciò perché l’idea che ispira la legge è del tutto diversa. La cosa da fare, la sola utile e necessaria, è ricacciare indietro tutti coloro che non hanno diritto all’asilo, scoraggiando proprio con il tragico fallimento di tanti progetti di integrazione e, prima ancora, con gli annegamenti in mare, altri probabili arrivi. È l’idea, dunque, di un rimpatrio coatto di tutti gli illegali, del riportarli «a casa loro». Anche se Salvini è il primo a sapere che i rimpatri, anche quelli volontari, si possono fare solo con i pochi paesi d’origine con cui ci sono già appositi trattati internazionali, tra cui alcuni del Maghreb. Col risultato che i rimpatriati sono, inevitabilmente solo poche migliaia l’anno.
finanziamento dei rimpatri
Ma la verità non la si dice, e comunque non importa. È qui, sul finanziamento dei rimpatri, che vanno le risorse sottratte alle politiche comunali di integrazione, 500mila Euro per il 2018, 1 milione e mezzo per il 2019, e altrettanti per il 2020. Ad essere colpiti dall’operazione sono in primo luogo i migranti che non possono né tornare indietro né raggiungere i paesi europei dove hanno appoggi familiari e amicali, ma poi anche le cooperative e le associazioni impegnate nell’impresa, con le reti attorno a loro del volontariato e della società civile. Anche per loro nuovi obblighi, nuovi controlli, nuove regole.
È il ritornello dei 35 Euro procapite al giorno «rubati» agli italiani, è il business da stroncare degli italiani cosiddetti «buonisti» ma in verità interessati solo ai soldi, è la strategia di scoraggiamento e di intimidazione di quella parte della società italiana che, qualsiasi cosa pensi delle migrazioni, sa di doversi misurare con un fenomeno di portata globale. Forse contenibile con politiche internazionali più accorte delle sventate operazioni di guerra in Libia e su altri scacchieri del Medio Oriente, con controllati «corridoi umanitari» che facciano entrare nei nostri confini una parte almeno di quelli disposti a tutto per cambiare paese, con la riapertura di flussi per lavoro che servtrebbero alla nostra economia e a compensare i vuoti del declino demografico. Ma che non può essere cancellato innalzando muri contro i conflitti, la povertà, le catastrofi climatiche. Di tutto questo però non c’è traccia nella legge di Salvini. Solo i muri, solo le polemiche contro l’Europa che non supera il trattato di Dublino, solo quello che inasprisce, impoverisce, inganna.
senza tetto né legge
Si profila dunque, con l’attuazione della legge, non una gestione più efficace dell’immigrazione, ma un disastro umanitario e civile che, perpetuando la falsa rappresentazione dell’«invasione», peggiorerà il clima politico del Paese. Perché se nel 2018 coi barconi sono arrivati solo poco più di 23mila migranti (una riduzione dell’80% rispetto ai due anni precedenti), l’abolizione della protezione umanitaria rovescerà però nelle strade delle nostre città un’altra ondata di migranti senza tetto né legge. I primi sono già arrivati, espulsi dagli Sprar dedicati d’ora in avanti solo ai minori stranieri non accompagnati e a quelli che hanno ottenuto la protezione. Sono i primi di un piccolo esercito che si aggiungerà agli oltre 300mila rimasti intrappolati da noi in fasi precedenti. Un altro bel cesto di opportunità per gli imprenditori dello spaccio e della prostituzione e per chi si arricchisce di sfruttamento e di lavoro nero. La «percezione» dell’insicurezza avrà ottimi motivi per crescere ancora. La paura di quelli che bighellonano senza far niente diventerà ancora più forte. L’insofferenza, la xenofobia, il razzismo, il risentimento per le prestazioni obbligatorie del welfare (a partire dai presidi di pronto soccorso affollati di persone senza accesso al sistema pubblico sanitario), per le occupazioni di spazi e di edifici, sono destinati ad acuirsi. Mentre l’onere di far fronte in qualche modo alle emergenze si rovescerà sui servizi sociali dei Comuni, non a caso tra i soggetti più critici e più preoccupati dell’impatto della nuova legge. Difficile ipotizzare che tutto ciò avvenga per caso, che non ci sia un calcolo della politica che proprio su questo impasto di paure più o meno giustificate di vaste aree della popolazione italiana ha costruito consenso e potere. Bisognerà esserne consapevoli per poter svolgere un ruolo utile. Discutere di ciò che è stato e delle sue conseguenze con la gente, denunciare le falsificazioni della realtà e i fallimenti della logica dei «muri» e dei «rimpatri», sostenere le azioni di accoglienza e di integrazione, valorizzare ciò che di buono si riesce a fare, inventare nuova politica.
In questi giorni sono in molti a polemizzare con il prete di Pistoia che in un’omelia ha dichiarato che, con la legge di Salvini, la famiglia di Gesù non sarebbe potuta scappare dall’infanticida Erode e rifugiarsi in Egitto. E la storia, la nostra storia, avrebbe forse preso un’altra piega. Già. Ci sono luoghi e tempi in cui una decisione o l’altra fanno la storia degli uomini e dei Paesi.
Fiorella Farinelli
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La vera Italia dell’umanità accogliente. Quattro motivi per sperare
Maurizio Ambrosini*
su Avvenire di sabato 29 dicembre 2018
Nel suo Rapporto 2018 Amnesty International chiude il severo capitolo dedicato alle politiche migratorie italiane con un cenno di speranza: la vede incarnata nei cittadini e nelle associazioni che si sono organizzate per opporsi alla xenofobia e per offrire assistenza a rifugiati e migranti. Il caso della mobilitazione di Lodi a favore dei bambini di famiglie immigrate esclusi dalla mensa è forse quello che negli ultimi tempi ha riscosso più interesse, ma questo giornale ha dato voce in molte occasioni alle iniziative di solidarietà sorte in tutta Italia: pensiamo per esempio all’accoglienza diffusa dei rifugiati giunti con i “corridoi umanitari” dal Vicino Oriente e dall’Africa, alle tante scuole d’italiano, ai doposcuola associativi e parrocchiali che seguono i ragazzi di origine immigrata. È importante sottolineare la varietà delle esperienze, dei soggetti e delle motivazioni che si sono attivate sotto la bandiera dei diritti dei migranti.
Non si tratta di élite cosmopolite e senza radici, ma di soggetti collettivi radicati nella società e di tanti cittadini normali e senza etichette.
È il caso, però, di approfondirne maggiormente i diversi profili. Credo infatti che questo complesso di attori possa essere suddiviso in quattro categorie.
La prima è costituita dalle Ong e da altri operatori strutturati e specializzati nel settore umanitario. Sono protagonisti dell’offerta di servizi dedicati, che spaziano dal salvataggio in mare all’accoglienza a terra. Hanno lavorato per diverso tempo in accordo con i Governi, ma possono coltivare visioni, valori e priorità non allineate con quelle dei poteri pubblici, agendo secondo codici, quelli dei diritti umani universali, che possono divergere dalle politiche degli Stati. La veemente campagna contro le Ong ha fondamentalmente questa motivazione: non accettano di ridursi a docile strumento della politica.
La seconda categoria è formata dalle organizzazioni della società civile che intervengono in vario modo sulle questioni dell’immigrazione e dell’asilo, pur non essendo specializzate in tale ambito o rimanendo prevalentemente nell’ambito del volontariato. Spesso combinano servizi operativi con azioni di sostegno e sensibilizzazione a livello politico e culturale. Rientrano qui i sindacati, le istituzioni religiose, le associazioni di volontariato. Per esempio le mense e gli empori solidali, così importanti per le famiglie in difficoltà e i rifugiati esclusi dall’accoglienza. Queste realtà impiegano personale retribuito, ma soprattutto volontari, talvolta cooperando con i poteri pubblici, altre volte compensando con i loro servizi le carenze dei sistemi di accoglienza. Come negli Stati Uniti, spesso si sentono in obbligo di assistere anche immigrati in condizione irregolare, per esempio presso gli ambulatori del volontariato.
Una terza categoria di attori è rappresentata dai movimenti sociali, portatori di istanze politiche radicali di protesta contro lo Stato e il sistema economico capitalistico. Sono particolarmente attivi nelle dimostrazioni contro le campagne xenofobe, ma non si limitano a questo. La novità consiste nel fatto che oltre a realizzare manifestazioni politiche, i movimenti sociali in vari casi si sono organizzati per fornire servizi materiali e immateriali ai migranti in difficoltà, come cibo, accoglienza, socializzazione, assistenza legale e burocratica. Un’evoluzione importante.
In quarto luogo, si possono distinguere singoli e gruppi che si sono attivati spontaneamente a livello locale per fornire servizi ai richiedenti asilo, temporaneamente accolti oppure in transito: per esempio i gruppi attivi per diversi mesi alla stazione Centrale di Milano, o quelli che in maniera diffusa sul territorio, e perlopiù in modo informale, offrono lezioni di italiano o propongono attività sportive, musicali, di animazione del tempo libero ai richiedenti asilo. Anche molti cittadini singoli, senza etichette e senza gruppi di riferimento, si mobilitano localmente per aiutare come possono immigrati e rifugiati.
Nel tempo di Natale, a questo “esercito del bene” va un pensiero di gratitudine. Insieme alla speranza che altri si uniscano a loro, facendo prevalere le ragioni dell’umanità sulla politica delle chiusure e dell’inimicizia.
*Sociologo, Università di Milano e Cnel
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Che succede?
RIFLESSIONI POLITICHE DI FINE 2018
31 Dicembre 2018 by Forcesi | su C3dem
Romano Prodi, “Troppe chimere e poche risorse per un 2019 senza crescita” (Messaggero). Il giurista Glauco Giostra sulla manovra in Italia: “Ma è offensiva contro i deboli”. Così anche Furio Colombo su Il Fatto: “Il cambiamento: cosa porta e cosa toglie”. Sergio Fabbrini, “Mance date a pioggia, non c’entrano con il popolo” (Sole 24 ore). Luca Ricolfi, “Il paradosso del cambiamento: un futuro di tasse in più” (Messaggero). L’editoriale di Marco Damilano sull’Espresso: “La sottile linea rossa dell’attesa”. Maurizio Ambrosini, “Quattro motivi per sperare” (Avvenire). Giuliano Ferrara, “Un augurio malinconico per la coscienza italiana” (Foglio). Claudio Cerasa, “Il 2018 ci ha insegnato che la ruspa populista è un guaio per la democrazia” (Foglio). Angelo Bagnasco, “L’Europa unita torni ad essere comunità” (Secolo XIX). Alessandro Campi, “A chi tocca costruire la rinascita dell’Europa” (Mattino). Ernesto Galli della Loggia, “Le elite devono tornare a fondarsi sul merito” (Corriere della sera). Marcello Sorgi, “Il tagliando gialloverde” (La Stampa). Piero Ignazi, “La stella cadente di un movimento” (Repubblica). L’intervista di Steve Bannon al Corriere: “Come formerò agenti del populismo”. L’editoriale su La Stampa dello spagnolo Juan Luis Cebrian, “La democrazia degli indignati”. Amartya Sen sul Corriere: “Brexit, il potere tremendo delle cattive idee”. Sul Sole 24 ore due opinioni a confronto sull’euro a vent’anni dalla sua introduzione: Romano Prodi (a favore), “Sopravvivenza legata all’euro”, e Giulio Sapelli (contro), “La moneta unica che non unisce”. Su La Stampa ne scrive Mario Deaglio, “L’euro al test più difficile”.
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[Tonino Dessì, su fb] A poco a poco qualcosa si muove.
Spero che anche in Sardegna qualcuno si svegli, ora che il “la” è partito dal Continente (qui, se no, si aspetta sempre).
Prossimi passi, i ricorsi alla magistratura amministrativa e civile (occorrendo anche resistenze in sede penale) contro circolari, direttive, disposizioni, richiami, contestazioni, denunce formali ministeriali.
Ho già argomentato perchè a mio avviso -e non sono uno che improvvisa, in materie giuridiche- anche la Regione ha titolo per agire in giudizio, in varie sedi.
Bisogna portare la legge razzista di fronte alla Corte Costituzionale.
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Migranti. Palermo e Napoli: no alla «Legge Salvini». Obiezione umanitaria dei sindaci
mercoledì 2 gennaio 2019, su Avvenire.
Orlando e de Magistris non vogliono applicarne alcuni punti, come negare la residenza ha chi ha il permesso di soggiorno perché rifugiato riconosciuto. Il dibattito
il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, sulla nave Mare Jonio in una foto d’archivio (Ansa), ripresa da Avvenire.
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Si fa strada l’obiezione dei sindaci alla «legge Salvini», ovvero il Decreto sicurezza.
[segue]
Oggi mercoledì 2 gennaio 2019
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Caro Pigliaru, tu ti autoassolvi, ma tutti fingono di non conoscerti, ci sarà una ragione?
2 Gennaio 2019
Amsicora su Democraziaoggi
Lettera aperta al Presidente della Regione, che su Facebook fa il punto sul 2018 politico, con occhio alle prossime elezioni regionali.
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