Monthly Archives: dicembre 2018

Oggi sabato 8 dicembre 2018

Lunedì 10 dicembre 2018
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3f555ee7-6c23-42b0-b6e2-6df7df3b95b0Regionali: al cappio della legge truffa stavolta finiscono Zedda e Desogus
8 Dicembre 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Luigi Ferrajoli: “La Costituzione ci aiuta, difendiamola applicandola!”

5a728ca7-3596-49e9-8d0b-5a4ffc57115aIeri al Mem lezione magistrale di Luigi Ferrajoli. “Le disuguaglianze sociali sono aumentate spaventosamente nel mondo e in Italia. La Costituzione non ci tutela se non applicata con le politiche sociali, a cominciare da quelle di contrasto alle povertà. Ci sono milioni di poveri che rinunciano a curarsi perché non sono in grado di pagarsi i ticket. in Italia a fronte di oltre 400 miliardi di ‘spesa sanitaria’, lo Stato e le Regioni incassano poco più di 4 miliardi di euro dai ticket, che se ne vanno tutti in costi di transazione burocratica. Meglio sarebbe tornare alla sanità pubblica gratuita per tutti, ovviamente abolendo sprechi ed inefficienze. Abbiamo ancora e nonostante tutto uno dei migliori sistemi sanitari del mondo, anche per l’altissima professionalità dei nostri medici e personale socio-sanitario, ma la situazione tende al peggioramento. La politica si assuma le sue responsabilità anche contrastando le logiche perverse del mercato. La Costituzione ci aiuta, difendiamola applicandola!”. “La recente legge sulla sicurezza è vergognosa e sicuramente anticostituzionale. Ci riporta indietro rispetto a tutti i principi fissati nella Dichiarazione universale dei diritti, dalle moderne Costituzioni e da tutti i successivi Trattati”. “I partiti politici devono riprendere il loro ruolo, quello che prevede il dettato costituzionale: la pratica della democrazia deve informarli, senza cedere al leaderismo che abolisce la partecipazione”. Bisogna comunque impegnarsi sorretti dall’ottimismo dell’intelligenza e della volontà.

Elezioni. Il Circolo Me-Ti: appello per una proposta unitaria

me-tiIL CIRCOLO ME-TI SULLE ELEZIONI
Il circolo Me-Ti ha, nel corso del 2018, discusso, approvato e dato seguito al proprio documento politico.
[segue]

Umani Sopra-Tutto in piazza, sabato 15 dicembre

banner_umani_sopra_tuttoMartedì 11 dicembre alle ore 11.00 a Cagliari, nella sede regionale dell’ASARP, in Via Romagna n°16, nel Padiglione E della Cittadella della Salute, la rete sarda Umani Sopra-Tutto ha convocato una conferenza stampa che illustrerà alla stampa sarda gli obiettivi della manifestazione regionale, pacifica e nonviolenta, per il rispetto dei diritti umani e il superamento di ogni forma di discriminazione che si svolgerà sabato 15 dicembre, alle 17:00 in Piazza Garibaldi a Cagliari. Una manifestazione organizzata da oltre 70 associazioni sarde che fanno parte della rete, unite per contrastare l’imperante clima d’odio e la de-umanizzazione della società.
Durante la conferenza stampa interverranno Andrea De Angelis di Amnesty International; Elena Sitzia dello SCI, Servizio Civile Internazionale; Ahmed Naciri di Help for you e Francesca Casula di Liberos.

Europa e le contestate radici cristiane

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I cristiani, l’Europa, la democrazia: segnali di crisi, nuove responsabilità
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4 dicembre 2018 by Forcesi| C3dem
Il crinale storico e politico sul quale ci troviamo a camminare viene sempre più interpretato e definito in termini di crisi della “democrazia”. Il successo elettorale che, in molti paesi europei, negli Stati Uniti e più in generale nei paesi retti da democrazie rappresentative, si è determinato a vantaggio di formule politiche che rivendicano in modo assoluto l’esigenza di un’identità e di una sovranità nazionali da difendere e preservare, rappresenta la cifra forse più evidente ed appariscente del quadro che si viene componendo sul piano internazionale. Le scelte compiute su questioni cruciali come l’immigrazione o le relazioni economiche e politiche internazionali, dentro e fuori i confini dell’Unione Europea, rappresentano i frutti di un’applicazione di questo assunto fondamentale che viene esemplificato attraverso una linguistica politica che si è arricchita dei termini “populismo” e “sovranismo”.

Le letture possibili della crisi
Numerose sono le interpretazioni che sono state offerte di questo evolversi del panorama storico e politico del nostro tempo. Si osserva allora che quello a cui assistiamo costituisce il riverbero, sul piano politico, di un combinato che unisce la crisi economica alla crisi dell’ordine internazionale, di cui il fenomeno migratorio rappresenta la più diretta e vistosa manifestazione, che ha messo in luce la fragilità politica di molti partiti e la efficacia di molteplici istituzioni.
Diversamente, si è messo l’accento sul carattere “originario” della crisi del sistema partitico che ha sin qui caratterizzato le democrazie rappresentative attraverso una distinzione fra partiti di matrice conservatrice e liberale e partiti di orientamento progressista e socialista. Seguendo questa lettura, il punto cruciale da cui origina il rivolgimento che attraversiamo è da collocarsi nella crisi delle forze politiche di sinistra, socialiste o progressiste, che si somma a quella della cultura politica “liberal” negli Stati Uniti e oramai si estende ai partiti conservatori di matrice liberale (dalla CDU-CSU tedesca, ai popolari spagnoli, ai conservatori inglesi e ai repubblicani americani che conoscono il riemergere di una tentazione “di destra” a cui già si sono adeguati, ad esempio, i popolari austriaci).
Una terza lettura possibile è quella che qualifica questo secondo decennio del Ventunesimo secolo come il tempo della crisi della democrazia stessa, almeno nella sua forma rappresentativa e liberale. Rispetto al principio della rappresentatività, alla divisione e distinzione dei poteri e all’idea cardine del limite imposto all’esercizio dell’autorità dello Stato rappresentato dai diritti individuali e sociali, sembrano avere successo modelli giudicati più efficienti (come la Russia o la Turchia). Nell’opinione pubblica dei paesi con istituzioni “democratiche” si fa allora strada una preferenza per soluzioni istituzionali che accentrano nel governo i poteri e la funzione decisionale, arrivando a ridurre la divisione dei poteri non solo e non tanto ad un “orpello” rispetto alla necessità di decisioni rapide, ma ad una sorta di menomazione di un potere “del popolo” che non dovrebbe conoscere divisioni ma dovrebbe essere riversato interamente nelle mani di chi riceve un mandato politico attraverso il suffragio elettorale.
Tutte queste prospettive interpretative fanno luce su aspetti diversi del nostro presente ma vi è una ulteriore lettura possibile che può aiutare a individuare una sorta di filo conduttore che attraversa la crisi dei partiti e la lega a quella delle strutture politiche, sociali ed economiche. Vi è infatti una sorta di saldatura delle fratture che emergono sul piano politico e istituzionale così come su quello economico e sociale, con faglie culturali antiche, che affondano le radici nel Novecento e che hanno un forte connotato religioso, cristiano e cattolico in particolare.

Le faglie del cattolicesimo europeo
Quello che si ha di fronte è un mutamento culturale di portata globale, che nasce da un quadro storico generale dove sono messi radicalmente in questione i fondamenti della democrazia. Si tratta di una sfida che investe il piano essenziale e dimenticato della cultura politica e che fino ad ora nessuno ha saputo o voluto affrontare. Tuttavia, dentro questo deterioramento progressivo delle forme della politica, vi sono luoghi nei quali più evidente è l’esistenza di un nesso strettissimo fra l’emergere di una politica che esplicitamente rifiuta i fondamenti della democrazia liberale e il manifestarsi di un cattolicesimo identitario, declinato secondo forme molteplici di nazionalismo o di affermazione della diversità culturale esclusiva ed escludente di un popolo.
Se ci limitiamo ai confini dell’Unione Europea, la esplicita volontà di difendere la sovranità nazionale attraverso l’affermazione identitaria di un insieme di valori che hanno un fondamento religioso di matrice cattolica rappresenta un tratto qualificante della politica di alcuni governi europei: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Italia. A questo elenco è possibile aggiungere, considerando il dato politico che emerge dalle recenti consultazioni elettorali regionali, alcune ampie zone della Germania, soprattutto la Baviera, storicamente “cattolica”.
Si tratta di una geografia che investe certamente paesi di più “recente” democrazia, nei quali, come un attento osservatore qual è Massimo Cacciari ha notato, sembra manifestarsi ora una saldatura fra identità statuale e identità nazionale che i paesi dell’Europa occidentale avevano conosciuto due secoli fa. Tuttavia, la diffusione di un consenso per una politica autoritaria e “forte” si dispiega dentro un’area che ha un connotato storico-geografico specifico: quello che cento anni fa è emerso dalle ceneri dell’impero asburgico e che è fatto di linee di faglie e di linee tensione che hanno un fortissimo connotato cattolico.
Occorre capire le ragioni di tutto questo, soprattutto le ragioni di un cattolicesimo che nel corso del Novecento ha assunto un ruolo identitario sul piano nazionale in ragione di un susseguirsi di contingenze storiche spesso tragiche. Quell’area geografica multiculturale che dal Mar Baltico arriva all’Adriatico, ha conosciuto infatti il deflagrare dei nazionalismi e il loro assumere l’aspetto di totalitarismi di matrice fascista, per poi essere proiettata dentro il perimetro di un socialismo reale che, nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica, aveva cercato di livellare le differenze nazionali e culturali. È qui, che il cattolicesimo supplisce alla costruzione di una dimensione identitaria nazionale e assume così un ruolo di carattere politico che oggi mostra tutta la sua problematicità. Soprattutto perché si tratta di un cattolicesimo che, se è stato un palese avversario del socialismo reale, lo è stato anche dei sistemi liberali, giudicati non solo come “non cristiani” ma come anticristiani. Il magistero di un pontificato come quello di Giovanni Paolo II, che pure ha assunto una portata planetaria e internazionale come mai prima era accaduto ad un successore di Pietro, è attraversato da alcune di queste tensioni. Dentro i diversi contesti nazionali, soprattutto dell’Europa dell’Est, il cattolicesimo ha così conosciuto riformulazioni secondo una chiave di lettura che recuperava un carattere antico dell’apologetica cattolica: l’idea che la modernità, liberale o socialista, sia costitutivamente anticristiana e che come tale abbia dato origine a strutture politiche che, nei loro fondamenti, sono viziate da un relativismo. Così, in questo che è un giudizio storico-religioso ed etico sugli ultimi secoli, la democrazia diviene la traduzione politica di un atteggiamento, per così dire, filosofico, che ponendo ogni verità sullo stesso piano, finisce per negare la possibilità di affermarne una che abbia valore universale.

Il ritorno della critica della “modernità”
Si tratta di giudizi che non più di un decennio fa ancora venivano espressi, anche in sede di magistero, nei confronti di un’Unione Europea che non aveva esplicitato le proprie “radici giudaico-cristiane” nel suo progetto di Costituzione. Una posizione, questa della critica alla “modernità” filosofica e con essa alla modernità politica, che oggi si fa particolarmente efficace, sul piano culturale, in quei paesi nei quali il cattolicesimo fatica a trovare un confronto critico ed efficace con il nodo chiave della democrazia, intesa non solo come formulaistituzionale ma come metodo e prassi di governo delle relazioni politiche e sociali.
Una dinamica diversa si compie in paesi “occidentali” come l’Austria e l’Italia e in regioni come la Baviera, ma anche in Francia con il successo del Front National di Marine Le Pen. Qui, la decennale battaglia culturale del magistero contro il relativismo si è saldata con la battaglia di movimenti di destra contro la democrazia plurale e rappresentativa e dunque, anch’essa, “relativista”, incapace di proteggere i cittadini perché frammentata e preda di interessi “altri”, “privati” e non “nazionali”.
L’esito di tutto questo è un’Europa nella quale la questione della democrazia e della sua crisi si traduce in una crisi strutturale che certamente è anche determinata da una problematica originaria: quella del rapporto fra cattolicesimo e politica. Essa nasce dalle critiche che, da ambienti ecclesiastici o di cultura cattolica, sono state mosse alla democrazia e dall’aver stabilito o teorizzato l’esistenza di una saldatura fra il sistema istituzionale democratico e l’indifferentismo etico dello Stato liberale. Vi è in questo l’effetto lungo dei decenni a volte tormentati che sono seguiti al Concilio Vaticano II. A questo si aggiunge un dato di carattere storico-politico. A partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento la crisi dei partiti politici di ispirazione cristiana, soprattutto nell’Europa occidentale, inizia a rivelarsi come qualcosa di ben più profondo della semplice fine di un sistema politico, determinata dal venir meno della contrapposizione fra Est e Ovest.
La fine della Democrazia Cristiana in Italia, che è il frutto di molteplici fattori, fra i quali vi è anche una crisi irreversibile di un metodo di gestione del potere, ha tuttavia manifestato un vuoto progressivo nella traduzione politica di una cultura politica specifica. Quella cultura politica che, ispirandosi all’insegnamento sociale della Chiesa, aveva saputo mettere a disposizione di una spiccata sensibilità sociale le istituzioni della democrazia liberale e rappresentativa, dando ad esse una finalità politica. È la stessa cultura che, ancora negli anni Ottanta del Novecento, era propria degli omologhi partiti tedesco e spagnolo e di una parte del panorama politico francese (Mitterrand era stato, nella prima fase della sua carriera politica, un uomo di governo del partito “cattolico” francese).
Se in Italia quella cesura storica ha determinato la fine della Democrazia cristiana, negli altri paesi essa ha assunto i tratti di una mutazione “genetica” di quei partiti di tradizione democratico-cristiana: questi sono diventati partiti liberal-conservatori, modificando i loro riferimenti culturali e accettando un orientamento che veniva dall’America di Ronald Regan o dall’Inghilterra di Margareth Thatcher e che gli storici della politica e dell’economia chiamano “Washington consensus”.
Questa mutazione ha coinvolto anche i partiti progressisti e socialisti, che hanno accettato un ordine di rapporti politici ed economici che era imperniato sulla drastica contrazione dell’autorità delle istituzioni pubbliche, sia nazionali che internazionali. Del resto, è questo l’orientamento che, negli anni Novanta e nei primi anni duemila, hanno seguito paesi come la Germania e l’Inghilterra, la Francia e la Spagna, l’Italia stessa, quando sono stati governati da coalizioni di matrice progressista. Pur di fronte al riemergere di istanze sociali e pur con la consapevolezza di dover rispondere ai contraccolpi di un quadro che diventava globale, non si è adeguatamente compreso quanto l’ordine delle cose che prendeva forma avrebbe fatto emergere nuove questioni identitarie, nuove paure e nodi sociali che sono governabili solo attraverso le istituzioni pubbliche e non possono essere risolti dalle forze “naturali” del mercato.

La sfida delle culture politiche
La vera sfida che allora sembra emergere dal nostro tempo e dalle sue radici storiche è quella della cultura politica. Si tratta di una questione che oggi riguarda, in modo particolarmente evidente, le forze politiche di sinistra e progressiste, che sembrano soffrire una crisi di identità senza soluzione e senza fine. Essa però riguarda anche, e forse in modo ancor più decisivo, il cattolicesimo e la sua capacità di animare culture politiche rinnovate o nuove nel quadro europeo di oggi.
Non si tratta di ricostruire partiti “cattolici” o partiti dei cattolici. Farlo significherebbe non capire che quello che oramai è venuto meno è un modo di intendere la politica che è proprio del Novecento: fatto di partiti con un forte connotato ideologico e di una coincidenza fra una struttura partitica e una determinata cultura politica, che oggi è difficilmente riproponibile. In questo, i cosiddetti “populismi” o “sovranismi”, che invece rivendicano proprio un carattere espressamente “di parte”, mostrano il loro essere l’ultimo resto del Novecento politico.
La questione è allora cosa viene dopo, o più direttamente: cosa costruire dopo? Un primo passo è quello di ritessere la trama di una, meglio, di più culture politiche: certamente di una cultura politica che, lasciandosi provocare dall’insegnamento della Chiesa, dal Vangelo e dalla teologia, rilegga i tratti così confusi del nostro tempo per decifrarne gli intrecci e leggerne i contenuti. Economia e politica, democrazia e solidarietà, istituzioni politiche e relazioni economiche, strutture sociali e orientamenti intellettuali, sono gli elementi costitutivi della realtà storica in cui questo nostro tempo si esprime e da cui soltanto può emergere una cultura politica rinnovata.
La costruzione di una cultura politica non è rinviabile e soprattutto non si deve commettere l’errore, che troppo spesso si fa, di giudicarla qualcosa di decorativo ma di non importante perché lontano dalla “concretezza”. Cultura politica non significa esercizio di un giudizio filosofico sulla politica o sulla storia: significa invece avere gli strumenti per guardare e capire il cambio d’epoca che attraversiamo, significa apprendere l’alfabeto con cui è scritta la realtà che viviamo e dunque tutt’altro che chiudersi in un mondo di sole idee. Significa fare quell’esercizio di comprensione dell’ordine delle cose che disegna linee di sviluppo storico il cui punto di fuga è nel domani. Più ancora, la cultura politica ha un ruolo essenziale proprio per la politica: perché è l’unico efficace antidoto ad ogni tentazione di declinarla o come pura competizione per l’esercizio del potere o come semplice onesta amministrazione. In entrambi i casi, per usare una locuzione teologica, l’esito è una politica disincarnata, che perde la sua umanità perché non è più nella storia e quindi diventa la cosa forse più distante dalla “concretezza”.
Rispondere a questa urgenza non rappresenta certamente una soluzione rapida alle tensioni che il quadro attuale ci mette davanti. Ma questo non ne riduce la necessità: se possibile l’accentua. Occorre dunque la pazienza di raccogliere questa sfida, che è quella di “pensare politicamente” e di farlo alla luce di un’ispirazione cristiana. È solo così che si edifica un rapporto fra cattolicesimo e democrazia che, consegnando alla storia una lettura diffidente della vicenda degli ultimi secoli, sappia riconoscere la presenza e il perdurare di un’influenza religiosa anche in quella modernità che pure sembra essere inesorabilmente etichettata come “laica”.
Rileggere la storia della democrazia, per come noi la conosciamo, da questo punto di vista permette di far luce su un dato essenziale che diventa anche una prospettiva percorribile per il futuro. Se il secolo che segue il 1789 è segnato, sul piano della cultura politica, dalle istanze di libertà che si traducono nelle istituzioni rappresentative e parlamentari e nelle prime costituzioni, quello che lo ha seguito, il “secolo breve” delle guerre mondiali, dei nazionalismi e dei totalitarismi, è stato anche attraversato da una sensibilità crescente per istanze di giustizia non solo individuale ma sociali e collettive. Forse, allora, una cultura politica per il secolo che ci sta davanti è quella che completa la libertà e l’uguaglianza con il terzo, più dimenticato e forse più cristiano, degli ideali della Rivoluzione francese: la fraternità.

Riccardo Saccenti

Relazione tenuta a Parma, con questo titolo, il 15 novembre 2018.
L’autore, ex fucino, è ricercatore di Storia della filosofia medievale, assegnista di ricerca presso l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (CNR) e membro della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII (Bologna).
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Conferimento del Premio Internazionale Carlo Magno 2016 a Sua Santità Papa Francesco, 06.05.2016

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Discorso del Santo Padre

Alle ore 12 di oggi, nella Sala Regia del Palazzo Apostolico Vaticano è stato conferito a Sua Santità Papa Francesco il Premio Internazionale Carlo Magno 2016.

Alla presenza di numerose autorità, la cerimonia è stata introdotta dal discorso del Sindaco di Aachen, Sig. Marcel Philipp.

Quindi il Presidente del Comitato direttivo dell’Associazione per l’assegnazione del Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana – Per l’Unità dell’Europa, Sig. Jürgen Linden ha dato lettura dell’attestato del Premio che recita: “Il 6 maggio 2016, in Vaticano (Roma), a Sua Santità Papa Francesco è stato conferito il Premio Internazionale Carlo Magno di Aquisgrana in tributo al Suo straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori” e insieme al Sindaco di Aachen ha consegnato il Premio al Papa.

La cerimonia è proseguita con gli interventi del Presidente del Parlamento europeo, On.le Martin Schulz, del Presidente della Commissione europea, On.le Jean-Claude Junker e del Presidente del Consiglio europeo, On.le Donald Tusk.

Infine Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:

Discorso del Santo Padre

Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.

La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.

Questa «famiglia di popoli»1, lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di unità»2.

Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?

Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).

A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.

Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»3. Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»4. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»5.

Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.

Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.

Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale.

L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale.

In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»6.

Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.

Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.

Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.

In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.

Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?

«La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».7 Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.

Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.

Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”8» (Enc. Laudato si’, 127).

Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».9 Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.

Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).

Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia»10. Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.

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1 Discorso al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
2 Ibid.
3 Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
4 Ibid.
5 Discorso alla Conferenza Parlamentare Europea, Parigi, 21 aprile 1954.
6 Discorso all’Assemblea degli artigiani tedeschi, Düsseldorf, 27 aprile 1952.
7 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
8 Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 32: AAS 101 (2009), 666.
9 Discurso a los movimientos populares en Bolivia, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015.
10 Discorso al Consiglio d’Europa, Strasburgo, 25 novembre 2014.

[00735-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Newsletter

logo76Newsletter n. 124 del 7 dicembre 2018

GLI SBAGLI SU DIO

Care amiche ed amici,
[segue]

Carlo feroce

Carlo Felice feroce di F CasulaCENTESIMA PRESENTAZIONE
di “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”

In Cagliari il 15 dicembre prossimo (ore 17.30, Via Ospedale, 2) sarà presentato il libro di Francesco Casula “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”.

Si tratterà della CENTESIMA presentazione, a due anni esatti dalla prima presentazione, avvenuta il 16 dicembre del 2016, sempre a Cagliari.

Organizza La Congregazione Mariana degli Artieri di San Michele.
Introduce Gianni Agnesa,
Presenta l’opera Giuseppe Melis.
Letture di Giancarla Carboni.
Conclude l’Autore Francesco Casula.
Sarà presente l’Editore Paolo Cossu.
Canzoni e musica di Andrea Porcu e Enrico Putzolu.

Il Manifesto per l’Uguaglianza. Perché il progetto dell’uguaglianza deve essere la base per una rifondazione della politica

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Oggi venerdì 7 dicembre alle ore 18:00 nella Mediateca del Mediterraneo in Via Mameli a Cagliari Luigi Ferrajoli terrà una Lectio Magistralis sul principio di uguaglianza nella nostra realtà. Coordina la serata il giornalista Rai Paolo Piras

Nell’occasione pubblichiamo la Prefazione del libro “Il Manifesto per l’Uguaglianza” (Laterza, 2018) del filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, focalizzato sull’esplosione delle disuguaglianze. Un fenomeno non solo in contrasto con tutte le Costituzioni e le carte internazionali dei diritti, ma che mette in pericolo anche democrazia, pace e sviluppo economico. Ecco perché il progetto dell’uguaglianza deve essere la base per una rifondazione della politica.
ferrajoli
È nell’interesse di tutti – perfino, nei tempi lunghi, dei più ricchi e dei più potenti – che la politica ponga un freno, con un’equa redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, alla sua iniqua distribuzione capitalistica e alla sua appropriazione da parte di pochi e di sempre più pochi. Per questo è una necessità di ragione, oltre che un dovere morale e un obbligo giuridico, che la politica prenda finalmente sul serio il principio di uguaglianza: colmando, a livello non solo statale ma anche internazionale, quella gigantesca lacuna di garanzie e di istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali dalla cui effettività dipende il futuro della pace, della democrazia e della generale sicurezza.

di Luigi Ferrajoli

Il principio di uguaglianza è il principio politico dal quale, direttamente o indirettamente, sono derivabili tutti gli altri principi e valori politici. Esso equivale all’uguale valore associato a tutte le differenze di identità e al disvalore associato alle disuguaglianze nelle condizioni materiali di vita; si identifica con l’universalismo dei diritti fondamentali, siano essi politici o civili o di libertà o sociali; è il principio costitutivo delle forme e, insieme, della sostanza della democrazia; forma la base della dignità delle persone solo perché “persone”; è la principale garanzia del multiculturalismo e della laicità del diritto e delle istituzioni pubbliche; rappresenta il fondamento e la condizione della pace; è alla base della sovranità popolare; è perfino un fattore indispensabile di uno sviluppo economico equilibrato ed ecologicamente sostenibile; forma infine il presupposto della solidarietà ed è perciò il termine di mediazione tra le tre classiche parole della rivoluzione francese.
Inversamente, le vistose disuguaglianze prodotte, anche nei paesi di economia avanzata, dalle politiche che in questi anni hanno smantellato lo Stato sociale, ed esplose, a livello planetario, per effetto di una globalizzazione dell’economia e della finanza senza una sfera pubblica alla sua altezza, sono all’origine di tutti i problemi che stanno oggi minacciando le nostre democrazie e la stessa convivenza pacifica: dalla fame e la miseria di masse sterminate di esseri umani alle migrazioni di milioni di persone che fuggono dalle guerre e dalla povertà, dalla disoccupazione crescente allo sfruttamento globale del lavoro, dal crollo della rappresentanza e della partecipazione politica alle minacce all’ambiente e agli altri beni comuni, dagli spazi aperti alla criminalità e al terrorismo fino alla stessa stagnazione dell’economia.
Questa crescita delle discriminazioni e delle disuguaglianze è dovuta al crollo della politica, che in questi anni ha abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di governo dell’economia e si è assoggettata alle leggi del mercato. Per questo il progetto dell’uguaglianza, e perciò della promozione dell’interesse di tutti, può oggi diventare la base di una rifondazione della politica, sia dall’alto che dal basso. Dall’alto, come programma riformatore, in attuazione delle promesse costituzionali, attraverso l’introduzione di limiti e vincoli non soltanto ai poteri pubblici dello Stato ma anche ai poteri privati del mercato, a garanzia sia dei diritti di libertà che dei diritti sociali. Dal basso, come motore della mobilitazione e della partecipazione politica, essendo l’uguaglianza nei diritti fondamentali, individuali e al tempo stesso universali, un fattore di ricomposizione unitaria e solidale dei processi di disgregazione sociale prodotti in questi anni dal dominio incontrastato dei mercati.
Sotto entrambi gli aspetti, il principio di uguaglianza si configura perciò non soltanto come un valore politico fine a se stesso e come la principale fonte di legittimazione democratica delle istituzioni pubbliche, ma anche come un principio di ragione, in grado di informare una politica alternativa alle irrazionali politiche attuali e di far fronte alle sfide globali dalle quali dipende il nostro futuro. Di solito, nel dibattito politico, il superamento delle discriminazioni e delle eccessive disuguaglianze viene screditato come una nobile utopia irrealizzabile.
Occorre invece distinguere tra ciò che è improbabile, a causa della mancanza di volontà politica, e ciò che è impossibile: per non legittimare ciò che accade come privo di alternative e per non deresponsabilizzare la politica in ordine al suo operato o alla sua latitanza. Soprattutto, occorre riconoscere che è l’accettazione passiva delle enormi e crescenti disuguaglianze, dello sfruttamento del lavoro e delle spaventose condizioni di vita nelle quali vivono e muoiono miliardi di persone che corrisponde a un’utopia regressiva: all’idea che in una società globale sempre più fragile e interdipendente queste tremende disuguaglianze, in contraddizione stridente con tutti i valori dell’Occidente – l’uguaglianza, la dignità della persona e i diritti umani –, possano continuare a crescere senza diventare esplosive; all’illusione che le masse di immigrati che premono alle nostre frontiere possano essere respinte con le leggi e con i muri; alla pretesa che la governabilità del mondo possa continuare a lungo ad essere affidata a quei sovrani assoluti, invisibili, irresponsabili e selvaggi, nei quali si sono trasformati i cosiddetti mercati, senza che si vada incontro a un futuro di catastrofi sociali, di guerre, di violenze e di terrorismi.
Nulla è più irrealistico, in breve, dell’idea che la realtà possa rimanere come è, e che la corsa del mondo verso lo sviluppo insostenibile possa a lungo continuare senza concludersi nell’autodistruzione. Naturalmente le promesse dell’uguaglianza nei diritti umani formulate nelle tante carte costituzionali e internazionali che affollano i nostri ordinamenti non saranno mai interamente e perfettamente mantenute. Ma è nell’interesse di tutti che i diritti di libertà e i diritti sociali, nella cui titolarità ed effettività consiste l’uguaglianza, non si riducano a una lustra ideologica; che le differenze di religione, di nazionalità, di cultura e di opinioni politiche convivano grazie alla garanzia dei diritti di libertà di tutti; che si ponga fine, attraverso la garanzia dei diritti sociali, alle terribili condizioni di miseria, di sfruttamento e di illibertà nelle quali si trovano miliardi di esseri umani.
È nell’interesse di tutti – perfino, nei tempi lunghi, dei più ricchi e dei più potenti – che la politica ponga un freno, con un’equa redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, alla sua iniqua distribuzione capitalistica e alla sua appropriazione da parte di pochi e di sempre più pochi. Per questo è una necessità di ragione, oltre che un dovere morale e un obbligo giuridico, che la politica prenda finalmente sul serio il principio di uguaglianza: colmando, a livello non solo statale ma anche internazionale, quella gigantesca lacuna di garanzie e di istituzioni di garanzia dei diritti fondamentali dalla cui effettività dipende il futuro della pace, della democrazia e della generale sicurezza.

(24 aprile 2018)
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Oggi venerdì 7 dicembre 2018

Lunedì 10 dicembre 2018
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lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x15014137bd10200-1683-4e2a-96e2-ac8d1f0c4010filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativa
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————————
Intervista di Pubusa a L’Unione Sarda: meglio battere Salvini che arrivare secondi
7 Dicembre 2018
Giuseppe Meloni, L’Unione Sarda – Edizione del 1/12/2018, ripreso da Democraziaoggi.
Centrosinistra e Cinquestelle uniti al voto per battere Salvini in Sardegna. Fantapolitica? Non per Andrea Pubusa, ex consigliere regionale del Pci e animatore del dibattito nella sinistra sarda. «La mia proposta – spiega – nasce da un’osservazione: a livello nazionale […]
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Centrosinistra: la sarabanda delle occasioni mancate
7 Dicembre 2018
Carlo Dore jr. su Democraziaoggi.
Le prime note della sarabanda delle occasioni mancate iniziano a risuonare nella notte del 4 dicembre del 2016, quando il corpo elettorale, paralizzando l’entrata in vigore del ddl Renzi – Boschi di riforma dell’intera seconda parte della Costituzione, ha riaffermato l’attualità del modello di democrazia declinato dalla Carta Fondamentale, e dei principi […]
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Romanica – mostra personale di Peppino Spanu

mostra-spanu-dal-7-dic-18Da venerdì 7 dicembre a domenica 23 dicembre nella galleria CEMuR della Fondazione di ricerca “Giuseppe Siotto”, in via dei Genovesi 114 a Cagliari.
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Aperture dal giovedì alla domenica dalle 18.00 alle 20.30.

Vernissage venerdì 7 dicembre ore 17.30.
Finissage domenica 23 dicembre ore 17.30.
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ROMANICA. Anche la Sardegna, intorno all’anno 1000, si rivestì di “un bianco mantello di chiese”, come scrisse il monaco e storico Raoul Glaber, in un incipit divenuto celeberrimo. [segue]

Oggi. Corpi che suonano

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http://studiumcanticum.it/evento/corpi-che-suonano/
‘Il ritmo è la vita stessa’, ‘è la forza che unisce linguaggio, musica e movimento’, ci ha insegnato Carl Orff.
Corpi che suonano edizione 2018 riunisce musicisti di diversa formazione intorno a questo nume, il ritmo, per sperimentarne forza, presenza, assenza, importanza per la vita stessa.
L’orchestra ritmica Studium Canticum (al suo debutto) insieme con Stefano Baroni, il coro e l’orchestra Studium Canticum, il quartetto Interzone, gli studenti delle Classi di Percussione, in un programma che propone quadri sonori in diverse possibilità combinatorie, fino al finale ‘polifonico’ in cui archi percussioni e voci si riuniranno per la Missa Sancti Francisci Assisiensis di Damijan Mocnik.
Ingresso disciplinato con raccolta fondi per attività istituzionale: per prenotazioni 3389403280
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Primarias

primariasComunque decidiate di votare alle Elezioni sarde (No alla Destra), vi invitiamo a votare alla Primarias indette dal Partito dei Sardi: https://www.ilpartitodeisardi.eu/wp-content/uploads/2018/12/Come-si-vota.png
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come-si-vota
- Per votare: https://www.primarias.eu
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Quando a guidare il Psd’az c’era Mario Melis, un grande sardo. Laura Melis, figlia di Mario, a Solinas: “grave non avere memoria della propria storia”.

mario-melis-1-300x219“Mi chiamo Laura Melis, figlia di Mario, esponente del Partito Sardo d’Azione, nelle cui liste è stato più volte eletto, avendo iniziato a fare politica da ragazzo. In questi ultimi anni e, precisamente, dopo che l’allora segretario del Partito Trincas compì il “bel gesto” di consegnare la bandiera dei quattro mori nelle mani di Silvio Berlusconi, mi sono sentita ripetere più e più volte le stesse frasi: «Tuo padre si starà rivoltando nella tomba», «Chissà cosa direbbe/farebbe tuo padre vedendo dove sta andando il Partito Sardo d’Azione».
Credo che, viste le ultime decisioni che il Partito ha preso, sia giunto il momento di dire una cosa: mio padre quello che pensava l’ha detto chiaramente più volte in vita. Non ci possono essere fraintendimenti a riguardo. È arrivato a organizzare un convegno sul Federalismo nei primi anni ’90, invitandovi l’onorevole Umberto Bossi, per chiarire e marcare le differenze di concezione e di finalità che fra le due forze, pur entrambe federaliste, vi erano. È ovvio che non sarebbe stato d’accordo riguardo a quest’ultima alleanza con la Lega.
Ho troppo rispetto per il pensiero che mio padre ha espresso per permettermi di supporre altri scenari e altri messaggi da parte sua. Ciò che doveva e voleva dire l’ha detto in vita e di conseguenza ha agito, con coerenza estrema. Infine, vorrei fare un’ultima considerazione in merito all’intervista all’onorevole Solinas pubblicata su La Nuova Sardegna del 2 dicembre.
È stupefacente per me (ma sono di parte!) la rapidità con cui l’onorevole liquida le alleanze avvenute nel passato tra il Partito Sardo e le forze di sinistra, relegandole a scelte sbagliate, direi suicide. C’è da chiedersi se consideri un errore l’elezione del ’76 al Senato in alleanza con il Partito Comunista che portò alla presentazione della proposta di legge sulla zona franca. O se considera fallimentare l’elezione del ’79 che portò Mario Melis a rivestire il ruolo di assessore Regionale all’Ambiente. O infine, se considera fallimentare l’elezione di 12 consiglieri regionali nell’84 che portò all’elezione del primo Presidente della Giunta sardista.
La mancanza di generosità intellettuale è un limite grave. Come è grave non avere memoria della propria storia perché porta, ahimè, alla perdita della propria identità. È sempre bene ricordare dove sono piantate le proprie radici”.
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[lampadadialadmicromicro1Aladinews 1 novembre 2018] Un grande sardo. Ricordando Mario Melis a 15 anni dalla sua morte

Per ricordare Mario Melis a quindici anni dalla sua morte, ripubblichiamo un editoriale di Aladinews dell’8 maggio 2016, che crediamo dia conto, seppur in modo semplice, della statura del grande uomo politico sardo.
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Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo.

Maria

83a6f6dd-8607-46ce-8879-15e59688f205“I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale”
Intervista HuffPost a Massimo Cacciari: “Le omelie di molti preti, spesso, sono delle lezioni di anti religione”

• By Nicola Mirenzi*

La parola del Vangelo l’ha ascoltata fuori dal tempio: “Le Chiese sono diventate delle grandi scuole di ateismo. Nella gran parte di esse, la forza paradossale del verbo di Cristo viene trasformata in un discorso catechistico e ripetitivo, un piccolo feticcio consolatorio e rassicurante, un idoletto. È l’opposto di ciò che insegnava Gesù domandando ai suoi discepoli: ‘Chi credete che io sia?’”. Massimo Cacciari era ancora uno studente al secondo anno di liceo quando, tra lo Zarathustra di Nietzsche e le prime letture di Hegel, aprì le pagine del Nuovo Testamento: “Fu entusiasmante sentire la straordinarietà di quel testo, la bellezza di una storia che induce ad andare alla ricerca, senza certezze, rischiando. Al novanta per cento, i preti sono incapaci di rendere la potenza di quel racconto. Le loro omelie, spesso, sono delle lezioni di anti religione”.
Negli anni sessanta e settanta, mentre erano di moda i capelloni, Marx, i pantaloni a zampa d’elefante, Marcuse, l’eros e la civiltà, Kerouac, la Cina e Janis Joplin, Cacciari leggeva i testi della teologia cristiana: “Nelle riviste della sinistra non organiche al partito comunista – “Quaderni Rossi”, “Contropiano” – discutevamo della Santa Romana Chiesa insieme a Giorgio Agamben, Mario Tronti, Giacomo Marramao. Avevamo idee diverse, ma condividevamo le stesse letture: tutte abbastanza eretiche”. Il Natale degli alberi in pivvuccì, degli acquisti online e i centri commerciali aperti tutto il giorno; il Natale della neve luccicante incollata sulle vetrine, delle barbe bianche, delle renne e delle slitte, non lo scandalizza: “Basta sapere che la nascita di Cristo non ha niente a che vedere con quello che vediamo intorno a noi. Il Natale è diventato un festa per bambini e adulti un po’ scemi. Non c’è da levare alti lai contro il consumismo. C’è solo da riflettere, meditando con sobrietà e disincanto”. Nel suo libro, “Generare Dio” (Mulino), mostra – da laico – che nel mistero dell’incarnazione di Dio c’è un personaggio che abbiamo avuto sempre sotto gli occhi, eppure non siamo stati ancora in grado di vedere nella sua interezza: Maria.
Perché, professore?
Maria è stata pressoché ignorata anche dai filosofi che hanno interpretato l’Europa e la Cristianità, come Hegel e Schelling. Il discorso ha privilegiato il rapporto del padre con il figlio. Maria è stata ridotta a una figura di banale umiltà, un grembo remissivo e ubbidiente che si è fatto fecondare dallo spirito santo senza alcun turbamento.
Invece?
Quando l’Arcangelo Gabriele le annuncia che concepirà e partorirà un figlio e che egli sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, Maria ha paura. Si ritrae, dubita, è assalita dall’angoscia, medita. Il suo sì non è affatto scontato. Nel momento in cui lo pronuncia, è un sì libero e potente, fondato sull’ascolto della parola. Perché Maria giunge a volere la volontà divina.
Nessuno se n’era accorto prima?
Nel pensiero, solo pochi autori – penso a Baltasar – hanno riflettuto sulla figura di Maria. È nella pittura – nella grande pittura occidentale – che Maria si innalza al ruolo di protagonista assoluta. Siamo di fronte a uno di quei casi in cui l’espressione figurativa è andata molto più in profondità del linguaggio.
Cosa riesce a mostrare?
Che se si toglie alla nascita di Cristo la scelta di questa donna che accoglie nel suo ventre il figlio di Dio e il suo Logos, l’incarnazione diventa una commedia. Maria è libera. Anzi, di più: il suo libero donarsi all’ascolto è in realtà un’iper libertà.
Perché iper?
Quando – nel giardino dell’Eden – Adamo mangia il frutto dell’albero della conoscenza obbedisce al proprio desiderio. La sua libertà è la libertà di soddisfare i propri impulsi. Maria, invece, riflette, s’interroga, soffre. Poi, fa la volontà dell’altro. La sua libertà è quella di far dono di sé. È come suo figlio: fa la volontà del padre. E qual è la libertà maggiore: quella che ti incatena a te stesso; oppure quella che ti libera dall’amor proprio?
Ma la libertà può essere slegata da ciò che si desidera?
Ma perché non si dovrebbe desiderare di donare se stessi agli altri? Perché non può essere questo l’oggetto del desiderio, anziché quello di soddisfare le proprie pulsioni?
Possiamo riuscirci?
Gesù, Maria, Francesco ci hanno dato degli esempi della libertà intesa come dono. È oltre umano seguirli? Può darsi. E può anche darsi che proprio qui s’incontrino la radicalità del messaggio cristiano e il super uomo di cui parlava l’anti cristiano Nietzsche: nell’impossibile.
Ma se è impossibile, perché provarci?
Perché l’impossibile non è una fantasia, un gioco inutile e vano. L’impossibile è l’estrema misura del possibile. E, se non orienti la tua vita in quella direzione, rimarrai prigioniero del tuo tempo. È questo il messaggio di Gesù: per essere libero, abbi come misura la mia impossibilità.
Se non possiamo essere come lui, perché Cristo si è fatto uomo?
Perché è necessario avere come misura qualcosa che ci oltrepassa per riuscire a spingerci altrove. Cristo non predicava nei templi: predicava fuori, nelle strade. I suoi discepoli dicevano: “È fuori”. Nel senso: “È fuori di testa, è pazzo”. Eppure, Gesù ha segnato un prima e un dopo nella storia dell’uomo, ha creato il mondo culturale e antropologico in cui viviamo. C’è qualcosa di più realistico di questo? Senza quell’impossibilità niente ci spingerebbe a uscire da noi, a ri-orientare diversamente le nostre vite.
Perché dovremmo farlo?
Per liberare il nostro tempo dalle sue miserie. Più la nostra epoca ci rinserra dentro di essa, più servono grandi idee, pensieri limite, parole ultime. Sono le uniche cose che ci possono sradicare dal tempo in cui ci viviamo.
Come lo definirebbe?
Osceno, nel senso letterale del termine: un tempo in cui tutto deve essere posto sulla scena: i nostri pensieri, le nostre fotografie, i nostro segreti. Niente deve stare in una zona scura. Invece, è proprio dal buio che proviene la luce che illumina e rivela. Pensi alla pittura d’Europa, la terra del tramonto: cosa raffigurerebbe senza il gioco dell’ombra?
È tutto davvero così esposto?
Al contrario. Quella della trasparenza è solo un’ideologia. Mai come oggi le potenze che governano il mondo sono state così nascoste. Al di là dell’apparenza, la nostra è l’epoca dell’occulto, dei poteri anonimi, di ciò che non si vede. Mentre, nel caso di Maria, la luce divina si copre d’ombra per manifestarsi nella realtà, nel nostro tempo l’oscuro si nasconde dietro la luminosità. Lucifero è negli inferi, però finge di essere portatore di chiarore. La nostra epoca è attraversata dallo spirito dell’anti-Cristo. Ci sono stati momenti in cui esso si è manifestato nella sua forma pura. Oggi, invece, circola mascherato.
Anche la politica avrebbe qualcosa da imparare da Maria?
Maria è una figura della libertà, non è il santino che raccontano i preti. La sua humilitas è meditazione e ascolto. Se leggessero ancora, i politici potrebbero imparare anche da lei. Se non altro, per essere più consapevoli della storia in cui si collocano. Il dramma, però, è che c’è stata una completa divaricazione tra il sapere e il potere.
Per quel che riguarda le figure religiose, i cristiani non potrebbero aiutarli?
I cristiani sono i primi ad aver dimenticato il Natale, smettendo di predicare la paradossalità del verbo.
Anche il Papa?
Il discorso è più complesso. Francesco si inscrive nella tradizione ignaziana, dove l’etica della fede si coniuga alla volontà di potenza e l’assoluta dirittura morale ed etica si combina a una grande capacità di catturare il mondo nelle proprie reti.
Perché neanche le femministe hanno riflettuto su Maria?
Perché anche loro – benché protagoniste dell’ultima vera rivoluzione degli ultimi decenni – sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione. Hanno guardato Maria come un figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre.

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* Nicola Mirenzi Giornalista e blogge r.
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Già su Aladinews: https://www.aladinpensiero.it/?p=76470
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300px-simone_martini_-_the_annunciation_and_two_saints_-_wga21438
L’Annunciazione tra i santi Ansano e Massima è un dipinto a tempera e oro su tavola (305×265 cm) di Simone Martini e Lippo Memmi, firmata e datata al 1333, e conservato negli Uffizi a Firenze. Si tratta di un trittico ligneo dipinto a tempera, con la parte centrale ampia il triplo dei due scomparti laterali. Considerato il capolavoro di Simone Martini, della scuola senese e della pittura gotica in generale, venne realizzato per un altare laterale del Duomo di Siena [wikipedia].

Archivio

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Basta buonismo! Che il PD si impicchi alla sua legge elettorale-truffa regionale!
12 Marzo 2018

Amsicora su Democraziaoggi.
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padellogiorgio-de-chirico-piazza-ditalia
La sinistra se n’è andata da sé
«L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
di Marco Revelli su il manifesto. (segue a fine pagina)
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Perché LeU ha fallito come tutta la sinistra
10 marzo 2018

di Luciana Castellina su il manifesto, ripreso da il
manifesto sardo.

L’articolo di Luciana Castellina apparso ieri su il manifesto. Una riflessione sulla crisi della democrazia dopo un voto che ha portato alla ribalta solo un’agorà popolata da individuali grida di scontento o di plauso improvvisato. Un vuoto che i movimenti non hanno saputo riempire.