Monthly Archives: ottobre 2018
Maltempo e responsabilità umane
di Tonino Dessì, su fb.
Sparse considerazioni per non tornarci domani (tanto ogni volta è la stessa cosa).
Chi abbia visto le immagini degli effetti dei temporali di questi giorni sulle infrastrutture di collegamento e sui territori delle aree più urbanizzate, si è nuovamente potuto render conto sia delle condizioni di fragilità delle une, sia della saturazione disordinata degli altri.
Non sono più in grado di sopportare, reggere, drenare eventi atmosferici ancora non troppo fuori dal normale (benché i cambiamenti climatici in corso ormai non possano essere sottovalutati).
Penso ogni volta che se le vittime sono relativamente poche sia per una sorta di quasi inspiegabile miracolo, agevolato magari dall’istinto di sopravvivenza della gran parte delle persone.
Mi è capitato di guardare le riprese filmate di Pirri, invasa ieri da un fiume d’acqua e di fango e non posso non confermarmi su queste sia pur empiriche sensazioni.
Ripetersi che la più attuale e urgente frontiera della riqualificazione e del riequilibrio infrastrutturale, urbanistico, edilizio, ambientale dovrebbe essere al centro degli studi, delle strategie, degli investimenti, del lavoro in questo inizio del XXI secolo, in Sardegna e Italia, per quanto possa essere ripetitivo, è l’unico ragionamento proponibile.
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Materiali dell’Incontro “Lavorare meno Lavorare meglio Lavorare tutti”. Intervento di Silvano Tagliagambe.
Con il contributo di Silvano Tagliagambe proseguiamo nella pubblicazione degli interventi all’Incontro-dibattito sul Lavoro, che si è tenuto venerdì scorso, con la partecipazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi. Abbiamo chiesto a ciascun relatore di inviarci il proprio contributo per iscritto, anche con eventuale rielaborazione rispetto a quello effettivamente svolto, pur rispettando contenuti e sintesi. Procederemo a pubblicare le relazioni nell’ordine in cui ci perverranno. Questa occasione potrà essere colta anche da quanti non abbiano avuto spazio nel convegno e vogliano intervenire nelle pagine della nostra News, che volentieri mettiamo a disposizione.
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Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti
di Silvano Tagliagambe
Il 5 ottobre è stato presentato il volume Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti, curato da Fernando Codonesu, a un anno esatto dal Convegno tenutosi a Cagliari, di cui contiene gli Atti.
La discussione, avviata da un corposo intervento di Domenico De Masi, ha affrontato sotto traccia, grazie soprattutto alle stimolanti riflessioni di Antonio Dessì, il tema del destino del lavoro dell’uomo nell’era della crescente (e inarrestabile) digitalizzazione e globalizzazione. Le ragioni delle inquietudini suscitate da questo quadro generale sono ben note: sulla base di una ricognizione analitica, settore per settore, C.B. Frey e M.A. Osborne nel loro documentato articolo “The future of employment: How susceptible are jobs to computerisation?”, comparso l’anno scorso nel numero 114 della rivista Technological Forecasting and Social Change (pp. 254-280) stimano che circa il 47% dei compiti lavorativi in essere siano automatizzabili nel corso dei prossimi dieci o venti anni.
L’Indagine MGI-McKinsey Global Institute, del gennaio dello scorso anno, valuta il tempo-lavoro che le macchine intelligenti si prevede possano sostituire nell’economia degli Stati Uniti in condizioni di fattibilità tecnica “a tecnologie esistenti”. Il tasso medio di sostituzione del tempo-lavoro viene previsto, per l’intera economia, con un valore piuttosto elevato (49%). Ma, soprattutto, emergono forti differenze tra i diversi settori: la sostituzione prevista arriva fino all’81% del tempo lavoro nelle lavorazioni materiali codificate (in pratica nei lavori di fabbrica che si svolgono in modo programmato e in condizioni prevedibili), tra il 60 e il 70% nel campo dell’elaborazione e raccolta dati (una gran parte dei lavori di ufficio regolati da procedure burocratiche e amministrative). Una quota assai minore di sostituzione (26%) si ha invece per il lavoro di fabbrica poco programmato o che si svolge in condizioni poco prevedibili, e una quota ancora minore (intorno al 20%) per i lavori di relazione, creativi o dal forte contenuto decisionale. Minima (9%) è la sostituzione prevista per le attività di gestione delle persone.
In ogni caso il dato che emerge è che il lavoro delle macchine tende a sostituire sempre più il lavoro dell’uomo, con effetti ormai visibili a occhio nudo sulla possibilità di trovare un’occupazione, stabile o occasionale che sia, soprattutto (ma non solo) da parte dei giovani.
Le prospettive che emergono da questa situazione sono diverse a seconda delle lenti con le quali le si valuta. Gli ottimisti ritengono che le innovazioni digital driven, quelle che nascono dal saper cogliere in pieno le potenzialità della rivoluzione digitale in essere, in termini di riduzione dei costi e di aumento delle prestazioni direttamente connesse alla tecnologia applicata, non potranno subentrare in toto alle innovazioni human driven, frutto di proposte e azioni derivanti dalla creatività e dall’intraprendenza umana, che genera valore immaginando nuovi usi (innovazioni d’uso), proponendo esperienze coinvolgenti o realizzando significativi processi di creazione di nuovo significato. A loro giudizio le esperienze riguardanti le relazioni, i legami, le emozioni, la bellezza, il gusto, la contemplazione, il desiderio, l’autenticità, la genuinità, la salubrità, la tradizione, il sogno, la libertà, la fiducia la ricerca della felicità sono di pertinenza esclusiva della creatività umano e disegnano un ampio territorio di produzione di beni materiali e immateriali in cui la macchina non potrà mai sostituirsi all’uomo.
Per questi apologeti della rivoluzione digitale, pertanto, il futuro, prossimo e remoto ci proporrà soluzioni di crescente interazione e collaborazione tra l’innovazione human driven, la quale crea soluzioni di valore unitario più elevato, incorporando nei prodotti e nei servizi elementi intangibili quali design, unicità, emozione ecc., e la tecnologia digital driven, che svolge il suo ruolo di “moltiplicatore”, perché consente la circolazione e il confronto delle buone idee e delle informazioni utili ad alimentare i processi di creazione del nuovo e di sperimentazione del possibile, utilizzando le conoscenze di un vasto circuito sociale ed economico, messo in rete dalla comunicazione digitale. In questa funzione, il digitale rende conveniente la scelta della open innovation, rivolta ad utilizzare al massimo le conoscenze in possesso di altri, riducendo i costi e aumentando il valore della creazione e sperimentazione dei nuovi prodotti e dei nuovi processi. Da questa interazione scaturiranno una fusione di “menti” e “strumenti” e l’incremento di interconnessioni tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale destinato non solo a retroagire – tramite un ciclo virtuoso di auto-rinforzo – sulla creazione stessa del valore, ma anche e soprattutto a fungere da amplificatore delle stesse capacità umane, con conseguente aumento (e non decremento) dei processi di innovazione human driven.
Se le cose stessero effettivamente così ciò che si può ragionevolmente ipotizzare è il crescente spostamento del lavoro umano dai mestieri puramente esecutivi, che abbiamo in gran numero ereditato dalla stagione della meccanizzazione rigida, durante la prima modernità, a forme di occupazione sempre più creative, che saranno protagoniste del futuro nel mondo del lavoro e richiederanno nuove forme di apprendimento, che consentano alle persone di usare in modo creativo i linguaggi formali della scienza e delle macchine per generare valore nel mondo reale e siano ancorate ad una visione convinta e condivisa del porto di arrivo verso il quale indirizzare la navigazione. Infatti, come osserva Enzo Rullani nel suo contributo introduttivo a un libro che considero di fondamentale importanza per comprendere i processi in corso e quelli a venire, curato in collaborazione con Alberto F. De Toni (Uomini 4.0: Ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità), pubblicato quest’anno da Franco Angeli, nel mare della complessità e dell’innovazione, contrariamente a quello che a volte si crede, non si può navigare a vista. Se manca la mappa, per tracciare la rotta serve almeno avere un porto di arrivo ideale, una meta che consenta di distinguere, in ogni momento del presente, i venti favorevoli da quelli contrari, in modo da alzare le vele quando le contingenze ci mettono di fronte ai primi, e da fermarsi e resistere quando, invece, arrivano i secondi. Andando così avanti, passo per passo, e con tutti gli adattamenti tattici del caso, lungo un percorso dotato di senso, che punta verso il porto prescelto. Lo scriveva già Seneca: “Non c’è mai vento a favore per il marinaio che non sa qual è il suo porto”.
De Masi invece, sia nel Convegno dell’anno scorso, rispondendo alle acute domande di Fernando Codonesu, sia nella presentazione degli Atti di quest’anno, è molto meno ottimista riguardo a questa possibile coesistenza di innovazione human driven e digital driven. A suo modo di vedere quest’ultima finirà col subentrare totalmente alla prima, per cui l’umanità è fatalmente destinata ad avviarsi verso una condizione di non-lavoro, che secondo lui va però vista non come una minaccia, bensì come una opportunità che lascia all’uomo uno spazio crescente, da impiegare sia per attività di formazione (che, specialmente in Italia, hanno bisogno di essere accresciute e qualificate), sia per sviluppare condizioni di vita e di cultura sociale che riservino uno spazio sempre maggiore all’«ozio creativo». Come del resto avveniva, a suo giudizio, nella Grecia antica, che ci ha lasciato un patrimonio di cultura sul quale l’umanità sta tuttora prosperando. Un concetto, questo, su cui De Masi insiste da tempo, prefigurando una liberazione (positiva) dallo stato di necessità a cui l’uomo lavoratore è sempre stato vincolato nella storia passata, che va ovviamente accompagnato da misure di equa distribuzione della ricchezza prodotta dall’automazione digitale, nel presente e soprattutto in prospettiva, usando in modo appropriato il surplus che ne deriva.
Ne scaturiscono due opposte valutazioni del lavoro, che per De Masi è un fardello dal quale possiamo liberarci senza troppi rimpianti, anzi con prospettive sicuramente allettanti per il futuro dell’umanità, che ci ricollegano ai momenti più felici della sua storia, come quello dell’antica Grecia appunto, mentre per i fautori della valorizzazione dell’innovazione human driven si tratta di un processo che, a patto di sapersi trasformare in modo da fornire una gestione efficace della maggiore complessità e di trarne positivamente le enormi potenzialità, non va considerato un semplice fattore di costo, da ridurre al minimo, ma diventa al contrario una risorsa trainante, che accresce non solo la quantità, ma soprattutto la qualità delle prestazioni richieste, innalzando il livello dell’intelligenza umana, individuale e collettiva. Il lavoro come valore, quindi, che nel futuro, prossimo e remoto, se ben indirizzato potrà rendere le persone sempre più capaci non solo di rispondere in modo flessibile alle domande e alle sfide che si presentano loro di volta in volta, ma anche di immaginare e identificare nuove soluzioni, di elaborare progetti innovativi, di alimentare significati e relazioni coinvolgenti, di organizzare esperienze emotivamente ricche, di creare identità partecipate e comunità di senso corrispondenti. Il lavoro, dunque, come strumento per creare valore, esplorando livelli di complessità (varietà, variabilità, interdipendenza, indeterminazione) sempre maggiori.
Ciascuno è libero, ovviamente, di optare per l’una o l’altra soluzione. Ci sono però una constatazione e una domanda, quella che appunto affiorava dal citato intervento di Antonio Dessì, che è impossibile evitare di porsi. Un futuro come quello prospettato da De Masi presuppone una rivoluzione che non è solo economica e sociologica, ma antropologica. La domanda che ne consegue è la seguente: l’uomo è predisposto per una vita puramente contemplativa, fatta di ozio creativo e null’altro? Che nel passato si sia effettivamente data una condizione di questo genere è opinabile (l’interpretazione della vita dell’antica Atene, interamente concentrata nell’agorà, il luogo delle adunanze, il centro politico, religioso, amministrativo e commerciale della città, in cui tutti gli uomini liberi si ritrovavano per prendere decisioni politiche importanti e concludere affari, e totalmente assorbita da essa, è suggestiva ma controversa e messa fortemente in discussione). Il problema però è un altro: le neuroscienze ci stanno dicendo, in maniera difficilmente contestabile, che il motore principale del nostro cervello, ciò che è alla base del suo mirabile funzionamento, non è costituito dalla percezione, come si credeva fino a poco tempo fa, né dal semplice movimento, ma dall’azione, caratterizzata dalla presenza di un progetto e di uno scopo. I processi cerebrali non appaiono, pertanto, semplici artefici di sensazioni e controllori di movimenti: alla base della loro organizzazione funzionale c’è la nozione teleologica di scopo.
Questi risultati hanno condotto a una riformulazione della risposta alla domanda: «a cosa serve il sistema motorio?» Per molti anni la risposta è stata: per produrre movimenti. Oggi sappiamo che questa risposta è errata, o quantomeno parziale. Il sistema motorio non produce solo movimenti ma atti motori e azioni, cioè movimenti dotati di uno scopo, come afferrare un oggetto, o sequenze di movimenti atte a conseguire uno scopo più distale, come afferrare un bicchiere e portarlo alla bocca per bere. Un movimento è una semplice dislocazione di parti corporee, come flettere o estendere le dita di una mano. Un atto motorio consiste invece nell’utilizzare quegli stessi movimenti per conseguire uno scopo motorio, per esempio afferrare un oggetto, manipolarlo, romperlo, posizionarlo, tenerlo ecc.
L’uomo, dunque, sembra fatto per progettare e agire. Quale sarà allora il suo destino se lo si costringe esclusivamente a contemplare e a oziare? Non c’è il rischio che l’ozio prolungato e forzato, anziché sfociare in opere creative e formative edificanti, conduca ad agitazioni insensate, che proprio perché non più progettate e indirizzate verso uno scopo, non più controllate razionalmente e frutto invece della prevalenza del puro istinto e delle passioni, rischiano di avere conseguenze opposte rispetto a quelle desiderabili che ci vengono prospettate? Questo sì è già successo e continua purtroppo a succedere nella storia dell’umanità. E non è davvero desiderabile.
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Oggi giovedì 11 ottobre 2018
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Gli Editoriali di AladinewAladinAladinpensiero
INTERNAZIONALE. La Cina investe in (si prende l’?) Africa.
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ALLARME MALTEMPO – Esprimiamo solidarietà e vicinanza alle popolazioni cosi gravemente colpite da condizioni meteo avverse. Dopo la grande sete delle passate stagioni, quando si invocava la pioggia perfino con le processioni religiose, è arrivata la grande abbondanza di pioggia con effetti catastrofici. Al momento non si registrano vittime, e questa è già una grande fortuna. I danni sono ancora da valutare ma saranno certamente di grande entità. In questi giorni non servono analisi e valutazioni sulla scarsa attenzione alle strutture viarie e al governo del territorio, ci sarà tempo per parlarne. Ora è il tempo della solidarietà e dell’aiuto materiale e morale. Dovremo sentirci uniti nel richiedere a politici e funzionari da fare quanto in loro potere per tutelare la sicurezza della gente e il ripristino di condizioni di vita migliori, appena possibile. Si comincia ad avere notizia di episodi spontanei di grande solidarietà attivate da privati (locali aperti per ospitare i viaggiatori, offerte di aiuto e servizi). I Sardi sapranno fare la loro parte. Un abbraccio a tutti.(Lettori/vt).
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Canea reazionaria per 780 euro agli indigenti ed altro. Che fare?.
11 Ottobre 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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In argomento un intervento del direttore di Aladinews*.
Suvvia! Il reddito di cittadinanza bollato come la rovina dell’Italia!
Intervengo limitatamente alla questione del “Reddito di cittadinanza”, associandomi allo stupore (si fa per dire) e alla stigmatizzazione di Andrea Pubusa (su Democraziaoggi) per la reazione a questa misura da parte di “istituzioni europee e internazionali, grandi gruppi editoriali e destra”, uniti in una “canea reazionaria per 780 euro agli indigenti”. Purtroppo a questi si aggiungono anche intellettuali progressisti di area cattolica, cito per tutti il prof. Leonardo Becchetti (https://www.aladinpensiero.it/?p=87954), che arriva addirittura a dare ragione a Renato Brunetta (intervistato dal quotidiano cattolico Avvenire del 28 settembre 2018.), che della manovra governativa boccia, guarda caso, soprattutto e in modo puntiglioso il “reddito di cittadinanza”, additato come sicuro responsabile della imminente rovina dell’Italia. In questo dimostrando ignoranza e malafede. [segue]
Materiali dell’Incontro “Lavorare meno Lavorare meglio Lavorare tutti”. Intervento di Gabriella Lanero.
Con il contributo di Gabriella Lanero proseguiamo nella pubblicazione degli interventi all’Incontro-dibattito sul Lavoro, che si è tenuto venerdì scorso, con la partecipazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi. Abbiamo chiesto a ciascun relatore di inviarci il proprio contributo per iscritto, anche con eventuale rielaborazione rispetto a quello effettivamente svolto, pur rispettando contenuti e sintesi. Procederemo a pubblicare le relazioni nell’ordine in cui ci perverranno. Questa occasione potrà essere colta anche da quanti non abbiano avuto spazio nel convegno e vogliano intervenire nelle pagine della nostra News, che volentieri mettiamo a disposizione.
LAVORARE MENO, LAVORARE TUTTI, LAVORARE MEGLIO NELLA SCUOLA
La scuola, pietra di volta
di Gabriella Lanero
La Scuola, terzo tema del convegno, ricorrente in più interventi, è definita nell’introduzione di Fernando Codonesu “pietra di volta”.
Alla scuola è stato dedicato un incontro successivo al Convegno “Prima di tutto il lavoro e la scuola”, nel quale, a partire dalla considerazione che la riforma neoliberista della scuola, impostata dalla fine degli anni 90, ha portato alla negazione del modello costituzionale dell’istruzione che emancipa, ci si è interrogati sulla realtà, sui problemi e sulle prospettive in una Sardegna impoverita da emigrazione e disoccupazione giovanile e caratterizzata dal più alto tasso di abbandono scolastico.
Quando si parla di lavoro, di futuro dei giovani, di cittadinanza, di Costituzione, si chiama in causa la scuola, sia per demandarle sempre nuovi compiti, sia per denunciarne l’incapacità di farvi fronte.
I dati sui NEET, giovani non occupati, né in formazione, diplomati e laureati in alcune discipline, ma soprattutto senza un titolo di studio, richiamano l’allineamento delle competenze rispetto alle nuove richieste del mondo del lavoro, l’ orientamento alle scelte, ma si ricollegano soprattutto ai dati sulla dispersione.
I recenti dati OCSE di comparazione dei sistemi scolastici, nel rapporto Education at a glance, pubblicato nel giugno 2018, fanno parlare in Italia di “ascensore sociale bloccato”, perché è evidente quanto i risultati scolastici, i livelli di studio raggiunti e il conseguente inserimento lavorativo siano determinati dalla condizione socioculturale e familiare.
Il rapporto Tuttoscuola, (settembre 2018) sull’istruzione in Italia, curato dall’omonima rivista, è intitolato “La scuola colabrodo”. Il dato del quinquennio 2013-16/2017-18 conferma le differenze socio-economiche e culturali di famiglie e territori: ancora il 25% degli iscritti dal I al V anno della scuola secondaria di II° non ce la fa. La percentuale in Sardegna sale al 33%; negli istituti professionali al 32%.
Ai costi elevati di queste perdite si aggiungono le conseguenze sociali ed economiche.
Investire sulla scuola, è necessario, è opportuno, in che direzione ?
«L’output che va perso a causa di strategie o pratiche scarse nell’istruzione lascia molti Paesi in quello che equivale a uno stato permanente di recessione, che può essere più grave e profonda di quella che ha avuto origine dalla crisi finanziaria», sottolineava Andreas Schleicher, direttore del dipartimento Istruzione dell’Ocse, nel rapporto 2016.
Investire sulla scuola è necessario per non ipotecare la crescita futura, per fronteggiare le trasformazioni economiche e culturali, per rispondere al dettato costituzionale dell’art. 3 e perché lo stato ha il dovere di promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro.
Investire sugli insegnanti, pietra di volta nella scuola
Il 5 ottobre è la giornata internazionale dell’insegnante, proclamata dall’Unesco dal 1993 con l’ obiettivo di suscitare riflessioni sul ruolo dei professionisti della formazione, sulle sfide che affrontano quotidianamente, sulle difficili condizioni di lavoro a cui sono spesso sottoposti.
Il tema del 2018 è “Diritto all’educazione significa diritto a un insegnante qualificato.”
Lo studio Ocse sottolinea che gli studenti resilienti (quelli che ce la fanno nonostante i condizionamenti dell’ambiente socio-economico) si trovano più spesso in scuole caratterizzate da un positivo clima relazionale, un solido sostegno da parte dei professori, un forte focus sull’apprendimento.
Il ruolo delle attività extra-curriculari offerte dagli istituti, delle dotazioni tecnologiche (oggetto dei finanziamenti dei PON) è minore di quanto si creda.
Quindi, per dare una vera chance a scuola anche ai ragazzi che partono meno fortunati, per “migliorare la qualità” della scuola, sarebbe opportuno investire sugli insegnanti.
Si parla di definire la formazione iniziale, di formazione continua e obbligatoria, di valorizzazione della funzione docente, di bonus premiale per il merito.
Meno si parla di intervenire sulle retribuzioni e sull’organizzazione del lavoro.
L’organizzazione del lavoro dei docenti
Nonostante le riforme realizzate a partire dagli anni 60, l’organizzazione del lavoro dei docenti nella scuola secondaria rimane ancorata al modello gentiliano dell’orario di cattedra (18 ore settimanali) cui si aggiungono per contratto le riunioni degli organi collegiali (80 ore annuali) e le attività funzionali o aggiuntive per tutti gli aspetti della progettazione didattica e curricolare, dell’inclusione, dell’innovazione (ore non quantificate e talvolta remunerate in modo irrisorio con fondi aggiuntivi). E’ invece su questa prestazione non quantificabile in un orario d’obbligo che si innesta la differenza di “qualità” e il cosiddetto “miglioramento” dell’istituzione scolastica.
Il regime dei tagli, in atto dal 2008 prevede riduzione del personale e maggiori carichi di lavoro
Riduzione orario settimanale scolastico e di alcune discipline, congelamento del tempo pieno e prolungato; aumento del numero di alunni per classe, assegnazione di un maggior numero di classi, saturazione delle cattedre: queste le misure perla spending review, con poco riguardo se un docente dovesse curare l’apprendimento di più di duecento alunni facendo lezione in nove classi per due ore alla settimana.
I tagli hanno comportato blocco delle assunzioni, improvvisa perdita di sbocco lavorativo per molti laureati, aumento del numero dei precari e ricorso ripetuto ai contratti a tempo determinato.
Gli interventi degli ultimi quattro anni non hanno modificato questa situazione. Una sentenza della Corte di Giustizia europea, che comminò una multa per abuso del precariato nella scuola, ha reso obbligatoria l’assunzione dei docenti precari che sono entrati a costituire l’organico dell’autonomia, disponibile per progetti di potenziamento, sostituzione di assenti o di colleghi impegnati in compiti organizzativi e supporto al DS, senza che si trasformasse il modello di organizzazione.
In Sardegna il POR FSE Tutti a Iscol@ interviene contro la dispersione: nelle scuole sono stati costituiti laboratori di competenze digitali, laboratori artistici, laboratori di recupero di italiano e matematica, per i quali è possibile assumere a contratto esperti esterni e docenti. C’è forte risposta quando una scuola fa i bandi, il che dimostra la necessità di occupazione, ma è un reddito limitato e soprattutto non vi è reale ed efficace inserimento di queste “risorse umane” nella struttura e nell’ambiente della scuola.
Lavorare meno, lavorare tutti, lavorare meglio nella scuola
Negli anni dal 1985 al 1990 fu realizzata nella scuola elementare una sperimentazione che portò alla legge 148 /1990, “Introduzione dei moduli nella scuola elementare”.
Il rischio di riduzione dei posti di lavoro, per la diminuzione degli alunni e delle classi in seguito al decremento delle nascite, fu fronteggiato allora con un cambiamento del modello organizzativo: in luogo di un docente unico nella classe per tutto l’orario di 24 ore, si inserivano tre docenti su due classi, con aumento del tempo-scuola per gli alunni, possibilità di compresenza in classe e un orario comprensivo di due ore da impegnare in attività di programmazione didattica con i colleghi.
Questo provvedimento faceva seguito all’introduzione del tempo pieno nel 1971, della collegialità e del rinnovamento previsti nei decreti delegati del ’74, dei nuovi programmi per la scuola dell’obbligo adottati nel ‘79 e nell’85. Si andava nel segno di una riforma complessiva della scuola, dopo l’istituzione della scuola media unica, dopo Don Milani, quando ci si rese conto che non bastava attuare l’art. 34 della Costituzione, aprendo l’accesso a tutti e rendendo obbligatoria la scuola per otto anni.
La scuola media ancora basata sul modello trasmissivo e autoritario dell’insegnamento disciplinare, respingente e fortemente selettiva, non si prendeva cura dei più deboli, non dava attuazione all’art. 3 , non rimuoveva gli ostacoli.
La trasformazione organizzativa dei moduli, il pluralismo e la pratica del confronto, della condivisione nelle due ore settimanali hanno consentito un’ importante crescita professionale dei docenti. La collaborazione ha dato vita a una scuola rinnovata, di forte impegno e passione. La scuola elementare ha prodotto notevoli risultati e si differenzia ancora oggi rispetto agli ordini successivi.
L’intento era di sviluppare il modello collaborativo anche nella scuola secondaria media e superiore, ma, a parte le compresenze previste nel tempo prolungato della scuola media e la sperimentazione in alcune scuole superiori, dove erano previste due ore settimanali da impegnare in attività comuni di ricerca metodologico-didattica, negli altri ordini di scuola , il modello dell’orario di lezione frontale non è mai stato superato.
La collegialità è ancora prevista in tutte le leggi, ma è puramente formale, si esplica nelle delibere dei consigli di classe e dei collegi, ma non è sostanziata da una reale condivisione e dalla collaborazione possibile solo se si prevedono momenti di lavoro comune.
Il confronto avviene soprattutto per libera iniziativa di pochi gruppi, in maniera informale privo di sistematicità, negli spazi liberi tra una lezione e l’altra, oppure a distanza nelle chat e nei network.
“L’attuale modello organizzativo scolastico non tiene conto del fondamentale ruolo dell’insegnante e dei grandi vantaggi che una reale cooperazione all’interno della comunità scolastica può apportare al miglioramento della società”.
Questo punto era ben colto nel Programma elettorale del Movimento 5 Stelle.
“Il Movimento 5 Stelle intende lavorare affinché la scuola primaria italiana torni ad essere un’eccellenza nel mondo. Le compresenze di docenti in classe e la programmazione in team andrebbero poi estese anche agli altri gradi scolastici, in modo da ampliare le opportunità formative e applicare modalità didattiche innovative, diverse dalla lezione frontale.
Un’offerta formativa di qualità deve promuovere anche l’interdisciplinarietà̀ e le lezioni in compresenza con più di un docente in classe, potenziando le esperienze nel reale da svolgere fuori la scuola, con progetti annuali e pluriennali di ricerca-azione che mirino a realizzare un miglioramento della realtà circostante. In questo modo, l’apprendimento sarà sempre più cooperativo e sinergico”.
Verso l’implementazione di un modello collaborativo nella scuola secondaria.
Si potrebbe ripensare a una riduzione dell’orario di lezione frontale che lasci alcune ore a disposizione e da impegnare con gruppi di colleghi della stessa disciplina o della classe nella ricerca metodologico-didattica, nella progettazione di attività per l’apprendimento, per lo sviluppo e la valutazione delle competenze. Oltre l’ingresso di docenti più giovani in un organico stabile e realmente funzionale alle esigenze della scuola, più flessibile nell’articolazione del tempo e delle classi, consentirebbe la compresenza per la formazione dei nuovi docenti, la programmazione di interventi condivisi con i docenti di sostegno, così come previsto nella normativa.
Numerosi studi sull’organizzazione scolastica mostrano i vantaggi di questo modello per l’organizzazione e la qualità della scuola. Relazioni positive e sostegno dei colleghi aiutano a prevenire e contrastare il disagio lavorativo; il grado di collaborazione fra gli insegnanti migliora i risultati degli allievi, il clima relazionale positivo risulta più motivante e inclusivo. La comunità di pratiche, la collaborazione fra pari è considerata la formula più produttiva di formazione in servizio: per un docente entrare in un gruppo collaborativo significa diventare competente in termini di esperienza e nelle relazioni con gli altri.
Un lavoro collaborativo e creativo nella scuola del XXI secolo
L’approccio collaborativo nella scuola appare importantissimo se si pensa alla “conoscenza non più come apprendimento individuale fondato su regole e concetti che descrivono il mondo, ma risultato di un processo di costruzione collettivo, sociale”; a un’intelligenza connettiva basata sulle differenze di opinione, sulla connessione di reti di nodi specializzati e di fonti di informazione; allo sviluppo di competenze iperspecialistiche e trasversali per affrontare problemi complessi.
Massimo Lumini, nel suo intervento al convegno parla di “metodi per attrezzare le giovani generazioni a un possibile futuro”, team working e co-working sperimentati nei laboratori digitali del progetto “Tutti a Iscol@” condividendo “idee e soluzioni per imparare a superare conflitti e prevaricazioni e unire le forze per un progetto e un fine comune: predisposizione alla cooperazione e all’imprenditorialità, alla visione del lavoro come espressione di sé, di occasione di spendersi nel mondo, di fare la differenza”.
Si legge nel documento MIUR “Indicazioni nazionali e nuovi scenari” redatto nel 2018 dal Comitato scientifico nazionale per l’attuazione delle Indicazioni nazionali e il miglioramento continuo dell’insegnamento
“Un ambiente di apprendimento centrato sulla discussione, la comunicazione, il lavoro cooperativo, la contestualizzazione dei saperi nella realtà, al fine di migliorarla, l’empatia, la responsabilità offrono modelli virtuosi di convivenza e di esercizio della prosocialità.
Individuare e risolvere problemi, prendere decisioni, stabilire priorità, assumere iniziative, pianificare e progettare, agire in modo flessibile e creativo, fanno parte dello spirito di iniziativa e imprenditorialità. È evidente che tali competenze non possono essere sviluppate che in un contesto in cui si collabora, si ricerca, si sperimenta, si progetta e si lavora”.
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Oggi mercoledì 10 ottobre 2018
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Gli Editoriali di AladinewAladinAladinpensiero
INTERNAZIONALE. La Cina investe in (si prende l’?) Africa.
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Caro Massimo, sono in pena per te…
10 Ottobre 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Ci sarebbe ancora tempo per dare alla Sardegna una legge elettorale decente? Sì se i consiglieri regionali avessero coraggio e spirito democratico!
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LEGGE ELETTORALE SARDA: il tempo è passato inutilmente, ma ancora c’è tempo!
A proposito della necessità di una legge elettorale sarda che sostituisca quella schifosa vigente (la peggiore legge elettorale tra quelle in vigore nelle regioni italiane), riproponiamo un articolo di Aladinews del 19 novembre 2017.
di Franco Meloni.
Ricordate la vicenda della formazione dello statuto sardo quando Emilio Lussu e Mario Berlinguer, preoccupati dei ritardi della Consulta sarda nella redazione del testo statutario, proposero al governo di estendere alla Sardegna lo statuto che era stato ottenuto dalla Sicilia? Ma, nonostante la disponibilità governativa di accedere a tale richiesta, i consultori sardi rifiutarono sdegnosamente l’idea di uno statuto “concesso dall’alto”. Pertanto non se ne fece nulla. Sapete come andò a finire: il 31 gennaio 1948 – in articulo mortis, cioè allo scadere definitivo del suo mandato – l’Assemblea Costituente approvò lo Statuto proposto dalla Consulta sarda, dotato di minori competenze rispetto a quelle riconosciute alla regione Sicilia.
Tale vicenda mi è tornata in mente rispetto alla pressante richiesta del Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria di dotare la Sardegna di una nuova legge elettorale, che sostituisca quella indecente attualmente vigente. Stiamo parlando evidentemente di due questioni diverse, ma con analogie nel metodo proposto e nelle conclusioni, che così sintetizziamo: Cari consiglieri regionali sardi, se non ce la fate a proporre una legge elettorale che garantisca la rappresentatività democratica dei sardi, adottate la legge siciliana, con alcune importanti correzioni che la facciano corrispondere sostanzialmente a tale scopo. Infatti la legge elettorale siciliana, con alcune importanti modifiche, può corrispondere nella sostanza alle indicazioni contenute nell’apposito documento di principi formulato dal Comitato d’Iniziativa costituzionale e statutaria, a cui rimando.
Per spiegare in dettaglio questa proposta di seguito riporto gli interventi di Andrea Pubusa e di Gianni Pisanu, rispettivamente coordinatore e componente del CoStat.
(segue)
INTERNAZIONALE. La Cina investe in (si prende l’?) Africa.
L’espansione cinese in territorio africano
di Maurizio Salvi*
Lo scontro commerciale in atto fra Cina e Stati Uniti ha davvero un carattere planetario e molteplici angoli visuali. Agli aspetti più eclatanti e sensazionalistici – come il braccio di ferro a colpi incrociati di aumento dei dazi alle importazioni – i media hanno dato ampio spazio e non c’è quasi nulla in più da aggiungere. Ma ci sono terreni più appartati, dove l’informazione è carente e riservata solo agli addetti ai lavori, in cui pure il confronto per il primato fra il colosso cinese e quello statunitense è vivo, strategico e ricco di implicazioni. Uno di questi, e non il minore, è l’Africa. La partita fra Pechino e Washington era giocata là ad un tavolo grande già all’epoca del colonialismo, insieme all’allora Urss e a vari Paesi europei. Successivamente, chiusasi l’era sovietica, sì è capito che l’Europa non aveva né l’intenzione, né gli strumenti politici, ne quelli economici, per assumere un ruolo di primo piano. Per cui, a poco a poco la Cina, alla sua maniera discreta ma efficace, e gli Stati Uniti, soprattutto con il peso delle multinazionali ed il controllo degli organismi finanziari multilaterali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno finito per monopolizzare le iniziative nei confronti della cinquantina di Nazioni africane.
la prevalenza della filosofia cinese
Le preoccupazioni americane sulla crescita della presenza cinese nel Continente africano non sono recenti. Ma in passato esse non hanno mai raggiunto la categoria dell’emergenza, perché bilanciate da soddisfacenti risultati in termini politici ed economici della diplomazia e delle imprese statunitensi, sia a nord che a sud del deserto del Sahara. Ma negli ultimi anni la percezione di questo equilibrio è andata sfumando, ed è emersa più netta l’idea alla Casa Bianca, che la filosofia cinese di intervento stesse di fatto prevalendo.
E se vi fosse bisogno di una prova della eco che risalta delle iniziative di Pechino fra i governi africani, basterebbe sottolineare che all’inizio di settembre in occasione del Forum di Cooperazione Cina-Africa (Focac), si sono presentati capi di Stato, primi ministri e ministri di tutte le Nazioni, meno il piccolo Swaziland, che è l’unica della regione ad avere ancora fluide relazioni con Taiwan. «Se paragoniamo questo appuntamento con i più modesti vertici Francia-Africa e Gran Bretagna-Africa – ha osservato al riguardo David Bénazéraf, specialista delle relazioni sino-africane presso l’Agenzia internazionale dell’energia – possiamo avere un’idea della forza d’urto cinese». Creato nel 2000, il vertice si riunisce ogni tre anni stanziando somme via via più importanti per progetti, prevalentemente di infrastrutture. Nel 2005 i miliardi erano cinque, e nel 2015 sono diventati 60, equivalenti a quelli messi sul tavolo anche nel 2018: 15 miliardi in aiuti, prestiti senza interessi e prestiti agevolati; una linea di credito di 20 miliardi; un fondo speciale per lo sviluppo Cina-Africa ed un fondo speciale di cinque miliardi per l’import africano (tra il 2009 ed il 2015 la seconda economia mondiale ha più che raddoppiato le sue esportazioni verso il ‘Continente nero’ facendo lievitare il suo surplus commerciale). Inoltre quest’anno il presidente cinese Xi Jinping ha nuovamente promesso di cancellare il debito contratto dai Paesi più poveri, come era già avvenuto regolarmente, anche se con meno intensità, dal 2000.
dinamismo finanziario
Le Nazioni africane non esitano ad accedere alle offerte di denaro in prestito dalla Cina, perché ciò non solo comporta tassi di interesse minori rispetto a quelli praticati dagli organismi finanziari multilaterali, ma anche molti meno condizionamenti riguardo a corruzione e sana gestione dei conti pubblici, come avviene invece per il denaro offerto dai Paesi occidentali. E questo dinamismo finanziario, che riguarda investimenti nei settori di infrastrutture, energia, ed anche delle banche, ha fatto sì che molte centinaia di compagnie cinesi si siano insediate in Africa. In una prima fase si trattava di imprese di sostegno ai progetti di sviluppo previsti dagli accordi di cooperazione bilaterali. Ma successivamente, con l’aumento dei costi di produzione in territorio cinese, e per l’inasprirsi delle guerre commerciali legate anche alla persistente crisi planetaria, Pechino ha cominciato a delocalizzare la sua produzione manifatturiera alla ricerca di Paesi con salari meno alti. Da qui l’atterraggio in Paesi asiatici come il Bangladesh e il Vietnam, ma anche in Africa del Sud ed in altre realtà africane dove i prodotti, pur fabbricati con denaro e personale spesso solo cinese, vengono etichettati come di altra origine, evitando quindi l’imposizione dei dazi elevati fissati per la produzione cinese. E sempre Bénazéraf conferma che l’Africa «si configura oggi più che mai una zona di delocalizzazione delle imprese cinesi per il settore industriale a forte domanda di mano d’opera», per evitare, appunto, le sanzioni commerciali imposte a Pechino.
seguendo le antiche Vie della Seta
E ancora, grazie allo sviluppo dell’ambizioso progetto denominato ‘Belt and Road Initiative (Bri)’, la Cina è intenzionata a raccogliere attorno a sé il sostegno economico e politico internazionale necessario a realizzare un’opera maestosa di collegamento all’Europa e all’Africa Orientale, volta al miglioramento della cooperazione tra i Paesi dell’Eurasia. Si tratta dell’apertura di due corridoi infrastrutturali fra Estremo Oriente e continente europeo sulla falsariga delle antiche Vie della Seta: uno terrestre (Silk Road Economic Belt) e uno marittimo (Maritime Silk Road), con il coin- volgimento di 70 Paesi. Gli esperti ritengo- no che per completare questo programma siano necessari investimenti per la fantastica somma di 4.000-8.000 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti in questi anni non sono rimasti ovviamente a guardare e per provare ad ostacolare l’ambizione cinese hanno cercato di far progredire due blocchi commerciali: uno transatlantico con l’Europa, l’altro transpacifico con i Paesi dell’Asia vicini a Washington, senza però riuscire, sostengono gli esperti, a frenare la progressione del Bri cinese. E poi, se pure qualche ostacolo Xi Jinping trova nella regione asiatica, il Focac ha dimostrato che la musica è assai diversa in Africa dove il capo dello Stato si è recato quattro volte negli ultimi cinque anni, e dove ingenti investimenti sono stati accolti di recente per opere infrastrutturali da Egitto, Kenya, Africa del Sud, Senegal e Marocco, solo per fare alcuni nomi. E non è neppure un caso che l’unica base militare permanente della Cina all’estero sia a Gibuti, nel Corno d’Africa, all’estremità meridionale del Mar Rosso.
una valvola per l’economia
Insomma, sostiene Thierry Pairault, ricercatore capo del Centro nazionale della ricerca scientifica (Cnrs) francese, «c’è del vero nella tesi ufficiale di Pechino secondo cui le relazioni sino-africane si muovono nella logica ‘win-win’ (vantaggi di entrambe le parti)». Per l’Africa, spiega, «la Cina è una opportunità fenomenale che le permette di non dover sopportare più un faccia a faccia con le potenze occidentali. E per la Cina, questa spinta africana funge da valvola per una economia da tempo sostenuta dalle esportazioni e che ha bisogno di sfogo dovendo affrontare sia la politica protezionista del presidente Donald Trump, sia le barriere tariffarie europee». I punti polemici di questa cooperazione sono comunque ancora molti sotto accusa, c’è anche il grande acquisto di terre coltivabili realizzato in diversi Paesi africani per produrre derrate agricole volte a soddisfare la forte domanda di alimenti per i 1.300 milioni di cinesi. Questo feno- meno, hanno denunciato associazioni della società civile, ha accelerato una fuga di africani che abbandonano l’agricoltura e si trasferiscono nei centri urbani, dove spesso vivono in condizioni di massima povertà.
la crescita verde
Da questo tipo di rilievi ha preso spunto il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, quando ha dichiarato nel Forum di Pechino che il partenariato sino-africano deve rispondere a due grandi priorità: una «mondializzazione giusta e la promozione di uno sviluppo inclusivo». In particolare Guterres ha insistito sull’aiuto che la Cina può fornire ai Paesi africani in materia di sviluppo sostenibile. Dopo aver ricordato i rischi gravi che l’Africa corre a causa dei cambiamenti climatici, il segretario generale ha sottolineato come «uno sviluppo rispettoso del clima sia necessario per la Cina, per l’Africa, e per il mondo intero». «La Cina – ha concluso – è oggi un leader mondiale in quanto a soluzioni climatiche. È dunque importante che condivida i suoi progressi in materia con l’Africa per consentire a questo continente di andare oltre lo sviluppo tradizionale inquinante a favore della crescita verde».
* Maurizio Salvi su Rocca.
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ROCCA 15 OTTOBRE 2018
INTERNAZIONALE
Oggi martedì 9 ottobre 2018
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Gli Editoriali di AladinewAladinAladinpensiero
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Venerdì, in una sala affollata e attenta, si è svolto l’Incontro-dibattito sul Lavoro indetto dal CoStat. Nell’occasione sono stati presentati due volumi: il libro che raccoglie gli scritti del Convegno dello scorso anno: “Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti” – Aracne editore, curato da Fernando Codonesu, e quello di Domenico De Masi, “Il lavoro nel XXI secolo”, Einaudi ed.
L’incontro, coordinato da Mariella Montixi e da Franco Meloni, è stato presentato da Andrea Pubusa, seguito da diversi interventi di esponenti del Costat, Gabriella Lanero (Lavoro e Scuola), Gianna Lai (recensione al libro relativo al Convegno dell’anno scorso), Tonino Dessì (Lavoro e Costituzione), Luisa Sassu (tempo e focus sul lavoro femminile) e concluso da Gianfranco Sabattini e Silvano Tagliagambe. Fernando Codonesu ha poi introdotto il prof. De Masi, interloquendo con lui.
Prossimi appuntamenti del CoStat: un incontro su Migrazioni e Accoglienza, con analisi del cd “decreto sicurezza” (il 19 ottobre p.v. presso lo Studium franciscanum) e uno sulle elezioni regionali all’inizio di novembre. Com’è noto, il Comitato non fiancheggia alcun partito, non dà indicazioni di voto a liste o a candidati, ma immetterà nella campagna elettorale i temi caldi che interessano la Sardegna e i sardi. Sarà dunque una presenza sui contenuti, con due indicazioni generali: battere il centro destra e votare chi, fuori dal centrodestra, si è apertamente schierato con il NO al referendum costituzionale promosso dal governo Renzi.
La relazione di Luisa Sassu è stata pubblicata domenica da Aladinews e oggi da Democraziaoggi.
ll tempo come misura del lavoro e della qualità della vita. Un focus sul lavoro femminile.
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E’ online il manifesto sardo duecentosessantanove
Il numero 269
Il sommario
Le bambine del ‘68 (M. Tiziana Putzolu), Turchia e dintorni. Origini del nazionalismo turco (Emanuela Locci), Stop alla proposta di legge regionale sarda sul governo del territorio, la legislatura finisce qui (Stefano Deliperi), Curare le ferite della sinistra e ripartire senza bandierine (Marco Revelli), L’epilogo malinconico della legge urbanistica (Alan Batzella e Sandro Roggio), La “dignità del lavoro” non può essere garantita dalla flessibilità occupazionale (Gianfranco Sabattini), Una brutta manovra da non sottovalutare (Alfonso Gianni), Manifesto per la 17° marcia della pace Gesturi Laconi (red), Festa dei popoli 2018 (red), La paura ha sempre un biscotto in tasca (Rita Sedda).
Conosco GIULIA
di Raffaele Deidda
Eh si, si impara a conoscerle quelle di GIULIA (Giornaliste unite libere autonome). Magari divertendosi, magari partecipando insieme a 750 persone al Teatro Massimo di Cagliari sabato 6 ottobre allo spettacolo “La conosci Giulia?”. Pensato dall’associazione Giulia giornaliste Sardegna coordinata da Susi Ronchi, sponsorizzato dal Corecom, il Comitato regionale per le comunicazioni presieduto da Mario Cabasino e realizzato dalla compagnia Lucido Sottile. Pièce straordinariamente, ironicamente simpatica seppur emblematica del sussistere delle disparità di genere nelle redazioni giornalistiche. Sia in quelle televisive che in quelle della carta stampata.
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DOCUMENTAZIONE su Reddito di Cittadinanza, ReI, Reis e dintorni
ECONOMIA. Dal reddito di inclusione a quello di cittadinanza. Rossini: “Ma il Reis può contrastare efficacemente la povertà assoluta”
27 settembre 2018
Stefano De Martis su SIR
Il documento proposto dall’Alleanza contro la povertà individua nel dibattito in corso cinque tipi di pericoli: il ripartire da zero come se nulla fosse stato fatto finora, perseguendo ancora una volta quell’idea di “riforma della riforma” che è un vizio non nuovo nella politica italiana; l’introduzione di un soggetto diverso (i Centri per l’impiego) nel coordinamento degli interventi, oggi affidato ai Comuni; la “frammentazione del welfare” con misure che si sovrappongono e si sostituiscono senza una logica di sistema; l’adozione di un “welfare discriminatorio” che escluda i non italiani, contraddicendo principi costituzionali, sentenze della Consulta e legislazione comunitaria; il rischio di dare la “priorità ai penultimi”
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Oggi lunedì 8 ottobre 2018
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Gli Editoriali di AladinewAladinAladinpensiero
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Il pane amaro (a proposito delle misure sociali del governo)
8 Ottobre 2018
Domenico Gallo sul Quotidiano del Sud 5 ottobre 2018, ripreso da Democraziaoggi.
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Verso le elezioni sarde. Dibattito elettorale. Interviene AutodetermiNatzione.
Riprendiamo il dibattito elettorale verso le elezioni sarde ospitando un intervento di Stefano Puddu Crespellani, di Sardegna Possibile, che, argomentando con molta chiarezza, propone l’appoggio alla lista Autodeterminatzione. Al riguardo, su richiesta del coordinatore nazionale di detto movimento, Fabrizio Palazzari, segnaliamo la conferenza stampa presso il Consiglio Regionale della Regione Autonoma della Sardegna per domani, lunedì 8 ottobre 2018, alle ore 10.00, sul tema: “Autodeterminatzione – Presentazione del candidato alla Presidenza della Regione Autonoma della Sardegna”, che, come è noto è Andrea Murgia. Ovviamente torneremo su questa tematica, per dare spazio e diffusione al dibattito elettorale e alle correlate iniziative del CoStat.
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Scelte fertili contro il voto futile
La rigenerazione del sistema politico sardo può arrivare soltanto dalla scelta di abbandonare la palude del centro bipolare. Nasce, inoltre, dal coraggio di assumere pienamente la prospettiva nazionale della Sardegna. Una prospettiva da coltivare, laddove tanto a lungo è rimasta incolta. È qui che occorre una scelta, cioè una decisione da prendere prima del risultato. Una decisione non tattica, non opportunista.
di Stefano Puddu Crespellani*
Le elezioni sono quel momento in cui tende a prevalere su tutto il tatticismo. Ogni considerazione si appiattisce sul brevissimo termine. Qualunque ragionamento politico viene eclissato dagli slogan. La categoria del “meno peggio” diventa quasi il massimo a cui si possa aspirare. Di questo, la Sardegna ne è un esempio da manuale.
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Marcia per la Pace 2018 Perugia-Assisi
Marcia per la pace Perugia-Assisi, “Siamo oltre 100mila, corteo lungo 15 km. Candidiamo al Nobel il modello Riace”
Su Il fatto quotidiano
In 100 mila alla marcia della pace Perugia-Assisi. Mattarella: “Testimoni di speranza”. Il corteo partito sotto la pioggia. Tanti i messaggi di solidarietà al sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Su La Stampa.
Materiali dell’Incontro “Lavorare meno Lavorare meglio Lavorare tutti”. Intervento di Luisa Sassu.
Con il contributo di Luisa Sassu iniziamo la pubblicazione degli interventi all’Incontro-dibattito sul Lavoro, che si è tenuto venerdì scorso, con la partecipazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi. Abbiamo chiesto ai diversi relatori di inviarci i loro contributi per iscritto, anche con rielaborazioni rispetto a quelli effettivamente svolti, pur rispettando contenuti e sintesi, pertanto procederemo a pubblicarli nell’ordine in cui ci perverranno. Questa occasione potrà essere colta anche da quanti non abbiano avuto spazio nel convegno e vogliano intervenire nelle pagine che volentieri mettiamo a disposizione nella nostra News.
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Il tempo come misura del lavoro e della qualità della vita. Un focus sul lavoro femminile.
di Luisa Sassu
Voglio premettere che nel mio breve intervento, contravvenendo a tutte le regole estetiche dell’arte oratoria, ripeterò spesso e pedantemente la parola tempo. Lo farò per comodità espositiva, ma, soprattutto, lo farò per sottolineare il valore semantico della parola, che esprime una categoria dell’esistenza e non trova altrettanto pregio evocativo nei sinonimi o nelle infinite declinazioni che pure alleggerirebbero questo intervento dal peso delle ripetizioni.
C’è stato un tempo in cui, il tempo, segnò il processo di emancipazione dello schiavo consentendo al diritto romano di distinguere per la prima volta il tempo della libertà da quello dell’assoggettamento, il tempo della vita dal tempo del lavoro. In questa rappresentazione storica e giuridica, il lavoro si identificava col tempo impegnato nella prestazione lavorativa, primo indicatore della differenza fra il lavoro servile e quello cosiddetto libero; il tempo, inoltre, fungeva da strumento per calcolare il compenso del lavoratore.
Nella nostra bellissima lingua logudorese, con riferimento ad un’economia agricola di un tempo ormai remoto, un’economia fatta di molti braccianti e pochi avidi latifondisti, il lavoro si identificava direttamente col tempo: “so andende a sa zoronada”, si diceva, per intendere “sto andando a faticare” e quella “zoronada” significava dall’alba al tramonto per un compenso che consisteva in un pugno di grano.
Ebbene, è del tutto evidente che un tempo di lavoro così lungo, che impegnava praticamente l’intera giornata, rendeva il cosiddetto lavoro libero molto simile al lavoro servile.
Non è un caso, quindi, che moltissime (possiamo dire le prime e più importanti) lotte organizzate dei braccianti e della classe operaia avessero come obiettivo la riduzione del tempo del lavoro. Ci sono pagine straordinarie che raccontano queste battaglie, e nel mio personale bagaglio, anche sentimentale, mi piace ricordare ciò che rappresentò Giuseppe di Vittorio per i braccianti di Cerignola e poi per tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro paese.
Il tempo, dunque, come elemento costitutivo del rapporto di lavoro subordinato, che, in una fase più evoluta rispetto ai richiami storici che ho citato, ha concorso a definire la nozione giuridica di “orario di lavoro”, per poi costituire la base, nelle realtà produttive più sindacalizzate, per avviare una dialettica sull’intera organizzazione del lavoro all’interno delle aziende.
Ancora oggi, l’orario di lavoro rappresenta un elemento distintivo tra il lavoro subordinato e quello autonomo (al quale meglio si adatta il concetto ampio di “tempo di lavoro”): molti contratti collettivi fanno ancora riferimento al suono della sirena come segnale di avvio della prestazione lavorativa. Deve far riflettere, tuttavia, il fatto che esistano tipologie di lavoro subordinato, che, in ragione delle funzioni svolte nell’organizzazione produttiva (si pensi alle dirigenze) sono svincolate dall’orario di lavoro o hanno un vincolo di orario assai attenuato.
Questa constatazione di fatto introduce una chiara indicazione sulla possibilità di agganciare l’apprezzamento della produttività e, a cascata, l’organizzazione del lavoro e la misurazione del salario, ad un parametro diverso dall’orario di lavoro. In un contesto di evidente mutamento dei sistemi produttivi (che introduce irreversibilmente nuove tecnologie anche nel manifatturiero) liberare il tempo della vita dal tempo del lavoro dovrebbe rappresentare la sfida delle contrattazioni collettive e delle legislazioni, anche per contrapporre un modello di civiltà e di diritti all’ulteriore impoverimento dei lavoratori (come invece è avvenuto e sta avvenendo proprio in ragione del mutamento irreversibile di molti sistemi produttivi).
Dovrebbe perciò tornare d’attualità quel “lavorare meno, lavorare tutti” che ha ispirato molte battaglie sindacali e alcune legislazioni, sapendo che è arrivato il momento cruciale per interrompere la china del lavoro sfruttato di immense masse di lavoratrici e lavoratori nell’economia globale.
In questo quadro generale, perché un focus sul lavoro femminile?
Per una scelta che è, al tempo stesso, di metodo e di contenuto.
Per tornare brevemente alla storia, ricordo che già agli inizi del secolo scorso, nei settori produttivi a forte presenza femminile (per esempio il tessile), furono importantissime, tra le altre, le battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro ai fini di consentire alle lavoratrici madri di svolgere anche il lavoro di cura nell’ambito familiare, ciò che oggi si chiamerebbe “conciliazione”. Quelle battaglie avvenivano in un contesto storico e culturale che, ovviamente, non metteva in discussione la millenaria divisione dei ruoli all’interno del contesto familiare e perciò la “liberazione dai tempi del lavoro” non corrispondeva ad una effettiva liberazione dalla fatica che attendeva le donne tra le mura domestiche. Pur tuttavia, quella richiesta di conciliazione introduceva nelle realtà produttive un elemento problematico che ancora esiste e che, soprattutto negli ultimi decenni, ha conosciuto delle utilissime elaborazioni cui ha fatto seguito l’emanazione di una legislazione di pregio sia in Europa che in Italia.
Un focus sul lavoro femminile propone quindi un metodo, come abbiamo detto, che ha l’ambizione di ribaltare la prospettiva delle analisi e delle proposte in materia di lavoro, normalmente calibrate su un oggetto neutro, cioè non connotato dal genere, nonostante sia ormai acquisito al bagaglio delle analisi il fatto che il tempo agisce in modo diverso se riferito al lavoro femminile rispetto al lavoro maschile.
Alcuni esempi: nella fase di accesso al mercato del lavoro (soprattutto in un mercato del lavoro che offre ben poco) il tempo può rappresentare una ragione di rinuncia per una madre se il salario proposto rende assai poco conveniente l’affidamento dei figli ad una babysitter (stante anche la cronica mancanza, nel nostro Paese, di asili nido e di luoghi per l’accoglienza dei bambini); nei contesti lavorativi è dimostrata la minore disponibilità delle donne-madri a prolungare l’orario di lavoro, e ciò incide sia sulla retribuzione (determinando quel differenziale retributivo che ancora esiste fra uomini e donne) che sulle progressioni in carriera (che normalmente esigono un “presidio” attento degli spazi e del tempo in azienda). Il mancato accesso delle donne ai vertici dell’organizzazione produttiva, il famoso tetto di cristallo, spesso dimostra che le competenze, nelle organizzazioni, pesano meno della disponibilità di tempo che gli uomini possono ancora offrire in misura maggiore, grazie al persistere di una squilibrata ripartizione delle responsabilità genitoriali e, in generale, del lavoro di cura nella sfera familiare.
Ebbene, rispetto a questi dati, che ancora non sono stati superati dal “libero svolgersi delle dinamiche di mercato”, le contrattazioni aziendali e le legislazioni attente alla conciliazione di tempi di vita coi tempi di lavoro (in Italia, la legge 53/2000), offrono un modello che ha l’ambizione di partire dalle esigenze del lavoro femminile per informare di sé il lavoro di tutti. Nei paesi del Nord Europa, per esempio, la massiccia estensione dei congedi parentali ai padri ha mostrato i suoi effetti positivi sia sull’occupazione femminile, che sulla natalità: la condivisione del lavoro di cura ha perciò inciso sia sulle organizzazioni del lavoro, sia sulle famiglie, sia sulla società.
Questi esempi di articolazione delle organizzazioni con riferimento al tempo dimostrano che è arrivato il … tempo… di attenuare il peso del fattore tempo nella misurazione della prestazione lavorativa e del salario, immaginando che le profonde trasformazioni delle modalità di produzione possano diventare il presupposto, non per peggiorare le condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori, ma, al contrario, per costruire piattaforme contrattuali e legislative che consentano di lavorare meno, lavorare tutti e lavorare meglio, come recita il titolo di questo convegno.