Monthly Archives: agosto 2018
LAVORO: in attesa di una nuova rotta
…però poi la rotta nuova bisogna tracciarla e percorrerla, con politiche che per forza di cose sono diverse dal ‘semplice’ riscrivere le regole giuslavoriste; politiche che vadano a contrastare il male antico dell’economia italiana, una bassa produttività che crea soprattutto lavori ‘poveri’. E dunque: investimenti pubblici, politiche industriali, sostegno alla produttività, formazione, ricerca e sviluppo. È quello che chiedono molti economisti di scuola keynesiana, che sostengono sindacati come la Cgil, che dicono gli stessi esponenti pentastellati. E allora?
Il lavoro non si crea per decreto
di Roberta Carlini, su Rocca
Il nuovo governo va in vacanza con le truppe ben schierate. Salvini, com’era ovvio fin dall’inizio, presidia l’ala destra, sollevando un tema al giorno sempre nello stesso filone – la sicurezza, e dunque la difesa da una minaccia esterna, che sia il migrante sul barcone o il ladro in casa; Di Maio, dopo un imbarazzante lungo silenzio, ha piazzato il suo pallone sull’ala sinistra, con il decreto detto «dignità», avente a oggetto i contratti a termine, le delocalizzazioni, il gioco d’azzardo. Le molte piazzate di Salvini e le poche sue decisioni non hanno finora cambiato la vita degli italiani, mentre hanno cambiato, a volte con conseguenze tragiche, quella degli stranieri, fuori e dentro i nostri confini. E le decisioni di Di Maio? Riuscirà il «decreto dignità» ad avere qualche effetto sul mondo del lavoro e delle imprese?
Nei giorni successivi alla sua approvazione, l’attenzione di tutti si è concentrata sulle stime che hanno fatto gli uffici dell’Inps. Secondo i quali c’è il rischio che una piccola parte di tutti i contratti a termine in scadenza non sia rinnovata, a causa dell’inasprimento delle condizioni e dei nuovi vincoli. Ricordiamoli: nella versione originaria del decreto (in parlamento può poi succedere di tutto), il contratto a tempo determinato non potrà durare più di 24 mesi (prima erano 36), al superamento dei 12 mesi se ne dovrà in ogni caso dichiarare la causale (spiegare il motivo per cui si ricorre al contratto a tempo e non a un’assunzione permanente: obbligo che era stato cancellato dal decreto Poletti del 2014); non si potrà rinnovare più di 4 volte (prima erano 5), e a ogni rinnovo si avrà un aggravio del costo contributivo dello 0,5%. Insomma, una stretta di freni, per scoraggiare l’uso di questa formula. Formula che peraltro è di grandissimo successo, se si considera che nell’ultimo anno – da maggio 2017 a maggio 2018 – ben il 95% di tutti i nuovi occupati è entrato con una qualche formula a termine, mentre le assunzioni permanenti hanno interessato solo l’1% della nuova occupazione (il restante 4% sono indipendenti).
i numeri di Boeri
Di fronte all’enormità del ricorso al tempo determinato, stimare una qualche conseguenza del nuovo decreto non è facile ma non significa neanche peccare di lesa maestà. Anzi, la stima di 8.000 contratti in meno all’anno, fatta dall’Inps, è considerata dai più esperti studiosi del mercato del lavoro abbastanza ottimistica. Stiamo pur sempre parlando di una popolazione complessiva – gli occupati temporanei – che supera i 2,7 milioni, di un flusso di contratti sopra i 24 mesi pari a 80.000, e di un numero molto maggiore di contratti che si trovano a dover fare i conti con l’obbligo di indicare la causale e il piccolo aumento contributivo. Perché dunque tanto nervosismo attorno a quella piccola cifra, 8.000 posti di lavoro per di più temporanei? Il caso evidenzia due punti deboli, uno relativo alla parte di governo che ha voluto il decreto, l’altro più generale relativo agli interventi sul mercato del lavoro, e comune a tutti i governi, anche quelli passati. Il primo «tallone d’Achille» è tipico dei Cinque Stelle, dalla giunta di Roma alle stanze governative: tendono – a ragione – a non fidarsi della vecchia burocrazia che ha sempre fatto resistenza ai cambiamenti, e credono – a torto – che tutto il mondo sia pronto a buggerarli. Vedono complotti ovunque, una volta proprio a Roma Roberta Lombardi dichiarò che a suo parere era in atto un complotto… per farli vincere. Dunque, arrivata la paginetta di numeri da Boeri, invece di mettersi a studiarli e valutarli di buzzo buono, come qualsiasi governante dovrebbe fare, è risultato più semplice prima far finta di niente e poi denunciare la «manina» che ha infilato gli sporchi numeri nel dossier altrimenti cristallino.
relazione tra legge e politica
e condizioni reali dell’economia
Il secondo punto debole è più serio, perché riguarda tutti noi, in generale la relazione tra quel che possono fare la legge e la politica, e le condizioni reali dell’economia. Chi critica il «decreto dignità» dice che il lavoro non si crea per decreto, e che se si chiudono o si restringono le porte del lavoro a termine le imprese o troveranno altre strade per avere lavoro flessibile, o licenzieranno e basta. Chi difende lo stesso decreto concorda sul fatto che non saranno le nuove regole a creare lavoro, ma dice che le imprese eviteranno l’abuso di contratti a termine: se però questo comporterà minore o maggiore precarietà, dipende da tante altre cose non scritte nella legge. Per esempio, dalla disponibilità di altre formule ‘brevi’, flessibili o precarie che dir si voglia (già nella discussione parlamentare del decreto, ha annunciato la Lega, si riaprirà la grande finestra dei voucher, i quali potranno essere un’alternativa, più precaria dei contratti a tempo determinato); dal settore in cui si lavora; da come va l’economia; dagli investimenti, dalle previsioni delle imprese; da eventuali nuovi incentivi alle assunzioni permanenti – anche queste, promesse come un emendamento nell’iter parlamentare; infine, dalla disponibilità di altri lavoratori sul mercato, pronti a prendere i contratti a termine scaduti dei loro colleghi. Veneto Lavoro, un osservatorio molto vicino alla realtà produttiva del Nord Est – che è quasi in piena occupazione e soffre semmai una carenza di manodopera operaia qualificata – ha compiuto una sua analisi del decreto, evitando di dare numeri secchi ma tracciando quattro possibili risposte da parte delle imprese, e concludendo: «in sostanza o si va a ridurre la domanda di lavoro a termine (con o senza trasferimento su altre tipologie contrattuali o riorganizzazioni più ampie) o aumenta il turn over dei lavoratori». Bruno Anastasia, che dirige l’ufficio studi di Veneto Lavoro, vede in quest’intervento, come in tutti quelli che negli ultimi anni si sono succeduti sul diritto del lavoro, «un po’ di fretta e presunzione sull’efficacia automatica, immediata e a senso unico (positiva) delle norme» – scrive in un articolo per lavoce.info. Le norme, invece, si dovrebbero calare nella realtà: e la realtà, secondo il punto di osservazione di Veneto Lavoro, è che i settori in cui l’economia italiana si sta riprendendo (il turismo in primo luogo), oltre che la stessa conformazione produttiva di un’economia globalizzata e sempre esposta alla concorrenza, di per sé chiedono «lavoro a termine». Questo, come un fiume, si incanalerà volta per volta nelle forme che il diritto consente – e a volte, in particolare a Sud, anche in quelle che non consente, tornando nel sommerso.
inversione di rotta ma quale rotta?
Ma allora, non si può far niente contro la precarietà? La conclusione può non essere così sconsolata, a patto di stare attenti, più che alle «manine» ministeriali, alle trappole che la stessa giungla giuridica del lavoro ha disseminato qua e là. Poi c’è l’aspetto simbolico e culturale: misure come quelle del decreto dignità possono essere viste come un altolà, un freno, un segnale di inversione di rotta. Però poi la rotta nuova bisogna tracciarla e percorrerla, con politiche che per forza di cose sono diverse dal ‘semplice’ riscrivere le regole giuslavoriste; politiche che vadano a contrastare il male antico dell’economia italiana, una bassa produttività che crea soprattutto lavori ‘poveri’. E dunque: investimenti pubblici, politiche industriali, sostegno alla produttività, formazione, ricerca e sviluppo. È quello che chiedono molti economisti di scuola keynesiana, che sostengono sindacati come la Cgil, che dicono gli stessi esponenti pentastellati. Ma perché, se il lavoro non si crea per decreto e se prima vengono le politiche industriali, si è scelto di partire invece dagli effetti (i contratti brevi) e non la causa (la fragilità dell’economia italiana)?
Per lo stesso motivo per il quale Salvini ogni giorno spara un tweet contro i neri, i ladri, i profittatori: individuare un obiettivo simbolico, e colpire. Accontentando le tante, tantissime persone che hanno chiesto ai partiti che attualmente governano una sola cosa: protezione. Protezione da un mondo e da un mercato sentiti come ostili, portatori di un futuro incerto e minaccioso. Questo vale per i disoccupati e sottoccupati del Sud come per l’imprenditore del Nord, sempre sul margine tra successo e fallimento. Nella seconda parte del Novecento, al bisogno di protezione ha risposto la sinistra, con le sue varie forme: in particolare in Europa con il modello socialdemocratico. Negli anni Duemila, sta rispondendo quasi ovunque una destra nazionalista, che in Italia abbiamo ancora timori a definire, tecnicamente, fascista; ma che da noi è ancora minoritaria (almeno, alle ultime elezioni) ed è arrivata al governo grazie al traino dei Cinque Stelle dall’identità molto più sfumata e ambigua. La «protezione» che Di Maio promette con il decreto dignità – dal precariato, dalle delocalizzazioni, perfino dalla piaga del gioco d’azzardo – è diversa da quella che gonfia le vele al suo alleato. E però, richiede sapienza, efficacia, alleanze sociali, e un modello di Paese in mente: basato sulla solidarietà tra deboli, e non sul fare la guerra ai più deboli. Mentre il ministro varava il suo decreto, a Figline Incisa una multinazionale chiudeva i battenti per spostarsi in Romania, lasciando 318 famiglie sul lastrico: non è un complotto ma la realtà, e c’è il rischio che i governanti a Cinque Stelle ne prendano atto troppo tardi. Molto prima potrebbero rendersene conto i loro elettori.
Roberta Carlini
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“Cattive” informazioni e rischi per la democrazia
Se i cittadini non sono correttamente informati sul come vengono governati e come funzionano realmente le strutture istituzionali economiche e politiche, è inevitabile che i “poteri forti”, spesso occulti, si approprino della direzione dello Stato e della società; corrispondentemente, la stampa e in generale il sistema mass-mediatico, in luogo di costituire la stella polare dell’”ethos comunitario”, degradino, svalutando la loro funzione, per svolgere solo il ruolo di “cane da guardia” degli interessi di chi detiene posizioni di potere fuori controllo in seno alla società.
“Cattive” informazioni e rischi per la democrazia
Gianfranco Sabattini*
Gli attacchi all’”informazione vera” e la diffusione di “cattive o false informazioni” stanno ponendo “fine alla competenza”, intesa quest’ultima, non come scomparsa della conoscenza di argomenti specifici acquisita con l’impiego degli strumenti gnoseologici pro-tempre disponibili, ma come rifiuto della “razionalità obiettiva” e di ogni forma di autorità consapevole, spesso sulla base di pregiudizi e di superstizioni.
Sembra di assistere alla chiusura di un ciclo, afferma Tom Nichols, docente alla U.S. Naval War College alla Harvard Extension School, in “La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”; un ciclo, iniziato nell’età pre-moderna, in cui la saggezza popolare colmava “inevitabili lacune nella conoscenza umana, attraverso un periodo di rapido sviluppo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino a un mondo postindustriale e orientato all’informazione, dove tutti i cittadini si ritengono esperti di qualsiasi cosa”; con l’accusa rivolta alla conoscenza esperta d’essere l’esito di un elitarismo, con cui “viene soffocato il necessario dialogo richiesto da una democrazia ‘reale’”.
Nel suo volume, l’autore affronta il tema del prevalere dell’incompetenza, approfondendo, in particolare, il rapporto tra esperti e cittadini in un sistema retto da istituzioni democratiche, chiedendosi perché questa relazione si sia pericolosamente affievolita. Gli attacchi al “sapere consolidato”, a suo parere, hanno una lunga storia dietro di sé; essi si affermano e si diffondono con il consolidarsi dei moderni sistemi di informazione. A parità di condizioni, secondo Nichols, in passato prevaleva un “minore attrito tra esperti e profani, ma solo perché, semplicemente, i cittadini non erano in grado di sfidare gli esperti in modo sostanziale” ed anche perché “nell’era precedente erano pochi i luoghi pubblici in cui lanciare simili sfide”. Fino all’inizio del Novecento, la partecipazione alla vita intellettuale e politica era molto limitata, per cui i dibattiti sulla conoscenza e sulla politica che veniva attuata erano tutti condotti da una piccola “cerchia” di istruiti.
Solo a partire dall’inizio della seconda metà del secolo scorso, i cambiamenti sociali indotti dal rapido diffondersi del benessere economico, sono state infrante le vecchie distinzioni di classe, allargando il confronto tra le élite degli esperti e i cittadini; così che, uno “spazio di dibattito più ampio ha significato più conoscenza, ma anche più attriti sociali”. Ciò perché, un’informazione più diffusa è divenuta il fattore che ha messo “in contatto diretto una minoranza di esperti e la maggioranza dei cittadini, dopo quasi due secoli in cui raramente le due categorie hanno dovuto interagire tra loro”.
Il risultato di questa accresciuta interazione non è stato un “maggior rispetto” per un “sapere vero”, ma la diffusione e il radicamento della convinzione secondo cui tutti sono informati quanto gli esperti; in tal modo, l’esito finale è stato l’opposto di quello che ragionevolmente si sarebbe dovuto avere, ovvero l’apprendimento da parte del pubblico di un sapere inteso come “punto di arrivo” dell’informazione acquisita e non come fase iniziale, aperta perciò a un suo ulteriore e continuo miglioramento. Si è trattato, a parere di Nichols, di un risultato “pericoloso” per il corretto svolgersi del processo decisionale nelle democrazie.
Il miglioramento dell’informazione, acquisita attraverso i sistemi dell’istruzione e dei mass-media, avrebbe dovuto consentire il superamento delle lacune presenti nella conoscenza dei cittadini; è accaduto invece il contrario, in quanto il sistema della formazione, e in particolare quello mass-mediatico, ha considerato e trattato la formazione e l’informazione alla stregua di una “generica merce”, trasformandola, secondo Nichols, in una parte integrante del problema del deteriorarsi del rapporto tra esperti e cittadini.
La moderna era della tecnologia, pur avendo ampliato la possibilità della diffusione dell’informazione razionale, ha contribuito all’affermazione della disinformazione. Nelle società democratiche, caratterizzate dalla libera circolazione dell’informazione, i mass-media avrebbero dovuto essere “i maggiori arbitri nella grande mischia tra ignoranza e cultura”; i cittadini avrebbero dovuto potersi affidare ai media per essere correttamente informati, consentendo loro di separare i fatti da una loro presentazione di convenienza, prospettandoli nel modo più semplice e intelligibile possibile. Per converso, gli operatori dei media avrebbero dovuto coltivare l’interesse ad approfondire le proprie conoscenze, per diventare competenti nella presentazione dei fatti. Tutto ciò non è avvenuto, per cui l’aspetto più negativi della fine della mediazione da parte dei media tra “informazione e ignoranza” è divenuto oggi uno degli ostacoli al corretto funzionamento delle istituzioni democratiche.
Nelle democrazie, è gioco forza che i rappresentanti eletti non potendo padroneggiare tutti gli aspetti dei fatti e delle situazioni su cui assumere decisioni per conto dei cittadini che li hanno espressi, si affidino all’aiuto di esperti e professionisti; ma, se manca un “intermediario” che controlli il rapporto tra decisori politici ed esperti viene meno la fiducia dei cittadini nella democrazia. Quando gli esperti danno pareri ai politici, i cittadini, dal canto loro, per poter giudicare i “servizi” degli esperti e le conseguenti decisioni, devono essere correttamente informati sulle problematiche oggetto delle decisioni. Se ciò non avviene, il rischio che insorge è quello di un possibile “dirottamento”, operato da demagoghi o da “poteri forti” presenti in ogni contesto sociale, della democrazia, fino a trasformarla in una “tecnocrazia autoritaria”.
La complessità delle problematiche delle democrazie moderne ha fatto sì che competenza e governo diventassero interdipendenti e che il rapporto di reciproca dipendenza fosse facilitato dal progresso tecnologico e dalla divisione del lavoro, con un corrispondente approfondimento delle professioni. Questo processo ha riguardato anche il comparto dell’informazione; oggi, i cittadini dispongono di una quantità di informazioni come mai è avvenuto nel passato, ma una “quantità maggiore di ogni cosa – afferma Nichols – non significa maggiore qualità di ogni cosa”. Il fatto che i cittadini dispongono oggi di molte più fonti di informazione rispetto a qualsiasi altro momento del passato equivale ad un notevole ampliamento della scelta sul come informarsi; ciò è vero, ma non significa che essi abbiano anche acquisito la possibilità di accedere ad una migliore informazione.
Il progresso economico e tecnologico ha favorito l’espansione del comparto dei media e il moltiplicarsi delle imprese giornalistiche; ma l’aumento delle “testate”, pur significando una maggior concorrenza fra le imprese giornalistiche, ha portato alla divisione del pubblico in “nicchie politiche” particolari, mentre è cresciuto spropositatamente il numero dei giornalisti impegnati a “confezionare” l’informazione per il pubblico, a prescindere dalla loro competenza ad informare obiettivamente il pubblico sulle questioni politiche oggetto delle decisioni politiche.
E’ questo, secondo Nichols, l’aspetto più negativo cui è andato incontro il sistema dell’informazione; l’aver preferito “confezionare” notizie e informazioni gradite al pubblico, o l’essersi “messo a disposizione” di gruppi sociali specifici per la cura del loro interessi “particulari”, lo hanno allontanato dalla funzione che esso avrebbe dovrebbe svolgere preminentemente all’interno dei moderni sistemi sociali avanzati. Ciò è avvenuto in modo progressivo, come osserva l’Editoriale di MicroMega (n. 3/2018), prima con i giornali, poi con gli altri media (radio, televisione, web).
Quale dovrebbe essere il ruolo del sistema mass-mediatico, dei giornalisti che lo alimentano e delle imprese che lo gestiscono? Questo ruolo dovrebbe consistere nel “criticare nel modo più radicale e intransigente [...] gli atti del potere”. Tutta l’attività che concorre ad alimentare l’offerta di un’informazione razionale e autonoma al pubblico è invece venuta meno alla sua ragion d’essere; in altri termini, è venuta meno all’etica con cui il sistema mass-mediatico dovrebbe orientare l’informazione diretta alla formazione dell’opinione pubblica.
Lo smarrimento della moralità propria dei media, a parere di Marco D’Eramo (“Invenzione, ascesa e declino del giornale”, MicroMega n 3/2018), deve ricondursi al fatto che l’informazione mass-mediatica è divenuta una “merce bizzarra”, nel senso che ha acquisito la caratteristica di un “prodotto di massa” e non quella di un “bene di lusso”, con costi di produzione sempre più alti; cosicché, l’editore, ovvero colui che ne gestisce il processo produttivo dei media, ha dovuto aprirsi all’accoglimento di finanziamenti “non-disinteressati”. In tal modo, l’editore, mentre “vende” l’informazione ai lettori dei suoi giornali, nello stesso tempo egli “vende” i lettori ai suoi finanziatori.
Così, secondo D’Eramo, l’editore ha trasformato il lettore in “prodotto da vendere”, riuscendo ad “innescare” una spirale perversa: una maggiore “tiratura” delle copie del giornale da vendere richiede maggiori costi, per la cui copertura sono necessari crescenti finanziamenti, che si possono ottenere solo garantendo ai finanziatori non-disiteressati la legittimazione delle loro pretese da parte del maggior numero possibile di lettori. Tutto ciò è valso a radicare il convincimento, errato, che le democrazie possano funzionare senza il supporto dell’opinione pubblica.
Si può pertanto concludere, condividendo Nichols, con l’affermazione che, se non contrastato, il crollo dell’informazione razionale ed autonoma è destinato ad alimentare un circolo vizioso negativo per la democrazia, a causa del disimpegno nel controllo dell’attività di governo da parte della comunità.
Se i cittadini non sono correttamente informati sul come vengono governati e come funzionano realmente le strutture istituzionali economiche e politiche, è inevitabile che i “poteri forti”, spesso occulti, si approprino della direzione dello Stato e della società; corrispondentemente, la stampa e in generale il sistema mass-mediatico, in luogo di costituire la stella polare dell’”ethos comunitario”, degradino, svalutando la loro funzione, per svolgere solo il ruolo di “cane da guardia” degli interessi di chi detiene posizioni di potere fuori controllo in seno alla società.
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* Anche su Avanti! online
Oggi martedì 7 agosto 2018
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- Gli Editoriali di Aladinews.
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Vitalizi: anche in Sardegna una riforma Fico?
7 Agosto 2018
di Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
L’Unione sarda ha pubblicato per l’ennesima volta l’elenco degli ex consiglieri regionali che godono del vitalizio. Lo percepiscono legittimamente in base ad una normativa regolarmente deliberata e vigente; secondo questa disciplina tutti i vecchi consiglieri regionali, prima della riforma della materia, godono del vitalizio. E’ una elargizione giusta, è un privilegio? […]
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Vitalizi e nuova autonomia
7 Agosto 2018
14 Luglio 2014
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
Leggo di venti di rinnovamento nel nostro Consiglio regionale. Regolamentare le cosiddette “indennità di reinserimento”, ridimensionare i vitalizi già erogati, porre su basi nuove l’indennità consiliare è certamente un vento di rinnovamento. Forse è qualcosa di più: un’inversione di tendenza rispetto alle formule su cui è andato modellandosi […]
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Verso la Marcia PerugiAssisi 7 ottobre 2018
7 ottobre 2018 Rimettiamoci in cammino sulla via della pace
Una proposta per vincere la rassegnazione e…
Così non va. Disponiamo di più ricchezze, conoscenze, istituzioni e mezzi di ogni altro tempo ma permettiamo che di giorno in giorno aumentino le disuguaglianze, le sofferenze, i conflitti, la disoccupazione e l’insicurezza di miliardi di persone. Non troviamo i soldi per assicurare un lavoro a tutti ma continuiamo a spenderne una valanga per comprare armi, ingigantire eserciti e condurre guerre infinite.
I numerosi progressi che abbiamo ottenuto in tanti campi ci aprono orizzonti impensati per migliorare le condizioni di vita di tutti e portare la pace laddove ancora non c’è. Eppure rischiamo di essere travolti da numerosi problemi che abbiamo causato e che non abbiamo ancora risolto: dalla povertà di miliardi di persone al cambiamento climatico, dalle guerre alle migrazioni.
Alcune delle più importanti conquiste dell’umanità rischiano di essere progressivamente cancellate o annullate: l’universalità dei diritti umani, il diritto alla dignità, il principio di uguaglianza e di giustizia, la democrazia,…
Tutti i giorni, la negazione di questi diritti e principi avviene nella più totale impunità. Crimini orribili, visibili e invisibili agli occhi della comunità internazionale, vengono compiuti nell’inerzia generale. L’Onu e le istituzioni internazionali create per impedire nuove guerre e intervenire in difesa della dignità e dei diritti umani sono state indebolite e spesso vengono tenute ai margini. La stessa Unione Europea, che tanto ha contribuito all’affermazione della civiltà del diritto, è entrata in una fase molto pericolosa che rischia di far fallire uno dei più importanti esperimenti di pace della storia. In molti dei paesi dove più grandi erano state le conquiste democratiche, sono in atto gravi processi di corrosione e arretramento politico, sociale e morale.
Nel frattempo, tante persone stanno cedendo alla paura e all’insicurezza, alla sfiducia e alla rassegnazione, assumendo gravi atteggiamenti di chiusura, indifferenza e rabbia. Decenni di individualismo sfrenato e di rincorsa dell’arricchimento, con il loro seguito di delusioni e fallimenti hanno cancellato in molti il senso della pietà e del bene comune, il valore della solidarietà e della condivisione, l’importanza dell’impegno democratico. E oggi finiscono per alimentare una politica priva di lungimiranza, etica, efficacia, credibilità e per dettare decisioni sbagliate che aggravano i problemi anziché risolverli.
Grandi pericoli incombono. Dobbiamo reagire!
Diversamente dagli imprenditori dell’odio e dai rassegnati, noi sappiamo che sono le persone a fare la storia e che il cambiamento che sogniamo, la pace che desideriamo per noi, per i nostri cari e per l’umanità intera non dipende solo dalle grandi decisioni ma anche da tutte le piccole, piccolissime, azioni fatte ogni giorno, da ciascuno, dappertutto.
Questi miliardi di “azioni di pace”, individuali e collettivi, spesso realizzate da donne, agiscono positivamente nella storia dell’umanità anche se non vengono raccontati dal mondo dell’informazione e della comunicazione e quindi non vengono valorizzate.
Per fronteggiare i problemi e le minacce che abbiamo davanti dobbiamo rafforzare questa corrente positiva, farla emergere in tutti campi e a tutti i livelli ed estenderla mettendo il nostro personale impegno al servizio degli altri e dell’umanità. Ciascuno, secondo le proprie possibilità e responsabilità.
Questo è il tempo in cui dobbiamo osare la fraternità. Non possiamo più permetterci di vivere in perenne competizione con gli altri perché stiamo distruggendo le cose più belle che abbiamo. La competizione è la sorella della guerra. Disertiamola!
Smettiamo di fare le guerre! Quelle armate che stanno devastando interi paesi e popolazioni, ma anche quelle più subdole che ci vedono continuamente gli uni contro gli altri, nell’economia come nei rapporti interpersonali.
Cerchiamo assieme le soluzioni dei problemi che non sono state trovate e intraprendiamo, sin da ora, nuove iniziative per attuarle.
Investiamo sui giovani, rispettiamoli, prendiamoci cura del loro presente e futuro, attrezziamoli a fare la propria parte, diamogli adeguate opportunità.
Facciamo crescere l’economia della fraternità! Cominciamo dai luoghi in cui viviamo, cercando nuove strade per combattere la povertà e la disoccupazione, costruendo nuovi rapporti sociali, economici e personali centrati sulla cura reciproca.
Scopriamo insieme l’importanza e la bellezza della cura. La cura di noi e non solo dell’io. La cura reciproca. La cura della vita. La cura dei più indifesi. La cura del bene comune. La cura del mondo che condividiamo con gli altri.
Affermiamo il dovere di proteggere ovunque tutte le persone minacciate da violenze, guerre, persecuzioni e sistematiche violazioni dei diritti umani!
Difendiamo la società aperta. Anzi, costruiamo una “vera” società aperta, inclusiva, solidale, accogliente.
Costruiamo una politica nuova e una nuova cultura politica nonviolenta basata sul rispetto della “dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti eguali e inalienabili”.
Impegniamoci per far rispettare gli impegni presi dai governi per costruire un futuro migliore per tutti, a partire dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e dagli Accordi di Parigi sul clima.
Camminiamo insieme sulla strada che rigenera fiducia, speranza e volontà di cambiamento e… oggi domenica 7 ottobre 2018, a settant’anni dalla firma della Dichiarazione Universale dei diritti umani, a cento anni dalla fine della prima guerra mondiale, a cinquant’anni dalla scomparsa di Aldo Capitini ci siamo dati appuntamento lungo la strada che conduce da Perugia ad Assisi. Non per fare una nuova marcia per la pace. Ma per ritrovarci e fare insieme, con te e tanti altri, un altro piccolo tratto della lunga marcia della pace e della fraternità che ci vede impegnati tutti i giorni.
Quel giorno uniremo le nostre voci e mostreremo a tutti quanto siamo numerosi. Ci riconosceremo portando ciascuno un segno di quello che facciamo nel corso dell’anno, delle idee e delle proposte che stiamo cercando di realizzare per mettere fine all’orrore e consentire a ciascuno di vivere in pace.
Partecipa anche tu!
Facciamo del 2018 l’anno della svolta maggiore!
Il percorso che ci porta alla Marcia PerugiAssisi del 7 ottobre 2018 è iniziato al Centro di accoglienza Ernesto Balducci di Zugliano (UD) il 24 settembre 2017
Adesioni, idee e proposte
alla Tavola della Pace, via della viola 1 (06122) Perugia – Tel. 335.6590356 – 075/5736890
email adesioni@perlapace.it – www.perlapace.it
SCARICA E CONDIVIDI IL DOCUMENTO!
Documento-Verso-la-PerugiAssisi
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Lettera dei coordinatori della Tavola della pace alle associazioni
Lett. Ass. x Marcia 2018
Marcia Perugia-Assisi 2018
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » POLITICA
Marcia Perugia-Assisi 2018
di SERGIO FALCONE
Domani, 7 agosto, parte la preparazione per la marcia per la pace (7 ottobre 2018), come percorso di crescita e presa di coscienza comune. Su eddyburg. In calce un pensiero di Leopardi.
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Perché la Marcia Perugia-Assisi? Perché, come disse Aldo Capitini, è «un tentativo di entrare dentro il terreno della politica con una forma partecipativa ancora non sperimentata nel nostro paese». Questa marcia, ebbe modo di dire sempre Aldo Capitini riferendosi alle classi popolari, «è fatta per loro, perché i contadini sanno camminare, mentre sono a disagio nelle conferenze». Parole sacrosante… da sottoscrivere.
[segue]
Paolo VI
Riceviamo dalla Comunità di San Rocco e volentieri pubblichiamo.
QUARANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI PAOLO VI
Accadde tutto quel giorno… era la domenica del 6 agosto 1978. Il Papa Paolo VI, a Castel Gandolfo, non tenne l’Angelus. Nessuno poteva pensare che da quella finestra non si sarebbe più affacciato. Infatti, alle 21,40 dello stesso giorno morì.
Era la solennità della Trasfigurazione del Signore…
Impressiona quanto ha affermato Giovanni Paolo II su papa Montini: recava nel suo cuore la luce del Tabor, e con quella luce camminò sino alla fine, portando con gaudio evangelico la sua croce.
Paolo VI viveva la gioia, -la gioia velata- che coniugava con l’alfabeto del dolore, dell’interrogazione pensosa, dello stupore che evita inesorabilmente il chiasso e lo sguardo distratto.
Un uomo di Dio. Paolo VI aveva il senso di Dio, il senso del Padre che ha misericordia per tutti e che inchina il suo cuore verso ogni vita. Questa forte percezione religiosa lo portava a essere un contemplativo, un uomo immerso nel silenzio del Mistero. Eppure, egli non è stato un monaco, ma un uomo di missione, un Pastore fervido e insonne per le sorti della Chiesa.
L’umanità di Paolo VI. (Segue)
La radicale messa al bando delle armi come beni illeciti è la prima garanzia della pace e della generale sicurezza contro guerre, terrorismi e crimine organizzato
Le armi beni illeciti
IL RISCHIO DELLA RIFORMA DELLA LEGITTIMA DIFESA
Finora mentre nelle Americhe ci sono 16 omicidi ogni 100.000 abitanti, in Italia ce ne sono solo 0,9. Non si è compiuto il passaggio moderno dallo stato di natura allo stato civile. Il divieto delle armi è la prima, elementare garanzia del diritto alla vita e la migliore prevenzione dei delitti. Occorre sviluppare il senso comune del nesso tra democrazia, diritti fondamentali e pace, “Ne cives ad arma venient”
di Luigi Ferrajoli su chiesadituttichiesadeipoveri
Ogni anno, nel mondo, si consumano centinaia di migliaia di omicidi: esattamente 437.000 nel solo 2012, per la maggior parte con armi da fuoco; senza contare i morti ben più numerosi – si calcola circa due milioni ogni anno – provocati dalle tante guerre, quasi tutte guerre civili, che infestano il pianeta.
[segue]
Dibattito. L’urbanistica serve ancora?
URBANISTICA E PIANIFICAZIONE » IL MESTIERE DELL’URBANISTA » 2018 DIBATTITO URBANISTICA
L’urbanistica serve ancora? Contributi al dibattito
di ANGELO FERRARI
5 agosto 2018. Contributo al dibattito cominciato sul «il manifesto» e ripreso da eddyburg.it, il quale ci invita a «volgarizzare» l’urbanistica per raggiungere un pubblico più ambio per poi sollecitare rivendicazioni di massa. Qui i riferimenti al dibattito.
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E’ online il manifesto sardo duecentosessantasei
Il numero 266
Il sommario
Dare a Tsipras quel che è di Tsipras (Marco Revelli), Turchia e dintorni. Gli armeni nella storia turca (Emanuela Locci), Paolo Savona e le sorti dell’euro (Gianfranco Sabattini), La Corte costituzionale rende ancor più incerta la sorte dei demani civici in Sardegna (Stefano Deliperi), La battaglia contro la disumanizzazione (Guido Viale), La legge 180 sopravviverà anche a Salvini (Gisella Trincas), Una lettera per Vincenzo Pillai (Cristiano Sabino), La grecia e il fuoco dell’indignazione (Moni Ovadia), Campagna “Sblocca Italia Game Over” e i tradimenti del nuovo governo (Claudia Zuncheddu).
Oggi 6 agosto 2018
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- Gli Editoriali di Aladinews.
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Attualità del pensiero gramsciano
6 Agosto 2018
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7 Marzo 2017
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
Proseguiamo la riflessione a 80 anni dalla morte di Gramsci per cercare di comprendere se sia ancora attuale il suo pensiero. Il quesito è il seguente: c’è corrispondenza tra l’elaborazione teorica dell’Uomo di Ales e l’applicazione della stessa alla vita politica dei nostri giorni. Ecco l’opinione di un […]
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Domenico De Masi il 5 ottobre a Cagliari
Il sociologo Domenico De Masi sarà a Cagliari venerdì 5 ottobre, invitato dal Comitato CoStat e da altre Entità culturali per la presentazione del suo ultimo libro “Il lavoro nel XXI secolo”. Nell’occasione sarà anche presentato il libro che raccoglie gli interventi al Convegno sul Lavoro, organizzato da CoStat e da Sardegna Europa Direct, tenutosi a Cagliari nei giorni 4-5 ottobre 2017, a cui partecipò lo stesso prof. De Masi.
- Approfondimenti nei prossimi giorni.
LAVORO: in attesa di una nuova rotta
…però poi la rotta nuova bisogna tracciarla e percorrerla, con politiche che per forza di cose sono diverse dal ‘semplice’ riscrivere le regole giuslavoriste; politiche che vadano a contrastare il male antico dell’economia italiana, una bassa produttività che crea soprattutto lavori ‘poveri’. E dunque: investimenti pubblici, politiche industriali, sostegno alla produttività, formazione, ricerca e sviluppo. È quello che chiedono molti economisti di scuola keynesiana, che sostengono sindacati come la Cgil, che dicono gli stessi esponenti pentastellati. E allora?
Il lavoro non si crea per decreto
di Roberta Carlini, su Rocca
Il nuovo governo va in vacanza con le truppe ben schierate. Salvini, com’era ovvio fin dall’inizio, presidia l’ala destra, sollevando un tema al giorno sempre nello stesso filone – la sicurezza, e dunque la difesa da una minaccia esterna, che sia il migrante sul barcone o il ladro in casa; Di Maio, dopo un imbarazzante lungo silenzio, ha piazzato il suo pallone sull’ala sinistra, con il decreto detto «dignità», avente a oggetto i contratti a termine, le delocalizzazioni, il gioco d’azzardo. Le molte piazzate di Salvini e le poche sue decisioni non hanno finora cambiato la vita degli italiani, mentre hanno cambiato, a volte con conseguenze tragiche, quella degli stranieri, fuori e dentro i nostri confini. E le decisioni di Di Maio? Riuscirà il «decreto dignità» ad avere qualche effetto sul mondo del lavoro e delle imprese?
Nei giorni successivi alla sua approvazione, l’attenzione di tutti si è concentrata sulle stime che hanno fatto gli uffici dell’Inps. Secondo i quali c’è il rischio che una piccola parte di tutti i contratti a termine in scadenza non sia rinnovata, a causa dell’inasprimento delle condizioni e dei nuovi vincoli. Ricordiamoli: nella versione originaria del decreto (in parlamento può poi succedere di tutto), il contratto a tempo determinato non potrà durare più di 24 mesi (prima erano 36), al superamento dei 12 mesi se ne dovrà in ogni caso dichiarare la causale (spiegare il motivo per cui si ricorre al contratto a tempo e non a un’assunzione permanente: obbligo che era stato cancellato dal decreto Poletti del 2014); non si potrà rinnovare più di 4 volte (prima erano 5), e a ogni rinnovo si avrà un aggravio del costo contributivo dello 0,5%. Insomma, una stretta di freni, per scoraggiare l’uso di questa formula. Formula che peraltro è di grandissimo successo, se si considera che nell’ultimo anno – da maggio 2017 a maggio 2018 – ben il 95% di tutti i nuovi occupati è entrato con una qualche formula a termine, mentre le assunzioni permanenti hanno interessato solo l’1% della nuova occupazione (il restante 4% sono indipendenti).
i numeri di Boeri
Di fronte all’enormità del ricorso al tempo determinato, stimare una qualche conseguenza del nuovo decreto non è facile ma non significa neanche peccare di lesa maestà. Anzi, la stima di 8.000 contratti in meno all’anno, fatta dall’Inps, è considerata dai più esperti studiosi del mercato del lavoro abbastanza ottimistica. Stiamo pur sempre parlando di una popolazione complessiva – gli occupati temporanei – che supera i 2,7 milioni, di un flusso di contratti sopra i 24 mesi pari a 80.000, e di un numero molto maggiore di contratti che si trovano a dover fare i conti con l’obbligo di indicare la causale e il piccolo aumento contributivo. Perché dunque tanto nervosismo attorno a quella piccola cifra, 8.000 posti di lavoro per di più temporanei? Il caso evidenzia due punti deboli, uno relativo alla parte di governo che ha voluto il decreto, l’altro più generale relativo agli interventi sul mercato del lavoro, e comune a tutti i governi, anche quelli passati. Il primo «tallone d’Achille» è tipico dei Cinque Stelle, dalla giunta di Roma alle stanze governative: tendono – a ragione – a non fidarsi della vecchia burocrazia che ha sempre fatto resistenza ai cambiamenti, e credono – a torto – che tutto il mondo sia pronto a buggerarli. Vedono complotti ovunque, una volta proprio a Roma Roberta Lombardi dichiarò che a suo parere era in atto un complotto… per farli vincere. Dunque, arrivata la paginetta di numeri da Boeri, invece di mettersi a studiarli e valutarli di buzzo buono, come qualsiasi governante dovrebbe fare, è risultato più semplice prima far finta di niente e poi denunciare la «manina» che ha infilato gli sporchi numeri nel dossier altrimenti cristallino.
relazione tra legge e politica
e condizioni reali dell’economia
Il secondo punto debole è più serio, perché riguarda tutti noi, in generale la relazione tra quel che possono fare la legge e la politica, e le condizioni reali dell’economia. Chi critica il «decreto dignità» dice che il lavoro non si crea per decreto, e che se si chiudono o si restringono le porte del lavoro a termine le imprese o troveranno altre strade per avere lavoro flessibile, o licenzieranno e basta. Chi difende lo stesso decreto concorda sul fatto che non saranno le nuove regole a creare lavoro, ma dice che le imprese eviteranno l’abuso di contratti a termine: se però questo comporterà minore o maggiore precarietà, dipende da tante altre cose non scritte nella legge. Per esempio, dalla disponibilità di altre formule ‘brevi’, flessibili o precarie che dir si voglia (già nella discussione parlamentare del decreto, ha annunciato la Lega, si riaprirà la grande finestra dei voucher, i quali potranno essere un’alternativa, più precaria dei contratti a tempo determinato); dal settore in cui si lavora; da come va l’economia; dagli investimenti, dalle previsioni delle imprese; da eventuali nuovi incentivi alle assunzioni permanenti – anche queste, promesse come un emendamento nell’iter parlamentare; infine, dalla disponibilità di altri lavoratori sul mercato, pronti a prendere i contratti a termine scaduti dei loro colleghi. Veneto Lavoro, un osservatorio molto vicino alla realtà produttiva del Nord Est – che è quasi in piena occupazione e soffre semmai una carenza di manodopera operaia qualificata – ha compiuto una sua analisi del decreto, evitando di dare numeri secchi ma tracciando quattro possibili risposte da parte delle imprese, e concludendo: «in sostanza o si va a ridurre la domanda di lavoro a termine (con o senza trasferimento su altre tipologie contrattuali o riorganizzazioni più ampie) o aumenta il turn over dei lavoratori». Bruno Anastasia, che dirige l’ufficio studi di Veneto Lavoro, vede in quest’intervento, come in tutti quelli che negli ultimi anni si sono succeduti sul diritto del lavoro, «un po’ di fretta e presunzione sull’efficacia automatica, immediata e a senso unico (positiva) delle norme» – scrive in un articolo per lavoce.info. Le norme, invece, si dovrebbero calare nella realtà: e la realtà, secondo il punto di osservazione di Veneto Lavoro, è che i settori in cui l’economia italiana si sta riprendendo (il turismo in primo luogo), oltre che la stessa conformazione produttiva di un’economia globalizzata e sempre esposta alla concorrenza, di per sé chiedono «lavoro a termine». Questo, come un fiume, si incanalerà volta per volta nelle forme che il diritto consente – e a volte, in particolare a Sud, anche in quelle che non consente, tornando nel sommerso.
inversione di rotta ma quale rotta?
Ma allora, non si può far niente contro la precarietà? La conclusione può non essere così sconsolata, a patto di stare attenti, più che alle «manine» ministeriali, alle trappole che la stessa giungla giuridica del lavoro ha disseminato qua e là. Poi c’è l’aspetto simbolico e culturale: misure come quelle del decreto dignità possono essere viste come un altolà, un freno, un segnale di inversione di rotta. Però poi la rotta nuova bisogna tracciarla e percorrerla, con politiche che per forza di cose sono diverse dal ‘semplice’ riscrivere le regole giuslavoriste; politiche che vadano a contrastare il male antico dell’economia italiana, una bassa produttività che crea soprattutto lavori ‘poveri’. E dunque: investimenti pubblici, politiche industriali, sostegno alla produttività, formazione, ricerca e sviluppo. È quello che chiedono molti economisti di scuola keynesiana, che sostengono sindacati come la Cgil, che dicono gli stessi esponenti pentastellati. Ma perché, se il lavoro non si crea per decreto e se prima vengono le politiche industriali, si è scelto di partire invece dagli effetti (i contratti brevi) e non la causa (la fragilità dell’economia italiana)?
Per lo stesso motivo per il quale Salvini ogni giorno spara un tweet contro i neri, i ladri, i profittatori: individuare un obiettivo simbolico, e colpire. Accontentando le tante, tantissime persone che hanno chiesto ai partiti che attualmente governano una sola cosa: protezione. Protezione da un mondo e da un mercato sentiti come ostili, portatori di un futuro incerto e minaccioso. Questo vale per i disoccupati e sottoccupati del Sud come per l’imprenditore del Nord, sempre sul margine tra successo e fallimento. Nella seconda parte del Novecento, al bisogno di protezione ha risposto la sinistra, con le sue varie forme: in particolare in Europa con il modello socialdemocratico. Negli anni Duemila, sta rispondendo quasi ovunque una destra nazionalista, che in Italia abbiamo ancora timori a definire, tecnicamente, fascista; ma che da noi è ancora minoritaria (almeno, alle ultime elezioni) ed è arrivata al governo grazie al traino dei Cinque Stelle dall’identità molto più sfumata e ambigua. La «protezione» che Di Maio promette con il decreto dignità – dal precariato, dalle delocalizzazioni, perfino dalla piaga del gioco d’azzardo – è diversa da quella che gonfia le vele al suo alleato. E però, richiede sapienza, efficacia, alleanze sociali, e un modello di Paese in mente: basato sulla solidarietà tra deboli, e non sul fare la guerra ai più deboli. Mentre il ministro varava il suo decreto, a Figline Incisa una multinazionale chiudeva i battenti per spostarsi in Romania, lasciando 318 famiglie sul lastrico: non è un complotto ma la realtà, e c’è il rischio che i governanti a Cinque Stelle ne prendano atto troppo tardi. Molto prima potrebbero rendersene conto i loro elettori.
Roberta Carlini
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Africa, un continente giovane e vivo
Alcuni la descrivono come il gigante eternamente addormentato. Altri come un’enorme prigione in cui i carcerati, tutti straccioni, stanno organizzando un’evasione di massa. Nulla di tutto questo. L’Africa è un’altra cosa.
Non che non abbia problemi, grandissimi. Sociali, economici e anche sanitari. Tra i punti critici indicati di recente da Iina Soiri, la ricercatrice finlandese che dirige il Nordiska Afrikainstitutet, l’istituto di ricerca sull’Africa di Uppsala in Svezia, ci sono: un’agricoltura troppo debole; un’economia poco avanzata, ancora troppo basata sulle commodities e sulle materie prime; una classe media ancora modesta; il fallimento del modello neoliberista, spesso imposto dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali.
Non bisogna certo sottovalutare il rischio della monocoltura, sia essa il petrolio o un prodotto agricolo. Cinque anni fa, nel 2013, il 60% dell’export del Gabon era costituito da petrolio; una percentuale che saliva all’85% per la Nigeria, mentre i combustibili fossili rappresentavano addirittura il 97 per cento dell’export dell’Angola. È bastato il crollo del prezzo di queste materie prime per scatenare la crisi.
Ma, al netto di tutto questo, l’Africa è un continente giovane e vivo; articolato in 54 diversi stati, tutti con le loro specificità: in rapida crescita: economica e demografica. Da cui pochi vanno via: l’emigrazione netta è inferiore allo 0,04%. Dieci volte inferiore, per intenderci, a quella italiana. E in ogni caso, ad andar via in prevalenza non sono i poveracci, ma la classe media. Proprio come da noi.
[segue]
La Sardegna si mobilita contro la de-umanizzazione della società
Riceviamo e volentieri condividiamo e diffondiamo.
La Sardegna si mobilita contro la de-umanizzazione della società
Trentacinque organizzazioni lanciano “Umani sopra – tutto” la rete contro l’esclusione sociale, il razzismo, l’omofobia e i linguaggi dell’odio.
I fatti di cronaca nazionale ed internazionale stanno evidenziando una crescente intolleranza nei confronti dei “diversi da noi” che, se non arginata, può portare ad un processo di “de-umanizzazione” dell’altro: lo straniero, il disabile, l’omosessuale, il povero e tutti i soggetti deboli.
Il linguaggio sta divenendo sempre più aspro e anche coloro che dovrebbero demarcare un confine non superabile, come giornalisti, informatori, politici, personaggi pubblici, spesso utilizzano frasi e termini che travalicano questo limite, creando veri e propri discorsi d’odio.
Il discorso d’odio incita al pregiudizio, alla paura, alle discriminazioni e persino alla violenza contro una o più persone sulla base dell’appartenenza, vera o presunta, a un gruppo sociale, a un’etnia, religione, orientamento sessuale, l’identità di genere o su particolari condizioni fisiche o psichiche. Si tratta di violenze verbali, in alcuni casi trasformate anche in fisiche, dagli esiti talvolta tragici. Stereotipi e pregiudizi colpiscono ormai tutta la popolazione e sempre più spesso i difensori dei diritti umani sono impotenti di fronte al dilagare di luoghi comuni e di interpretazioni falsate di dati e numeri oggettivi.
(Segue)
Oggi domenica 5 agosto 2018
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1958. Convegno degli intellettuali sardi: un insegnamento attuale
5 Agosto 2018
17 Ottobre 2008
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Ciò che di Marx è ancora “vivo”
4 Agosto 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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