Monthly Archives: agosto 2018
Usa. Il sogno improbabile di Trump
Il declino relativo degli Stati Uniti e i pericoli dell’isolazionismo di Donald Trump
di Gianfranco Sabattini*
Il nuovo equilibrio mondiale tra le grandi potenze economiche del mondo sta preoccupando l’opinione pubblica americana, spingendola all’”isolazionismo”, al quale gli Stati Uniti hanno sempre teso, ritirandosi entro i confini della loro “Isola” ogni volta che si sono convinti che l’”American way of life” fosse minacciata da forze esterne. E’ questo il fondamento dell’ideologia sulla quale Donald Trump ha costruito le proprie fortune elettorali.
Il nuovo presidente ha utilizzato, infatti, con successo il mito dell’isolazionismo, le cui conseguenze non sono certo neutrali e ininfluenti per il resto del mondo; soprattutto, per quella parte dei Paesi occidentali che, per ragioni storiche, devono muoversi nel mercato internazionale avvalendosi dell’area valutaria costruita dagli USA dopo la fine del secondo conflitto mondiale. E’, questa, la tesi che Manlio Graziano, docente di Geopolitica alla Sorbona, sostiene nel suo recente volume “L’Isola al centro del mondo. Una geopolitica degli Stati Uniti”.
Per capire le ragioni del pericolo, per il resto del mondo del successo elettorale di Trump e della sua propensione a ridimensionare gli impegni internazionali dell’America, è necessaria, secondo Graziano, un’analisi geopolitica, che evidenzi le cause remote delle scelte americane attuali; ciò, al fine di indurre il resto del mondo a sperare, nell’interesse di tutti, che il trumpismo abbia il “fiato corto”.
“Gli Stati Uniti – afferma Graziano – sono oggi attanagliati da una nuova psicologia di inquietudine e di frustrazione. La crisi del 2008 ha messo in chiaro che gli americani non potranno più permettersi di vivere, in futuro, come avevano vissuto nel passato”; si tratta di un’inquietudine comune a tutte quelle potenze che, dopo aver dominato per secoli, sul piano politico ed economico, molti altri Paesi, assistono improvvisamente al fatto che la loro posizione dominante è contestata da altre potenze emergenti, interessate ad accrescere sulla scena mondiale la loro visibilità.
L’inquietudine, però, si manifesta in termini più cogenti per gli USA, “la cui breve storia è stata contrassegnata dalla promessa, quasi sempre mantenuta, di un miglioramento costante delle condizioni di vita della maggior parte dei suoi cittadini”. L’intento di Graziano è quello di fornire, da un punto di vista geopolitico, una “griglia di lettura” di quanto sta ora accadendo nella società americana, per valutare le possibili ricadute politiche ed economiche globali, iscrivendole, però, nella “continuità geopolitica degli Stati Uniti”.
Il libro di Graziano traccia la storia dei tre momenti essenziali dell’esperienza degli USA, comprendendo l’intero ciclo che va dall’ascesa (con la descrizione di tutte le condizioni che hanno condotto alla formazione dello Stato-nazione americano) alla maturità e al declino di quell’esperienza. Prescindendo dal momento originario, caratterizzato dalla particolare forma assunta dallo Stato americano, tanto diversa da quella degli Stati-nazione europei, è essenziale capire, secondo Graziano, come si è affermata la sua maturità che, iniziata con la guerra civile, è culminata con “l’intervento militare americano nei due oceani, la loro sottomissione, e lo spodestamento di Londra come potenza egemone mondiale”. E’, questo, un epilogo della maturità dell’esperienza vissuta dagli Stati Uniti cui sono riconducibili i prodromi del suo declino attuale.
La fine della Seconda Guerra mondiale ha permesso agli Stati Uniti – afferma Graziano – “di realizzare il vecchio sogno di Woodrow Wilson di costruire un nuovo ordine mondiale modellato sui principi e soprattutto sugli interessi americani”. Ciò ha comportato che gli USA si esponessero sulla scena internazionale, più di quanto avevano fatto dopo la Grande Guerra, in quanto il loro benessere veniva a dipendere dalla loro capacità di riuscire a mantenere quell’esposizione; un’esposizione non solo economica, perché la crescita interna dipendeva dal coinvolgimento internazionale, ma anche strategica, perché “le scelte compiute durante la guerra avevano creato nuovi equilibri che avrebbero retto solo se gli americani avessero mantenuto la loro presenza sui diversi scacchieri”.
A tal fine, a partire già da prima che finisse la guerra, sono stati creati diversi organismi, strumentali ad assicurare consistenza alla posizione dominante raggiunta: con la Conferenza di Bretton Woods e la creazione delle Nazioni Unite si è dato vita a diverse istituzioni, il cui scopo è stato quello di riorganizzare il sistema economico e finanziario mondiale, perché gli Stati Uniti potessero approfondire e conservare la posizione dominante raggiunta. In tal modo, sono state gettate le basi “di quello che sarà chiamato molto più tardi – afferma Graziano – il ‘Washington Consensus’, cioè un modello economico e di sviluppo ispirato da Washington nell’interesse di Washington”.
In altri termini, all’interno del mercato economico e finanziario facente capo agli USA, le nuove istituzioni hanno creato le condizioni perché i Paesi che avessero deciso di iniziare la propria ricostruzione materiale ed economica, integrandosi in quel mercato, fossero costretti a conformarsi ai requisiti di convertibilità monetaria e di libera competizione posti dagli americani; requisiti, questi, nuovi per gli stessi USA, un Paese caratterizzato da forti propensioni protezionistiche, a meno di brevi periodi della loro storia. Con il libero scambio e la libera competizione internazionale posti a fondamento della ricostruzione del mercato mondiale, gli USA hanno inteso anche contrastare tutte le posizioni colonialistiche che impedivano di aprire il mercato mondiale all’esportazione dei loro prodotti e dei loro capitali.
Inoltre, con i nuovi organismi posti alla base della ricostruzione del mercato mondiale, gli USA hanno potuto infliggere una doppia sconfitta al Paese leader tra quelli coloniali, la Gran Bretagna; da un lato, perché con il libero scambio è stata resa obsoleta la clausola della “preferenza imperiale”; dall’altro lato, perché con il sistema dei cambi fissi centrato sul dollaro (convertibile in oro a 35 dollari l’oncia) è stata “messa a tacere” la pretesa di Londra di creare un sistema monetario mondiale “fondato su un’unità di riserva neutra, non legata ad alcun Paese”. In tal modo, per gli USA è stato possibile organizzare e rilanciare l’economia mondiale, imperniata sul dollaro e non più attorno alla sterlina, come accadeva sino al più immediato passato.
Dopo l’apoteosi del dopoguerra, come si è detto, è iniziato il declino che, per quanto sia stato lento e pressoché invisibile agli inizi, ha subito un’accelerazione “in conseguenza dei miracoli giapponese e tedesco”, finché il carattere multipolare dell’ordine mondiale si è definitivamente imposto agli inizi degli anni Settanta. Si è trattato, però, secondo Graziano, di un “declino relativo”; ciò perché, durante il suo manifestarsi, gli USA hanno continuato a veder crescere il loro prodotto reale. L’indebolimento della loro posizione rispetto ai competitori si è configurato nel differente ritmo della crescita, tra il 1945 e il 2016, del prodotto interno lordo: mentre il PIL americano è cresciuto di sette volte e mezzo, quello mondiale è cresciuto di circa venti volte.
Per un giudizio più comprensivo del declino relativo degli USA, occorre tener conto, secondo Graziano, che esso si è verificato nell’arco di due periodi successivi molto diversi tra loro: il periodo della Guerra Fredda e quello successivo, caratterizzato dal crollo dell’URSS. Durante il primo periodo, gli USA sono stati impegnati in un duro confronto con l’Unione Sovietica, limitato però al solo piano ideologico; per cui, a dispetto di quello che le ideologie contrapposte intendevano far credere, Mosca ha svolto un ruolo di “stampella” in pro del consolidamento dell’egemonia globale degli USA. Infatti, sino agli anni Settanta, l’Unione Sovietica è stata uno dei due pilastri che hanno sorretto la struttura dell’ordine globale creatosi dopo la Seconda Guerra mondiale.
Il suo rapido crollo – afferma Graziano – ha mandato in “frantumi” quegli equilibri, per cui “il peso politico delle potenze che erano state tenute in scacco dal contrappeso russo” (in primo luogo la Germania, il Giappone e la Cina) è aumentato rapidamente. Ciò ha comportato che, nello spazio di pochi mesi, tutte le potenze vecchie e nuove si siano trovate “in territorio sconosciuto”. Ma gli Usa non hanno saputo approfittare della situazione di vuoto di potere globale, mancando di espandere e consolidare la propria egemonia.
L’incertezza che ha caratterizzato la posizione di Washington dopo il crollo dell’URSS veniva da lontano: la decisione di Richard Nixon di abbandonare la parità tra dollaro e oro stabilita a Bretton Woods, la recessione provocata degli shock petroliferi e dalla crisi dei mercati delle materie prime degli anni Settanta, il problema del debito dei paesi arretrati e il crollo di fiducia seguito alla fine della guerra in Vietnam hanno indotto l’opinione pubblica americana, e con essa la classe politica del Paese, a convincersi che l’epoca del dominio quasi totale della scena mondiale dell’America era sulla via del declino.
Stando cos’ le cose, è da considerarsi mal riposto, secondo Graziano, l’ottimismo che, nell’ultimo decennio del secolo scorso, l’America sembrava trarre da un periodo in cui la propria economia risultava in espansione (con una disoccupazione in calo, un mercato immobiliare florido e un prestigio internazionale accresciuto dalla vittoria sull’”impero del male”), Quell’ottimismo, infatti, appena iniziato il nuovo secolo, è venuto meno; prima, per via degli effetti negativi provocati sui mercati finanziari dallo scoppio della bolla speculativa “dot com” (sviluppatasi tra il 1997 e il 2000); successivamente, per l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle (che è valso a rimuovere la convinzione degli americani dell’inviolabilità del loro suolo).
Ma non basta; tutti gli avvenimenti negativi che sono accaduti tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo hanno segnato solo la “calma che precede la tempesta”; nel 2008 è sopraggiunto lo sconquasso provocato dai prestiti sub-prime che, dopo aver squilibrato profondamente l’economia americana, si è abbattuto sulle restanti economie di mercato del mondo intero. Il 2008 è stato un punto di svolta riguardo alla capacità degli USA di poter continuare a difendere la propria primazia economica globale; in quell’anno, infatti, l’U.S. National Intelligence Council (NIC), nel suo rapporto quadriennale diretto al presidente in carica (Barack Obama), scriveva che, dato il declino relativo della loro potenza economica, gli Stati Uniti non potevano più avere “la stessa flessibilità nelle scelta tra le tante opzioni politiche” della quale potevano disporre nel passato.
Il presidente Obama, sulla base del rapporto del NIC, ha potuto iniziare la politica di riduzione della “sovraesposizione imperiale” degli USA, mediante una riduzione delle spese federali (retrenchment), non tanto per definire nuove priorità, quanto per stabilire – sostiene Graziano – “quali ‘obblighi’ avrebbero dovuto essere sacrificati a quelle priorità. Non si trattava tanto di una scelta, quanto della presa d’atto di un’inaggirabile necessità”; in altre parole, la nuova politica degli Stati Uniti doveva essere fondata sul riconoscimento che tutto doveva essere ridimensionato, perché gli impegni tradizionali che avevano fatto degli USA i “gendarmi del mondo” erano andati ben al di là delle loro possibilità.
La strategia di Obama, è consistita nella individuazione degli impegni periferici che gli USA dovevano abbandonare, rinsaldando antiche alleanze e inaugurandone di nuove, al fine di contenere le spinte espansive del competitore in ascesa, la Cina, giudicato il più “pericoloso”. Il successore di Obama, Donal Trump, ha però abbandonato la strategia del “retrenchment”, pensando di poter perseguire gli stessi obiettivi adottandone un’altra, “molto più affine alla tradizione ideologica americana”: l’isolazionismo, che “nell’era della globalizzazione e del declino relativo” non può che essere per gli USA – conclude Graziano . “un suicidio per paura di morire”.
Delle due facce dell’isolazionaismo, il protezionismo e il ritiro dagli impegni internazionali, resta da valutare quale tra esse potrebbe portare per prima alla rovina gli Stati Uniti; un evento di tal fatta sarebbe portatore di instabilità e crisi inimmaginabili, sia sul pieno economico che politico, per tutte le economie integrate nel mercato internazionale. Perché tutto ciò non accada, c’è solo da fare affidamento sul fatto che Donald Trump non rappresenti l’insieme della classe politica americana e, quel che più conta, che la “burocrazia imperiale” della quale gli USA dispongono, faccia valere la propria visione realistica degli “affari internazionali”, con cui evitare il possibile “salto nel buio” cui è esposto il mondo dai possibili esiti dell’isolazionismo trumpiano.
——-
* Anche su Avanti! Online.
Oggi venerdì 17 agosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti——————————–
CITTÀ E TERRITORIO » SOS » LIGURIA
L’Italia delle grandi opere crolla e uccide
di PAOLO BERDINI
il manifesto, la Nuova Venezia, 15 agosto 2018, ripreso da eddyburg. Il crollo del ponte di Genova è effetto ed emblema delle politiche territoriali basate sul dominio del “blocco edilizio» in Italia. Articoli di Paolo Berdini e Andrea Fabozzi e l’intervista di Alberta Pierabon a Carmelo Maiorana.
————————————————————————–
Cagliari: un’identità da salvare
17 Agosto 2018
—–
23 Marzo 2012
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
Da tempo a Cagliari si è sviluppato (anche su questo blog) un vivace dibattito sull’azione della nuova Amministrazione comunale. L’elettorato democratico pretende giustamente dalla Giunta Zedda una svolta politica a salvaguardia e rilancio della nostra splendida città. Ecco sulla questione un contributo di un fine conoscitore di Cagliari, che partendo […]
————————————————————————–
Povera patria schiacciata dagli abusi del potere
Di gente infame che non sa cos’è il pudore
Si credono potenti e gli va bene quello che fanno
E tutto gli appartiene
Oggi giovedì 16 agosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
Berlusconi: la sua è generosità, la lotta di classe dei lavoratori è invidia
16 Agosto 2018
—–
14 Gennaio 2013
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
Non so se la trasmissione “Servizio Pubblico” faccia guadagnare due o tre punti di consenso elettorale al “caimano”. E’ quanto sostengono alcuni organi di stampa, e forse non è da escludere che così sarà visto il degrado della società italiana. Degrado – va sottolineato- che i mass-media del […]
———————————————————————
CITTÀ E TERRITORIO » SOS » LIGURIA
L’Italia delle grandi opere crolla e uccide
di PAOLO BERDINI
il manifesto, la Nuova Venezia, 15 agosto 2018, ripreso da eddyburg. Il crollo del ponte di Genova è effetto ed emblema delle politiche territoriali basate sul dominio del “blocco edilizio» in Italia. Articoli di Paolo Berdini e Andrea Fabozzi e l’intervista di Alberta Pierabon a Carmelo Maiorana.
———————————————————————–
Sardegna
(segue)
La Faradda
Oggi 15 Ferragosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
Nuto
15 Agosto 2018
3 Maggio 2014
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
L’altra sera abbiamo ricordato Nuto Pilurzu in una sala affollata di compagni ed amici e anche di giovani che hanno solo sentito parlare di lui. Molti gli interventi, preceduti dalle parole appassionate di Francesco Cocco. Eccole.
Società Sarda, il periodico che Nuto ha contribuito a fondare ed a sostenere, ha deciso di […]
———————————————————————-
Addio a Samir Amin
di Luciana Castellina
14 agosto 2018 | Sbilanciamoci.info. Sezione: Alter, primo piano.
Scomparso a 87 anni a Parigi Samir Amin, intellettuale bohémien marxista che ragionava in termini globali, ebbe ruoli di primo piano nell’Egitto di Nasser e in Mali, poi nei forum sociali di Puerto Alegre e nel movimento no global.
———————————————————-
Vertenza Aias. Riceviamo dalla Confederazione Sindacale Sarda
…e volentieri diffondiamo.
SODDISFAZIONE
Ma, aprendo L’Unione Sarda e la Nuova Sardegna (benché di oggi 14 agosto 2018) leggo i titoli delle prime pagine: «IL GIUDICE “salva” L’AIAS, LA CONVENZIONE PROSEGUE» (Da l’Unione Sarda del 14.08.2018 pagg.1 e 5) -«CASO AIAS, PRIMO SCONTRO IN TRIBUNALE – dopo la disdetta a luglio della convenzione da parte dell’Asl unica e le polemiche» (Da La Nuova Sardegna del 14.08.2018 P.2)
LA BELLA NOTIZIA
[segue]
Potrà sorgere un’ ”alba per una nuova vita”?
Il “presentismo” come causa del peggior populismo
«Il superamento della crisi dipende dalla capacità della politica di ricuperare il suo antico collegamento con la società, impedendo che il populismo, il nuovo spettro che si aggira per il mondo, possa ulteriormente consolidarsi. Ciò però presuppone, non una continua attività di demonizzazione, qual è quella con cui in Italia si cerca ora di esorcizzare il pericolo del populismo, ma l’elaborazione di un progetto per il futuro, in grado di offrire all’intera società il senso di una sicurezza sociale ed economica che la politica non ha sinora saputo affrontare.»
di Gianfranco Sabattini*
Il XX secolo è stato caratterizzato dal fatto che capitalismo e democrazia sono stati “coniugati” attraverso uno stretto rapporto tra politica e società; il XXI secolo, invece, con l’approfondimento e l’allargamento della globalizzazione, sembra destinato a connotarsi in termini del trionfo di un capitalismo che, ridimensionando la democrazia, sta causando una cesura sempre più profonda tra politica e società. Rimuovere questa cesura significa, affermano Giuseppe De Rita e Antonio Galdo, in “Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità”, costituisce oggi una priorità ineludibile, se si vuole ricuperare la politica alla sua funzione originaria e realizzare così le condizioni per un’”alba di una nuova vita”.
“L’uomo occidentale è in piena crisi antropologica. Non riesce più a governare la modernità e ha smarrito la sua bussola più preziosa: il rapporto con il tempo lineare, l’unico in grado di riservare la nostra identità. Da qui la sottomissione a un eterno presente, il tempo circolare, frantumato in un’incessante sequenza di attimi. Una forma di nuova schiavitù”. Il tempo, sottolineano gli autori, è per sua natura lineare, perché si sviluppa secondo un continuum che dalle radici del passato porta l’uomo alla progettazione del proprio futuro; riducendo il tempo ad un andamento circolare, se ne snatura la linearità e lo si priva di significato, allontanando l’uomo dal sentiero della storia.
Accade così che l’uomo diventi vittima del “presentismo”, del quale soffre le conseguenze negative, sia nella sfera privata che in quella pubblica; il tempo circolare lo spinge a “rattrappirsi” nell’”io”, soffrendo dei limiti di un progresso tecnologico declinato “con le categorie del tempo presente”, quindi ad una velocità cui l’uomo non è abituato, sul piano economico, politico e antropologico.
Sul piano economico, il tradizionale conflitto tra capitale e lavoro ha assunto nuove forme, anch’esse determinate dal tempo presente. Il capitale ha cessato d’essere motivato all’investimento, risultando invece prevalentemente orientato alla ricerca della rendita; mentre il lavoro, la cui difesa è stata al centro dell’attività politica per gran parte del Novecento, sta subendo una riduzione dei diritti acquisiti, congiuntamente ad una restrizione delle garanzie del welfare realizzato.
Sul piano politico, il presentismo sta compromettendo i “pilastri” della democrazia rappresentativa, separando la politica dalla società, che divengono due mondi tra loro incomunicabili e sempre più distanti; di conseguenza, la loro residua comunicazione, ispirata all’”ora e subito”, impedisce di tener conto “di quanto si è detto ieri” e fa sparire ogni interesse “per ciò che potrebbe accadere domani”.
Sul piano antropologico, infine, l’allontanamento dell’uomo dal sentiero della storia – affermano De Rita e Galdo – sta segnando la sconfitta dell’umanesimo, poiché il presentismo schiaccia, sia l’uomo in quanto singolo, sia la società della quale egli è parte, in modo tale da estraniarli da ogni progettazione per il futuro.
Un’”alba per una nuova vita” potrà sorgere solo se, in luogo del presentismo, sia l’uomo che la società saranno in grado di dare risposte adeguate alle conseguenze negative originate dalla globalizzazione; conseguenze riguardanti, da un lato, la sicurezza, intesa come garanzia della conservazione e del potenziamento dei diritti acquisiti, e dall’altro lato, la possibilità di poter fare affidamento su un benessere crescente, inteso come capacità di assicurare alle generazioni future condizioni esistenziali non inferiori a quelle delle generazioni del passato.
L’uomo e l’umanità potranno avere successo nel contrastare le conseguenze negative indotte dalla globalizzazione, solo se sapranno trovare il modo di superare i limiti dell’”economia presentista”. Questa, a parere degli autori, ha il suo “mantra nella formula ripetuta ossessivamente dai manager più importanti e più pagati del mondo: ‘creare valore’”. Questo “mantra” evoca il breve periodo, che costituisce il paradigma di riferimento della moderna attività finanziaria, quindi il suo sopravvento sull’economia reale.
L’avvento della primazia della finanza sull’economia reale è valsa a consegnare “il primato ai mercati finanziari [...] sempre più guidati dagli algoritmi e dai software”; nel mondo capitalistico a decisioni decentrate, le scelte economiche a livello micro e macro, nazionali e internazionali, “sono diventate così ostaggio di oscillazioni misurate in termini di giorni, ore, minuti”, consentendo al “presente” di condizionare l’intero funzionamento stabile dell’economia, che per invertire le fasi negative del processo economico dovrebbe disporre, invece, di progetti innovativi di medio-lungo periodo. Accade così che il “presentismo economico” orienti verso il basso la distribuzione del prodotto sociale, a favore di gruppi sempre più ristretti e, date le crescenti disuguaglianze distributive, a scapito dell’inclusione sociale.
Sul tronco di siffatta economia, in Italia, – affermano gli autori – si è innestato il crescente numero dei rentiers, per i quali “gli imperativi di una società che mira a proteggersi attraverso lo scudo della rendita, diventano un’ossessiva tendenza alla moltiplicazione del risparmio, inteso come cash, denaro liquido disponibile da far fruttare, e a un mutamento negli stili di vita ispirato a una voglia di sicurezza e a orizzonti temporali di breve termine”.
L’espansione del risparmio, per il finanziamento di operazioni orientate alla ricerca della rendita, comporta che il patrimonio accumulato non sia più diretto a finanziare attività produttive, ma ad alimentare una nuova forma di “economia sommersa”, molto diversa da quella formatasi nel recente passato. Allora, il sommerso era il protagonista di un’espansione caotica di un sistema di piccole e medie imprese, che ha portato all’”esaltazione” del “piccolo è bello” e all’industrializzazione diffusa nel territorio; quello attuale, invece, manca di esprimere “nuovi e originali percorsi di crescita economica”, mostrando solo segnali di una chiusura a riccio del “corpo sociale”: ieri, il sommerso guardava al futuro, oggi “ha l’occhio spento sul presente”. Ciò penalizza soprattutto le nuove generazioni, e sebbene la situazione italiana sia comune alla maggioranza dei Paesi occidentali ad economia di mercato, la disoccupazione giovanile in Italia è tra le più alte.
La penalizzazione, tuttavia, ha colpito l’intera società italiana, anche per via dell’impatto diretto esercitato, in modo sempre più profondo, dal progresso scientifico e tecnologico, a causa della continua “distruzione” delle opportunità lavorative che esso sta provocando; Aciò la “politica presentista” cerca di porre rimedio attraverso un crescente aumento della precarizzazione del lavoro. Inoltre, la politica, sottomessa all’immediatezza, sta perdendo cognizione del fatto che l’aumento del benessere dell’Italia è stato realizzato – sostengono De Rita e Galdo – attraverso la “spinta di due motori, oggi entrambi inceppati; il primato della politica e l’inclusione sociale, con un ‘ascensore’ in continuo movimento verso l’alto”.
Questo inceppamento sta causando la separazione della politica dalla società; ciò vale a travolgere i “presidi più importanti della politica del tempo lineare, radicata nella memoria e con lo sguardo proiettato verso il futuro: le istituzioni”. La distorsione di queste ultime sta svuotando l’istituto della rappresentanza democratica, spesso sostituito “dalla personalizzazione sfrenata di una fasulla democrazia diretta”; via via che la società e la politica dell’immediatezza si divaricano, per effetto della perdita del ruolo delle istituzioni come cerniera tra le due “sfere” (della società e della politica), si sta espandendo il tanto deprecato populismo, il quale non nasce a seguito della crescente separazione del popolo dalla politica, ma per l’inadeguata capacità di questa nel dare risposte ai problemi connessi all’aumento continuo della complessità nella società contemporanea.
Se si fosse voluto evitare il distacco della società dalla politica, quest’ultima – a parere di De Rita e Galdo – si sarebbe dovuta tradurre “nella ricerca faticosa e costante di mediazioni, sintesi, compromessi”. Al contrario, la semplificazione resa possibile dal presentismo ha imposto una politica priva della valutazione realistica dei problemi; fatto, questo, che ha dato luogo a due sentimenti collettivi, la “rabbia e la nostalgia”, oggi prevalenti all’interno di quelle società la cui politica, non riuscendo ad intercettarli e ad affievolirli, è chiamata a confrontarsi con il populismo.
La “rabbia” è dovuta alla frustrazione di chi ha perso la percezione della sicurezza sociale ed economica che la politica del passato aveva per un lungo periodo di tempo assicurato; il diffuso risentimento causato da questa perdita di sicurezza porta i soggetti che ne sono vittime ad affidarsi al “capopopolo di turno”, che li orienta contro l’attività politica, accusata di inefficienza, perché prona ai diktat dei mercati finanziari. La “nostalgia”, invece, è dovuta al fatto che gli stessi soggetti, dopo aver interiorizzato un forte senso di insicurezza, sono portati a rimpiangere ciò che non sono riusciti a realizzare nel passato. In entrambi i casi – sostengono gli autori – viene “negata la necessità del tempo e della profondità, elementi essenziali della democrazia”, con la conseguenza che si afferma, come pensiero unico dominante, “l’immediatezza di una presunta, autentica volontà popolare”.
Contro chi critica la sottomissione della politica al tempo presente si potrebbe obiettare, osservano De Rita e Galdo, che il progresso scientifico e tecnologico, proprio delle società capitalistiche attuali, giustifichi la velocità e la semplificazione dell’attività politica presentista, perché giudicata idonea ad assicurare al sistema sociale una leadership politica all’altezza dei problemi del mondo globalizzato. Gli autori negano che ciò corrisponda al vero; la velocità e la semplificazione dell’attività politica può tutt’al più servire a catturare e a consolidare il consenso elettorale nei momenti di crisi, ma il presentismo che la caratterizza ne costituisce il suo punto di debolezza ineliminabile.
Il presentismo, infatti, non valutando realisticamente i problemi sociali che nascono dal cambio d’epoca in corso, non è per sua natura veritiero, perché manca di una visione appropriata del futuro; quest’ultima dovrebbe essere fondata su un insieme di progetti collocati dentro un unico orizzonte temporale, mentre l’immediatezza degli obiettivi, nutrendosi spesso di “bugie, o comunque di una ricorrente distorsione della realtà”, può solo suggerire un’attività politica non rispondente ai sentimenti di frustrazione e di nostalgia, che danno la spinta alla diffusione del populismo. L’affabulazione del presentismo, quindi, è la madre di tutte le peggiori forme di populismo.
In conclusione, secondo De Rita e Galdo, il mondo capitalistico retto da regimi democratici si trova ora “nel mezzo di un cambio d’epoca, con orizzonti che eccitano per la portata dell’innovazione e con l’incubo di una crisi di civiltà, e soltanto la politica può darci le bussole per attraversare il deserto del cambiamento”; le società capitalistiche occidentali sono senz’altro coinvolte in una crisi, la cui irreversibilità però non è affatto scontata.
Il superamento della crisi dipende dalla capacità della politica di ricuperare il suo antico collegamento con la società, impedendo che il populismo, il nuovo spettro che si aggira per il mondo, possa ulteriormente consolidarsi. Ciò però presuppone, non una continua attività di demonizzazione, qual è quella con cui in Italia si cerca ora di esorcizzare il pericolo del populismo, ma l’elaborazione di un progetto per il futuro, in grado di offrire all’intera società il senso di una sicurezza sociale ed economica che la politica non ha sinora saputo affrontare.
Non è accettabile che, per sconfiggere la presunta irrazionalità del populismo, non si sappia sostenere altro che la validità di una politica presentista, solo perché questa è ritenuta idonea a garantire il facile accesso ai mercati finanziari internazionali, per approvvigionare lo Stato delle risorse che da troppo tempo esso non sa reperire al proprio interno. L’eccessiva preoccupazione di salvaguardare la fiducia sulla quale i creditori esteri devono poter contare nei confronti dell’Italia, non è di per sé uno dei motivi, se non il più importante, che giustifica la tesi secondo cui la causa del populismo è la mancanza di progettualità della classe politica, la cui azione dall’avvento della globalizzazione non ha saputo evitare la deriva del presentismo e la comparsa dei capipopolo?
———-
* Anche su Avanti! online.
Oggi 14 agosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
Sovranista o unitario?
14 Agosto 2018
7 Luglio 2014
Francesco Cocco su Democraziaoggi
_______________
Ricordi della Toniolo. A piedi da Genzano a Castelgandolfo per vedere e sentire il Papa (1960).
Correva l’anno 1960, quello delle Olimpiadi di Roma, nel quale la Toniolo organizzò uno dei suoi mitici campeggi, il primo fuori dalla Sardegna. Come località fu scelta “Fontan Tempesta” in Comune di Genzano sul lago di Nemi, dunque molto vicino a Roma. Non dovrebbero esservi dubbi sul periodo: dal 27 luglio al 15 agosto (un giorno prima o un giorno dopo), come nella tradizione dei campeggi Toniolo.
Di quella bella avventura voglio qui riportare un primo racconto, che si riferisce all’udienza del Papa, Giovanni XXIII, nel palazzo della residenza estiva dei papi a Castel Gandolfo.
Un giorno della settimana, probabilmente il 10 agosto, al mattino presto, intorno alle 6, partimmo, guidati da don Dino Pittau e dai fratelli Floris (Guido e Antonello), almeno in trenta, dal campeggio di Genzano per raggiungere a piedi Castel Gandolfo. Insieme a noi don Martino Murgia e i suoi ragazzi. Eravamo attesi all’udienza presumibilmente intorno alle 10-10,30. Come previsto, procedendo con un andamento tranquillo e non faticoso, ci mettemmo [segue]
Il Lavoro nel XXI Secolo
Il sociologo Domenico De Masi sarà a Cagliari venerdì 5 ottobre, invitato dal Comitato CoStat e da altre Entità culturali per la presentazione del suo ultimo libro “Il lavoro nel XXI secolo”. Nell’occasione sarà anche presentato il libro che raccoglie gli interventi al Convegno sul Lavoro, organizzato da CoStat e da Sardegna Europa Direct, tenutosi a Cagliari nei giorni 4-5 ottobre 2017, a cui partecipò lo stesso prof. De Masi.
- Approfondimenti nei prossimi giorni.
oggi lunedì 13 agosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
Dialogo col vecchio comunista che si fidò del segretario
13 Agosto 2018
————
7 Ottobre 2014
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
Si avvertono i lettori che il dialogo qui riportato non è frutto della fantasia dell’autore. Salvi i nomi, la coincidenza con la realtà non è puramente casuale.
——————————————————————————-
Ricordando Giorgio Pisano, cronista.
L’Unione Sarda.it » Cultura » Giorgio Pisano, l’indimenticabile irriverente. Domenica 12 agosto 2018.
CULTURA » CAGLIARI
Giorgio Pisano, l’indimenticabile irriverente
di Nicola Lecca.
Giorgio Pisano
Giorgio Pisano è stato uno dei giornalisti più seri e talentuosi che la Sardegna abbia mai avuto. Pensate: per scrivere un solo articolo su Grazia Deledda fu capace di leggere tutti (ma proprio tutti!) i romanzi che la scrittrice isolana vincitrice del Nobel pubblicò nell’arco di una vita.
(Segue)