Monthly Archives: agosto 2018
Amici sardi della Cittadella di Assisi
Tradizionale pizzata agostana con l’amico Gino Bulla, direttore di Rocca, organizzata dagli “Amici sardi della Cittadella di Assisi”.
(Segue)
Oggi lunedì 27 agosto 2018
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Il volto violento e ridicolo del fascismo, anche sardo
27 Agosto 2018
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17 Giugno 2009
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Oggi domenica 26 agosto 2018
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Bene il libro di Bertinotti, ma c’è frattura fra teoria e pratica
26 Agosto 2018
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12 Luglio 2009
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Diciotti
Dal Tavolo Asilo Nazionale. Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
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Carissimi,
di seguito la lettera inviata questa mattina al Governo sulla vicenda della nave Diciotti. Vi invitiamo a darne massima diffusione.
Un saluto.
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“Le associazioni del Tavolo Asilo chiedono con urgenza al Governo italiano di autorizzare lo sbarco delle 150 persone ancora a bordo della nave Diciotti.
I migranti soccorsi dalla nave italiana senza ulteriori indugi devono essere messi in condizione di ricevere assistenza adeguata e di beneficiare di tutte le garanzie definite dalla nostra Costituzione, dalla normativa nazionale, comunitaria e dalle convenzioni internazionali, a prescindere dai tempi e dagli esiti della contrattazione politica tra gli Stati Europei. Le risposte dell’Unione europea alla gestione dei flussi migratori, compresi quelli dei minorenni, nel Mediterraneo deve essere richiesta nelle opportune sedi e non attraverso il trattenimento illegale di persone a bordo di una nave”.
Caritas Italiana, A Buon Diritto, ACLI, ActionAid, Amnesty a International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CIR, Comunità di S.Egidio, CNCA, Emergency, Médecins du Monde Missione Italia, Mediterranean Hope (FCEI), MEDU, Save The Children Italia, Senza Confine, Oxfam Italia del Tavolo Asilo Nazionale.
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Nazionalismo: da rileggere e approfondire nei suoi diversi e spesso inediti modi di proporsi
di Gianfranco Sabattini*
Negli ultimi anni, lo studio del nazionalismo ha subito una radicale approfondimento, attraverso un’estesa proliferazione di studi storici, antropologici, sociologici, politici ed economici; ad affermarlo è Benedict Anderson, filosofo della politica d’ispirazione marxista. In “Comunità immaginate, Origini e fortuna dei nazionalismi”, l’autore offre “suggerimenti per un’interpretazione più soddisfacente dell’’anomalia’ del nazionalismo”, partendo dal presupposto che “sia la teoria marxista, sia quella liberale si siano intristite in un tentativo tardo tolemaico” di spiegare gli aspetti politici e sociali connessi al nazionalismo, e che, proprio per questo, sia urgente riorientare l’approccio allo studio di questo fenomeno “in uno spirito, per così dire, copernicano”.
Ciò vale soprattutto per chi, da sinistra, affronta il problema della nazione e del nazionalismo, in considerazione del fatto che, come afferma Marco d’Eramo nella Prefazione al libro di Anderson, da Marx in poi “una volta la nazione è ridotta a puro epifenomeno del formarsi del mercato capitalistico e dell’ascesa della borghesia. Un’altra a demone collettivo, puro impulso irrazionalistico da esorcizzare. Un’altra volta ancora è un fattore da usare strumentalmente per fare avanzare la causa proletaria”. Diventa difficile capire i fenomeni di nazione e di nazionalità, quando di essi non esiste un’interpretazione univoca.
Secondo Anderson, la difficile interpretazione dei concetti di nazione, nazionalità e nazionalismo è dovuta al fatto che essi sono delle categorie culturali di un tipo particolare; per poterle meglio interpretare è necessario considerare come esse siano nate storicamente, “in che modo il loro significato è cambiato nel tempo, e perché oggi scatenino una legittimità così profondamente emotiva”. A tal fine, Anderson riconduce la formazione di quelle categorie culturali alla fine del Settecento, affermando che esse sono state la “spontanea distillazione di un complesso ‘incrocio’ di forze storiche discontinue”; ma che, una volta affermatesi, è stato possibile trapiantarle in “una grande varietà di terreni sociali, per fondersi ed essere fuse con un’altrettanto varietà di costellazioni politiche e ideologiche”.
Nella sua analisi, Anderson assume che la nazione sia “una comunità politica immaginata”, insieme “limitata e sovrana”. Immaginata, in quanto i componenti anche della più piccola nazione “non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare”; ciò nonostante, nella mente di ognuno degli abitanti “vive l’immagine di essere comunità”. Limitata, perché, anche la più grande nazione ha “comunque confini, finiti anche se elastici, oltre i quali si estendono altre nazioni”. Sovrana, in quanto il concetto è nato quando Illuminismo e rivoluzione hanno distrutto “la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino” (senza che ciò significhi che la nazione immaginata sia nata per semplice sostituzione del regno precedente, con “un mutamento fondamentale nel modo di percepire il mondo”), che ha reso possibile la percezione della nazione.
Infine, la nazione è immaginata come comunità, in quanto, malgrado le ineguaglianze che in essa possono essersi create, anche in termini approfonditi, viene percepita in termini di fraternità e di solidarietà; valori, questi, la cui interiorizzazione ha consentito “per tutti gli ultimi due secoli – afferma Anderson -, a tanti milioni di persone, non tanto di uccidere, quanto di morire, in nome di immaginazioni così limitate”. Tale considerazione, secondo il filosofo della politica, solleva l’aspetto centrale del nazionalismo, consistente nel chiedersi come sia stato possibile che quei valori (di fraternità e solidarietà), affermatisi all’interno di un fenomeno (la comunità) immaginato, abbiano potuto generare “un tale sacrificio”. Per rispondere all’interrogativo, secondo Anderson, occorre considerare le “radici culturali” del nazionalismo.
I fattori culturali che hanno portato alla nascita del nazionalismo sono molti e vari; ma il più importante, a parere di Anderson, è senza dubbio l’affermarsi nel XVI secolo dello spirito del capitalismo, e con esso del mercato, in particolare di quello dell’editoria, per soddisfare “un ampio ma sottile strato di lettori” in lingua latina. La saturazione di questo mercato è avvenuta in un arco di 150 anni, attraverso “la rivoluzionar spinta del capitalismo verso il volgare”, favorita da tre tendenze fondamentali. La prima è stata originata dal mutamento del carattere del latino, per essere divenuto sempre più arcaico e lontano da quello parlato tutti i giorni. La seconda è stata determinata dall’impatto della Riforma, la cui diffusione è avvenuta attraverso la traduzione delle famose “Tesi” luterane negli idiomi parlati all’interno delle diverse comunità. La terza tendenza, infine, è va ricondotta al consolidarsi degli idiomi volgari “come strumenti di accentramento amministrativo da parte di monarchie potenti e aspiranti all’assolutismo”.
Le tre tendenze hanno dato luogo a un processo alimentato dall’interazione tra sistemi di produzione ispirati allo spirito del capitalismo, da un lato, e progressi della tecnologia di stampa e consolidamento delle diversità linguistiche, dall’altro. In conclusione, secondo Anderson, il risultato del processo interattivo ha creato una “nuova forma di comunità immaginata” su cui poggiano le basi delle nazioni moderne, organizzate nella forma di Stati-nazione. La formazione di questi ultimi, tuttavia, non è stata – afferma Anderson – “assolutamente isomorfica con il “raggio d’azione di una particolare lingua”, in quanto molti di essi sono diventati anche Stati nazionali che hanno assunto la forma di imperi poliglotti, polireligiosi e polietnici.
Se gli storici, nel 2050, dovessero studiare quanto è accaduto agli imperi, sorti alla fine del Medioevo e nella prima modernità, non potranno non constatare, a parere di Anderson, la loro disintegrazione “accompagnata da un’esplosione di violenza e spesso seguita da decine di guerre civili o fra Stati”. Il primo Stato-nazione, sorto in Nord America da una rivolta contro la Gran Bretagna, era così diviso che ha dovuto poi sopportare la più sanguinosa guerra civile dell’Ottocento; sono seguite le faide civili dell’America Latina, originate dal collasso dell’impero spagnolo all’inizio dello stesso Ottocento, gli esiti del crollo degli imperi ottomano, asburgico e di quello germanico degli Hohenzollern, nonché gli esiti del crollo degli imperi asiatici di Cina nel 1911 e dell’India dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Sempre dopo 1945, si è verificata la disintegrazione degli imperi coloniali di molti Stati europei, anch’essa accompagnata da guerre civili all’interno dei nuovi Stati, oppure da guerre tra di essi.
In apparente alternativa agli effetti della disgregazione degli imperi dell’età moderna è stata – sostiene Anderson – la Rivoluzione russa del 1917, nella sua originaria forma internazionalista. Ciò perché, l’Unione Sovietica non ha visto se stessa come un “nuovo, immenso Stato-nazione”, ma piuttosto come un modello di organizzazione comunitaria, all’interno del quale il nazionalismo doveva essere superato come principio politico. Questa fase, però, non è durata a lungo, inizialmente a causa della decisone di realizzare il socialismo in un solo Paese, in condizioni di accerchiamento capitalistico, e successivamente, a seguito dell’invasione delle armate hitleriane; per questi motivi, è stato gioco forza per Stalin e gli altri comprimari della rivoluzione russa fare appello al nazionalismo, per giustificare i sacrifici imposti al popolo sovietico, sia per edificare il socialismo, che per resistere all’aggressione hitleriana. Inoltre, l’URSS, nelle peripezie del dopoguerra, ha dovuto constatare l’impossibilità di unire a se stessa gli Stati “comunistizzati” dell’Europa dell’Est. L’esperienza complessiva che il mondo ha vissuto, a partire dall’inizio dell’età moderna sino ai nostri giorni, è valsa ad evidenziare – secondo di Anderson – che il nazionalismo, associato ad una comunità (sia pure immaginata), che si identifica in un sistema di valori esclusivi, “può essere contenuto, ma non soffocato o superato per sempre”.
Constatata l’ineliminabilità del nazionalismo, quali sono – si chiede Anderson – le implicazioni sul piano conoscitivo e su quello politico? A suo parere, quanto vissuto con il crollo degli imperi moderni poliglotti, polireligiosi e polietnici, dovrebbe suggerire la necessità di rimuovere dalla cultura politica quattro pregiudizi. Il primo è che la disintegrazione delle realtà statuali disomogenee (dal punto di vista linguistico, religioso ed etnico) sia di per se sufficiente ad eliminare tutti i possibili esiti negativi delle “patologie” intrinseche a quelle realtà. Il secondo pregiudizio riguarda la relazione che si suppone esista tra capitalismo, mercato e grandezza degli Stati, per cui accade spesso che, da posizioni di destra e di sinistra, si assuma che i piccoli Stati, con limitate disponibilità di risorse materiali e di forza lavoro, siano scarsamente dotati per adattarsi alle condizioni di operatività del capitalismo mondiale; si tratta di un modo di pensare proprio dell’ideologia nazionalistica che, nel corso della prima metà del secolo scorso, è valsa ad affermare l’idea che uno Stato, per tutelare la propria comunità nazionale, deve crescere e resistere alla concorrenza degli altri Stati competitori attraverso la conquista, a spese degli Stati più deboli, uno “spazio vitale” all’interno del quale realizzare l’autosufficienza. Il terzo pregiudizio è la convinzione che le imprese multinazionali possano rendere obsoleto il nazionalismo; convinzione del tutto inconsistente, in quanto manca di considerare che le imprese multinazionali sono per lo più localizzate negli Stati che egemonizzano il mercato mondiale, quindi propensi, per ragioni nazionalistiche, a contrapporsi alle imprese multinazionali degli altri Stati. Infine, il quarto pregiudizio è che il nazionalismo sia stato sconfitto dalla presunta esistenza di una connessione tra capitalismo e rapporti pacifici tra gli Stati, cosicché il libero mercato mondiale sia l’antidoto di tutte le manifestazioni patologiche del nazionalismo.
Quest’ultimo, lungi dall’essere stato sconfitto, nei tempi moderni ha acquisito, con il crescere dei flussi migratori, anche un carattere nuovo. Gli esseri umani – afferma Anderson – “trascinati nel vortice del mercato, non sono semplicemente un’altra forma di merce”; essi racchiudono in sé “memorie abitudini, credenze e usi culinari, musiche e desideri sessuali. E queste caratteristiche che, nei Paesi d’origine, sono portate con leggerezza e quasi inconsciamente, acquistano un risalto drasticamente diverso nelle diaspore della vita moderna”, sino a rendere difficili, a causa delle dimensioni del fenomeno migratorio, tutte le forme tradizionali di assimilazione graduale degli immigrati all’interno dei contesti di accoglimento. Di fronte allo smarrimento procurato dagli ambienti sociali alieni, è stato inevitabile che gli immigrati solidarizzassero tra loro, raggruppandosi in ghetti etnicamente omogenei, al fine di “difendersi” dall’insofferenza manifestata nei loro confronti da parte della popolazione dei Paesi ospitanti. Dal lato opposto, la formazione di questi ghetti ha prodotto, e continuerà a produrre, una crescente etnicizzazione simmetrica delle popolazioni autoctone.
L’interazione tra le due forme di identificazione valoriale ha dato luogo al manifestarsi di crisi ricorrenti nei rapporti tra immigrati e cittadini dei Paesi ospitanti, valse a mostrare che il nazionalismo, come categoria culturale esclusiva, non è stato affatto rimosso dai reiterati tentativi di integrazione dei “diversi”; anzi, esso è servito per dare forza e giustificazione alle ragioni delle due etnie contrapposte.
In particolare, conclude Anderson, è possibile che quello degli immigrati sia un nazionalismo di tipo nuovo, in quanto praticato da soggetti che, benché residenti in uno Stato in cui vivono e lavorano, si difendono, nel conflitto che li vede contrapposti ai cittadini dello Stato ospitante, sulla base di un’identità politica fondata sulla loro “Heimat”, ovvero sui valori propri della loro patria d’origine.
Ciò origina un problema di difficile soluzione per i Paesi che accolgono gli immigrati; problema che non si può certo presumere di poter risolvere in modo certo e definitivo con la concessione della cittadinanza ai nuovi arrivati. L’incertezza e i dubbi sulla risolvibilità del problema dell’integrazione degli immigrati, attraverso la concessione della cittadinanza, non sono dovuti a xenofobia o a razzismo, ma agli interrogativi sollevati dal fatto che cittadini allogeni di seconda o terza generazione di alcuni Paesi europei sono stati “facile preda”, sul piano emotivo, delle situazioni di crisi insorte nelle comunità d’origine dei loro padri; ciò dimostra come il nazionalismo sia una dimensione della cultura dell’uomo che, per quanto latente e silente da generazioni, può riemergere improvvisamente per motivi imperscrutabili; fatto, quest’ultimo, che giustifica la necessità di approfondire la ricerca di soluzioni alternative a quelle suggerite dalla tradizionale apertura ideologica al multiculturalismo.
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* Anche su Democraziaoggi.
Mattinale
di Tonino Dessì
Se questo è il Capo di un Governo.
L’impotenza e il vuoto politico in un comunicato futilmente minaccioso.
Non credo, come scrivono alcuni commentatori, che il Governo italiano abbia molte speranze di uscire dall’isolamento trovando sponde nell’Ungheria di Orban, nell’Austria di Kurtz, nei Paesi post-sovietici dell’Est governati dalle destre reazionarie.
Per definizione, queste destre non hanno scenari di solidarietà reciproca nel loro DNA fondamentalmente nazionalista e sciovinista (chè questa è la vera declinazione del sovranismo populista, una variante contemporanea del neofascismo europeo).
Nè l’Italia ha interessi generali geostrategici, storici e attuali, comuni con questi Paesi. (Segue)
Oggi sabato 25 agosto 2018
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Brevi note sulle diseguaglianze
Adriano Cozzolino
Su sbilanciamoci.info. 1 agosto 2018 | Sezione: primo piano, Recensioni, Società
C’è un nesso tra diseguaglianze economiche e libertà civili, e a quanto scrive Cole in un recente saggio su cento Paesi, ciò produce rischi per le democrazie dove il gap di rappresentanza spinge verso la destra populista.
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D’onde origina lo Statuto sardo?
25 Agosto 2018
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10 Agosto 2009
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Globalizzazione
Tecnologie informatiche e “Grande Convergenza” secondo Richard Baldwin
di Gianfranco Sabattini*
Richard Baldwin, docente di economia internazionale in diverse Università del mondo e al MIT, nel volume “La Grande Convergenza. Tecnologie informatiche, web e nuova globalizzazione”, sostiene che, con l’avvento delle tecnologie informatiche, “è cambiato il modo in cui si è soliti pensare la globalizzazione”. La sua tesi è che, verso la fine del secolo scorso, i cambiamenti rivoluzionari verificatisi nelle tecnologie della comunicazione e dell’informazione hanno avuto un impatto rivoluzionario sull’economia globale; un effetto semplice da intuire, ma che può essere adeguatamente spiegato solo inquadrandolo nella prospettiva del processo storico durante il quale sono maturate le condizioni che ne hanno determinato l’accadimento.
Quello della globalizzazione – afferma Baldwin – è un fenomeno antico; esso però ha compiuto un grande balzo in avanti solo verso la fine del XIX secolo, quando la macchina a vapore e la pace globale (assicurata al mondo per quasi un intero secolo dall’equilibrio tra le grandi potenze convenuto al Congresso di Vienna, dopo le guerre napoleoniche) hanno ridotto il costo del trasporto dei beni. Il fenomeno della globalizzazione ha fatto poi un secondo balzo in avanti, verso il 1990, allorché le tecnologie informatiche hanno ridotto il costo di trasferimento delle idee e della conoscenza. La “vecchia” e la “nuova” globalizzazione – sostiene Baldwin – hanno avuto “effetti sostanzialmente differenti sulla geografia economica mondiale”.
Nel corso del XIX secolo, la lenta ma continua diminuzione del costi di trasporto ha dato luogo “a un ciclo di scambi commerciali, industrializzazione e crescita, che ha prodotto uno dei più drammatici rovesciamenti di fortune: le antiche civiltà asiatiche e mediorientali, che da quattro millenni dominavano il mondo, in meno di due secoli [sono state] soppiantate dai moderni Paesi ricchi”. Questo risultato, denominato dagli storici “Grande Convergenza”, spiega, secondo Baldwin, come tanto potere economico sia “passato di mano”, concentrandosi in pochi Paesi.
La globalizzazione, iniziata dopo le guerre napoleoniche, è stata associata alla rapida industrializzazione degli odierni Paesi economicamente avanzati, rappresentati attualmente dal gruppo di quelli più ricchi, indicato con la sigla “G7” e comprendente Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia, Regno Unito, Canada e Italia. Il processo ha dato inizio a “una spirale di agglomerazione, innovazione e crescita industriale in grado di autoperpetuarsi, portando ad un nuovo assetto dell’economia mondiale. Dal 1820 al 1990, la quota del reddito globale del “G7” è passata da circa un quinto a quasi due terzi; l’aumento vero e proprio però è cessato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, addirittura invertendosi verso il 1990. Da questa data, la quota del reddito globale del “G7” ha continuato a contrarsi, sino a tornare al livello che aveva raggiunto all’inizio del XIX secolo; fatto, questo, che, a parere di Baldwin, spiega perché la natura della globalizazione si sia modificata a partire dagli anni prossimi al 1990.
Il cambiamento epocale, che contraddistingue la “nuova” globalizzazione da quella “vecchia” del XIX secolo, è “stato altrettanto duro” anche con riferimento al prodotto dell’industria mondiale; dal 1990, la quota di tale prodotto ascrivibile al “G7” si è contratta, sino a ridursi a meno del 50%, mentre sei soli Paesi, tra quelli in via di sviluppo (Cina, Corea del Sud, India, Polonia, Indonesia e Tailandia), “hanno rappresentato la contropartita positiva del saldo negativo del G7”. La quota di prodotto industriale del resto del mondo non ha risentito di questi cambiamenti; assume però rilievo il fatto che la quota di prodotto industriale mondiale della sola Cina è salita, a partire dalla fine del secolo scorso, dal 3% circa a quasi un quinto.
Baldwin definisce “Grande Convergenza” quanto si è verificato dopo il 1990 a livello globale; allo stato attuale, ad essa di deve l’origine dell’”avversione per la globalizzazione nutrita da gran parte della popolazione dei Paesi ricchi”, a causa del manifestarsi al loro interno del fenomeno della disoccupazione strutturale irreversibile. Infatti, gli effetti del traumatico cambiamento delle quote del PIL e della produzione industriale, verificatisi nei Paesi ricchi, si sono manifestati in termini così accelerati, da non lasciare alle economie che li subivano il tempo di adeguarvisi. Ciò che, tuttavia, resta da spiegare, sostiene Baldwin, è il fatto che il ridimensionamento del “G7” sia avvenuto a favore di un così ristretto numero di Paesi in via di sviluppo, nonostante che il basso costo del trasporto commerciale e delle idee fosse disponibile per tutti. Per una plausibile spiegazione di tale fatto, occorre concentrare la riflessione sulle modalità in presenza delle quali si sono affermate, prima, la “vecchia”, e dopo, la “nuova” globalizzazione.
Quando il trasporto marittimo dipendeva dall’energia eolica e quello terrestre dall’energia animale, nulla poteva essere spedito convenientemente, se non a breve distanza; ciò – afferma Baldwin – “rendeva la produzione ostaggio del consumo”, nel senso che, essendo le persone tendenzialmente stanziali, l’alto costo del trasporto comportava che i beni fossero prodotti nel luogo dove essi venivano consumati; pertanto, poteva dirsi che la produzione fosse “forzatamente ‘impacchettata’ con il consumo”. Si può quindi pensare all’espansione della “vecchia” globalizzazione come a un progressivo “scioglimento” del forzato “impacchettamento”. Tuttavia – avverte Baldwin – non erano solo i costi del trasporto commerciale a generare il vincolo territoriale sulla produzione, in quanto vi contribuivano tre diversi costi determinati dalla distanza: il costo di trasporto dei beni, del trasporto delle idee e del trasporto delle persone.
Sin dall’inizio del XIX secolo, tali costi hanno iniziato a diminuire, ma non tutti insieme: quelli riguardanti il trasporto dei beni sono “caduti verticalmente un secolo e mezzo prima dei costi di comunicazione. E i contatti personali diretti sono ancora oggi molto costosi”. L’avvento della “nuova” globalizzazione può essere spiegato, secondo Baldwin, nella prospettiva della storia dell’”estinzione a cascata” dei vincoli espressi dalle tre categorie dei costi di trasporto. Rispetto alla commercializzazione dei beni, i costi di circolazione delle idee e delle persone sono diminuiti molto più lentamente e il diverso andamento della diminuzione ha determinato una catena di cause ed effetti, producendo “enormi differenze di reddito fra gli odierni Paesi sviluppati (indicati nel loro insieme come il ‘Nord’ del mondo) e quelli in via di sviluppo (il ‘Sud’)”.
A seguito di ciò, i mercati si sono espansi globalmente, mentre la produzione industriate si è concentrata localmente (di fatto, nei Paesi del “Nord” del mondo), con la conseguenza che anche l’innovazione è risultata concentrata territorialmente, in quanto le idee erano ancora molto costose da trasferire. Di conseguenza, sono bastati pochi decenni perché si approfondissero le asimmetrie tra i Paesi del “Nord” e quelli del “Sud”; asimmetrie che definiscono ancora oggi il panorama economico del pianeta. In ultima analisi, sostiene Baldwin, lo squilibrio tra i Paesi del Nord e quelli del Sud del mondo è stato provocato dalla “combinazione di bassi costi commerciali e alti costi di comunicazione”.
Verso il 1990, la “nuova” globalizzazione ha avuto un’accelerazione, a seguito della rivoluzione delle tecnologie informatiche, che è valsa a ridurre drasticamente il costo di trasferimento delle idee e a determinare un secondo “spacchettamento” della “vecchia” globalizzazione; ciò perché il radicale abbassamento del trasferimento delle idee ha comportato, con la delocalizzazione, il deradicamento delle fabbriche dal luogo in cui si erano affermate.
In particolare, la delocalizzazioe di alcune fasi del processo produttivo industriale in Paesi a basso costo salariale ha comportato il trasferimento all’estero di molti posti di lavoro precedentemente coperti nei Paesi più sviluppati; ciò, però, ha anche comportato che, per realizzare l’adattamento delle fasi dei processi produttivi trasferite all’estero con quelle rimaste nella madrepatria, fosse operata una “rivoluzione della catena globale del valore”, a seguito della quale sono stati abbattuti i rigidi confini territoriali della conoscenza. Ciò è valso a combinare il know-how tecnologico del “G7” con i lavoratori a basso costo salariale dei Paesi in via di sviluppo, facilitando il trasferimento della conoscenza dai Paesi del “Nord” a quelli del “Sud” del mondo. Resta ancora da spiegare perché tale trasferimento abbia favorito la crescita e lo sviluppo di cosi pochi Paesi del “Sud”.
La risposta al quesito, a parere di Baldwin, può essere formulata considerando che il costo di trasferimento delle persone, correlato alle retribuzioni dei manager e dei tecnici, ha continuato a conservarsi alto; ragione, questa, che ha giustificato la propensione del “G7” a scegliere di delocalizzare in prossimità dei grandi Paesi industriali. Tuttavia, è accaduto che, mentre l’impatto sull’economia globale del secondo “spacchettamento” è risultato fortemente concentrato, la “’Grande Convergenza’ ha costituito, invece, un fenomeno molto più diffuso, a causa degli effetti a catena. Infatti, lo sviluppo di quei Paesi che hanno tratto giovamento dalla diminuzione del costo di trasferimento delle idee, ha determinato un aumento del reddito, che a sua volta, ha causato il “superciclo dei prodotti di base”; questi ultimi hanno avuto ad oggetto l’esportazione di materie prime da parte di quei Paesi del “Sud” del mondo che non erano stati coinvolti dai processi di delocalizzazione delle attività industriali dei Paesi del “Nord” del mondo.
Baldwin ritiene che la possibile e ulteriore evoluzione della globalizzazione ammetta la possibilità di un terzo “spacchettamento”, che potrà (o potrebbe) determinarsi se il costo di trasferimento dei manager dovesse diminuire nella stessa misura in cui sono diminuiti, a partire dal 1990, i costi di coordinamento delle fasi produttive delocalizzate con quelle rimaste nel Paese d’origine. Ciò accadrà (o potrà accadere) quando il miglioramento dell’intelligenza artificiale consentirà ai manager e tecnici di un Paese di fornire servizi in un altro Paese, senza esservi materialmente presenti. In altri termini, è possibile che il terso “spacchettamento” consenta ai manager e tecnici dei Paesi del “Nord” del mondo di fornire i loro servizi in un altro Paese, senza la loro presenza fisica.
La mutata natura nel tempo della globalizzazione ha dato origine a diverse forme di ripercussione sull’economia globale; quella connessa alla “nuova” globalizzazione dovrebbe indurre, conclude Baldwin, i governi, soprattutto quelli dei Paesi di più antico sviluppo, “a cambiare il modo di pensare le proprie politiche”. In particolare, dovrebbero ripensare le proprie politiche economiche, tenendo conto che la “denazionalizzazione del vantaggio competitivo” ha modificato le opzione a disposizione di tutti i Paesi; soprattutto i governi dei Paesi ricchi dovrebbero tener conto che questo cambiamento comporta che le attività produttive, per conservarsi competitive a livello globale, devono poter “mischiare e abbinare” i vantaggi competitivi garantiti dai loro Paesi con quelli dei Paesi di delocalizzazione, in modo da sceglier tra questi quelli che consentono le “maggiori efficienze di costo”.
Il mutamento della natura della globalizzazione ha determunato per tutti Paesi (sviluppati e in via di sviluppo) “la fine delle politiche di sviluppo di una volta, come pure delle ingenue politiche industriali nazionalistiche”. Esso, però, ha anche comportato la fine, o quanto meno l’inadeguatezza, della tradizionale politica sociale che i Paesi ricchi avevano adottato soprattutto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale. La “nuova” globalizzazione ha, infatti, vanificato il patto sociale tra capitale e lavoro che sottendeva il sistema welfaristico e che rendeva compatibile la dinamica del mercato del lavoro con il progresso tecnologico.
Che cosa implica tutto ciò – si chiede Baldwin – sul piano della politica sociale, per i Paesi che non intendono bloccare il cambiamento intrinseco alla logica con la quale evolve la globalizzazione? La risposta di Baldwin non ammette dubbi: “Poiché il progresso [economico] viene dal cambiamento e il cambiamento causa dolori, i governi che vogliono sostenere il progresso devono [...] escogitare il modo per far partecipare i cittadini a gioie e dolori del progresso”. Per i governi del “G7”, perciò, la “nuova” globalizzazione comporta che essi devono “proteggere i lavoratori, non i posti di lavoro. Inoltre, proprio perché l’odierna globalizzazione richiede più flessibilità dai lavoratori, è tanto più importante garantire che tale flessibilità non ne precarizzi la vita. I governi devono fornire sicurezza economica e aiutare i lavoratori ad adattarsi al mutamento delle circostanze”.
In futuro, se la globalizzazione dovesse continuare a rappresentare la principale forza trainante del cambiamento, questo sarà quasi certamente determinato dalla diminuzione dei “costi della telepresenza e della telerobotica innescate dalla rivoluzione della presenza virtuale”. I governi e il mondo produttivo (imprese e sindacati), se non saranno in grado di bloccare l’evoluzione della globalizzazione, dovranno necessariamente pensare a riformare i meccanismi distributivi attuali, che andranno riproposti in modo da garantire, a chi suo malgrado viene espulso irreversibilmente dal mercato del lavoro, l’accesso a un reddito, che consenta di soddisfare le sue ordinarie esigenze di consumo, salvaguardando la propria dignità di cittadino.
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* anche su Avanti! online.
Oggi venerdì 24 agosto 2018
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Che svilimento della politica la scelta dei candidati!
24 Agosto 2018
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9 Gennaio 2010
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Addio a Tancredi Tucconi
E’ mancato Tancredi Tucconi, la storica Contra del Tenore Remunnu ‘e Locu di Bitti, uno dei fondatori, insieme a Daniele Cossellu di questo importante gruppo.
Mattinale
di Tonino Dessì
Mattinalino dall’estero.
Da quando sono arrivato ad Amsterdam, ho notato che CNN, su cui sono sintonizzati gli schermi dei salottini e del ristorante dell’hotel, è fissa sulle vicende giudiziarie degli ambienti vicini al Presidente Trump, che in questo momento pare se la stia vedendo brutta.
Anche dalla lettura di alcuni quotidiani in lingua inglese la sensazione è che questa Presidenza non finirà tranquillamente il mandato.
Leggendo sul web le notizie di cronaca politica italiana, sembrerebbe che Salvini, di fronte alle pressioni del Quirinale sul Presidente del Consiglio affinchè risolva decentemente il cul de sac in cui il Governo si è cacciato nella scandalosa e illegale detenzione dei 176 profughi a bordo della nave Diciotti, abbia minacciato le dimissioni.
Fonti di stampa rivelano inoltre che per coprire le spese del dirottamento di Stato della nave Acquarius verso la Spagna sarebbero stati distolti duecentomila euro di fondi europei destinati all’accoglienza.
Già il dubbio sui numerosi aspetti di illegalità di quel precedente episodio era emerso nelle settimane scorse.
È vero che è estate, che il Parlamento è in vacanza e pertanto non è stato convocato nemmeno per essere informato dal Governo su quanto emerso in ordine alla strage autostradale di Genova (come se si fosse trattato dei soliti morti stradali da traffico vacanziero), ma di nient’altro pare potersi occupare la politica italiana se non delle campagne cinicamente propagandistiche del Vicepresidente Ministro del disordine. (Segue)
Oggi giovedì 23 agosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
La questione istituzionale alla luce del pensiero di Gramsci
23 Agosto 2018
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19 Aprile 2009
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
A settantadue anni dalla scomparsa di Antonio Gramsci, il suo pensiero si pone come uno strumento essenziale per uscire dalla grave crisi di partecipazione democratica che investe la società italiana e segnatamente quella sarda. Con questo intervento di Francesco Cocco, “Democrazia oggi” vuole avviare una riflessione, partendo […]
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La Lega ed il PCI
23 Agosto 2018
8 Aprile 2010
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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Non voglio ripercorrere il fenomeno di autodistruzione che vent’anni or sono portò al dissolvimento del PCI. M‘interessa semplicemente riflettere brevemente su come il modello organizzativo e di vita di quel partito oggi torna attuale e vincente, come hanno dimostrato le recenti elezioni regionali. A sottolineare una tale attualità […]
Oggi mercoledì 22 agosto 2018
———-Avvenimenti&Dibattiti&Commenti————————-
Padania Libera Sardegna sottomessa
22 Agosto 2018
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16 Luglio 2010
Francesco Cocco su Democraziaoggi.
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