Monthly Archives: luglio 2018

Oggi giovedì 12 luglio 2018

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Salvini, datti una calmata, o vuoi far la fine di Renzi?
12 Luglio 2018

Amsicora su Democraziaoggi.
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Claudia Zuncheddu: in Sardegna situazione sanitaria insostenibile. Urge una vasta mobilitazione popolare.
12 Luglio 2018

Claudia Zuncheddu, portavoce della Rete Sarda Difesa Sanità Pubblica, su Democraziaoggi.
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Oggi mercoledì 11 luglio 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativa
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Sardegna-Regionali. Partita a due o, ancora, a tre?
11 Luglio 2018

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Michele Columbu

5c1e9cbc-28af-4f33-9220-cbd2045f9290Il 10 luglio del 2012 ci lasciava Michele Columbu, gran padre nobile del Sardismo. Un gigante intellettuale e politico.
Nella foto sopra, a casa sua a Capitana, ove ragionavamo di politica ma soprattutto di storia, cultura, letteratura e lingua sarda
(Francesco Casula).
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Ricordando Michele Columbu a 6 anni dalla sua scomparsa.
di Francesco Casula
[segue]

FASE POLITICA. Riflessioni interessanti ospitate dalla rivista Rocca

valutazione micro aiuto, aiuto
la sinistra non c’è più!

di Aldo Antonelli su Rocca

Più che un terremoto, l’ultima tornata elettorale è stato uno tsunami che ha cancellato anni di storia e rivoluzionato la geografia politica dell’intero Paese. «Più che una semplice sconfitta elettorale, scrive il vicedirettore di Huffington Post Alessandro De Angelis, è la certificazione di uno sradicamento storico della sinistra dal paese».
Lasciamo agli esperti e, soprattutto, ai responsabili del Partito Democratico, il compito di analizzare la situazione, confidando nella necessaria capacità riflessiva ed autocritica che li tenga lontani dai facili mea culpa e dagli stucchevoli giochini delle reciproche scomuniche.
Noi, da parte nostra, siamo tentati di innalzare bandiera bianca e gridare all’aria che c’è un solo vincitore, non solo in Italia, ma nel più vasto mondo: l’ideologia libertina e truffaldina che scambia la libertà per libertinaggio, persegue il possesso senza interrogativi, compone e scompone persone/monadi come fossero birilli in vista del gioco del momento, impone sogni impedendone la realizzazione, degrada il popolo in una massa liquida spendibile sul banco della politica muscolare di chi fa carriera politica in nome dell’antipolitica. I muscoli al posto del cervello e la volontà di potenza al posto della coscienza sono i nuovi fattori della democrazia telecomandata! Ma a che pro lanciare queste denunce?
È possibile andare oltre gli esclamativi che inchiodano il pensiero all’inazione e imbalsamano la coscienza nella rassegnazione impotente e fatalista?
Ecco: forse porsi delle domande potrebbe rimetterci in gioco con i nostri sogni e le nostre convinzioni.
Noi incominciamo ad avere il sentore che il Partito Democratico sia stato strozzato da un nodo scorsoio nel quale sono confluiti, intrecciandosi e divorandosi a vicenda, tutti i fili che a suo tempo costituivano il tessuto della Sinistra e che il mercato globalizzato e affrancato da ogni tutela statale ha corroso, quattro in particolare: il Popolo, il Lavoro, il Pensiero e il Progetto.

Su ognuno di questi temi apriamo una finestra che offra la possibilità di un rinnovato coinvolgimento per la ricostruzione.

il popolo
Si è fatto di tutto, in questi ultimi decenni, per far diventare plebe del web il popolo della Costituzione. Il popolo non esiste in natura. Non è un aggregato sociale e tanto meno una classe. È prima di tutto una costruzione politica che i politici hanno da tempo dismesso.

il lavoro
«Viviamo in un’epoca nella quale le merci sono diventate le protagoniste della storia mondiale, mentre il lavoro che le produce viene ricacciato in una sorta di purgatorio dell’irrilevanza», denunciava Piero Bevilacqua, docente di storia contemporanea presso La Sapienza già nel lontano 2008.

il pensiero
La fatica del pensiero è stata soppiantata dalla facilità del sentimento ripiegato in risentimento… e non a caso, se Adolf Hitler soleva ripetere: «Che fortuna per i governanti che gli uomini non pensino».

il progetto
Da tempo sono scomparsi dalla politica i progetti di ampio respiro dentro i quali gestire i singoli problemi, scambiando il «Governo della cosa pubblica» con la «governance» di thatcheriana memoria, cosicché l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato «problem solving». Cioè alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia.
Su questi temi, purtroppo, la sinistra è stata latitante, se non assente.
Ma è su questi temi nodali che noi come cittadini e la sinistra come politica dovremmo lavorare per ritrovare le Parole necessarie per una nuova narrazione.

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ROCCA 15 LUGLIO 2018
pensa-toreECOLOGIA
se l’ambiente non passa per la Costituzione

di Ugo Leone su Rocca

Come avviene praticamente ogni anno, quale più quale meno, il 2018 ricorda e addiritura celebra alcuni «compleanni». Tre in particolare vedo collegabili perché uniti, senza forzature, dai temi
ambientali: il 70° della Costituzione e il 50° del «Sessantotto» e della nascita del «Club di Roma».
Comincio da quest’ultimo per ricordare che quel «club», di Roma perché fondato a Roma, fu ideato da Aurelio Peccei, ex manager di Fiat e Olivetti, e costituito da un gruppo internazionale di personalità del mondo scientifico, economico e industriale, che si dichiararono «individualmente preoccupati della crescente minaccia implicita nei molti e interdipendenti problemi che si prospettano per il genere umano». Per questi motivi promossero una serie di rapporti sui «dilemmi dell’umanità» affidandone la realizzazione ai ricercatori del Mit (Massachusetts Institute of Technology), il primo dei quali, del 1970, è noto come Rapporto sui Limiti dello Sviluppo. Uno sviluppo che veniva considerato irrealizzabile senza tener conto della qualità del suo ambiente: la Terra con i suoi miliardi di abitanti.

la contestazione ambientalista
Questa preoccupazione e la sensibilità verso le problematiche definibili «ambientaliste» si era già cominciata a manifestare nella università californiana di Berkeley dalla quale partirono i primi «movimenti di contestazione giovanile». Questi erano caratterizzati anche da una chiara connotazione ambientalista che, «importata» oltreoceano, a Parigi innanzitutto, diventò «il Sessantotto» e si andò progressivamente diffondendo. Prima e innanzitutto nei paesi economicamente più sviluppati, poi anche in quelli in via di sviluppo nei quali il deterioramento ambientale presentava aspetti non meno allarmanti di quelli che avevano caratterizzato le economie dei paesi industrializzati. Questa è quella che lo storico Ferdinand Braudel definì «rivoluzione culturale»; una rivoluzione che, come scrisse il sociologo Pierre Fougeyrollas, significava «una rivoluzione nella ma- niera di sentire, agire e pensare, una rivo- luzione nelle maniere di vivere, insomma una rivoluzione della civiltà». In ciò non mi sembra una forzatura vedere i presupposti di quella che sarebbe stata auspicata come «rivoluzione ecologica della società». La componente ecologista del movi- mento ha avuto grandi meriti nella sensibilizzazione di crescenti «masse» di popolazione ai problemi dell’ambiente ed ai rischi connessi con una crescita puramente quantitativa che non si traducesse in reale sviluppo economico e sociale.
Anche in Italia dove, preoccupati soprattutto della ricostruzione post bellica e del rilancio della crescita economica (che fu poi definita il boom degli anni Sessanta), non ci si preoccupò del come tutto ciò si stava realizzando: con quale impatto negativo su ambiente e territorio. E, quindi ignorando quanto tutto ciò stava avvenendo in modo «incostituzionale». Trascurando cioè di sapere e ricordare che la Carta Costituzionale all’articolo 9 prevede che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Come si vede è un articolo ricco di «parole chiave» di eccezionale importanza: cultura, ricerca scientifica, paesaggio, patrimonio storico e artistico. Ma privo di un’altra: la parola ambiente.
Un’assenza ben «giustificabile» perché all’epoca – era il 1947 – non si parlava di ambiente. Non come se ne sarebbe cominciato a parlare dal ’68 e come se ne parla oggi e non con le preoccupazioni con le quali questo argomento si affronta da una cinquantina di anni.

il valore paesaggio
La ricostruzione fisica delle fabbriche distrutte e delle abitazioni rase al suolo dalla guerra avvenne, soprattutto per l’edilizia abitativa, in modo assolutamente incurante dell’importanza del valore paesaggio. E furono messe, non solo a Napoli, «le mani sulla città» così ben documentate nel 1963 nel film di Francesco Rosi. In non pochi casi ne ha negativamente risentito anche il patrimonio storico, artistico e naturale. Basta osservare le manomissioni in non pochi siti archeologici della Magna Grecia quali, soprattutto, Calabria e Sicilia e in aree naturali di eccezionale valore come ad esempio il Vesuvio e i Campi Flegrei. Il che significa che ne ha complessivamente risentito non solo il paesaggio, ma l’ambiente di vita in generale. Cioè ciò che ci sta intorno che è il più genuino significato della parola ambiente.
Anche per questo non ci sarebbe, non ci dovrebbe essere, bisogno di ricorrere alla Costituzione per riconoscere la incostituzionalità di comportamenti che quasi quotidianamente compromettono la qualità della vita dei cittadini. Perché qualità dell’ambiente e sicurezza del territorio sono temi che qualunque governatore della cosa pubblica, dal governo centrale al più piccolo degli ottomila comuni del Paese, dovrebbe avere in cima ai suoi obiettivi di gestione dei cittadini che è stato chiamato ad amministrare.
La conclusione è che non manca niente nella Carta costituzionale per difendere e pretendere che sia difeso l’ambiente. Anche se questa parola «manca» o, meglio, non è presente nell’articolo 9.
Ugo Leone

ROCCA n. 14, 15 LUGLIO 2018
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladin AladiNews Aladinpensiero.
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Martedì oggi 10 luglio 2018

eosemarys
- Su fb.
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Economia. Come sta la Sardegna? “Rapporti” Crenos e Banca d’Italia
10 Luglio 2018

Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.

Anche quest’anno, come di consueto, sia il “Centro Ricerche Economiche Nord Sud” (CRENoS), che la Banca d’Italia hanno presentato le loro analisi delle condizioni economiche che hanno caratterizzato dal punto di vista reale e da quello finanziario il sistema economico dell’Isola nel 2017. Come sempre, i rapporti sono riferiti prevalentemente all’analisi dei dati macro […]
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Finalmente! Nel PD sardo il segretario si sceglie a “istrumpas”
10 Luglio 2018

Amsicora su Democraziaoggi.
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Digiuno e presidio contro i porti chiusi

SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-ESODOXXI
Digiuno e presidio contro i porti chiusi
di ALEX ZANOTELLI ET ALTRI

Comune.info.net., ripreso da eddyburg. L’appello di un gruppo di religiosi militanti, che invitano noi tutti a un gesto concreto di solidarietà nella lotta per tenere aperti i porti e tese le mani verso i dannati dallo sviluppo in cerca di rifugio (a.b.)
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Addio al nostro amico Peppino Ledda

img_6956lutto E’ morto questo pomeriggio il nostro carissimo e fraterno amico, di sempre, Peppino Ledda. Alla moglie Giovanna, alla figlia Luciana, al fratello mons. Mario e a tutti i suoi cari e agli amici dovunque si trovino, le nostre sentite condoglianze e l’affettuosa vicinanza nel momento di infinita tristezza perché Peppino non è più con noi.
I funerali domani martedì 10 luglio alle ore 16 nella Chiesa parrocchiale di Sant’Anna, Stampace, in via Azuni.
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NewsLetter

logo76Newsletter n. 102 del 9 luglio 2018

Care amiche ed amici,

Contus stampaxinus: don Arthemalle a Roma

di Franco Meloni.
img_6955Don Arthemalle era un prete povero. Viveva della piccola elargizione che mensilmente gli assicurava il parroco (presidente dei parroci della Collegiata di Sant’Anna) il cui importo aumentava in relazione alla numerosità dei funerali e delle messe in suffragio da lui celebrati, ma sempre di miserie si trattava. Comunque tanto gli bastava per condurre una vita dignitosa e di cui ogni giorno ringraziava il Signore. Certamente non poteva permettersi alcun extra, con l’eccezione del tabacco da fiuto, che assumeva in dosi quotidiane, con assidua frequenza, seppur in misura assolutamente controllata. Ad ogni “fiutata” corrispondeva uno o più sonori starnuti, che mascherava malamente coprendosi il naso con uno dei suoi variopinti grandi fazzoletti. Ne ricordo uno rosso a pois bianche. Non di rado si divertiva a ficcare un pizzico del suo tabacco nel naso di qualche chierichetto, così… “alla fidata” e mentre il malcapitato starnutiva lui se la rideva sonoramente, come si diceva “a scraccallius”. Ma torniamo alla povertà di don Arthemalle. [segue]

Oggi lunedì 9 luglio 2018

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Sardegna. A sinistra si affilano le armi, con Francesco e Massimino finalmente di nuovo rossi
9 Luglio 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Ricordando Paolo De Magistris

paolodemagistris-27-giu-18A L’Unione Sarda e in Consiglio comunale celebrata la memoria di Paolo De Magistris, il sindaco che fu… un uomo “qualunque” posto controvoglia sul moggio sociale
di Gianfranco Murtas su Fondazione Sardinia.

Nella sala “Giorgio Pisano” de L’Unione Sarda dapprima (sabato 16 giugno), in cattedrale per una messa di suffragio (giovedì 21), infine nell’aula consiliare del municipio (martedì 26) il nome e la personalità complessa e cara di Paolo De Magistris hanno campeggiato riportando all’attualità la sua colta e delicata umanità, il suo profilo morale, la sapienza amministrativa, quel tanto di cultura non soltanto civica, ma prima di tutto civica, ch’egli recò con sé e condivise però, con impagabile generosità, con i cagliaritani attraverso molti suoi libri ed innumerevoli conferenze.
[segue]

Migrazioni. Tragicamente. In nessun luogo al mondo muoiono nell’atto di migrare tante persone come nel Mediterraneo

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MIGRAZIONI
numeri motivi e problemi

di Pietro Greco su Rocca.

A fine giugno 2018 erano già oltre mille i migranti morti nel Mediteraneo, secondo i dati forniti dll’Unhcr, Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati. Dal 2014 ad oggi hanno perso la vita in quello che i romani chiamavano il Mare Nostrum, il nostro mare, all’incirca 15.500 migranti. Una media di oltre 4.000 persone l’anno. Una ecatombe.
Se un alieno proveniente da un altro pianeta avesse letto i giornali, non solo italiani, nelle ultime settimane e avesse dato credito alla quantità di spazio dedicata all’attraversamento del Mediterraneo da parte di migranti, si sarebbe fatta l’idea che quei mille morti nei primi sei mesi del 2018 sono lo scotto necessario di un assalto scomposto alla fortezza Europa e, in particolare, all’Italia.
[segue]

Europa Europa non consegnarti all’inciviltà!

Félix Vallotton (Losanna 1865-1925) il ratto d' Europa
EUROPA
giocando a scaricabarile

di Roberta Carlini su Rocca

Facce stravolte, cravatte allentate, tailleur stropicciati. Il copione degli accordi raggiunti a notte fonda, di solito riservato alle trattative sindacali, è utile alla retorica del salvataggio in extremis, del duro lavoro fatto per evitare il baratro, dei leader volenterosi. Ma la sostanza arriva poi con la luce del giorno, e il tanto atteso e temuto Consiglio europeo di fine giugno si è concluso, all’alba del 30, con scarsa sostanza. Quella bastevole a evitare la rottura. A scongiurare il pericolo che l’Europa, nata sulla moneta, morisse sui profughi. Ma mentre decine e decine di persone morivano di morte non simbolica, nel mar Mediterraneo, la vita dell’Unione continuava senza un messaggio di salvezza per loro. L’accordo è presto detto: si farà di tutto per evitare gli sbarchi, dando pieni poteri a una Guardia costiera libica alla cui efficacia e umanità non crede nessuno (anzi, ci sono prove di una sua complicità passata con gli scafisti); e per chiudere chi riesca a sbarcare in centri controllati – eufemismo per dire «prigioni» – chiamati ora «piattaforme di disimbarco». In queste, che dovranno sorgere ai bordi del Mediterraneo, dunque anche in Italia, si scremeranno gli aventi diritto all’asilo e si ributteranno indietro tutti gli altri. Questi gli impegni, la cui attuazione pratica è ancora tutta da scrivere e finanziare.
L’inizio estate del 2018, l’anno che ha portato nel cuore dell’Unione il vento partito dagli Stati Uniti con l’elezione di Trump, ci ha consegnato questo scenario. Si è temuto che il nuovo governo italiano rompesse i patti sull’euro, invece è sui migranti che si è aperta la crisi nell’Unione. E l’Italia è al centro, non solo perché primo grande Paese europeo nel quale la destra xenofoba ha preso il
governo, ma anche per motivi puramente geografici, come piattaforma necessaria di arrivo. Il linguaggio diretto dei nuovi governanti, senza le mediazioni né le formalità rassicuranti legate alla diplomazia, ma an- che a regole istituzionali finora rispettate anche nei momenti più drammatici, ci met- te davanti a una verità nuda: è l’Italia l’anello debole sul quale si può spezzare la catena lentamente costruita dagli anni Cinquanta del secolo scorso, quell’unione che i fondatori volevano come antidoto al veleno della guerra e dei nazionalismi e che i popoli, o gran parte di essi, sente come nuovo veleno, come una catena essa stessa, rompendo la quale si potrà tornare a un passato migliore.

il morbo incubato
Questa è la caratteristica che unisce la nuova destra che governa gli Stati Uniti, che ha spinto per la Brexit in Gran Bretagna, che è stata respinta in Francia, che governa il «gruppo di Visegrad» (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) e che incalza la Cancelliera Merkel in Germania: il sogno è ambientato nel passato, non nel futuro. Solo pochi anni fa Obama salutava la sua rielezione con un bellissimo discorso e una frase memorabile: il meglio deve ancora venire. Eravamo nel 2012, il primo presidente nero della storia statunitense veniva rieletto nonostante lo sconquasso della crisi del 2008 che aveva salutato il suo insediamento; o forse proprio per questo, dato che la pragmatica risposta del piano Arra di Obama aveva attutito i colpi durissimi della crisi, e avviato una ripresa piena di limiti e difetti ma pur sempre con il segno positivo.
Negli stessi mesi, l’Europa si ammalava della malattia che – forse, insieme ad altre cause – l’ha portata fin qui. Contrastava la crisi a colpi di austerità, comprimeva o negava i principi stessi scritti nella sua carta oltre che nel suo dna: solidarietà, in primo luogo. Al punto di arrivare sull’orlo del baratro, a un passo dal collasso finanziario e poi anche po- litico, su una questione che, dal punto di vista numerico e sostanziale, era minima: il debito della Grecia, enorme per quel Paese ma microscopico in confronto alla potenza e alla ricchezza dell’Unione europea, e anche solo della zona dell’euro. Una crisi che si sarebbe potuta risolvere in pochi mesi e minor sacrificio fu lasciata a bagnomaria, per non compromettere l’immagine e il ruolo di ‘falco’ della cancelliera Merkel che doveva affrontare un voto politico interno. Poi, il tentativo del popolo greco di autodeterminarsi, in presenza di un indebitamento estero enorme e conseguenti vincoli dei mercati finanziari, fu respinto. Se ne uscì, con costi sociali maggiori di quelli che avrebbe comportato un’Unione coesa e pragmatica – se avesse fatto politiche anticicliche come quelle del liberal Obama, senza bisogno di evocare ricette socialdemocratiche su cui pure il modello europeo è nato; ma soprattutto con costi politici non limitati alla sola Grecia (nella quale anzi il governo Tsipras è riuscito a ge- stire e sopravvivere a una crisi terribile). Ovunque, nei Paesi più ricchi e a basso tasso di disoccupazione come in quelli più indebi- tati e disoccupati, ai margini dell’Unione – tra i quali purtroppo anche l’Italia – il morbo incubato tra il 2011 e il 2012 ha continuato a dilagare. E l’Europa è diventata, nella perce- zione comune, l’untore, la responsabile del male. Soprattutto presso il popolo italiano, che primeggiava in europeismo e che solo pochi anni fa (era il 1997) accettò di pagare una «tassa per l’Europa», un’addizionale sulle
imposte sul reddito per entrare nell’euro (poi fu restituita, fu parte del ‘dividendo dell’euro’ per la riduzione dei tassi di interesse che ne seguì). E se al di sotto delle Alpi si incolpava e si incolpa l’Europa dei disastri del passato e delle paure per il futuro, insomma per essere diventati o poter diventare più poveri, al di là dei valichi la si incolpa di non tenere a dovuta distanza la povertà, quella che arriva dal mare.

sogno del passato
Paure che diventano terrori, in gran parte alimentate come fantasmi dal buio e destinate a sparire alla luce del giorno e della ragione. Ma anche, almeno in parte, fondate su fatti reali e sofferenze vive: gli ultimi dati dell’Istat certificano che la povertà assoluta, in Italia, coinvolge adesso 5 milioni di famiglie. Far cambiare rotta all’Europa si rivelò impossibile, anche perché nessuno ci ha seriamente provato; di fronte al successo dilagante del movimento opposto: tornare indietro, sfasciare quel progetto fallito, rompere il brutto giocattolo e le sue istituzioni destinate a non reggersi in piedi se non per finta. Di qui il sogno del passato, la «retrotopia» per dirla con Bauman. Che trae alimento, più che dalla nostalgia di un’effettiva età dell’oro, dalla sua semplicità: ecco un nemico, individuato e conosciuto, con cui prendersela. Poco importa che, a ragionarci un po’, la chiusura delle frontiere commerciali con la Germania, la limitazione della nostra emigrazione di studenti e operai, il collocamento del nostro debito su un mercato solo italiano, non ci avvantaggerebbero né aiuterebbero affatto. In mancanza di fiducia sul «meglio» che deve venire, rivivono i miti di quello che è già stato e se n’è andato.

la triarchia italiana
Senonché, tornare indietro è impossibile. Se ne sono accorti anche i nuovi governanti, che hanno dovuto dare rassicurazioni sulla volontà dell’Italia di restare nell’euro: è già nata, nel governo, una triarchia, che affianca lo sconosciuto «tecnico» Tria alla famosa coppia Salvini-Di Maio. I due vicepresidenti del consiglio hanno i voti e il peso politico, ma Tria ha i cordoni della cassa e per ora li tiene stretti, rinviando l’attuazione delle mirabolanti promesse elettorali. Così, non potendo se non in minima parte procedere con il pacchetto economico, ossia la flat tax da un lato e il reddito di dignità dall’altro, si procede sulle misure «a costo zero». Un nuovo intervento sulle regole del mercato del lavoro, che forse ridurrà un po’ l’abuso dei contratti a termine senza però intervenire sulle cause che portano le imprese a elargire solo «lavoretti», di pochi mesi o poche ore, e pochissimi lavori buoni. Ma soprat- tutto, interventi contro l’immigrazione: non potendo procedere contro quelli che, a torto o a ragione, vengono individuati come i nemici potenti (l’euro, la Germania, Bruxelles), si procede contro chi non può reagire, protestare, togliere il voto. Gli immigrati e il popolo dei barconi. Che, dice Salvini, vengono qui a portarci la miseria.

vecchi e nuovi poveri
In parte è vero: sono poveri, perché hanno perso o abbandonato tutto, o non l’hanno mai avuto. Ed è vero anche per i fortunati, coloro che in Italia sono riusciti a entrare e a vivere: oltre un terzo di quelli che l’Istat certifica come «poveri assoluti», cioè sopravvivono al di sotto della soglia di povertà, sono stranieri. Ma è anche vero che, senza i vecchi e nuovi poveri che sono arrivati in Italia, molti settori della nostra economia e del nostro welfare non esisterebbero: i piccoli imprenditori di Padova – nel cuore del Veneto leghista – hanno detto che se rumeni e bulgari tornassero a casa le loro fabbriche chiuderebbero, piene come sono di operai non italiani, ormai integrati e stipendiati; i calcoli dell’Inps mostrano che il sistema previdenziale si regge sui contributi pagati dagli stranieri; in molte scuole le classi si formano grazie ai loro figli, mentre in loro assenza dovrebbero chiudere e ci sarebbero insegnanti in esubero; senza contare l’economia nera dello sfruttamento dei braccianti, dalla pianura pontina a Rosarno, fino alle stalle delle preziose mucche da parmigiano della pianura padana.
E qui cominciano le distinzioni, che complicano il messaggio semplicistico della campagna elettorale. Si sente ripetere: quelli che lavorano li vogliamo, gli altri, quelli sui barconi, no. Ma si dimentica di dire che un modo legale per entrare a lavorare in Italia non c’è, essendo ridotto al minimo il sistema dei flussi. Altra distinzione usuale: sì ai profughi «veri», in fuga da guerre e persecuzioni, no ai migranti economici. Salvo poi voler tracciare questa distinzione fuori dai nostri confini, esattamente in quelle terre dove il diritto non c’è e affidando la cernita a quegli aguzzini dai quali i profughi fuggono.
Anche l’Europa civile partecipa a questa ipocrisia, cercando di delegare e spingere il problema più a sud possibile. Ne ha un vitale bisogno la cancelliera Merkel, incalzata all’interno dal suo ministro degli interni, che viene dalla regione più ricca d’Europa ed è un campione della linea dura all’interno della Germania, che ancora incolpa Angela Merkel per aver salvato dalla guerra e dalla morte i rifugiati siriani, iracheni e afghani. Voleva dagli alleati un impegno a non far muovere i profughi nel loro sogno di raggiungere la Germania, Paese nel quale ci sono parenti, amici, lavoro, benessere. Lo ha ottenuto, ma solo sulla carta: forse non sarà neanche sufficiente a placare la sua opinione pubblica, spaventata assurdamente da un’emergenza che non c’è più: chiusa la rotta dell’est, gli sbarchi da Sud si sono notevolmente ridotti negli ultimi mesi.

il compromesso
I governanti europei, il moderno Macron come la saggia Merkel come i populisti italiani, hanno la responsabilità di non aver saputo governare le paure, aiutare i propri elettori a cercare un rifugio e una rassicurazione veri e non solamente lo sfogo di un capro espiatorio con cui prendersela. Molti di loro hanno anzi alimentato queste paure, e ne hanno fatto la propria base elettorale. Ma un problema epocale come quello delle migrazioni – di tutti i tipi – non si risolve giocando a scaricabarile. Così la discussione e il fragile accordo europeo si sono concentrati su dove collocare la frontiera: appena al di sotto delle Alpi o oltre il Mediterraneo? In ciascuno dei due casi, non c’è stata nessuna volontà e disponibilità reale dei potenti e ricchi Paesi europei a farsi carico della propria quota di migranti e profughi: in questo rifiuto eccellono proprio i governi considerati dai nostri attuali leader più vicini e affini, quelli del blocco di Visegrad. Ne è venuto fuori un compromesso, la «redistribuzione dei profughi su base volontaria», che è un ossimoro dato che la volontà di prendersi una parte pur minima delle sofferenze del mondo non ce l’ha nessuno. Cooperazione tra i popoli e solidarietà con i più deboli dovrebbero essere scelti per principio, per tendenza naturale, almeno a sinistra; ma sono anche, in un mondo globalizzato e interconnesso, una strada obbligata. In questo momento, purtroppo, chiusa.

Roberta Carlini
rocca-14
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Foto in testa Ratto dell’Europa, Félix Vallotton (Losanna 1865-1925).
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Oggi domenica 8 luglio 2018

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C’è una sinistra da ritrovare
La rappresentanza sociale ha cambiato verso
8 Luglio 2018

Ci sembra interessante, nella riflessione sulla Sinistra, questo aritcolo che muove da un assunto elementare e di buon senso: “Se si vuole tornare a parlare alle masse popolari, che hanno abbandonato le liste di sinistra, la prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo”

Gianpasquale Santomassimo – Il Manifesto 29.6.2018, riproposto da Democraziaoggi.
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Non ne posso più. La maglietta rossa e l’impotenza della sinistra [di Angelo d’Orsi]
By sardegnasoprattutto / 8 luglio 2018 / Culture/
MicroMega 6 luglio 2018, ripreso da SardegnaSoprattutto
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Gli aneddoti stampacini. Uspidali civili o Clinica Aresu?

Ospedale-Civile-Cagliari204d5de0-72bc-4aa7-b3dc-ec8bfd054ab4Don Arthemalle forse non era il più vecchio tra i sacerdoti della Collegiata parrocchiale di Sant’Anna, ma per noi lo era. Teoricamente non avrebbe avuto diritto al titolo di “don” ma solo di “signor”, in quanto – ci avevano spiegato – l’uno era riservato ai preti che avevano studiato e che erano stati licenziati dal Seminario maggiore, l’altro a chi era arrivato alla consacrazione sacerdotale senza il prescritto “cursus studiorum”, come appunto nel caso del nostro. [segue]