Monthly Archives: giugno 2018

Buone pratiche

caritas_buttonCOMUNICATO STAMPA della CARITAS
ACCOGLIENZA di due giovani migranti dall’Etiopia nell’ambito del Progetto Protetto. Rifugiato a casa mia-Corridoi umanitari.
Aeroporto Cagliari-Elmas, 27 giugno 2018 h.14.20
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Mercoledì 27 giugno 2018 alle ore 14.20 arriveranno da Addis Abeba nell’aeroporto di Cagliari-Elmas due giovani eritrei, che erano rifugiati in Etiopia, nell’ambito del Progetto Protetto. Rifugiato a casa mia-Corridoi umanitari, a cui la Diocesi di Cagliari- unica in Sardegna – aderisce attraverso la Caritas diocesana.
Saranno presenti in aeroporto l’arcivescovo di Cagliari mons. Arrigo Miglio, il direttore della Caritas diocesana don Marco Lai, la comunità dei Missionari saveriani di Cagliari che accoglierà i due giovani, e l’équipe che seguirà il percorso di accoglienza dei due ragazzi, che sarà garantito per un anno. «Il motivo per cui aderiamo al progetto – spiega don Lai – è perché, oltre a essere dalla parte del diritto alla mobilità umana universale, con questa azione la Chiesa in Italia contrasta il traffico di esseri umani e le morti in mare, permettendo l’ingresso sicuro di persone costrette a scappare dai loro Paesi, che hanno il diritto di essere accolte e aiutate».
(Segue)

Giovedì 28 giugno 2018

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- L’evento in fb. Aladinews-Aladinpensiero-Aladin aderisce e sostiene.
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coordinamento-democraziaIl Coordinamento per la Democrazia Costituzionale aderisce alla mobilitazione europea per la solidarietà del 27 giugno promossa dalle organizzazioni della società civile, parlamentari, politici ed intellettuali ed invita tutti i comitati territoriali a partecipare alle manifestazioni che si stanno organizzando in queste ore in tutte le piazze. In vista del Consiglio Europeo del 28 giugno è necessario ricordare ai capi di Stato e di Governo che l’Europa si regge sul pilastro della solidarietà, che deve essere cambiato il regolamento di Dublino secondo le indicazioni del Parlamento Europeo e devono cessare immediatamente le politiche che mirano ad impedire l’accesso in Europa ai rifugiati e richiedenti asilo; politiche responsabili di una quotidiana strage di migranti nel mar mediterraneo.
Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale
Roma, 26.6.2018
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DIBATTITO POLITICO. SinistraCheFare?

EDITORIALE de il manifesto
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Un nuovo cammino a sinistra
La disfatta del Pd. L’elettorato di centrosinistra è frastornato. Dopo la batosta del referendum costituzionale (gli attuali governanti in quella vicenda posero le prime basi dell’alleanza e del contratto), il Pd ha compiuto errori madornali, non affrontando una discussione di fondo, non scegliendo un percorso, e lasciando a bagnomaria un reggente che quando parla non si sa a nome di chi. Purtroppo, la crisi del Pd è contagiosa. Il suo fragoroso smottamento, verso la Lega, verso i 5Stelle e verso l’astensionismo, coinvolge anche le forze alla sua sinistra, che o si uniscono in modo strumentale o si dividono in modo autolesionistico

di Norma Rangeri su il manifesto
EDIZIONE DEL 26.06.2018

Abituati alle frane di un paese che si sbriciola, restiamo invece quasi stupiti quando la frana assume i connotati di un cedimento del territorio dal punto di vista sociale e politico. Come accade da alcuni anni ad ogni appuntamento elettorale. Quando la montagna smotta o il fiume allaga, ogni cosa finisce per essere travolta, i campi incolti come i terreni ben coltivati. La disfatta del Pd in Emilia Romagna e in Toscana, due regioni amministrate meglio di tante altre, dimostra che la valanga fascistoide non ha trovato argini in grado di contenerla.

Città dove il Pci-Pds-Ds-Pd era al governo da 70 anni (Imola e Siena), o da 20 come Terni, hanno scelto di cambiare.
Nulla di drammatico di per sé, perché il problema non è sbaraccare le vecchie, ossificate nomenklature. Il problema è che il cambiamento premia una Vandea. Presente e diffusa in tutto il paese. Su quali basi noi oggi assistiamo alla crescita di un partito che, dal 4 per cento del 2013, nel 2018 quadruplica? E che i sondaggi danno in costante salita? Sicuramente sulla base di fortissime tensioni sociali. Ma anche sull’odio (quel che si è scatenato contro Saviano è barbarie), sulla paura, sul livore, sull’intolleranza.

Ha fatto la sua parte la mancanza di governo di alcune questioni, come il lavoro e la sicurezza sociale, ovvero gli argini politico-culturali da sempre appannaggio della sinistra: queste vie maestre della convivenza civile e della tutela sociale non sono state difese. Anzi, è accaduto il contrario. Come dimenticare la battaglia durissima condotta da Renzi contro i sindacati, oppure la beffa del contratto a tutele crescenti, o l’affidamento dell’accoglienza al sistema malato delle cooperative (l’imprenditore campano dei centri per i migranti con la Ferrari), come la retorica renziana di «aiutiamoli a casa loro», o la brutalità del ministro Minniti che «risolveva il problema» ricacciando i migranti nell’inferno libico? Tutto questo ha desertificato il terreno del consenso, favorendo la scia salviniana, tirandogli la volata.

La persona anziana che si sente spaesata e insicura nel quartiere, quelli che temono «i neri» che rubano il lavoro (come se gli autoctoni fossero disposti a vendere pareo sulle spiagge), quelli che pensano ai diritti di se stessi e dei propri simili e se ne fregano del resto, quelli che temono la violenza (vergognosamente manipolata e usata dalla propaganda mediatica), non vogliono ascoltare, non vogliono discutere e confrontarsi: chiedono risposte immediate, semplici, rassicuranti e si offrono a chi le propone. Senza però riflettere sul fatto che le soluzioni delle destre xenofobe non danno una risposta che guarda avanti, ma giocano tutto in difesa e alzano muri: contro gli immigrati, contro l’Europa, contro i pericoli esterni (magari armando ogni singolo cittadino che vuole autodifendersi).

L’elettorato di centrosinistra è frastornato. Dopo la batosta del referendum costituzionale (gli attuali governanti in quella vicenda posero le prime basi dell’alleanza e del contratto), il Pd ha compiuto errori madornali, non affrontando una discussione di fondo, non scegliendo un percorso, e lasciando a bagnomaria un reggente che quando parla non si sa a nome di chi.

Purtroppo, la crisi del Pd è contagiosa. Il suo fragoroso smottamento, verso la Lega, verso i 5Stelle e verso l’astensionismo, coinvolge anche le forze alla sua sinistra, che o si uniscono in modo strumentale o si dividono in modo autolesionistico.
La sinistra che non si riconosce nel Pd, non ha bisogno di un leader solitario. Ha urgenza di mettersi insieme, di qualcuno capace di prendere per mano questo mondo disorientato. Un compito che, in questa fase, non può essere assolto dal presidente Grasso, perché si tratta di riavviare tanto una riflessione teorica quanto un riassetto politico. Ora c’è bisogno di persone giovani, donne e uomini impegnati sul territorio, politicamente rodati. Ci sono, ma purtroppo concentrati a costruirsi ciascuno il suo partitino.

Nel tentativo di incontrare chi, dentro e fuori del partito democratico lavora per una svolta vera, ieri Zingaretti, il presidente del Lazio, una delle regioni che più e meglio ha retto all’arrembaggio della destra, ha invitato il Pd a considerare chiuso un ciclo storico e ad abbandonare «personalismi e settarismi», i due mali endemici della sinistra. Nel Lazio si è rivelata un’idea vincente. Naturalmente al netto di un’astensione-monstre.

Per ritrovare una luce in fondo al tunnel bisogna allenare i muscoli a una ripida e lunga salita, evitando di cadere nella trappola «molti nemici, molto onore», cioè regalando i 5Stelle alla Lega, considerandoli alla stessa stregua. Per due semplici ragioni. Perché, come rivelano i flussi elettorali, secondo l’istituto Cattaneo, in alcune città il voto pentastellato è andato al candidato leghista (nelle città toscane), mentre altrove è andato al centrosinistra (nelle città del Sud come Brindisi e Teramo). E perché significherebbe dire che oggi in Italia il 70% dei cittadini è di destra, mentre il nostro è sempre stato un paese spaccato a metà, con una larga fetta di opinione pubblica che si tira fuori, che si astiene.

Nel municipio di Roma dove ha vinto Caudo, ex assessore ai tempi di Marino (una macchia orribile, tra le varie per il Pd), erano chiamati al voto più di 160mila elettori, come a Imola o a Terni, ed è andata al seggio una risicata minoranza, l’80% è rimasto a casa. Non per scelta, per disperazione. Ma se non vogliamo farci sommergere dall’onda, è da queste piccole vittorie che si può ripartire. Dimostrano, nonostante tutto, nonostante la Vandea montante, che c’è ancora vita a sinistra.
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lampadadialadmicromicro133L’immagine e l’articolo sono tratti da il manifesto, edizione del 26 giugno 2018.
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nicola migheli marx“Amici miei, marxisti immaginari”.
di Tonino Dessì, su fb.

Mi sto rendendo conto che ci sono marxisti troppo sedicenti tali i quali dimostrano di non averlo mai letto, Marx, o di non averne assimilato gran che, nemmeno come i bambini che vi son mandati imparano qualche concetto basilare al catechismo.
D’altra parte è vero che la frequentazione del catechismo non ha mai garantito che si diventi buoni cristiani, qualunque cosa ciò possa significare.
Marx, non diversamente da tutte le persone appartenenti alle correnti che diedero vita alla Prima Internazionale (democratici radicali, socialisti utopisti, comunisti, anarchici, rivoluzionari, insurrezionalisti), della sua filantropia faceva un tratto distintivo rispetto alla spietatezza del capitalismo in pieno sviluppo, all’ipocrisia delle religioni, al cinismo della borghesia.
Tra gli scrittori contemporanei, lui ed Engels prediligevano Charles Dickens e non era una caso: fu tra i più importanti letterati del tempo a denunciare esplicitamente e senza veli le miserabili condizioni di esistenza non solo del proletariato urbano, ma anche di quella massa di alienati che dalle campagne si affollava nelle città a costituire il grande “esercito di riserva” dello sviluppo industriale in Gran Bretagna.
Erano, quegli uomini, dei “buonisti” conclamati, degli umanitari integrali, anche quando propugnavano mezzi estremi per capovolgere i rapporti di classe e per cancellare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
“Proletari di tutto il mondo unitevi” non significava certamente “scannatevi tra di voi”.
Che possa esserci chi pretenda di ispirarsi a Marx per avallare Salvini è quanto di più sconcertante possa capitare di scoprire in questi giorni.
Fu proprio Marx a mettere in guardia dal fatto che mettere i più deboli gli uni contro gli altri, seminare l’odio reciproco fra gli sfruttati, alimentare la guerra civile interna ai popoli, elevare barriere xenofobe e razziste, è la costante storica delle classi dominanti per perpetrare e consolidare il proprio incontrastato dominio.
Che diamine: è l’ABC.
Un ripasso dei fondamentali a molti gioverebbe ancora, prima che si trasformino definitivamente in agenti del nemico di classe e dei nemici dell’Umanità.
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Oggi martedì 26 giugno 2018

lampada aladin micromicrodemocraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2img_4633Anpi logo nazcostat-logo-stef-p-c_2-2serpi-2ape-innovativa
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disperazioneProvince. Che bravi i nostri governanti regionali! Hanno rinunciato ai fondi dello Stato ed ora sono col sedere per terra
26 Giugno 2018.

Amsicora su Democraziaoggi.
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Ricordando don Lorenzo Milani a 51 anni dalla morte. Ripercorriamo il ricordo che ne fece papa Francesco lo scorso anno

francesco-su-donmilani-23-4-17“Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”, con questa frase di don Lorenzo Milani, Bergoglio ricorda a 50 anni dalla morte “l’educatore appassionato” e la sua ‘Lettera a una professoressa’, a lungo osteggiata da gerarchie vaticane e civili”. Pubblicato il 23 apr 2017 su YouTube a cura di RepTV e CTV (Centro Televisivo Vaticano).
“Non mi ribellerò mai alla Chiesa perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la Chiesa”, con questa frase di don Lorenzo Milani, Bergoglio ricorda a 50 anni dalla morte “l’educatore appassionato” e la sua ‘Lettera a una professoressa’, a lungo osteggiata da gerarchie vaticane e civili. (A cura di Alberto Melloni)
IL COMMENTO su La Repubblica.it di Alberto Melloni
Papa Francesco e Don Milani, Melloni: “Sanata un’ingiustizia”.

Ascesa e caduta dello Stato fascista nell’analisi di uno storico letta da un’economista

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Le contraddizioni interne dello Stato fascista

di Gianfranco Sabattini*

Il fascismo è stato un fenomeno “molto più complesso del regime totalitario” che la storiografia ha talvolta rappresentato e che l’immaginario collettivo spesso ha condiviso, accreditando l’idea che la modernizzazione dell’Italia sia stata da esso interrotta. al contrario, Guido Melis, docente di Storia delle istituzioni politiche e di Storia dell’amministrazione pubblica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in “La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista”, sostiene che il fascismo è stato un fenomeno “più articolato e permeabile, ‘poroso’ persino; più ‘monoliticamente pluralista’…; più abitato da interessi differenti di quanto non si sia spesso ritenuto”; esso ha incarnato una pluralità di interessi che, per quanto “tenuti a freno” dall’esoscheletro della dittatura, hanno caratterizzato una dialettica interna che ne ha corroso il progetto di poterli conciliare attraverso il “corporativismo”, sino a condurlo al baratro. Successivamente, quegli stessi interessi, in concorrenza tra loro e che la dittatura aveva tentato invano di “addomesticare”, avranno la possibilità di riproporsi e di continuare a caratterizzare la tradizionale vita politica del Paese, reinnestandola sul “tronco” dell’instabile situazione politico-sociale del primo dopoguerra, che il fascismo aveva inteso di superare.
La narrazione di Melis “fila liscia” e convincente, perché supportata da prove documentali, snodandosi dall’avvento del fascismo sino alla sua caduta. “Il 30 ottobre del 1922 – afferma l’autore – Mussolini, salendo per la prima volta al governo ‘senza la tradizionale carriera’, homo novus per eccellenza, avrebbe impersonato, per contenuti, modi di porsi, persino per stile, un modello radicalmente alternativo a quello del vecchio mondo liberale”; egli accedeva, attraverso la “piazza”, al governo di uno Stato alla cui organizzazione il fascismo-movimento non aveva dedicato una sufficiente riflessione, convinto di poterne facilmente indirizzare i “meccanismi” sottostanti, solo grazie ad un loro rigido controllo. “Non si trattava – osserva Melis – di un’idea nuova, in quanto era ormai diffuso a livello europeo il convincimento che le emergenze nate con la fine della Grande guerra potessero essere affrontate in modo appropriato solo attraverso una forte premiership.”
Questo convincimento ha dato inizio a una radicale trasformazione delle istituzioni pubbliche, che il Parlamento, profondamente diviso, e l’introduzione di nuove regole elettorali non hanno potuto impedire; il risultato è stato la messa a punto di una struttura di governo, non più fondato sul tradizionale “check and bilance”, ma sull’azione di un esecutivo che assumeva direttamente le decisioni, per poi proporle al Parlamento perché le trasformasse in legge. I cambiamenti apportati alla struttura del governo nel primo periodo dell’avvento del fascismo al potere – afferma Melis – hanno riguardato, dunque, gli “equilibri di potere al suo interno, il gioco spesso sotterraneo delle influenze e delle concorrenze [...] tra ministri e ministri e tra ministri e ministeri. Qualcosa di impercettibile all’esterno [...], che spesso sfuggiva alla prescrizione normativa e investiva le prassi di governo nel loro farsi quotidiano”.
A condurre il mutamento è stato lo stesso Mussolini, il quale, per tutto il ventennio delle dittatura, ha esercitato un’”incisiva attività direttiva, coadiuvato prevalentemente dalla sua “Segreteria particolare” e dal Ministero delle finanza, in quanto “pendant necessario ai poteri accresciuti della Presidenza”. Sino alle leggi eccezionali, adottate tra il 1925 e il 1926, il governo fascista si è conservato, almeno formalmente, entro i limiti della Costituzione vigente, fatta eccezione per l’istituzione, nel 1923, della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che è valsa ad erodere parte delle prerogative del sovrano. L’equilibrio tra fascismo e monarchia, realizzatosi dopo la nomina di Mussolini a capo del governo, con l’adozione delle leggi eccezionali ha rischiato di rompersi, salvo ricomporsi “su nuove basi con la piena adesione del Re alla svolta autoritaria”.
La ricomposizione dell’equilibrio tra fascismo e monarchia, fondata sulla legge del 24 dicembre 1925 (disciplinante le attribuzioni e le prerogative del capo del governo), si è poi protratta sino al 25 luglio del 1943, nonostante che, con una legge del 1926, fosse stato dato all’esecutivo il potere di emanare norme giuridiche che facevano rientrare nelle prerogative del governo anche quella “di emanare disposizioni concernenti l’organizzazione ed il funzionamento dei pubblici uffici”. La modifica dell’assetto della divisione tra i poteri dello Stato è stata ulteriormente radicalizzata con la successiva “costituzionalizzazione” del Gran Consiglio del fascismo; questo organo, in virtù delle attribuzioni assegnategli, ha rappresentato un vulnus irreparabile della costituzionalità dello Stato, in quanto un organo di partito diveniva una componente delle istituzioni che lo esprimevano.
E’ stata così inaugura la prassi di un governo diarchico, rappresentato dalla coesistenza della Corona e del fascismo nel governo del Paese; ma Mussolini, “unendo alle sue prerogative istituzionali quelle derivantegli dalla direzione politica del Gran consiglio”, ha potuto esercitare “naturalmente nella diarchia un protagonismo di fatto, concentrando nella sua persona tutto il potere esecutivo e in gran parte quello legislativo”. Solo nelle ore drammatiche del 25 luglio 1943, la Corona riacquisterà i suo poteri, rimasti pressoché ininfluenti durante il ventennio dell’era fascista.
Parallelamente al mutamento istituzionale impresso all’organizzazione dello Stato italiano da Mussolini, la politica fascista ha dato origine, nell’arco dell’intero ventennio, alla proliferazione di una miriade di enti pubblici; la nuova dirigenza tecnico-amministrativa ad essi preposta, ha proceduto alla regolazione dei diversi aspetti della vita della società civile italiana, ai fini della la sua trasformazione in senso corporativistico. Questa trasformazione, iniziata nel 1922, con la costituzione della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, si è protratta fino al 1939, con la costituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni; il fatto che per l’introduzione dell’ordinamento corporativo siano stati necessari circa 17 anni dell’intero arco temporale della dittatura evidenzia – afferma Melis – che la “natura processuale” della corporativizzazione della società italiana, già di per sé stessa, ne denotava “le difficoltà di attuazione”.
Se l’ordinamento corporativo doveva costituire la riforma con cui “conferire nuovo ordine all’intero sistema economico-politico-istituzionale”, i tempi lunghi e le difficoltà che il regime ha dovuto superare legittimano l’ipotesi che essa (la riforma) è stata “tardiva, tormentata e in gran larga misura destinata a restare irrisolta”, in quanto, secondo Melis, si sarebbe dimostrata inadeguata per “imporre una visione unitaria” del progetto corporativo; ciò sarebbe accaduto per via del fatto che l’ordinamento corporativo (nei limiti in cui è stato possibile attuarlo) si sarebbe dimostrato inadeguato rispetto alla risoluzione del “paradosso teorico, prima ancora che pratico, di uno Stato che, restando di fatto custode e garante della proprietà privata”, voleva proporsi come regolatore dell’economia attraverso l’introduzione della programmazione. L’adozione di questa e dello strumento col quale esercitarla, il “Piano”, ha suscitato un esteso conflitto tra tutte le parti coinvolte; il che ha compromesso i meccanismi decisionali coi quali si sarebbe dovuta governare l’economia nell’Italia fascista.
Il risultato – continua Melis – è stato “un compromesso” che non ha condizionato l’autonomia decisionale dell’imprenditorialità privata, la cui ostilità ha significato una sostanziale sconfitta per la soluzione dirigistico-istituzionale disegnata dall’ordinamento corporativo; ciò è accaduto perché, secondo Melis, il fascismo pretendeva di regolare un’economia che, dopo diversi anni dall’inizio della realizzazione del progetto corporativo, risultava ancora controllata dalla “vecchia élite industriale e agraria del dopoguerra con il suo sistema di potere”; una élite, appunto, che rifiutava di introdurre nelle modalità di gestione delle attività produttive lo strumento, il piano, al quale lo Stato fascista avrebbe dovuto adeguarsi, perdendo la sua originaria forma burocratica, per divenire l’ispiratore dei contenuti della pianificazione e la guida della sua attuazione. Tutto ciò sarebbe dovuto avvenire fuori da ogni burocratico statalismo, in quanto, col piano, l’”autogoverno economico da parte dei produttori” avrebbe dovuto sostituire la struttura gerarchica delle loro relazioni, propria di una società divisa in classi in conflitto tra loro.
La lentezza e le opposizioni che ne hanno caratterizzato la realizzazione non hanno mancato di suscitare reazioni da parte dei più fedeli sostenitori dello Stato corporativo, propensi a mobilitarsi perché si “andasse oltre” l’attuazione del corporativismo storicamente posto in essere; ma questa pretesa ha fatto solo emergere la realtà di un corporativismo irrealizzato, sia nella sua versione più radicale, che in quella di una versione alternativa più moderata. Ciò accadeva – afferma Melis – quando l’Italia era già coinvolta in una guerra, che segnava un limite invalicabile alle velleità rivoluzionarie del fascismo. “Il suo tempo ‘rivoluzionario’ il fascismo lo aveva avuto nei vent’anni precedenti, ma lo aveva lasciato scadere. Ora era troppo tardi”.
In conclusione, secondo Melis, all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, il fascismo aveva inteso risolvere i problemi che agitavano la società italiana attraverso un radicale stravolgimento delle istituzioni dello Stato costituzionale; ciò, al fine di introdurre in Italia un ordinamento corporativo che, nei limiti in cui è stato realizzato, si è tradotto in una “macchina imperfetta”, in quanto il dirigismo statale che essa implicava è stato rifiutato da quelle stesse forze cui andavano ricondotti i problemi che avevano concorso a creare le condizioni per l’affermazione del fascismo. Quest’ultimo è, dunque, fallito per le sue contraddizioni interne, ovvero perché la risposta istituzionale che esso ha inteso proporre per la soluzione dei problemi della società italiana non è stata condivisa, anzi rifiutata, da quelle stesse forze che originariamente ne avevano consentito l’affermazione. Dopo la caduta della dittatura fascista, l’ordinamento corporativo realizzato si è “rotto” come il vaso di Pandora; sono così riemerse, riproponendosi nella riconquistata democrazia italiana, quelle stesse forze che, dopo aver favorito l’ascesa del fascismo, ne avevano causato la caduta.
A questo punto, viene spontanea una domanda. Queste forze sociali, liberate dal fantasma del dirigismo statalista proposto dal fascismo, hanno poi contribuito, in democrazia, a favorire la modernizzazione politico-sociale del Paese? E’ plausibile nutrire qualche dubbio in proposito. Certo, se si pensa che nei primi decenni di vita democratica, l’Italia è passata, da una posizione che la vedeva “relegata” alla periferia del mondo, ad essere uno dei Paesi economicamente più avanzati, è indubbio che la modernizzazione vi è stata; ma è stata solo di natura economica. Le opportunità offerte dal passaggio del Paese dalla periferia al centro del mondo sono state originate, però, non dalle forze imprenditoriali democratiche, ma dall’estero, ovvero dal sistema di relazioni internazionali all’interno del quale il Paese ha avuto la “fortuna” di trovarsi collocato.
Di tali opportunità si sono avvalse quelle forze esprimenti la continuità dei valori e delle propensioni di quelle pre-fasciste e di quelle che si erano opportunisticamente “intruppate” nel fascismo; ma gli egoismi di cui erano portatrici (responsabili anche le ideologie contrapposte dopo il ricupero della democrazia) sono valsi a riproporre un problema della società italiana mai risolto, ovvero le divisioni sociali preunitarie, che il processo di unificazione del Paese aveva conservato intatte e che ne caratterizzeranno la vita politica, prima, durante e dopo l’esperienza della dittatura fascista, costituendo e che costituiranno una delle cause della debolezza su piano politico-sociale dell’Italia di oggi.
Ironia della sorte, fra i lasciti del fascismo alla riconquistata democrazia vanno annoverate l’organizzazione e l’esperienza connesse alla “nascita dello Stato imprenditore”, al cui operato, dopo essere sopravvissuto al fascismo, va riconosciuto il merito di aver promosso e presidiato il processo di sviluppo economico del dopoguerra, e di aver rappresentato l’unico baluardo al prevalere degli egoismi dell’imprenditorialità privata; non è casuale che tale imprenditorialità, complici le forze antifasciste, sia stata successivamente “liquidata”, portando il Paese ad “incagliarsi” nella palude di una crisi nella quale sembra destinato a sprofondare sempre più.
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* Anche su Avanti! online

Domani martedì 26 giugno 2018

don-paolo-demagistris
- Approfondimenti1.
- Approfondimenti2.

Oggi lunedì 25 giugno 2018

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lampadadialadmicromicro132Fino a mercoledì 4 luglio 2018 l’aggiornamento quotidiano della News non sarà tempestivo come di consueto, per ragioni di carattere organizzativo. La News comunque non chiuderà per ferie neppure quest’anno.
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Il centrosinistra si decompone nel Paese e nell’Isola. In Sardegna quale alternativa al centrodestra?
carrozza pigliaru25 Giugno 2018

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Gli Editoriali di Aladinews

Mondo Antonio Memoli BC conoscenza
Ambiente & Solidarietà di Roberto Paracchini, Editoriale su Aladinews.

Ormai tutti gli scienziati affermano che il cambiamento climatico, che le ere geologiche hanno visto susseguirsi in tante diverse fasi, viene fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani e dal loro modo di intendere il rapporto con la natura: come un qualcosa non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllare e dominare.[...]

Il Coro Ad Libitum di Studium Canticum all’InternationalChoirFestival dell’Alta Val Pusteria

logoIl Coro Ad Libitum di Studium Canticum, diretto da Stefania Pineider, all’InternationalChoirFestival della Val Pusteria. Dal 21 al 23 giugno 2018: un reportage a ritroso. https://wordpress.com/view/aladinews.wordpress.com
ad-libitum-22-giu-2018

Ambiente & Solidarietà

Mondo Antonio Memoli BC conoscenza
di Roberto Paracchini

Ormai tutti gli scienziati affermano che il cambiamento climatico, che le ere geologiche hanno visto susseguirsi in tante diverse fasi, viene fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani e dal loro modo di intendere il rapporto con la natura: come un qualcosa non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllare e dominare.
A monte di questo modo di rapportarsi con l’ambiente, che tanti danni sta facendo e continua a fare, c’è un’ idea di che cosa è l’ambiente molto datata che – come vedremo – che anche Papa Francesco ha implicitamente criticato nella sua enciclica Laudato si’ .
Per molto tempo con il termine “ambiente” si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente naturali, considerati all’origine di tutto ciò che è e che si trova intorno all’essere umano. Inoltre anche l’origine etimologica della parola indica questo “vizio” d’origine. Il termine “ambiente” deriva infatti dal latino ambiens, che significa circondare. Lo stesso prefisso amb (simile al greco amphi) indica “intorno, da ambo i lati”. Inoltre quest’origine non va circoscritta a un unico Paese visto che è praticamente identica in diverse lingue europee: in inglese, ad esempio, environment deriva dal francese envìronnement vocabolo composto dal prefisso en (intorno) e dal verbo virer (girare), in tedesco Umwelt, è composto dal prefisso um che precede il sostantivo Welt (mondo), indicando “ciò che sta intorno”.
Quanto appena detto permette di rilevare un aspetto che ha caratterizzato gran parte della cultura europea: l’antropocentrismo. Nelle diverse etimologie del termine vediamo, infatti, che l’essere umano non è visto come parte integrante della biosfera, ma come entità che, pur ponendosi al centro del mondo, ne risulta in realtà esterno in quanto l’ambiente è ciò che sta intorno. Un passaggio non secondario e che, attraverso una serie di mediazioni (il cui elemento centrale – schematizzando – è l’inserire una differenza qualitativa sottolineata dal considerare l’ambiente come un qualcosa di esterno all’essere umano, quindi di altro da sé) porta alla necessità di controllare e – come accennato – soprattutto di dominare l’ambiente plasmandolo e gestendolo sulla base delle proprie superiori necessità. Necessità considerate eticamente accettabili in quanto, cartesianamente, l’essere umano è pensante (res cogitans o, se si preferisce, ha un’anima) mentre l’altro da sé, l’ambiente, no (è res extensa).
Col passare degli anni questa visione antropocentrica è stata parzialmente modificata dalla seconda rivoluzione industriale dell’Ottocento e in particolare dalla maggiore consapevolezza (dovuto anche al nascere di nuovi movimenti sociali in possesso di una maggiore conoscenza scientifica) del secondo dopoguerra.
In questo processo culturale, che qui, ripeto, viene tratteggiato a grandi linee, hanno avuto un ruolo anche la crescita demografica, lo sviluppo di tecnologie a forte impatto, le maggiori conoscenze scientifiche e l’iniziale diffusione di idee diverse sul ruolo e il significato dell’ambiente (da Gregory Bateson, 1904-1980, a Edward Goldsmith, 1928-2009, solo per citare due autori di formazione molto differente). Il tutto ha poi contribuito ad iniziare ad elaborare l’idea della biosfera: un “intorno a noi” di cui l’essere umano è parte da considerate come un tutto fortemente interconnesso e che rappresenta l’insieme delle zone della Terra in cui le condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita.
Al termine del XX secolo le tematiche hanno conquistato l’interesse dei mass media e coinvolto la sensibilità di quote sempre maggiori di popolazione ponendo con forza il discorso della sostenibilità che ha messo in discussione l’ineluttabilità dell’equazione sviluppo-alterazione ambientale e che apre anche un altro problema sul significato del termine sviluppo, che qui, però, non affrontiamo.
Questi cenni storici – ed è questo l’aspetto che voglio sottolineare – stanno portando alla messa in discussione sempre più marcata dell’altra equazione, che sottende a quella appena citata (l’ineluttabilità dell’equazione sviluppo-alterazione ambientale) e che vede una continuità e, quasi, un interscambio tra i concetti di conoscenza, controllo e dominio riferiti alla e applicati sulla natura. Mentre chi scrive pensa che questo interscambio sia profondamente e concettualmente scorretto. Vediamo.
L’approfondimento della conoscenza scientifica sta evidenziando, da un lato, come quest’ultima (la realtà della conoscenza) sia sempre più approfondita e – non sembri una contraddizione – nello stesso tempo altro dalla realtà dell’oggetto (di quel qualcosa che si vuole conoscere); e, dall’altro, che lo stesso processo del conoscere modifica la stessa realtà dell’oggetto. Con in più una sempre maggiore consapevolezza della complessità e della inter relazione tra i vari campi della realtà dell’oggetto e – dialetticamente correlati – della realtà della conoscenza. Aspetti, questi ultimi, che portano a una consapevolezza molto semplice: che il controllo diventa pura chimera per l’impossibilità di avere un quadro deterministico di un qualcosa che deterministico non è. E questo per due motivi. Non solo perché – ed è il primo motivo – il sogno di Pierre Simon Laplace (1749-1827) di poter tutto prevedere una volta avute tutte le coordinate di ciò che esiste, si è scontrato con alcune declinazioni del concetto di complessità che rendono impossibile una previsione lineare per l’incontrollabilità dell’interrelazione delle variabili in gioco. Ma anche _ ed è il secondo motivo – per l’impossibilità di determinare lo stato dell’arte della realtà in un determinato momento (basti il solo esempio della meccanica quantistica)
A questo punto, se manca la possibilità di controllo, dovrebbe venir meno anche la possibilità del dominio. E di fatto è così, se non fosse che quest’ultimo è diventato un elemento politico che tanti danni ha fatto e sta continuando a fare.
Ma non è tutto. Ridata alla possibilità della conoscenza il suo valore di approfondimento critico e sempre negoziabile della realtà dell’oggetto, va aggiunta una considerazione determinante: che tutti siamo “figli” di un’unica origine (biochimica) della vita, sia quella vegetale che non; e che tutta la complessità successiva della vita è “figlia” fondamentalmente di quattro elementi, i più abbondanti nella biosfera: idrogeno (H), ossigeno (O), carbonio (C), azoto (N)
Il che significa che anche noi siamo ambiente in quanto elementi della biosfera e in quanto non esiste alcuna differenza cartesiana, ovvero – si potrebbe provocatoriamente dire – tutti siamo res extensa, anche se infinitamente complessa. Quindi non c’è più un ambiente “che sta intorno” come “altro da noi”, ma un c’è un ambiente in cui noi – come esseri umani – siamo immersi come sua parte integrante. Aspetto presente anche nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco che, dopo aver citato “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra madre terra” di San Francesco e parlato “dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei”, precisa che “Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora”.
A questo punto si pone un altro problema o meglio, un interrogativo: se non ha più senso parlare di un antropocentrismo in cui l’ambiente è “altro da noi” e che, di conseguenza, noi stessi siamo ambiente, come è possibile fare un discorso di tutela e valorizzazione dell’ambiente senza parlare anche di tutela e valorizzazione dell’essere umano? Ed ancora: è possibile parlare di condivisione ambientale, ormai indispensabile in un mondo fortemente interconnesso (biosfera) senza una condivisione dell’essere umano, “elemento” ambientale a tutti gli effetti? Qualsiasi discorso che neghi l’inscindibilità di questi elementi diventa contraddittorio visto che l’essere umano è a pieno titolo e diritto esso stesso ambiente, arricchito e non certo sminuito dalla cultura nelle sue varie forme e declinazioni (e solo per inciso va ricordato che molti altri esseri viventi sono possessori di culture).
Da qui al passo e alla domanda successiva, il ragionamento è quasi spontaneo: è possibile fare un discorso di ecocompatibilità senza inserire la specificità culturale dell’essere umano e non parlare, quindi, di solidarietà nel senso più ampio del termine? La domanda è retorica in quanto se così fosse si arriverebbe a tutta un’altra serie di contraddizioni logiche e pratiche.
In questo quadro ecologico o se si preferisce di ecocompatibilità, infine, il termine solidarietà ci sembra perda il significato ristretto di solidarietà di gruppo (più o meno ampio) per assumerne uno intriso e fuso con l’ecosostenibilità, quindi molto più ampio e votato a superare le molteplici irrazionalità (disuguaglianze, ingiustizie ecc.) degli esseri umani.

​​​​​​​Roberto Paracchini

Oggi domenica 24 giugno 2018

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Occorre una santa collera per reagire al razzismo
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Nigrizia.it, 15 giugno 2018, ripreso da eddyburg. Un’onda nera e razzista sta travolgendo la società italiana. La cavalca il fascio-leghista Matteo Salvini, strumentalizzando le migrazioni. Credenti e laici devono contrastare questo fenomeno. Con commento. (m.c.g.)
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