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OGGI sabato 14 aprile 2018
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Legge elettorale regionale: i partiti non hanno capito…
14 Aprile 2018
Gianni Pisanu su Democraziaoggi.
Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma!
Dedicato a Lorenzo Milani.
LA PACE OLTRE OGNI RAGIONE
Nei secoli la ragione è stata dalla parte della guerra, madre e regina del mondo, non solo evento ma criterio di tutta la realtà. Ripudiata poi come folle, la guerra è tornata come prostituta, venduta come sacra. La ragione della pace sta invece nella nonviolenza di Dio
La seguente relazione è stata tenuta l’11 aprile 2018 all’Università di Messina in occasione di un seminario dedicato a don Lorenzo Milani:
Dobbiamo anzitutto metterci in situazione, sapere che parliamo di pace proprio qui, in quel centro del mondo dove la pace è massimamente negata, nel cuore del Mediterraneo, dove si stanno armando le propagande, le fake news, gli incrociatori e i missili per la guerra alla Siria, dove si spara nella striscia di Gaza e si attacca il paese dei Curdi, e dove si affollano i barconi dei profughi che le Marine si disputano e che a migliaia facciamo morire.
Il titolo dato a questo intervento, “La pace oltre ogni ragione”, introduce come tema sensibile il rapporto pace-ragione. È un binomio che rinvia e corrisponde a un altro binomio cruciale, quello fede-ragione. Come la fede appartiene alla ragione ma trascende la ragione, la supera e può perfino essere ogni oltre ragione, così la pace appartiene alla ragione, ma la trascende, la supera e può essere pensata anche contro e oltre ogni ragione.
Quand’è che la fede soffre a causa della ragione, e anzi può essere ferita o distrutta dalla ragione? Quando si pretende di ridurre la fede e mettere la religione nei limiti della sola ragione. È, com’è noto, l’assunto di Kant. Ma è anche la pretesa della modernità, e questo lo sappiamo e non ci spaventa. Purtroppo però questa è anche la tentazione di molti cristiani di oggi, anche dei più provveduti, e questo mi spaventa moltissimo. Io ho vissuto quest’anno con grande gioia, e quasi con accanimento, la veglia della notte di Pasqua, perché avevo visto e sentito amici cristiani a me carissimi, e anche teologi, che proponevano l’istanza di demitizzare la Resurrezione, di riportare anch’essa nei limiti della sola ragione per corrispondere alla mutata sensibilità dell’uomo moderno: e per farlo non solo avanzavano l’ovvio argomento che quando si interrompono tutte le sinassi del cervello non può esserci vita e tanto meno resurrezione nel senso biologico, e così la ragione è a posto, ma volevano riportare nei limiti della sola ragione anche il fatto straordinario che le prime apostole, Maria di Magdala, l’altra Maria, Giovanna, Salome, i primi discepoli, la prima Chiesa e poi tutte le generazioni successive fino ad ora abbiano visto e creduto che il Signore è risorto, che è veramente risorto. E anche esegeti cristiani, dell’una o dell’altra confessione, ci spiegano come la Resurrezione è un mito, che in realtà essa altro non è che l’idea soggettiva della Resurrezione, che Gesù non può essere il figlio di Dio, come del resto già dicevano quelli del Sinedrio, che il Dio del teismo non esiste, per cui non lo si chiama più per nome ma solo per grandi idee riassuntive; e allora si parla di lui come del Principio originario, dell’Amore primordiale, come di una Forza di vita, come di un confluire di tre tempi, passato presente e futuro e via astraendo. È la nuova gnosi, il logos che rifiuta di farsi carne. E così la ragione è salva, ma la fede è perduta, la croce come unica e suprema irragionevolezza di Dio è perduta, e allora non c’è più argine, non c’è più limite all’invasione delle ragionevoli croci che ormai coprono tutta la terra, questo immenso Golgota che si erge sulla collina dei rifiuti detta Gehenna, in cui la nostra generazione sta trasformando la terra.
In questo modo la ragione, nella pretesa di abbracciarla, diventa nemica della fede. Perciò, con questa esperienza, bisogna stare attenti anche quando si parla di pace e ragione. Perché nella storia mille e mille sono state le ragioni per cui la pace non è stata ritenuta possibile, e nemmeno desiderabile, mentre mille e mille sono state le ragioni messe in campo che hanno militato a favore della guerra. E allora se si vuole intendere la pace nei limiti della sola ragione, la pace è perduta.
La guerra come ragione
La ragione non vuole affatto legarsi alla pace. Anzi è proprio quando la pace sembra l’unica cosa ragionevole, che la pace non c’è, è proprio quando la pace appare la sola alternativa razionale all’inutile strage, quando è l’unico antidoto all’istinto di sterminio, alla logica di Hiroshima, quando sarebbe il rimedio alla fame lasciata correre a briglie sciolte nel mondo, quando porrebbe fine al terrorismo vestito da imperialismo o da estremismo religioso, proprio allora la pace non c’è.
È per questo che si comprende tutta la forza di rovesciamento dell’affermazione di papa Giovanni XXIII nella Pacem in terris: non è la pace che è fuori dalla ragione, ma è la guerra che è fuori dalla ragione, bellum alienum a ratione. Sempre in verità essa è stata fuori dalla ragione, anche quando i teologi cattolici affastellavano i motivi che rendevano le guerre giuste, e papa Giovanni lo sapeva, come lo sapeva don Milani che nella sua lettera ai cappellani militari che avevano accusato l’obiezione di coscienza di viltà, aveva spiegato come fossero state ingiuste e folli tutte le guerre che avevamo combattuto, anche prima della bomba atomica. Ma papa Giovanni per non farsi dire, come oggi si dice a papa Francesco, di aprire una voragine con i pontificati precedenti, scrisse che il vero spartiacque oltre il quale mai più la guerra avrebbe potuto essere giustificata dalla ragione era l’essere entrati nell’età che si gloria della sua potenza atomica. Era una rivoluzione copernicana. Perché fino ad allora la guerra era stata considerata regina. Così l’aveva cantato Eraclito e così l’abbiamo considerata fino al 900; aveva detto infatti Eraclito fin dalla culla della nostra cultura che il “polemos” era il padre e il principio di tutte le cose, di tutti re, che gli uni disvela come uomini e gli altri come Dèi, ponendo così la guerra non solo come evento, ma come criterio ermeneutico di tutta la realtà, cioè come ragione. E tale era rimasta lungo tutta la storia. Per esempio, al momento della conquista dell’America, che noi però ci ostiniamo a chiamare “scoperta”, il diritto internazionale nascente assunse la guerra come criterio per identificare lo Stato, la guerra come emblema e prova della sovranità. Uno Stato intanto è uno Stato, un sovrano intanto è un sovrano, si argomentava, in quanto può fare la guerra, e anzi la guerra è la sola sua arma di giustizia. Il sovrano infatti è sovrano perché non ha alcun altro al di sopra di sé, “superiorem non recognoscens”, come diceva Marino da Caramanico, e dunque non ha neanche un giudice che possa rendergli giustizia; e se ci sono più sovrani, non c’è nessuno, tanto meno un giudice, che può porsi sopra di loro e giudicare delle loro controversie; perciò il solo giudice tra loro poteva essere la guerra. Ed è che fosse fatta dal sovrano, ciò che distingueva la guerra dalla violenza privata, dalle risse, dal crimine: come la definì Alberico Gentili, la guerra è “publicorum armorum iusta contentio”: un giusto scontro combattuto con armi pubbliche.
E talmente ciò era considerato secondo ragione, che uno dei più grandi giuspubblicisti del Novecento, il tedesco Carl Schmitt fece della guerra il criterio stesso del politico; come il criterio dell’etica è il confronto tra il bene e il male, e dell’estetica è il contrasto tra bello e brutto, così il criterio del politico, la sua ragione cioè, è il conflitto tra amico e nemico, che ha nella guerra la sua massima espressione.
Dunque la guerra fino al 900 è stata la nostra vera regina, non solo nei fatti ma nella dottrina, non solo nella realtà ma nel diritto, non solo nella prassi ma nell’etica, non solo nella mondanità ma nella religione.
E perciò la ragione non poteva stare con la pace perché la ragione era amica della guerra e mezzana del suo connubio con la storia e con il mondo.
La guerra ripudiata ripresa come prostituta sacra
Ma a un certo punto interviene la rottura del 900. Due guerre mondiali, il nazismo, la Shoà, cinquantaquattro milioni di morti, gli olocausti, e infine Hiroshima e Nagasaki rompono la relazione tra la ragione e la guerra, spezzano la sua unione indissolubile con il mondo e con la storia; i popoli si ravvedono, depongono la guerra dal trono e la ripudiano; essa viene esiliata dalla città e bandita come la regina Vasti era stata ripudiata e cacciata dalla reggia di Susa, che era il centro dell’Impero di allora.
Ma qui viene compiuto un fatale errore. Viene fatto un ripudio ma non un divorzio. Ripudiata la guerra, invece di sposare la pace, di farla sua sposa, di darle il potere ed il regno annunciato dal principe della pace, il mondo insedia al suo posto il terrore. Per essere sicuri che la guerra non tornasse gli Stati hanno messo contro di lei il terrore, hanno fatto del terrore un’istituzione totale e l’hanno chiamato deterrenza, o equilibrio del terrore, ed hanno trasferito al terrore la ragione il talamo e il regno. Il mondo ha preferito il terrore alla guerra, uno l’ha preso e l’altra l’ha lasciata.
Ed è stato a quel punto che dalla cattedra più alta è venuta la proclamazione. La guerra ha perso la ragione dice papa Giovanni, e anzi finalmente, grazie all’atomica, gli uomini si sono resi conto, e con loro anche la Chiesa, che la ragione essa non l’ha mai avuta; ed è fuori della ragione l’idea che la guerra possa essere un mezzo atto a risarcire i diritti violati. Ma inutilmente papa Giovanni offre l’alternativa e propone come vera sposa la pace, che, lui dice, deve essere fondata sulla verità, la libertà, la giustizia e l’amore.
È bastato infatti che l’Occidente smettesse di avere paura – perché il suo nemico aveva cessato di esistere – e la guerra se l’è ripresa in casa, l’ha rimessa al suo servizio; è bastato che finisse il comunismo, che con la caduta del muro venisse meno l’alternativa socialista, è bastato che il terrore perdesse i suoi costosi denti atomici per andare a rifugiarsi nelle povere carni dei terroristi suicidi, perché l’Occidente di tutta fretta rimettesse al suo posto la guerra, e lo ha fatto già nel 1991 con la prima guerra del Golfo.
Ma come poteva farlo dato che l’aveva screditata, svergognata, data per folle e ripudiata? Ci voleva una riabilitazione, un lavacro rigeneratore, quasi un nuovo battesimo. E questa fu la grande operazione mediatica messa su nel 1990 e 1991, l’imponente campagna d’opinione condotta da tutti i persuasori, mediatici e politici, grazie all’invenzione della guerra del Golfo. Ci voleva infatti una bella fantasia a fare una guerra, quasi una guerra mondiale, per il Kuwait, che in realtà non stava a cuore a nessuno, e che in ogni caso si poteva restituire alla sua sovranità mediante negoziati, e non con la guerra. Il Kuwait non era Danzica, e nessuno voleva morire per il Kuwait. Ma il fatto è che intanto la guerra aveva cambiato natura, perché ormai si moriva da una parte sola, e chi decideva di farla, credeva di farla ormai a buon mercato; ed è così che irresponsabilmente veniva inaugurato un tempo in cui, ripristinata la guerra, l’unica guerra possibile per i poveri fosse il terrorismo.
In ogni caso per quanto fossero ingenti le risorse impiegate per riabilitare e ripristinare la guerra, essa non poteva più essere richiamata come sposa, come regina; poteva essere ripresa solo come prostituta. Ripudiata come Vasti, sostituita col terrore, la guerra veniva recuperata come Rahab, la prostituta di Gerico che per salvare se stessa aveva tradito il suo popolo e l’aveva consegnato al genocidio. Ma poichè Rahab aveva finito per diventare la sola isola di salvezza in mezzo allo sterminio, era stata idealizzata e celebrata come la “casta meretrix”, la prostituta sacra, al punto che sant’Ambrogio orrendamente l’assimilò alla Chiesa, che perciò fu chiamata anch’essa “casta meretrix”.
La ragione di Stato come ideologia sacrificale
Non più come sposa ma come prostituta, la guerra non poteva più essere al servizio dei popoli, ma solo dei poteri che dominano i popoli. E infatti non più eserciti di leva, popoli in armi, la guerra meretrice non poteva che essere fatta da mercenari. E al suo servizio veniva messa di nuovo una ragione che non è solo una ragione, ma taglia corto a tutte le ragioni, la ragion di Stato.
Ho visto un film inglese di un regista sudafricano (Gavin Hood), “Il diritto di uccidere”, la cui protagonista è per l’appunto la ragion di Stato. Vi si esibivano le nuove modalità di violenza che sono rese possibili dalle attuali tecnologie, e in particolare la guerra che viene condotta con i droni e le uccisioni che vengono perpetrate da grandissima distanza. Il film racconta di un’operazione militare inglese, condotta dal Nevada, che coinvolge politica, diritto e Stati maggiori d’America e d’Inghilterra, operazione che consiste nell’uccidere a Nairobi con due missili lanciati da un aereo senza pilota quattro terroristi che in una casa stanno indossando i giubbotti esplosivi per andare a fare altrettanti attentati terroristici. Il problema è che davanti alla casa che dovrà essere distrutta c’è una bambina keniota che vende il pane. Un caso da manuale: quale ragion di Stato più forte che uccidere quattro terroristi che stanno per compiere chissà quali stragi? Ma c’è la bambina che non c’entra niente. C’è l’innocente. Che fare? Procedere con l’operazione o fermarla?
Ci si consulta in tempo reale attraverso mezzo mondo (siamo in tempo di globalizzazione), sono coinvolte cancellerie, sale operative, primi ministri, segretari di Stato, consulenti giuridici e procuratori, perché sia chiaro che a decidere non è una persona sola, magari un colonnello spietato, ma a decidere è tutta la catena di comando, è tutto il sistema, è il sistema mondo, o almeno è il sistema Occidente. E la decisione è per il sacrificio: è bene che la bambina innocente muoia perché il mondo sia salvato.
Messe così le cose è probabile che la maggior parte delle persone sia d’accordo, perché in quella ragion di Stato c’è implicita l’idea di un male minore, e perché che cosa si vuole di più dall’etica dell’Occidente, dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua gloria? Prima di uccidere quattro terroristi assassini si è perfino preoccupato che di mezzo ci fosse una bambina di colore, si è chiesto se quel “danno collaterale” fosse più o meno accettabile. E la ragion di Stato ha risposto di sì.
Da questo apologo è chiaro che della guerra fatta dai grandi poteri che siedono nei loro uffici a migliaia di chilometri di distanza, sono i popoli a pagare le spese. Per questo è stato necessario che la nuova guerra fosse loro venduta come desiderabile, che fosse truccata, imbellettata, prostituta sì, ma prostituta sacra, innocente e casta. E così si è andata tessendo la grande apologia della guerra, dal primo al secondo Bush, dalla Thatcher a Sarkozy, da Netaniahu a Bin Laden, da Blair a D’Alema. E così abbiamo avuto le guerre umanitarie, le guerre giustizia infinita, le guerre per la democrazia, le guerre per punire i dittatori o gli infedeli; così nasceva la guerra per punire gli Stati canaglia, gli Stati zizzania come li chiamava il giovane Bush, che ogni sera diceva di piangere sulla spalla di Dio, e addirittura nasceva la guerra perpetua, cioè senza fine dei giorni, senza vincoli di legittimità, investita perciò degli stessi attributi di Dio. Prima ancora che Al Qaeda o lo pseudo califfato dell’ISIS indicessero la Jihad, la guerra santa era stata restaurata e rilanciata dall’Occidente.
La guerra come questione teologica
È a questo punto che la questione della guerra e delle sue ragioni diventava radicale. Non poteva più essere una questione solo politica, non poteva più essere una questione solo etica, non poteva essere una questione umanitaria. Diventava una questione teologica, un capitolo della Rivelazione. Se di valore in valore l’ultimo valore a cui la guerra era appesa era il valore di Dio, il Dio che nei secoli era stato invocato, acclamato e celebrato come il Dio della vittoria, il Dio degli eserciti, il Dio del giorno della vendetta, il Dio forte e terribile, il Dio sterminatore che aveva fatto il suo esordio uccidendo i primogeniti degli egiziani per mandare liberi gli ebrei, allora il modo per uscire radicalmente dalla guerra era quello di una nuova Rivelazione di Dio, era il purificare l’immagine di Dio, togliere Dio da qualsiasi giustificazione e legittimazione della guerra, era di fare in modo che mai più un vescovo di Ragusa potesse consacrare una chiesa in un campo di missili come a Comiso.
E ciò è appunto quello che è avvenuto con papa Francesco, che a Gerusalemme come a Redipuglia, in Albania come in Bangladesh, sulla tomba di don Milani come domani su quella di Tonino Bello, dichiara semplicemente, icasticamente, che il Dio della guerra non esiste. Rispetto al Dio della guerra noi siamo atei.
Egli ha potuto dirlo perché ha preso in mano il Vangelo, e ha preso sul serio la previsione fatta da Gesù a Pietro quando gli ha detto: ora non capisci, ma dopo capirai; e perciò Francesco cerca di capire e di far capire quello che prima non si era capito, anche delle Scritture, anche del Vangelo, anche da parte dei dottori e degli esegeti. Cioè ha tirato giù la rivelazione di Dio dagli archivi, e l’ha fatta diventare una realtà contemporanea, quotidiana, che avviene nell’oggi. Erano 1500 anni che non succedeva, da quando Gregorio Magno aveva detto che i divina eloquia, la Scrittura, cresce con chi la legge.
Per questo lo odiano. Per questo sabato scorso a Roma si è riunita l’antiChiesa, cento persone con due cardinali due vescovi e un diacono che gli hanno lanciato contro una specie di libello di ripudio, perché non vogliono che il Vangelo si muova, che l’ordine globale sia cambiato e non vogliono la libertà del cristiano. Ma era come un tentativo di evocare dal buio del passato una Chiesa che non c’è, una specie di rappresentazione in costumi d’altri tempi; perché né il cardinale Burke è un cardinale Caetani che può fare fuori un papa, né papa Francesco è un Celestino V sceso dal Morrione con la sua immensa pietà ma povero di teologia.
Se Dio è non violento, anche l’uomo può esserlo
In realtà papa Francesco non è arrivato a questa professione di fede da solo. C’era arrivata tutta la Chiesa, a partire da papa Giovanni, dal Concilio, dalla Chiesa di Bologna, da monsignor Romero, da Tonino Bello, fino al documento di altissimo valore teologico curato e firmato dal cardinale Muller, che segna un definitivo congedo dal pensiero della violenza di Dio. Vi si trova una formale presa di distanza da tante pagine della Scrittura, difficili a sopportarsi, che parlano di un Dio guerresco e violento, vendicatore e duce di un solo popolo. Si tratta di un documento della Commissione Teologica Internazionale intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza”, pubblicato a Roma nel 2014, nei primi mesi del pontificato di Francesco, ma frutto di una lunga elaborazione precedente. È un documento che nasce con una intenzione apologetica, perché si trattava di difendere il monoteismo cristiano contro l’accusa che professando un Dio unico fosse causa di violenza. Esso ammetteva però che questa falsa immagine di Dio era veicolata da molte pagine della Scrittura, che erano tuttavia il prodotto di un fraintendimento umano. La ragione teologica profonda per cui questa rappresentazione di Dio andava congedata era che essa è in contrasto con il dogma fondamentale del cristianesimo, quello del rapporto trinitario tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che non può essere altro e non può esprimersi altrimenti che come amore. Al “kairós dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa”, secondo il documento vaticano, bisognava riconoscere “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”; un trapasso d’epoca che comporta un cambiamento non solo del cristianesimo, ma dell’idea stessa di religione, e perciò di ogni religione.
Questo hanno scritto i teologi della Commissione Teologica Internazionale scelti da papa Ratzinger e incaricati di liberare il volto di Dio dalla maschera della violenza, e questo ha firmato il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinale Muller, che pur oggi si vorrebbe contrapporre a Francesco e alla sua teologia.
Questa è dunque oggi la parola della Rivelazione, non solo di papa Francesco ma di tutta la Chiesa; la parola che ci dice che è avvenuto qualcosa, che per vincere la violenza, per fare della pace la sposa e la regina del mondo, oltre ogni ragione, sta cambiando lo stesso cristianesimo, e anzi cambia l’idea stessa di religione. Il cristianesimo certo, ma a questa conversione sono chiamati anche Israele, l’Islam e le altre religioni e antropologie dell’umanità. Se in Dio non c’è violenza, può non esserci violenza anche nella sua immagine, l’uomo e la donna fatti a somiglianza di lui.
Raniero La Valle.
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Sulla rete
SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-LA GUERRA DIFFUSA
Un ruolo di pace per l’Italia, il paese da cui parla il papa pacifista
il manifesto, 13 aprile 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. La sinistra italiana «frantumata e dispersa» dovrebbe «ricercare un’alleanza fondativa con le forze democratiche del mondo cattolico» a partire dal tema comune della Pace nel mondo. A chi serve la Nato. (m.p.r)
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La “grande bellezza” dei luoghi non è sufficiente a promuoverne la crescita
[Gianfranco Sabattini su il manifesto sardo]
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SOCIETÀ E POLITICA » LIBRI SEGNALATI
La natura violata disvela beni comuni
di PIERO BEVILACQUA
Osservatorio del sud, 10 aprile 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Il primo capitolo della Rivista Molisana di storia e scienze sociali 9-10, Beni comuni, gennaio 2015. (m.p.r.).
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Oggi venerdì 13 aprile 2018
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Signor Questore, legga prima la Costituzione e poi la circolare Gabrielli!
13 Aprile 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Sapete l’ultima dalla Questura? Se volete organizzare una manifestazione, ad esempio per il 25 aprile, non dovete fare come dice la Costituzione ma come recita la circolare Gabrielli, che dà alle autorità preposte alla sicurezza e all’incolumità pubblica istruzioni sulle manifestazioni in luogo pubblico. E sapete cosa hanno tirato fuori in Questura? Dicono che, secondo questo atto del Ministero, se volete fare una manifestazione dovete presentare piani di sicurezza firmati da ingegneri abilitati, ingaggiare squadre di persone addestrate per garantire l’ordine, le squadre devono essere munite di pettorina e di capigruppo abilitati, perfino munirvi di furgoni (per sbarrare la strada a eventuali i in camion?!). [segue]
Scuola Popolare Is Mirrionis. Ripensare l’esperienza delle scuole popolari nella realtà delle “periferie” di oggi. Cominciamo a pubblicare i contributi dei relatori dell’evento del 12 aprile 2018.
SCHEMA INTERVENTO di Franco Meloni
Non credo di “bruciare” la proposta che farà Giorgio Seguro nel corso del suo intervento, cioè di fare una nuova edizione del libro, con una serie di aggiornamenti e di integrazioni, che lui, credo, dettaglierà. Nel collegarmi a tale proposta, che ovviamente condivido, formulandone una nuova: quella di realizzare un docu-film sull’esperienza della Scuola Popolare di Is Mirrionis, che partendo dalla sua ricostruzione storica può essere sviluppato sotto diversi punti di vista, sempre pensando a quanto tale esperienza può essere utile per l’oggi. Io qui ne propongo uno, sicuramente secondario, ma per me intrigante, avendo riguardo alla riproducibilità dell’esperienza come “costruzione di un gruppo di lavoro di impegno sociale”. Ripercorrendo la mia esperienza professionale di “formatore dei lavoratori adulti in ambito organizzativo pubblico” (mi occupavo del personale universitario), ricordo che per capire meglio come si potesse costruire un gruppo di lavoro ricorremmo alla visione e alla successiva analisi di diversi film, tra i quali il mitico “I magnifici 7″. Troppo antico per essere conosciuto dai più giovani (risale al 1960), tuttavia molto importante tanto da essere considerato un capolavoro nella storia dei cinema. Ma qui del film ci interessa soprattutto la trama, per il parallelo che vi proporrò rispetto all’esperienza della Scuola Popolare, con l’individuazione di alcuni tra quelli che ritengono siano gli ingredienti fondamentali (non esclusivi) della costruzione e del successo di un gruppo di lavoro. [segue]
Oggi giovedì 12 aprile 2018
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Lavoro-Scuola nel nostro territorio
12 Aprile 2018
Marco Mereu, Segr. Fiom provinciale – Cagliari
Pubblichiamo la prima parte dell’intervento al Dibattito “Prima di tutto il lavoro e la scuola” indetto dal CoStat e dall’ANPI il 13 marzo scorso.
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Strade nuove
Sussidiarietà economica, beni comuni e riforma del Terzo settore
di Umberto Di Maggio – su LabSus, 9 aprile 2018
I beni comuni sono strumenti per lo sviluppo comunitario, la rigenerazione e la promozione territoriale. Sono risorse per la coesione sociale e ricchezze imprescindibili per stimolare e radicare fiducia, reciprocità e sussidiarietà anche in campo economico. Il mercato infatti può (e deve) essere un luogo civile (Bruni, Zamagni 2015) di scambio e relazioni, prima che di lotta degli uni contro gli altri per il consumo egoistico e dissipativo. Può essere un’occasione per collaborare, cooperare e cioè per cercare e fare insieme il bene comune. Questa premessa per evidenziare come i beni comuni e la sussidiarietà (anche economica) possono essere le parole chiave per una lettura tematica delle interessanti recenti modifiche del 2017 alla normativa nazionale di riforma del Codice del Terzo settore a regolamentazione anche dell’ampio e variegato ecosistema dell’imprenditoria sociale, che fa dei beni “per tutti” un punto di riferimento irrinunciabile.
I beni comuni nella Riforma
A proposito di sussidiarietà va riconosciuto, innanzitutto, che la sua importanza è gia chiara nei principi generali. All’art. 2, infatti, si dice che “è riconosciuto il valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore, dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne è promosso lo sviluppo salvaguardandone la spontaneità ed autonomia, e ne è favorito l’apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali”. Ciò significa che la collaborazione (individuale o associata) tra cittadini, e fra essi e le diramazioni territoriali dello Stato è la strada maestra per la coesione sociale e l’interesse generale.
Nel testo, in materia di beni comuni è evidenziata l’importanza della loro cura attraverso l’attivazione volontaria della cittadinanza (art. 63). La contemporanea revisione della disciplina in materia di impresa sociale ha inoltre evidenziato la priorità della loro riqualificazione quando per beni comuni possiamo intendere beni pubblici inutilizzati o beni confiscati alla criminalità organizzata (Di Maggio, Notarstefano, Ragusa 2018). Inoltre ha sottolineato come queste attività, insieme a molte altre, rientrino appieno nell’interesse generale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale valorizzando e promuovendo l’attivazione e la mobilitazione dei cittadini anche in associazioni, cooperative ed imprese sociali.
L’aggiornamento normativo ha evidenziato anche importanti novità circa le misure fiscali e di sostegno economico. E’ prevista, ad esempio, una razionalizzazione e semplificazione della deducibilità e detraibilità per le persone giuridiche e fisiche che intendono procedere con erogazioni liberali al fine di promuovere e stimolare comportamenti cosiddetti donativi. Ciò sembra essere coerente con il principio di sussidiarietà (art. 118 ultimo comma della Costituzione) e con quello di solidarietà (art. 2 della Costituzione). Attraverso queste forme di sostegno orizzontale i beni comuni possono rigenerarsi ed uscire dallo stato di depauperamento in cui troppe volte purtroppo si trovano a causa di mancato o cattivo utilizzo.
Forme di sostegno e beni immobili
In particolare nel decreto legislativo del 3 luglio 2017 n° 117 è evidenziato lo strumento del cosiddetto “Social Bonus” (art. 83) che prevede un credito d’imposta per donazioni a sostegno del recupero degli immobili pubblici inutilizzati e dei beni sottratti alla criminalità organizzata. Nella stessa legge è istituito un fondo presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 72) per progetti promossi dalle organizzazioni del Terzo Settore e, soprattutto, è evidenziata la valorizzazione di beni culturali ed ambientali, secondo i criteri della semplificazione e di economicità, e l’assegnazione – anche in forma consorziata – di immobili pubblici inutilizzati e di beni confiscati.
Queste novità hanno un portato innovativo di grande importanza che va letto, attualizzato e contestualizzato alla natura di quegli stessi beni immobili ed a quella dei contesti geografici e sociali in cui quelle strutture si trovano. Non va dimenticato, ad esempio, che molti beni sottratti alle mafie (ma lo stesso può dirsi di tanti beni pubblici che confiscati non sono) si trovano all’atto dell’assegnazione al soggetto gestore in condizione di estrema difficoltà. Le cause, ovviamente, sono tante e l’affidamento da parte dell’Ente locale a soggetti facenti parte dell’associazionismo, della cooperazione, del volontariato e più in generale del Terzo Settore non può essere soluzione da “ultima spiaggia”. Un virtuoso riutilizzo dei beni comuni, Labsus l’ha evidenziato ad esempio nel modello di regolamento sulla collaborazione tra cittadini ed amministratori per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni urbani, non può prescindere dai principi di continuità, inclusività, integrazione e sostenibilità anche economica.
Altre forme di sostegno previste dalla legge sono quelle di natura finanziaria di crowdfunding del Social Lending (art. 78 D.Lgs. 117/2017). Per queste forme innovative di raccolta di denaro attraverso piattaforme online il legislatore ha previsto agevolazioni sulle remunerazioni a chi presta denaro per progetti a valore sociale, anche e soprattutto per quelli che prevedono la riqualificazione di strutture pubbliche inutilizzate o di beni confiscati (art. 5 lett. z) con una tassazione equiparabile a quella degli interessi sulle obbligazioni pubbliche.
Altri programmi e misure finanziarie di supporto
Prescindendo dalla riforma del Terzo settore, ma restando nell’alveo degli strumenti di programmazione istituzionale di natura finanziaria messi di recente in campo in materia di beni confiscati alle mafie è certamente da citare la misura “Imprese sequestrate o confiscate alla criminalità organizzata” del Ministero dello Sviluppo Economico che eroga un sostegno a tasso zero alle imprese sottratte alle mafie. Tale programma di 48 milioni di euro è stato previsto a seguito della Legge di stabilità 2016 (art. 1, comma 195, legge 28 dicembre 2015, n. 208) che ha stanziato 30 milioni di euro per il periodo 2016-2018, a cui vanno aggiunti altri 10 milioni previsti dalla Legge di bilancio 2017. A questo va aggiunto il programma “Banca delle Terre incolte” previsto nel decreto Mezzogiorno (91/2017) per la crescita socio-economica del Sud Italia attraverso la concessione a giovani di terre incolte ed improduttive al fine di un loro pronto riutilizzo ed infine la misura “Resto al Sud” per la promozione dell’autoimprenditoria giovanile.
L’esposizione degli strumenti va anche arricchita con quelli direttamente a disposizione degli enti pubblici in materia di riutilizzo di beni pubblici e di partecipazione civica alla rigenerazione di spazi collettivi. Va citato il Programma Operativo Nazionale plurifondo Città Metropolitane 2014-2020 “PON Metro” che si inserisce nel quadro più generale dell’Agenda Urbana nazionale e delle strategie di sviluppo urbano sostenibile per una crescita intelligente, inclusiva e sostenibile della “Strategia Europa 2020”. Interessante è il riferimento all’innovativo percorso di “co-progettazione strategica” di confronto tra i diversi soggetti del partenariato strategico delle 14 città metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino, Venezia) sede degli interventi. L’azione 4.2.1., in particolare, prevede il “Recupero di immobili inutilizzati e definizione di spazi attrezzati da adibire a servizi di valenza sociale” e mira a sostenere il miglioramento del tessuto urbano attraverso l’attivazione dell’economia sociale per lo start-up di nuovi servizi di prossimità in territori e quartieri di forte criticità. Tra i risultati attesi dall’azione “Inclusione sociale” si prevede la creazione ed il recupero di 2270 alloggi per famiglie con particolari fragilità sociali ed economiche, il recupero di 35600 mq di immobili inutilizzati da destinare a servizi del terzo settore, un percorso di pronto intervento per individui senza dimora e per comunità Rom, nonché di inserimento lavorativo, sociale ed educativo, sanitario e di accompagnamento all’abitare per individui a basso reddito e con gravi forme di disagio.
Questo elenco di provvedimenti non è certamente esaustivo. Al quadro generale dei progetti in corso di attuazione in materia di politiche di coesione vanno aggiunte infatti le tante opportunità per il volontariato ed il Terzo Settore da parte di Fondazioni e non solo.
Tutto ciò certamente si inserisce all’interno del più generale ragionamento sull’economia circolare (Bonomi 2017) e sul valore dei beni comuni che, come si è detto in premessa, hanno la capacità di contribuire allo sviluppo economico e sociale delle comunità e alla custodia rigeneratrice (Venturi, Zamagni 2017) dei territori e dei patrimoni (materiali ed immateriali) di cui quegli stessi territori sono dotati. Si lega anche al grande valore della sussidiarietà che stringe in un patto di corresponsabilità e reciprocità cittadini-Stato-mercato, non prescindendo proprio dal destino dei beni comuni di cui l’uso virtuoso è tale solo se condiviso, circolare, inclusivo.
Riferimenti bibliografici
Bruni L., Zamagni S., (2015), L’economia civile, Il Mulino, Bologna
Bonomi A., (2017), La società circolare, Derive Approdi, Roma
Di Maggio, U., Notarstefano. G., Ragusa G., (2018). Ri–conoscere i beni confiscati. Un percorso tra partecipazione, condivisione e trasparenza – in Economia, organizzazioni criminali e corruzione di Ingrassia, R. (a cura di), Aracne Editrice, Roma
Venturi P., Zamagni S., (2017), Da Spazi a Luoghi, Aiccon, Short Paper, 13/17, Bologna
Claudio Napoleoni
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DE HOMINE
Claudio Napoleoni, L’ultima domanda
di RANIERO LA VALLE
In un saggio limpido e accorato si racconta con emozione l’ultimo tratto della strada terrena di un grande uomo e grande intellettuale, il cui insegnamento è stato uno dei più alti del Novecento.
Premessa
di Edoardo Salzano su eddyburg
È certamente per ragioni personali che ho raccolto, letto e rieditato per i lettori di eddyburg questo lungo testo di Raniero La Valle su Claudio Napoleoni. In anni molto lontani, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, ho conosciuto e frequentato Claudio a casa del mio maestro Franco Rodano e ho avuto la fortuna di imparare molto da lui. Da allora ho cercato di seguirlo nei suoi scritti, sebbene le vicende della vita mi abbiano allontanato dalle amicizie, dai luoghi e dalle passioni di quegli anni. Claudio era spesso presente a casa di Franco e Marisa Rodano quando ragionavamo sui temi della mia competenza disciplinare (la città e l’urbanistica), e imparavo dai miei mentori a vederle in un quadro di storie e di saperi (e di emozioni) più vaste e più elevate di quelle nelle quali ero solito collocarle. Raccolsi più tardi i frutti delle discussioni di quegli anni nel libretto Urbanistica e società opulenta (Laterza, 1969)
Da quegli anni ho sempre cercato di seguirlo nei suoi scritti, ma non ho mai più avuto l’occasione d’incontrarlo; tuttavia è sempre rimasto una guida remota per i miei pensieri. Grazie ai racconti e ai testi del comune amico Bruno Roscani l’ho ritrovato pochi mesi fa, e ho avuto da Bruno la possibilità di raggiungere e leggere l’ampio e appassionato scritto su Napoleoni di Raniero La Valle. Un testo la cui lettura è stata per me emozionante. Mi ha rivelato un uomo diverso da quello che avevo conosciuto e seguito, ma altrettanto capace di comprendere e far comprendere la complessità e la ricchezza dell’universo nel quale viviamo, la molteplicità delle dimensioni che lo rendono meritevole d’essere abitato, la suggestiva incertezza dei destini che ci attendono. E la convinzione profonda che la pace tra gli uomini, e tra la nostra razza e le altre realtà con cui lo condividiamo, sia il bene più prezioso per cui combattere. (e.s.)
Abbiamo ripreso e rieditato per eddyburg il testo che segue, di Raniero La Valle, mediante una scansione dalla rivista bimestrale bozze88, Edizioni Dedalo, luglio/agosto 1988, anno 11°, n. 4
L’ULTIMA DOMANDA
[segue]
Oggi mercoledì 11 aprile 2018
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Tuvixeddu, niente maxi risarcimento, parola della Corte d’appello… in attesa della Cassazione
10 Aprile 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Confesso. In materia di giustizia sono fatto all’antica. Penso sempre che la migliore garanzia sia costituita da giudice naturale precosituito per legge, Non nego l’utilità pratica dei giudici privati. Ma questi collegi ingaggiati dalle parti, non so perché non evocano in me l’idea di garanzia. Ecco perché nel 2014 mi lasciò sgomento […]
——Documentazione pertinente———————————–
Anche per la Corte d’Appello il blocco dei lavori a Tuvixeddu era legittimo. Ecco la Sentenza n. 2245/2018 pubblicata il 09/04/2018 RG n. 4263/2013 [di Redazione SardegnaSoprattutto].
Riprende l’attività del CoStat – Appuntamenti Anpi
Oggi alle 18,30 presso la sede della CSS, in via Roma 72, riunione ordinaria del Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria. All’o.d.g. La ripresa dell’iniziativa politica (legge elettorale sarda in primis) e organizzazione dei Convegni: Lavoro e Ambiente; Reddito di cittadinanza e dintorni.
———————-Appuntamento Anpi—–
A domani
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SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2018
Essere o non essere
di GUSTAVO ESTEVA
Comune-info, 7 aprile 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. La domanda giusta da porsi di fronte allo scandalo di Facebook e Cambridge Analytica. (m.p.r.)
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SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2018
Per milioni di cittadini la sinistra ha tagliato il welfare
di LUIGI PANDOLFI
il manifesto, 23 marzo 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Ecco come, passin passetto, quella che che gli sciocchi, gli ignoranti e i venduti continuano a chiamare “sinistra di governo”, ha portato gli italiani a perdere le conquiste ottenute quando la Sinistra era ancora tale
«Dopo il voto. In Europa, nelle sue varie forme, ha percentuali a due cifre, e in alcuni paesi è al governo. In casa nostra è stata dilaniata. Come tentare di ripartire»
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Le diseguaglianze sociali causa dell’insostenibilità ecologica
Se chi dispone di maggiori redditi, sprecasse meno risorse, avremmo più risorse anche per chi ha di meno, senza bisogno di aumentare i nuovi prelievi. Prendersela solo con l’aumento della popolazione come causa di insostenibilità ecologica, visto anche che la popolazione che più aumenta è quella più povera, mi pare oltre che sbagliato, ingiusto.
Contro il malthusianesimo
di Edo Ronchi Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, su huffingtonpost.it.
Thomas Robert Malthus con il suo Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società del 1798 argomenta come la crescita della popolazione sia limitata dai mezzi di sussistenza e che, quando i mezzi di sussistenza lo permettono, la popolazione tende a crescere in maniera esponenziale perché le famiglie popolari disponendo di mezzi oltre la sussistenza,fanno più figli.
La disponibilità di cibo tenderebbe ad avere una crescita solo lineare perché, aumentando fortemente la popolazione, aumenta fortemente anche la domanda di cibo e quindi si coltivano terre marginali, meno produttive e si sfruttano in modo eccessivo anche le altre determinando incrementi marginali più bassi della produzione di cibo.
Data questa asimmetria – sosteneva Malthus – la crescita della popolazione sarebbe stata comunque limitata dalla futura ridotta disponibilità di cibo. La crescita della popolazione francese, che passò da 20 milioni all’inizio del 1700 a 30 milioni nel 1780, si riteneva che avesse contribuito alla stagnazione dei salari agricoli e alla rivoluzione.
Malthus, da pastore anglicano conservatore, scrive dopo la Rivoluzione francese e non è preoccupato che possa mancare il cibo per una popolazione in crescita, ma che l’incremento demografico possa estendere la rivoluzione anche all’Inghilterra. Per limitare i tassi di natalità, sostiene, infatti, che sia soppresso ogni sistema di assistenza ai poveri.
È facile confutare l’asimmetria malthusiana: la produttività dell’agricoltura per molte ragioni è aumentata enormemente e la produzione di cibo, se fosse equamente accessibile e meglio utilizzata, sarebbe più che sufficiente a nutrire la popolazione mondiale attuale e quella prevedibile per il futuro.
L’asimmetria insostenibile non è quella fra la crescita della popolazione e produzione agricola, ma fra prelievo di risorse naturali (che per i modelli di produzione e di consumo ha un ritmo almeno triplo rispetto alla crescita della popolazione), emissioni di gas serra e altri inquinanti, da una parte, e capacità di carico del nostro Pianeta, del suo clima e della sua biosfera, dall’altra.
Allora perché prendersela oggi col malthusianesimo? Non solo per ragioni storiche, perché ha influenzato il darwinismo sociale di Spencer – il teorico della sopravvivenza del più adatto e del carattere scientifico della teoria economica che cancellerebbe qualsiasi senso di obbligo morale o sociale – o le teorie sulla popolazione di Ricardo e la sua “legge bronzea” sui salari. Ma perché in un’epoca di egoismi diffusi non vorrei che, sotto sotto, ci fosse anche chi pensasse di utilizzare il limite ecologico per sostenere, date le risorse naturali limitate, la sopravvivenza del più forte a scapito dei più deboli, meglio se sono immigrati da altri Paesi.
Una simile tesi, come quella di Malthus, non avrebbe alcun valore ecologico, ma finalità ben poco nobili.
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Il malthusianesimo e l’aumento della popolazione .
Alcuni commenti al post “Contro il malthusianesimo”, pubblicato la settimana scorsa [vedi sopra], mi hanno rimproverato di non aver tenuto conto del peso ecologico dell’aumento della popolazione. A me non pare, ma nel dubbio di aver espresso male, anche per esigenza di sintesi, come la penso sull’argomento, provo a precisare meglio.
L’enorme crescita della popolazione, passata in poco più di un secolo dai circa un miliardo e 600 milioni all’inizio del novecento agli attuali 7,6 miliardi destinati, secondo le previsioni ONU a crescere ulteriormente fino a circa 9 miliardi, genera certamente una rilevante impronta ecologica sul nostro Pianeta.
Ma va tenuto ben presente che il consumo di energia nel secolo scorso è aumentato di oltre 8 volte, circa il doppio del tasso di aumento della popolazione e il consumo di risorse – misurato in quantità di minerali, combustibili fossili e materiali biologici – è cresciuto oltre 12 volte, circa 3 volte di più della popolazione.
La dimensione dell’impronta ecologica prodotta sul nostro pianeta è determinata sì dall’aumento della popolazione, ma molto di più dal nostro modello di produzione e di consumo, ad alto impiego di energia fossile e di materiali.
Questo significa che potremmo ridurre notevolmente la nostra impronta ecologica, per esempio sul clima, tagliando drasticamente le emissioni di gas serra, senza diminuire la popolazione, con misure fattibili di risparmio, efficienza energetica e sviluppo delle fonti rinnovabili di energia e tagliare il consumo di risorse naturali, con un modello di economia circolare che riduce la produzione di rifiuti e massimizza il loro riciclo.
Né si deve dimenticare che il consumo di risorse è distribuito in maniera fortemente diseguale: il cittadino europeo in media ne consuma circa 19 tonnellate l’anno, il cittadino indiano 4 tonnellate e quello africano 3 tonnellate (UNEP 2011).
Se guardiamo all’interno dei singoli Paesi vediamo ulteriori articolazioni di questa ineguale utilizzo delle risorse: la quota della popolazione a maggiore reddito consuma molta più energia, possiede più auto e le usa molto di più -per esempio- della parte a reddito più basso.
Se chi dispone di maggiori redditi, sprecasse meno risorse, avremmo più risorse anche per chi ha di meno, senza bisogno di aumentare i nuovi prelievi. Prendersela solo con l’aumento della popolazione come causa di insostenibilità ecologica, visto anche che la popolazione che più aumenta è quella più povera, mi pare oltre che sbagliato, ingiusto.
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