Monthly Archives: aprile 2018
Attività dell’Istituto Gramsci della Sardegna
L’Assemblea dell’Istituto Antonio Gramsci della Sardegna
è convocata venerdì 20 aprile 2018 alle ore 17, presso la sede di Via Emilia 39, Cagliari, con il seguente o.d.g.:
1. Approvazione del Bilancio Consuntivo 2017
2. Approvazione del Rendiconto 2017 per la Regione
3 .Approvazione del Programma di attività per il 2018
4. Approvazione del Bilancio Preventivo per il 2018
5. Costituzione di Gruppi di lavoro previsti dall’art. 9 dello Statuto
6. Programma di attività per il 2018
7. V.e.
Fraterni salut. Il Presidente Pietro Maurandi
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Oggi martedì 17 aprile 2018
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Alla radice dei populismi. Ripensare la democrazia. di Giannino Piana, su Rocca.
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Legge elettorale regionale: lo stallo del Consiglio regionale nuovo vulnus alla sovranità dei sardi
17 Aprile 2018
Comunicato stampa del CoStat. Su Democraziaoggi.
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Il Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria: date una legge elettorale decente alla Sardegna!
Sulla legge elettorale regionale: nessuna modifica è più possibile?
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Quando il presidente del Consiglio regionale Ganau nella recente conferenza stampa del 9 aprile, dedicata alla prospettiva di modifica della legge elettorale sarda, afferma che “Il Consiglio regionale ha perso un’occasione, l’ultima a disposizione per modificare una pessima legge elettorale, non garantista della volontà popolare”, viene sancita nel merito l’inutilità di questo Consiglio nelle sue varie componenti di maggioranza e di opposizione, a partire dal battesimo di questa legge elettorale voluta dalla precedente maggioranza di centrodestra, principalmente Forza Italia, e dal Partito democratico quale diga potenziale eretta contro una potenziale vittoria del Movimento 5 Stelle. Sappiamo tutti che nel 2014 i 5S non si sono presentati e i due schieramenti concorrenti, centrosinistra e centrodestra, hanno usufruito a piene mani di quella legge definita “pessima” anche dal presidente Ganau.
Si deve prendere atto che oggi la maggioranza di centrosinistra appare preoccupata più di conservare il numero più alto possibile di poltrone che non di rimettere al centro della propria azione politica la rappresentanza popolare e la partecipazione democratica, ma pare che il problema abbia poca rilevanza anche nell’opposizione rappresentata nel Consiglio.
Eppure il tempo per la modifica della legge elettorale sarda c’è stato, eccome, così come non sono mancate le proposte di modifica, ben sette giacenti in Consiglio, in questi quattro anni appena trascorsi oltre ad alcune sollecitazioni venute dalla società civile, con assemblee molto partecipate e la presentazione di linee guida per la riscrittura della legge elettorale, compresa una proposta del Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria di Cagliari che poneva l’esigenza di una legge proporzionale che preservasse l’indicazione del Presidente in capo agli elettori. [segue]
Politica. GOVERNO i due potenziali alleati
IL PUNTO di Roberta Carlini su Rocca.
Altro che terza Repubblica, come l’ha chiamata Di Maio all’indomani del voto. Le lunghe settimane delle consultazioni per la formazione del governo ci hanno piuttosto riavvicinato al clima della
Prima repubblica, con il ritorno in auge addirittura di una terminologia antichissima, come quella dei «due forni», che poi sarebbero la Lega e il Pd, considerati tra loro in alternativa dal cliente-M5S. Due forni complicati: uno, il Pd, è chiuso per scelta del titolare (che peraltro non si sa neanche chi sia); l’altro, la Lega, sarebbe aperto ma insieme a un connesso ipermercato, Forza Italia, inviso al cliente. Questo scenario, e le conseguenti manovre e furbizie, hanno riportato alla memoria le tattiche della Dc, la spregiudicatezza del Psi, le geometrie variabili del pentapartito (qui servirebbe un manualetto di traduzione, a uso dei più giovani). Eppure, molte cose sono cambiate e c’è una differenza fondamentale tra lo scenario della Prima repubblica e quello attuale, comunque lo si voglia chiamare: il ceto politico dominante di allora agiva per conservare il potere, per preservare un assetto sociale, economico e istituzionale; quello vincente di oggi arriva sull’onda di un proposito rivoluzionario: entrare nel potere e cambiarlo. Non è la rivoluzione del Novecento, ovviamente; ma è comunque un sommovimento dal basso, popolare, contro l’establishment. Lo è nell’elettorato, e lo è nella fisionomia dei rappresentanti eletti, con un grande ricambio, abbassamento dell’età media, arrivo di persone finora estranee alla politica, e anche (per i grillini) con un buon numero di donne. Per questo stride la forma che subito ha preso la questione, tutta immersa negli antichi riti e nelle più consumate tattiche.
destra e sinistra per me pari son
Anche la proposta in sé innovativa di ricorrere a un contratto di coalizione, sulla falsariga di quel che succede in Germania, è stata indirizzata indifferentemente nelle due direzioni, a destra e a sinistra: a conferma di quanto i Cinque Stelle dicono di sé sin dall’origine, ossia di essere oltre queste categorie considerate del passato; ma in spregio a qualsiasi ordine di priorità nella scelta dei contenuti. Passando allora dalla forma alla sostanza, e in attesa che lo facciano gli sherpa dei nuovi partiti, si può tentare di capire dai programmi elettorali quali sono i punti di contatto e quali quelli di frattura in una potenziale alleanza tra i due mezzi vincitori delle elezioni di marzo, il Movimento Cinque Stelle e la Lega (sempre che non cambi tutto e le difficoltà di questo scenario, politiche e programmatiche, non portino a trattative con il Pd che per ora è però congelato nella sua posizione di non-dialogo).
Quel che appare evidente a un osservatore esterno, per esempio alla stampa straniera, ma poco sottolineato in Italia, è la vicinanza tra Lega e M5S nell’asse che va da Trump alla Brexit ai sovranisti europei: ritorno alla difesa dell’interesse nazionale in economia, contestazione dei miti e delle parole d’ordine della globalizzazione (libera concorrenza e frontiere aperte),
evocazione di un mitico passato dorato da riportare in vita, insofferenza verso i vincoli dei trattati internazionali. Una linea che Salvini interpreta al meglio, ma che non è lontana dai toni e dalla sostanza di molte posizioni dei politici e del popolo a Cinque Stelle. Diverse sfumature di sovranismo, insomma; che però, più che contenuto di un accordo, potrebbero diventare le prime grane di un eventuale futuro governo, visto che non sarebbe facile tradurre queste pulsioni in realtà – anche se il precipitare della crisi in Siria potrebbe portare tutti a fare scelte di campo ben prima del previsto.
Stato fisco welfare
Guardando per ora dentro i confini e i programmi di politica economica, i cavalli di battaglia dei due partiti sono noti: la flat tax per la Lega, il reddito di cittadinanza per il M5S. Sembrerebbero due concezioni opposte dello Stato, della politica fiscale, del welfare. La flat tax è un’imposta con aliquota unica, uguale per tutti i livelli di reddito, che la Lega propone al 15%: è una proposta simile a quella di Forza Italia, che però nel suo programma ne aveva fissato l’aliquota al 23%. In tutti e due i casi era prevista poi un’area di esenzione totale dall’imposta, con aumento dell’attuale «no tax area». La filosofia è chiara: semplificare e ridurre al massimo il peso del fisco sui redditi e le attività produttive, in modo tale che l’economia, liberata dal peso dello Stato, possa fiorire e crescere.
Al contrario, la filosofia di quello che i Cinque Stelle chiamano il «reddito di cittadinanza» è quella di uno Stato che interviene, che assiste i più poveri, dando a tutti coloro che sono sotto la soglia della povertà relativa un assegno mensile, condizionato alla disponibilità dei beneficiari a lavorare quando i centri per l’impiego li chiamano. È uno schema che non corrisponde all’ideale del «reddito di cittadinanza», che è universale e incondizionato, ma somiglia piuttosto alla formula del Rei, il reddito di inserimento varato dal governo uscente. Solo che ne amplia moltissimo l’ambito di applicazione, risultando dunque in una copertura molto vasta – e anche molto costosa.
C’è un tratto comune, tra le due proposte-pilastro della politica economica di Lega e M5S, ed è che sono irrealizzabili con gli attuali vincoli del bilancio pubblico. Secondo i calcoli degli economisti de lavoce.info, la flat tax al 15% costerebbe alle casse dello Stato 58 miliardi; il reddito di cittadinanza circa 30 miliardi. Ma prima ancora di pensare a come mantenere le promesse elettorali, il nuovo governo avrà come prima sua «grana» di politica economica la necessità di evitare gli aumenti automatici dell’Iva che scatteranno l’anno prossimo se la legge di stabilità non troverà nuove coperture. Si tratta di 12,4 miliardi nel 2019 e 19,2 miliardi nel 2020: se il governo non li troverà in altro modo, aumenterà l’imposta su una grandissima parte di beni di consumo. E questo in virtù di una legge dello Stato, varata ai tempi del governo Monti con una misura straordinaria votata allora da tutti i partiti – eccetto la Lega, mentre i Cinque Stelle non erano in parlamento. Dunque un eventuale governo Salvini-Di Maio, prima di qualsiasi altra cosa, dovrebbe trovare quei soldi per evitare che aumentino le tasse più odiose, quelle che, colpendo i consumi indiscriminatamente, di fatto pesano di più su chi ha redditi più bassi.
ma chi paga?
Dopodiché, potrebbero dedicarsi ai propri programmi; ma quali? Ridurre le tasse soprattutto ai più ricchi (come fa la flat tax, che premia in misura più che proporzionale i redditi più alti) o aiutare i più poveri? Al tavolo della contrattazione sul programma, le due proposte potrebbero rivelarsi meno lontane di quanto non sembri. Potrebbero essere un po’ emendate tutte e due: una riduzione delle tasse meno forte di quella promessa; e un aiuto ai poveri meno estensivo, di fatto solo un ampliamento dell’attuale Rei. E a ben guardare i due progetti non sono così abissalmente lontani e incompatibili: la riduzione del peso del fisco per i più ricchi e un aiuto ai più poveri era in fondo la proposta dell’economista fondatore del monetarismo – e ispiratore del liberismo reaganiano – ossia Milton Friedman, che ipotizzò una «imposta negativa sul reddito», ossia un’imposta che ai livelli più bassi si trasforma in sussidio. Nella visione di Friedman, il tutto si doveva realizzare nell’ambito di una grande riduzione della presenza dello Stato e del welfare: il taglio delle imposte si doveva coprire con la riduzione della spesa pubblica, e il sussidio monetario per i poveri doveva restare l’unica forma, caritatevole, di assistenza sociale. Una visione drastica, da «lacrime e sangue», non presente in nessuno dei programmi dei nostri partiti; tutti promettono di tagliare gli sprechi e la spesa im- produttiva, ma nessuno scende nel detta- glio, sul quale perderebbe consensi e popolarità. Eppure, i conti hanno una loro logica. Per attuare anche una minima parte delle loro promesse, i due potenziali alleati dovranno ricorrere o a maggior deficit o a un taglio radicale della spesa. Sulla prima strada, c’è l’ostacolo dell’Europa e soprattutto della reazione dei mercati, sui quali quel deficit dovrebbe essere finanziato. La seconda non è nel dna dei due partiti, che anche se evocano a ogni pie’ sospinto il rigoroso Cottarelli, ex commissario alla spending review, impallidirebbero a sentire le sue proposte. Il taglio delle agevolazioni fiscali, per dirne una, andrebbe a colpire le piccole e medie imprese, base elettorale della Lega; quelli alla pubblica amministrazione, alla sanità, agli statali sarebbero mal digeriti dalla base elettorale dei Cinque Stelle. Ma siamo entrati in uno scenario del tutto inedito: chissà che non possa essere proprio lo «Stato minimo» alla fine lo sbocco dei due sogni irrealizzabili di Di Maio e Salvini.

Oggi lunedì 16 aprile 2018
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Legge elettorale: i furbetti si stringono il capio al collo?
16 Aprile 2018
Andrea Pubusa, su Democraziaoggi.
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Una breve riflessione sulla crisi delle classi dirigenti isolane.
di Paolo Fadda, articolo ripreso da Fondazione Sardinia
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Alla radice dei populismi. Ripensare la democrazia
di Giannino Piana, su Rocca
La metà dei cittadini italiani (e oltre), in occasione delle ultime elezioni nazionali, ha dato la propria adesione a partiti – Movimento 5 Stelle e Lega – che, pur con le dovute differenze, sono accomunabili sotto l’etichetta del «populismo». Il fenomeno non è del resto isolato, se si considera la presenza di esperienze analoghe in altri paesi d’Europa – dalla Brexit in Gran Bretagna, al Front National in Francia fino all’ascesa delle destre in Germania e in Austria – al punto che si può ormai parlare di una internazionale populista europea.
Al di là della discussione teorica sui tratti che qualificano il populismo – diverse sono le definizioni che di esso vengono date dai politologi –, tra le varie posizioni espresse (non solo in Italia) esistono significative convergenze: dalla condivisione di una radicale protesta nei confronti dello status quo, in particolare dei partiti tradizionali, al rifiuto di una società aperta verso i migranti, fino alla dura critica rivolta all’Europa, considerata la causa di tutti i mali che affliggono lo stato di difficoltà di molte delle nazioni che ne fanno parte. A questo si aggiungono le spinte sovraniste e nazionalistiche – la Lega accentua questa visione –, il rifiuto della democrazia rappresentativa e la sua sostituzione con la democrazia diretta che, per il Movimento 5 Stelle, va realizzata mediante il ricorso alla tecnologia dell’informazione oggi a disposizione.
alla ricerca delle cause immediate
Le cause che hanno prodotto questa svolta, sorprendente per la rapidità con cui è avvenuta, vanno ricercate in più direzioni. Un ruolo determinante ha anzitutto avuto – è questo il dato di fondo da cui occorre partire – la grave crisi economico-finanziaria iniziata negli anni 2007-2008, che non hatrovato nella classe politica tradizionale risposte rassicuranti. Lo stato di recessione tuttora in corso (nonostante alcuni timidi segnali di fuoriuscita) e la crescita delle diseguaglianze hanno suscitato (e non potevano che suscitare) un diffuso (e trasversale) senso di scontento. Al disagio causato dal forte incremento delle povertà, vecchie e nuove, e dal livello patologico della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile si accompagna il sentimento di deprivazione del ceto medio, dove la sperimentazione di una consistente riduzione delle possibilità economiche, provoca una crescente aggressività sociale.
A questi dati si aggiunge (e con essi interagisce) la radicale sfiducia nei confronti della politica – mai in passato l’indice di gradimento era sceso tanto in basso – a causa dei fenomeni di corruzione, presenti in maniera sempre più consistente e capillare, dei privilegi di cui godono gli eletti alle cariche pubbliche – si pensi soltanto ai vitalizi dei parlamentari – e della incapacità ad affrontare i problemi reali del paese, facendo le riforme e preoccupandosi delle fasce più deboli della popolazione.
Tutto questo è poi ingigantito dalla strumentalizzazione che ne fanno i media, i quali accentuano gli aspetti negativi della situazione, alimentando una percezione distorta della realtà, che esaspera gli animi e favorisce lo sviluppo di atteggiamenti qualunquistici con l’emissione di valutazioni approssimative e demagogiche dettate dal pregiudizio e dalla superficialità. Si va dalla convinzione che non esistano differenze tra i politici nell’accaparramento di posti e di prebende – «sono tutti uguali», si dice, indipendentemente dalle posizioni ideologiche – alla contrapposizione tra classe politica e società civile, con l’addebitamento alla prima di tutti i mali e la considerazione della seconda come del tutto pulita e vittima dei soprusi di chi esercita il potere.
la svalutazione della politica
Dietro a queste critiche non è difficile scorgere una forte svalutazione della politica, legata tanto al convincimento dell’assenza in essa di qualsiasi professionalità, quanto al venir meno delle ideologie e al rifiuto pregiudiziale di ogni forma di mediazione.
La prima di tali cause – il rifiuto di considerare la politica come una professione – si traduce nell’assunzione di un atteggiamento superficiale che giustifica l’improvvisazione e l’assenza di competenza. Anziché arte difficile, professione alta e di grande complessità – come da sempre è stata presentata dal pensiero occidentale a iniziare dalla filosofia greca (emblematica è la riflessione di Aristotele) – essa viene guardata con diffidenza (e con sufficienza) come l’ultimo dei mestieri, per il quale non si esigono doti particolari e i cui rappresentanti sono del tutto intercambiabili. La battaglia contro gli stipendi dei parlamentari o la severità con cui da parte di alcuni ci si oppone a più mandati nelle cariche pubbliche, oltre a denunciare la presenza di atteggiamenti demagogici, non fa che confermare la scarsa reputazione che si ha della professionalità della politica.
La seconda causa – la crisi delle ideologie – peraltro giustificata dalla condanna delle grandi ideologie del «secolo breve», che hanno dato vita ai totalitarismi, si traduce nell’affermazione che è del tutto anacronistico parlare di destra e di sinistra, e coincide di fatto con l’accettazione di una politica nella quale si mescolano posizioni diverse (talora di segno opposto) – vi è chi ha definito per questa ragione il Movimento 5Stelle come «una realtà amorfa» – con il rischio dell’assenza di ogni progettualità. Il doveroso rigetto dell’ideologia totalizzante conduce pertanto al rigetto di ogni forma di ideologia, anche di quella limitata e pragmatica che consente alla politica di darsi una prospettiva di futuro.
Infine – è questa l’ultima causa (ma non in ordine di importanza) – un rilievo particolare occupa il rifiuto di ogni forma di mediazione; rifiuto che ha quale esito – come si è già accennato e come ben rileva Cecilia Biancalana nel suo recente volume dal titolo eloquente Disintermediazione e nuove forme di mediazione. Verso una democrazia post-rappresentativa? (Feltrinelli) – l’affermarsi di una democrazia post-rappresentativa, nella quale non vi è più bisogno di mediatori. La stessa adesione al «vincolo di mandato», sul quale il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno insistito in campagna elettorale, può essere ricondotta a questa logica. La piaga del trasformismo, che è nel nostro Paese endemica, esige che si provveda a qualche aggiustamento – un’operazione in tal senso è stata fatta al Senato al termine della scorsa legislatura –; ma non ci si può non chiedere se la strada indicata dal Movimento 5 Stelle e Lega è quella giusta, considerando che essa finirebbe per vincolare i parlamentari non tanto ai propri elettori quanto ai vertici del partito in cui sono stati candidati, concorrendo alla «verticalizzazione» dei rapporti politici e favorendo il leaderismo.
La rinuncia alla mediazione contiene poi anche un altro aspetto negativo che non può non essere stigmatizzato; essa coincide infatti con la condanna preventiva del compromesso, anche nella versione più nobile di «compromissione con la realtà». Il che comporta il mancato riconoscimento della identità stessa della politica, la quale è per definizione l’arte del «possibile», che sta tra l’«ideale», che non deve mai essere messo tra parentesi, e la «realtà» con cui è necessario fare seriamente i conti, se si intende uscire dall’astrattezza e promuovere un’effettiva crescita della società. Ciò che sembra mancare è, in definitiva, una «cultura della politica», l’assenza cioè della conoscenza dei fini e delle leggi, che presiedono alla sua conduzione.
tra prometeismo e nichilismo
Ma, al di là delle ragioni fin qui addotte, un posto di rilievo meritano alcune motivazioni più radicali, legate ad alcune dinamiche proprie della cultura contemporanea.
La prima di esse fa riferimento al ruolo privilegiato della tecnica, quale artefice di una mentalità e di un costume che condizionano in modo rilevante la condotta umana. La possibilità di interventi sempre più incisivi e sofisticati della realtà genera una forma di prometeismo, che finisce per vanificare la possibilità di «vivere in una comunità politica», la quale – come lucidamente scriveva Mario Vegetti da poco scomparso – esige per potersi attuare «la condivisione di un orizzonte di valori etico-politici, la giustizia, la legge, l’educazione collettiva» (La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della Sera, 18 marzo 2018, p. 27).
D’altro canto – è questa la seconda motivazione apparentemente in contrasto con quella precedente – a destituire di significato la politica è anche l’avanzare di una forma di nichilismo radicale, dettato paradossalmente – come ha acutamente messo in luce Roberto Esposito in un suo recente, importante saggio (cfr. Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi) – dalla edulcorazione del negativo, dal tentativo cioè di minimizzarlo fino a rimuoverlo. La politica – quella dei nuovi movimenti che hanno come obiettivo una radicale palingenesi, rifiutando per questo la mediazione e il compromesso e facendo propria una lettura moralistica e giustizialista – affonda le proprie radici nell’incapacità di accettare l’ambivalenza della realtà, perseguendo un purismo irrealistico e paralizzante.
le vie da percorrere per uscire dal tunnel
La possibilità di uscire dal tunnel, ricuperando una democrazia rappresentativa, che interpreti in modo corretto le esigenze della gente e ottenga pertanto un alto livello di consenso, non è facile. A rendere ardua la condivisione di tale prospetti- va concorrono, da un lato, la individualizzazione dei bisogni e delle aspirazioni – come ha messo bene in evidenza Zygmunt Bauman – e, dall’altro, il mancato bilanciamento della cultura dei diritti con la cultura dei doveri e della responsabilità. Il problema è dunque anzitutto culturale, e implica una nuova coscienza del «bene comune» fondata su un sistema di valori e di norme condivise. «Non c’è polis – osservava ancora Mario Vegetti – senza un sistema di norme di giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica, infine senza un’educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli comunitari» (art. cit., p. 27). Sono qui perfettamente armonizzate dimensione personale e dimensione istituzionale, che vanno tra loro integrate in un dinamismo che le renda reciprocamente interagenti.
Il nodo centrale diviene, in questo quadro, pertanto la rivisitazione delle modalità di costruzione e di organizzazione del sistema democratico. L’entrata in crisi dei partiti tradizionali e la loro sostituzione con movimenti e partiti personali non è soltanto frutto delle scelte di una classe politica degradata; è anche, in larga misura, espressione di un profondo mutamento sociale prodotto dai sistemi di comunicazione, i quali, oltre a condizionare in termini consistenti le scelte personali, favoriscono forme di leaderismo, che limitano l’esercizio della democrazia con la riduzione degli spazi partecipativi.
Una delle questioni che occorre allora affrontare con maggiore urgenza è quella della identità della forma-partito, della sua struttura interna e delle modalità di esercizio della propria azione. Ma, ancor più radicalmente, si tratta di ripensare il rapporto tra società civile e istituzioni pubbliche, con la valorizzazione delle soggettività sociali o degli enti intermedi che, nella misura in cui superano le logiche corporative, sono destinati a svolgere un’importante funzione di cerniera tra società e Stato, favorendo lo sviluppo di una politica, dove alla crescita partecipativa della società corrisponde il riconoscimento del ruolo essenziale (e non dunque puramente residuale) dello Stato, nel rispetto di un giusto equilibrio tra principio di sussidiarietà e principio di solidarietà. In definitiva, a doversi radicalmente trasformare è la politica, che deve ricuperare un sistema di valori, al quale ispirare la propria azione, e individuare, nello stesso tempo, forme di intervento nei confronti della realtà legate a una precisa proposta ideologica, nonché dare vita a una «cultura dei mezzi», che consenta di fornire ad essa un contenuto operativo. In questo modo (e solo in questo) è possibile restituire dignità e credibilità all’impegno politico, e vincere la tentazione del ricorso al populismo, che costituisce un grave attentato allo statuto della stessa democrazia.
Giannino Piana
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Rocca – Cittadella
Gli Editoriali di AladiNews
Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma!
I VENTI DI GUERRA CHE SOFFIANO SULLA SIRIA
di Franco Astengo
LA PACE OLTRE OGNI RAGIONE
Nei secoli la ragione è stata dalla parte della guerra, madre e regina del mondo, non solo evento ma criterio di tutta la realtà. Ripudiata poi come folle, la guerra è tornata come prostituta, venduta come sacra. La ragione della pace sta invece nella nonviolenza di Dio
di Raniero La Valle.
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Politica. GOVERNO: i due potenziali alleati
IL PUNTO di Roberta Carlini su Rocca.
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Strade nuove
Sussidiarietà economica, beni comuni e riforma del Terzo settore
di Umberto Di Maggio – su LabSus, 9 aprile 2018
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Le diseguaglianze sociali causa dell’insostenibilità ecologica
Se chi dispone di maggiori redditi, sprecasse meno risorse, avremmo più risorse anche per chi ha di meno, senza bisogno di aumentare i nuovi prelievi. Prendersela solo con l’aumento della popolazione come causa di insostenibilità ecologica, visto anche che la popolazione che più aumenta è quella più povera, mi pare oltre che sbagliato, ingiusto.
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Con Lula per il popolo del Brasile
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
La colpa di Lula? Aver reso possibile un altro mondo
di Luciana Castellina su il manifesto
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Governo vo’ cercando
E’ giustificabile un “governo dei tecnici” in alternativa alla democrazia?
di Gianfranco Sabattini
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Politica. GOVERNO: i due potenziali alleati
IL PUNTO di Roberta Carlini su Rocca.
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Altro che terza Repubblica, come l’ha chiamata Di Maio all’indomani del voto. Le lunghe settimane delle consultazioni per la formazione del governo ci hanno piuttosto riavvicinato al clima della
Prima repubblica, con il ritorno in auge addirittura di una terminologia antichissima, come quella dei «due forni», che poi sarebbero la Lega e il Pd, considerati tra loro in alternativa dal cliente-M5S. Due forni complicati: uno, il Pd, è chiuso per scelta del titolare (che peraltro non si sa neanche chi sia); l’altro, la Lega, sarebbe aperto ma insieme a un connesso ipermercato, Forza Italia, inviso al cliente. Questo scenario, e le conseguenti manovre e furbizie, hanno riportato alla memoria le tattiche della Dc, la spregiudicatezza del Psi, le geometrie variabili del pentapartito (qui servirebbe un manualetto di traduzione, a uso dei più giovani). Eppure, molte cose sono cambiate e c’è una differenza fondamentale tra lo scenario della Prima repubblica e quello attuale, comunque lo si voglia chiamare: il ceto politico dominante di allora agiva per conservare il potere, per preservare un assetto sociale, economico e istituzionale; quello vincente di oggi arriva sull’onda di un proposito rivoluzionario: entrare nel potere e cambiarlo. Non è la rivoluzione del Novecento, ovviamente; ma è comunque un sommovimento dal basso, popolare, contro l’establishment. Lo è nell’elettorato, e lo è nella fisionomia dei rappresentanti eletti, con un grande ricambio, abbassamento dell’età media, arrivo di persone finora estranee alla politica, e anche (per i grillini) con un buon numero di donne. Per questo stride la forma che subito ha preso la questione, tutta immersa negli antichi riti e nelle più consumate tattiche.
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Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma!
Un grido d’allarme
I VENTI DI GUERRA CHE SOFFIANO SULLA SIRIA
Un appello per il movimento per la pace. Occorre lottare per il disarmo da attuarsi nel cuore del continente europeo e per una posizione fermamente contraria a ogni escalation militare.
di Franco Astengo su chiesadituttichiesadeipoveri
La situazione in Siria presenta elementi molto preoccupanti nella direzione di una guerra globale.
Forse non siamo mai stati così vicini al “pericolo totale” neppure nei momenti più drammatici della “guerra fredda” tra i grandi blocchi militari nella seconda metà del ‘900: la guerra di Corea, la crisi dei missili a Cuba, la fase di avvio della presidenza Reagan.
E’ certo che davvero la fase che era stata definita della “globalizzazione”, si è conclusa e, come si era avvertito già da tempo, si stanno riformando concentrazioni armate contrapposte già di fronte l’una all’altra nelle zone più calde, a partire dal Medio Oriente (non dimenticando gli altri possibili scenari).
Sicuramente le cose stanno in maniera molto più complessa di quanto sia possibile descriverle a questo punto, ma la sostanza degli atti pare proprio condurre alla necessità di lanciare un grido d’allarme.
Gli USA hanno ripreso il ruolo da “gendarme del mondo” ma non sono soli, anzi sono fronteggiati con forza.
Siamo di fronte alla costruzione di un nuovo bipolarismo tra le potenze imperiali o meglio a “vocazione imperiale”.
Naturalmente si tratta di uno scenario ben diverso da quello della “guerra fredda” post-secondo conflitto mondiale ma che, comunque, richiama due elementi molto importanti da valutare nel quadro di un’azione politica di sinistra da questa parte del continente, nell’Europa Occidentale: all’interno, cioè, di uno scenario nel quale agiscono le strutture economico-politiche dell’Unione Europea:
1) Il ritorno della geopolitica intesa come riassunzione di centralità del concetto di “spazio vitale” e di egemonia per l’accesso e l’utilizzo delle risorse energetiche;
2) Il riproporsi, proprio all’interno dello spazio vitale detenuto dall’Unione Europea, di una questione di vero e proprio schieramento che questa volta non comporta però l’opzione riguardante una scelta di civiltà. Non ci sono più a fronteggiarsi il capitalismo liberale di marca USA e il “socialismo reale” di stampo sovietico ma i due modelli del neo nazionalismo e della vocazione protezionistica USA e della “vocazione imperiale” russa (ben esplicitata del resto dal sistema di alleanze che si sta creando nella regione mediorientale), all’interno di un gioco molto complesso dal punto di vista dell’intreccio economico, produttivo e di scambio di capitali all’interno del quale andranno valutati anche altri fattori: dal ruolo della Cina a quello del livello di tensione complessiva nell’estremo Oriente a partire dal tema del nucleare in Corea del Nord.
La sinistra occidentale che non ha trovato una propria dimensione politica rispetto al tema dell’Unione Europea, del dominio delle banche, dell’egemonia tedesca sull’insieme dei principali punti della filiera produttiva, della moneta unica e del deficit di democrazia adesso è chiamata a muoversi sul terreno prevalente del rapporto con Oltreatlantico attraverso la compiuta acquisizione del richiesto meccanismo di ritorno alla subalternità.
Lo scenario incombente è quello di un conflitto globale di dimensioni e qualità ben diverse da quelli periferici, di natura neo-coloniale, che abbiamo vissuto nel corso di questi anni sugli scacchieri mediorientali, dell’Asia Centrale, dell’Africa, dell’Estremo Oriente e dell’Europa.
Mentre l’Italia appare completamente priva di una politica estera e le prospettive della formazione del nuovo governo fanno temere, sotto questo delicatissimo e cruciale aspetto, il peggio del peggio.
E’ proprio il caso allora di invitare con forza il movimento per la pace e i soggetti politici ancora presenti a sinistra perché riprendano a considerare la necessità di una mobilitazione immediata sul tema della pace e del disarmo.
Tra le tante proposte che possono essere lanciate in una visione di superamento dell’attuale assetto dell’Unione Europea (che appare anch’essa completamente priva di una propria politica al riguardo dei temi fin qui indicati) quello del disarmo da attuarsi nel cuore del Continente e di una posizione fermamente contraria a ogni escalation bellica dovrebbero trovarsi al centro dell’iniziativa politica, sia nella dimensione interna, sia in quella transnazionale (che un tempo avremmo definito come internazionalista).
Questi appena elencati costituiscono temi d’intervento che sicuramente sopravanzano quelli di natura più direttamente economica.
Franco Astengo
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Dedicato a Lorenzo Milani.
LA PACE OLTRE OGNI RAGIONE
Nei secoli la ragione è stata dalla parte della guerra, madre e regina del mondo, non solo evento ma criterio di tutta la realtà. Ripudiata poi come folle, la guerra è tornata come prostituta, venduta come sacra. La ragione della pace sta invece nella nonviolenza di Dio
La seguente relazione è stata tenuta l’11 aprile 2018 all’Università di Messina in occasione di un seminario dedicato a don Lorenzo Milani:
Dobbiamo anzitutto metterci in situazione, sapere che parliamo di pace proprio qui, in quel centro del mondo dove la pace è massimamente negata, nel cuore del Mediterraneo, dove si stanno armando le propagande, le fake news, gli incrociatori e i missili per la guerra alla Siria, dove si spara nella striscia di Gaza e si attacca il paese dei Curdi, e dove si affollano i barconi dei profughi che le Marine si disputano e che a migliaia facciamo morire.
Il titolo dato a questo intervento, “La pace oltre ogni ragione”, introduce come tema sensibile il rapporto pace-ragione. È un binomio che rinvia e corrisponde a un altro binomio cruciale, quello fede-ragione. Come la fede appartiene alla ragione ma trascende la ragione, la supera e può perfino essere ogni oltre ragione, così la pace appartiene alla ragione, ma la trascende, la supera e può essere pensata anche contro e oltre ogni ragione.
Quand’è che la fede soffre a causa della ragione, e anzi può essere ferita o distrutta dalla ragione? Quando si pretende di ridurre la fede e mettere la religione nei limiti della sola ragione. È, com’è noto, l’assunto di Kant. Ma è anche la pretesa della modernità, e questo lo sappiamo e non ci spaventa. Purtroppo però questa è anche la tentazione di molti cristiani di oggi, anche dei più provveduti, e questo mi spaventa moltissimo. Io ho vissuto quest’anno con grande gioia, e quasi con accanimento, la veglia della notte di Pasqua, perché avevo visto e sentito amici cristiani a me carissimi, e anche teologi, che proponevano l’istanza di demitizzare la Resurrezione, di riportare anch’essa nei limiti della sola ragione per corrispondere alla mutata sensibilità dell’uomo moderno: e per farlo non solo avanzavano l’ovvio argomento che quando si interrompono tutte le sinassi del cervello non può esserci vita e tanto meno resurrezione nel senso biologico, e così la ragione è a posto, ma volevano riportare nei limiti della sola ragione anche il fatto straordinario che le prime apostole, Maria di Magdala, l’altra Maria, Giovanna, Salome, i primi discepoli, la prima Chiesa e poi tutte le generazioni successive fino ad ora abbiano visto e creduto che il Signore è risorto, che è veramente risorto. E anche esegeti cristiani, dell’una o dell’altra confessione, ci spiegano come la Resurrezione è un mito, che in realtà essa altro non è che l’idea soggettiva della Resurrezione, che Gesù non può essere il figlio di Dio, come del resto già dicevano quelli del Sinedrio, che il Dio del teismo non esiste, per cui non lo si chiama più per nome ma solo per grandi idee riassuntive; e allora si parla di lui come del Principio originario, dell’Amore primordiale, come di una Forza di vita, come di un confluire di tre tempi, passato presente e futuro e via astraendo. È la nuova gnosi, il logos che rifiuta di farsi carne. E così la ragione è salva, ma la fede è perduta, la croce come unica e suprema irragionevolezza di Dio è perduta, e allora non c’è più argine, non c’è più limite all’invasione delle ragionevoli croci che ormai coprono tutta la terra, questo immenso Golgota che si erge sulla collina dei rifiuti detta Gehenna, in cui la nostra generazione sta trasformando la terra.
In questo modo la ragione, nella pretesa di abbracciarla, diventa nemica della fede. Perciò, con questa esperienza, bisogna stare attenti anche quando si parla di pace e ragione. Perché nella storia mille e mille sono state le ragioni per cui la pace non è stata ritenuta possibile, e nemmeno desiderabile, mentre mille e mille sono state le ragioni messe in campo che hanno militato a favore della guerra. E allora se si vuole intendere la pace nei limiti della sola ragione, la pace è perduta.
La guerra come ragione
La ragione non vuole affatto legarsi alla pace. Anzi è proprio quando la pace sembra l’unica cosa ragionevole, che la pace non c’è, è proprio quando la pace appare la sola alternativa razionale all’inutile strage, quando è l’unico antidoto all’istinto di sterminio, alla logica di Hiroshima, quando sarebbe il rimedio alla fame lasciata correre a briglie sciolte nel mondo, quando porrebbe fine al terrorismo vestito da imperialismo o da estremismo religioso, proprio allora la pace non c’è.
È per questo che si comprende tutta la forza di rovesciamento dell’affermazione di papa Giovanni XXIII nella Pacem in terris: non è la pace che è fuori dalla ragione, ma è la guerra che è fuori dalla ragione, bellum alienum a ratione. Sempre in verità essa è stata fuori dalla ragione, anche quando i teologi cattolici affastellavano i motivi che rendevano le guerre giuste, e papa Giovanni lo sapeva, come lo sapeva don Milani che nella sua lettera ai cappellani militari che avevano accusato l’obiezione di coscienza di viltà, aveva spiegato come fossero state ingiuste e folli tutte le guerre che avevamo combattuto, anche prima della bomba atomica. Ma papa Giovanni per non farsi dire, come oggi si dice a papa Francesco, di aprire una voragine con i pontificati precedenti, scrisse che il vero spartiacque oltre il quale mai più la guerra avrebbe potuto essere giustificata dalla ragione era l’essere entrati nell’età che si gloria della sua potenza atomica. Era una rivoluzione copernicana. Perché fino ad allora la guerra era stata considerata regina. Così l’aveva cantato Eraclito e così l’abbiamo considerata fino al 900; aveva detto infatti Eraclito fin dalla culla della nostra cultura che il “polemos” era il padre e il principio di tutte le cose, di tutti re, che gli uni disvela come uomini e gli altri come Dèi, ponendo così la guerra non solo come evento, ma come criterio ermeneutico di tutta la realtà, cioè come ragione. E tale era rimasta lungo tutta la storia. Per esempio, al momento della conquista dell’America, che noi però ci ostiniamo a chiamare “scoperta”, il diritto internazionale nascente assunse la guerra come criterio per identificare lo Stato, la guerra come emblema e prova della sovranità. Uno Stato intanto è uno Stato, un sovrano intanto è un sovrano, si argomentava, in quanto può fare la guerra, e anzi la guerra è la sola sua arma di giustizia. Il sovrano infatti è sovrano perché non ha alcun altro al di sopra di sé, “superiorem non recognoscens”, come diceva Marino da Caramanico, e dunque non ha neanche un giudice che possa rendergli giustizia; e se ci sono più sovrani, non c’è nessuno, tanto meno un giudice, che può porsi sopra di loro e giudicare delle loro controversie; perciò il solo giudice tra loro poteva essere la guerra. Ed è che fosse fatta dal sovrano, ciò che distingueva la guerra dalla violenza privata, dalle risse, dal crimine: come la definì Alberico Gentili, la guerra è “publicorum armorum iusta contentio”: un giusto scontro combattuto con armi pubbliche.
E talmente ciò era considerato secondo ragione, che uno dei più grandi giuspubblicisti del Novecento, il tedesco Carl Schmitt fece della guerra il criterio stesso del politico; come il criterio dell’etica è il confronto tra il bene e il male, e dell’estetica è il contrasto tra bello e brutto, così il criterio del politico, la sua ragione cioè, è il conflitto tra amico e nemico, che ha nella guerra la sua massima espressione.
Dunque la guerra fino al 900 è stata la nostra vera regina, non solo nei fatti ma nella dottrina, non solo nella realtà ma nel diritto, non solo nella prassi ma nell’etica, non solo nella mondanità ma nella religione.
E perciò la ragione non poteva stare con la pace perché la ragione era amica della guerra e mezzana del suo connubio con la storia e con il mondo.
La guerra ripudiata ripresa come prostituta sacra
Ma a un certo punto interviene la rottura del 900. Due guerre mondiali, il nazismo, la Shoà, cinquantaquattro milioni di morti, gli olocausti, e infine Hiroshima e Nagasaki rompono la relazione tra la ragione e la guerra, spezzano la sua unione indissolubile con il mondo e con la storia; i popoli si ravvedono, depongono la guerra dal trono e la ripudiano; essa viene esiliata dalla città e bandita come la regina Vasti era stata ripudiata e cacciata dalla reggia di Susa, che era il centro dell’Impero di allora.
Ma qui viene compiuto un fatale errore. Viene fatto un ripudio ma non un divorzio. Ripudiata la guerra, invece di sposare la pace, di farla sua sposa, di darle il potere ed il regno annunciato dal principe della pace, il mondo insedia al suo posto il terrore. Per essere sicuri che la guerra non tornasse gli Stati hanno messo contro di lei il terrore, hanno fatto del terrore un’istituzione totale e l’hanno chiamato deterrenza, o equilibrio del terrore, ed hanno trasferito al terrore la ragione il talamo e il regno. Il mondo ha preferito il terrore alla guerra, uno l’ha preso e l’altra l’ha lasciata.
Ed è stato a quel punto che dalla cattedra più alta è venuta la proclamazione. La guerra ha perso la ragione dice papa Giovanni, e anzi finalmente, grazie all’atomica, gli uomini si sono resi conto, e con loro anche la Chiesa, che la ragione essa non l’ha mai avuta; ed è fuori della ragione l’idea che la guerra possa essere un mezzo atto a risarcire i diritti violati. Ma inutilmente papa Giovanni offre l’alternativa e propone come vera sposa la pace, che, lui dice, deve essere fondata sulla verità, la libertà, la giustizia e l’amore.
È bastato infatti che l’Occidente smettesse di avere paura – perché il suo nemico aveva cessato di esistere – e la guerra se l’è ripresa in casa, l’ha rimessa al suo servizio; è bastato che finisse il comunismo, che con la caduta del muro venisse meno l’alternativa socialista, è bastato che il terrore perdesse i suoi costosi denti atomici per andare a rifugiarsi nelle povere carni dei terroristi suicidi, perché l’Occidente di tutta fretta rimettesse al suo posto la guerra, e lo ha fatto già nel 1991 con la prima guerra del Golfo.
Ma come poteva farlo dato che l’aveva screditata, svergognata, data per folle e ripudiata? Ci voleva una riabilitazione, un lavacro rigeneratore, quasi un nuovo battesimo. E questa fu la grande operazione mediatica messa su nel 1990 e 1991, l’imponente campagna d’opinione condotta da tutti i persuasori, mediatici e politici, grazie all’invenzione della guerra del Golfo. Ci voleva infatti una bella fantasia a fare una guerra, quasi una guerra mondiale, per il Kuwait, che in realtà non stava a cuore a nessuno, e che in ogni caso si poteva restituire alla sua sovranità mediante negoziati, e non con la guerra. Il Kuwait non era Danzica, e nessuno voleva morire per il Kuwait. Ma il fatto è che intanto la guerra aveva cambiato natura, perché ormai si moriva da una parte sola, e chi decideva di farla, credeva di farla ormai a buon mercato; ed è così che irresponsabilmente veniva inaugurato un tempo in cui, ripristinata la guerra, l’unica guerra possibile per i poveri fosse il terrorismo.
In ogni caso per quanto fossero ingenti le risorse impiegate per riabilitare e ripristinare la guerra, essa non poteva più essere richiamata come sposa, come regina; poteva essere ripresa solo come prostituta. Ripudiata come Vasti, sostituita col terrore, la guerra veniva recuperata come Rahab, la prostituta di Gerico che per salvare se stessa aveva tradito il suo popolo e l’aveva consegnato al genocidio. Ma poichè Rahab aveva finito per diventare la sola isola di salvezza in mezzo allo sterminio, era stata idealizzata e celebrata come la “casta meretrix”, la prostituta sacra, al punto che sant’Ambrogio orrendamente l’assimilò alla Chiesa, che perciò fu chiamata anch’essa “casta meretrix”.
La ragione di Stato come ideologia sacrificale
Non più come sposa ma come prostituta, la guerra non poteva più essere al servizio dei popoli, ma solo dei poteri che dominano i popoli. E infatti non più eserciti di leva, popoli in armi, la guerra meretrice non poteva che essere fatta da mercenari. E al suo servizio veniva messa di nuovo una ragione che non è solo una ragione, ma taglia corto a tutte le ragioni, la ragion di Stato.
Ho visto un film inglese di un regista sudafricano (Gavin Hood), “Il diritto di uccidere”, la cui protagonista è per l’appunto la ragion di Stato. Vi si esibivano le nuove modalità di violenza che sono rese possibili dalle attuali tecnologie, e in particolare la guerra che viene condotta con i droni e le uccisioni che vengono perpetrate da grandissima distanza. Il film racconta di un’operazione militare inglese, condotta dal Nevada, che coinvolge politica, diritto e Stati maggiori d’America e d’Inghilterra, operazione che consiste nell’uccidere a Nairobi con due missili lanciati da un aereo senza pilota quattro terroristi che in una casa stanno indossando i giubbotti esplosivi per andare a fare altrettanti attentati terroristici. Il problema è che davanti alla casa che dovrà essere distrutta c’è una bambina keniota che vende il pane. Un caso da manuale: quale ragion di Stato più forte che uccidere quattro terroristi che stanno per compiere chissà quali stragi? Ma c’è la bambina che non c’entra niente. C’è l’innocente. Che fare? Procedere con l’operazione o fermarla?
Ci si consulta in tempo reale attraverso mezzo mondo (siamo in tempo di globalizzazione), sono coinvolte cancellerie, sale operative, primi ministri, segretari di Stato, consulenti giuridici e procuratori, perché sia chiaro che a decidere non è una persona sola, magari un colonnello spietato, ma a decidere è tutta la catena di comando, è tutto il sistema, è il sistema mondo, o almeno è il sistema Occidente. E la decisione è per il sacrificio: è bene che la bambina innocente muoia perché il mondo sia salvato.
Messe così le cose è probabile che la maggior parte delle persone sia d’accordo, perché in quella ragion di Stato c’è implicita l’idea di un male minore, e perché che cosa si vuole di più dall’etica dell’Occidente, dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua gloria? Prima di uccidere quattro terroristi assassini si è perfino preoccupato che di mezzo ci fosse una bambina di colore, si è chiesto se quel “danno collaterale” fosse più o meno accettabile. E la ragion di Stato ha risposto di sì.
Da questo apologo è chiaro che della guerra fatta dai grandi poteri che siedono nei loro uffici a migliaia di chilometri di distanza, sono i popoli a pagare le spese. Per questo è stato necessario che la nuova guerra fosse loro venduta come desiderabile, che fosse truccata, imbellettata, prostituta sì, ma prostituta sacra, innocente e casta. E così si è andata tessendo la grande apologia della guerra, dal primo al secondo Bush, dalla Thatcher a Sarkozy, da Netaniahu a Bin Laden, da Blair a D’Alema. E così abbiamo avuto le guerre umanitarie, le guerre giustizia infinita, le guerre per la democrazia, le guerre per punire i dittatori o gli infedeli; così nasceva la guerra per punire gli Stati canaglia, gli Stati zizzania come li chiamava il giovane Bush, che ogni sera diceva di piangere sulla spalla di Dio, e addirittura nasceva la guerra perpetua, cioè senza fine dei giorni, senza vincoli di legittimità, investita perciò degli stessi attributi di Dio. Prima ancora che Al Qaeda o lo pseudo califfato dell’ISIS indicessero la Jihad, la guerra santa era stata restaurata e rilanciata dall’Occidente.
La guerra come questione teologica
È a questo punto che la questione della guerra e delle sue ragioni diventava radicale. Non poteva più essere una questione solo politica, non poteva più essere una questione solo etica, non poteva essere una questione umanitaria. Diventava una questione teologica, un capitolo della Rivelazione. Se di valore in valore l’ultimo valore a cui la guerra era appesa era il valore di Dio, il Dio che nei secoli era stato invocato, acclamato e celebrato come il Dio della vittoria, il Dio degli eserciti, il Dio del giorno della vendetta, il Dio forte e terribile, il Dio sterminatore che aveva fatto il suo esordio uccidendo i primogeniti degli egiziani per mandare liberi gli ebrei, allora il modo per uscire radicalmente dalla guerra era quello di una nuova Rivelazione di Dio, era il purificare l’immagine di Dio, togliere Dio da qualsiasi giustificazione e legittimazione della guerra, era di fare in modo che mai più un vescovo di Ragusa potesse consacrare una chiesa in un campo di missili come a Comiso.
E ciò è appunto quello che è avvenuto con papa Francesco, che a Gerusalemme come a Redipuglia, in Albania come in Bangladesh, sulla tomba di don Milani come domani su quella di Tonino Bello, dichiara semplicemente, icasticamente, che il Dio della guerra non esiste. Rispetto al Dio della guerra noi siamo atei.
Egli ha potuto dirlo perché ha preso in mano il Vangelo, e ha preso sul serio la previsione fatta da Gesù a Pietro quando gli ha detto: ora non capisci, ma dopo capirai; e perciò Francesco cerca di capire e di far capire quello che prima non si era capito, anche delle Scritture, anche del Vangelo, anche da parte dei dottori e degli esegeti. Cioè ha tirato giù la rivelazione di Dio dagli archivi, e l’ha fatta diventare una realtà contemporanea, quotidiana, che avviene nell’oggi. Erano 1500 anni che non succedeva, da quando Gregorio Magno aveva detto che i divina eloquia, la Scrittura, cresce con chi la legge.
Per questo lo odiano. Per questo sabato scorso a Roma si è riunita l’antiChiesa, cento persone con due cardinali due vescovi e un diacono che gli hanno lanciato contro una specie di libello di ripudio, perché non vogliono che il Vangelo si muova, che l’ordine globale sia cambiato e non vogliono la libertà del cristiano. Ma era come un tentativo di evocare dal buio del passato una Chiesa che non c’è, una specie di rappresentazione in costumi d’altri tempi; perché né il cardinale Burke è un cardinale Caetani che può fare fuori un papa, né papa Francesco è un Celestino V sceso dal Morrione con la sua immensa pietà ma povero di teologia.
Se Dio è non violento, anche l’uomo può esserlo
In realtà papa Francesco non è arrivato a questa professione di fede da solo. C’era arrivata tutta la Chiesa, a partire da papa Giovanni, dal Concilio, dalla Chiesa di Bologna, da monsignor Romero, da Tonino Bello, fino al documento di altissimo valore teologico curato e firmato dal cardinale Muller, che segna un definitivo congedo dal pensiero della violenza di Dio. Vi si trova una formale presa di distanza da tante pagine della Scrittura, difficili a sopportarsi, che parlano di un Dio guerresco e violento, vendicatore e duce di un solo popolo. Si tratta di un documento della Commissione Teologica Internazionale intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza”, pubblicato a Roma nel 2014, nei primi mesi del pontificato di Francesco, ma frutto di una lunga elaborazione precedente. È un documento che nasce con una intenzione apologetica, perché si trattava di difendere il monoteismo cristiano contro l’accusa che professando un Dio unico fosse causa di violenza. Esso ammetteva però che questa falsa immagine di Dio era veicolata da molte pagine della Scrittura, che erano tuttavia il prodotto di un fraintendimento umano. La ragione teologica profonda per cui questa rappresentazione di Dio andava congedata era che essa è in contrasto con il dogma fondamentale del cristianesimo, quello del rapporto trinitario tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che non può essere altro e non può esprimersi altrimenti che come amore. Al “kairós dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa”, secondo il documento vaticano, bisognava riconoscere “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”; un trapasso d’epoca che comporta un cambiamento non solo del cristianesimo, ma dell’idea stessa di religione, e perciò di ogni religione.
Questo hanno scritto i teologi della Commissione Teologica Internazionale scelti da papa Ratzinger e incaricati di liberare il volto di Dio dalla maschera della violenza, e questo ha firmato il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede cardinale Muller, che pur oggi si vorrebbe contrapporre a Francesco e alla sua teologia.
Questa è dunque oggi la parola della Rivelazione, non solo di papa Francesco ma di tutta la Chiesa; la parola che ci dice che è avvenuto qualcosa, che per vincere la violenza, per fare della pace la sposa e la regina del mondo, oltre ogni ragione, sta cambiando lo stesso cristianesimo, e anzi cambia l’idea stessa di religione. Il cristianesimo certo, ma a questa conversione sono chiamati anche Israele, l’Islam e le altre religioni e antropologie dell’umanità. Se in Dio non c’è violenza, può non esserci violenza anche nella sua immagine, l’uomo e la donna fatti a somiglianza di lui.
Raniero La Valle.
Oggi domenica 15 aprile 2018
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“L’attacco alla Siria viola la legalità internazionale. Il Governo italiano lo condanni”
15 Aprile 2018
Ricordiamo che domani alle ore 17 all’Hostel Marina – Scalette S. Sepolcro si terrà l’Assemblea aperta degli iscritti dell’ANPI.
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—————punta de billete po su 29 de abrili—
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Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma che ci impegna tutti!
A.N.P .I.
ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA COMITATO NAZIONALE
Ordine del giorno del Comitato Nazionale ANPI sulla grave situazione internazionale
Il Comitato nazionale dell’ANPI esprime profonda preoccupazione per la situazione internazionale, che diviene sempre più complessa e pericolosa e sembra allontanare, ogni giorno di più, quello che è il nostro obiettivo primario: la pace.
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Bandire la guerra dalla faccia della Terra: ecco il vero grande programma che ci impegna tutti!
- Approfondimenti.
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- Lunedì iniziativa dell’Anpi.
L’ANPI contro l’escalation militare. Lunedì assemblea degli iscritti a Cagliari
14 Aprile 2018. Su Democraziaoggi.
Sabato 14 aprile 2018
‘L’oltraggio della sposa’, romanzo di Ottavio Olita edito da ‘Città del Sole’, sarà presentato oggi sabato 14 aprile 2018 nei locali della libreria Edumondo di via Sulis a Cagliari, con inizio alle 18.00. Relatrice la professoressa Luisa Maria Plaisant. Letture di Mario Faticoni. Sarà presente l’Autore
Dibattiti&Commenti
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
Siria, la guerra che cambia il M5s
di TOMASO MONTANARI
il Fatto quotidiano, 17 aprile 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Una valutazione ottimistica delle affinità tra il M5s e la Lega: entrambi rappresentano, a differenza del PD, le classi subalterne, entrambi esprimono istanze e volontà pacifiste, sebbene a volte le contraddicano.
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Pedagogia della carezza
di PIERO BEVILACQUA
Per una didattica della carezza, Progedit Bari, 2017, pp. 214, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Una requisitoria contro quel “tipo di educazione, in cui la qualità dell’istruzione è misurata sulla quantità di competenze e conoscenze che l’insegnante riesce a depositare nella testa dello studente”».
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