Monthly Archives: marzo 2018

Oggi venerdì 9 marzo 2018

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Come il mio pero a primavera, fioriscono le riflessioni a sinistra. Morte o suicidio? Per capire? Una favola tutta sarda
9 Marzo 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Elezioni

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Un voto su cicatrici e ferite della crisi
di Roberta Carlini, su Rocca

La sinistra è sparita, la destra ha cambiato pelle. La prima prometteva cambiamento, ed è stata subissata dai colpi di una rivolta contro l’establishment, ossia contro i difensori dello status quo, del quale è stata considerata, a torto o a ragione, rappresentante supremo. La seconda prometteva ricchezza, adesso assicura difesa: dalla povertà, dagli stranieri, dalla concorrenza, dalle banche. Nella sinistra – o meglio tra i suoi eredi – i leader sono caduti tutti, uno dopo l’altro, restando o uscendo dal partito ma mai dalla cerchia ristretta della élite, reale o percepita. Nella destra è nettamente cambiata la leadership, da Berlusconi a Salvini, e la pelle che è caduta ha svelato quel che nel profondo ricopriva e ha permesso il più grande successo di un partito xenofobo in uno dei Paesi protagonisti dell’unificazione europea. In mezzo, c’è il primo partito, il Movimento Cinque Stelle, dall’identità politica indefinibile e indefinita per scelta, quantomeno sulla base delle categorie del Novecento, passato dalla difesa dei “beni comuni” come l’acqua (prima fase del grillismo) alla campagna contro i “taxi del mare” (ultima e vittoriosa fase, che li ha messi nel solco vincente del sentimento popolare contro l’immigrazione).

All’indomani del voto, per una volta sono stati chiari i vincitori e i perdenti. Anche se questi ultimi – Renzi e Berlusconi – non hanno intenzione di farsi da parte, la loro sconfitta è evidente, e porta con sé l’eclis- si dell’unico scenario che era possibile esi- to, e forse obiettivo implicito, della nuova legge elettorale, ossia un governo di «lar- ghe intese» tra un Pd ammaccato e una Forza Italia rediviva. Invece di ammaccar- si, il Pd si è suicidato, mentre il partito- azienda di plastica dell’incandidabile Berlusconi è stato rottamato da quello di carne, sangue e social network di Salvini. Tutto ciò consegna un puzzle parlamentare forse insolubile, sul quale è troppo presto fare previsioni e ipotesi. Qualcosa di più invece si può dire sulla realtà sociale ed economica che il voto riflette, ci svela e amplifica; e anche sulla possibilità reale che il cambiamento, chiesto a gran voce nell’urna, si possa realizzare.
Quello del 4 marzo è stato il primo voto politico generale a crisi conclusa. Nel 2013 si votava ancora nel pieno della recessione, con il colpo appena inferto dalla crisi degli spread e dalle misure di austerity imposte dall’Europa e realizzate da Monti: ne uscì il primo balzo in avanti del Movimento Cinque Stelle e un parlamento diviso in tre, governato solo con gli artifici delle intese tra diversi, prima «larghe» poi più strette. Stavolta, si è votato sulle cicatrici e sulle ferite ancora aperte della crisi. La mappa del voto vede le regioni del Nord quasi completamente al centro-destra (con la sola eccezione dell’area metropolitana di Milano), il Sud uniformemente colorato del giallo a Cinque Stelle, e il centro diviso tra i due, con le ex regioni rosse ristrette in un circolo sempre più piccolo, di fatto a una dimensione provinciale. Se proviamo a sovrapporre questa mappa elettorale a quella dei dati economici e sociali, vengono fuori alcune costanti. La destra a trazione leghista domina in quello che una volta era il motore produttivo del Paese, sia nel «vecchio» triangolo industriale (quello della prima industrializzazione, da Torino a Genova a Milano) che nel successivo miracolo del Nord-est: motori non lo sono più, ma sono le zone in cui più spesso si trovano i distretti sopravvissuti alla crisi, rinati con le esportazioni, a costo di una brutale selezione nella quale si sono perse decine di migliaia di posti di lavoro. Il giallo pentastellato invece, più uniformemente sparso ovunque, diventa più intenso man mano che si scende nella geografia e negli indicatori economici. Il tasso di occupazione, che già non è alto nella media italiana, a Mezzogiorno è del 43,4%, mentre a Nord è del 65,8 e al Centro del 62%. Il tasso di disoccupazione meridionale è triplo di quello del Nord, la quota di giovani che non lavorano né studiano (Neet) è del 34,2% contro il 16,9%. Il prodotto interno lordo pro capite sta sui 34mila euro l’anno a Nord, e poco sopra i 18mila al Mezzogiorno; e un rapporto simile lo troviamo se guardiamo alle retribuzioni lorde dei dipendenti, con i lavoratori del Sud appena sopra la metà della retribuzione di quelli del Nord.

Nord e Sud
La questione meridionale non è nuova, anzi è una costante di tutta la storia dell’Italia unitaria e repubblicana. Ma con la crisi sono successe due cose. In primo luogo, il gap si è approfondito, e non è stato affatto avvicinato da una ripresa della produzione manifatturiera che ha interessato anche zone del Sud (non tutto è sempre uguale al passato) ma che non ha avuto un impatto numerico rilevante sull’occupazione: ma si è approfondito in una corsa al ribasso, non perché il Nord sia schizzato avanti per uno dei suoi miracoli. In altre parole: il Sud sta peggio del Nord, ma il Nord sta peggio di prima.
In secondo luogo, sono venuti meno i «cuscinetti» dell’aiuto pubblico e del welfare familiare: il primo, con i tagli alla spesa sociale, ai trasferimenti trasparenti e a quelli clientelari, e soprattutto alle casse degli enti locali dovuti all’austerity; il secondo, dissanguato dagli anni in cui gli anziani e adulti hanno dovuto sovvenzionare i giovani, spesso dando loro una dote per partire, e andare a studiare, lavorare (e spendere, e costruire futuro) in altre regioni o all’estero.
In questo bacino di sofferenza sociale profonda, orfana di una prospettiva di riscatto da parte della sinistra e dei suoi eredi, il Movimento Cinque Stelle ha pescato a piene mani. E un po’ ci ha pescato anche la Lega transitata dal secessionismo al nazionalismo. In passato Bossi e i suoi avevano promesso al Nord così lontano dal Sud e vicino all’Europa di staccarsi, di buttar via il peso economico e sociale del Mezzogiorno e così salvarsi da soli. Nell’Italia del dopo-crisi la nuova Lega, nazionale e sovranista, propone a Nord e Sud di salvarsi insieme ma «da soli», cioè chiudendo quei confini dai quali, dice, arriva ogni male: la finanza, la speculazione, l’austerity, la concorrenza, la globalizzazione. E, soprattutto, le persone: gli immigrati.
Gli esclusi, gli arrabbiati, gli arroccati: tutti insieme, hanno consegnato la maggioranza virtuale del nuovo parlamento ai due campioni della politica anti-establishment, ossia il Movimento Cinque Stelle e la Lega. Che però, molto probabilmente, non vorranno e non potranno allearsi e governare insieme.

nell’attesa di una autarchia impossibile
Ma lasciamo da parte per un attimo le tattiche e le difficoltà del nuovo parlamento. Se un governo degli anti-establishment fosse possibile, cosa potrebbe fare, concretamente? Tra qualche settimana arriverà la procedura della Commissione europea contro l’Italia per deficit eccessivo: bisognerebbe rispedirla indietro, trattare, o ubbidire? È vero che l’Italia non è la Grecia né l’Ungheria di Orban, ma pure rimane difficile, una volta rinunciato all’arma finale dell’uscita dall’euro, gestire la partita. E da subito bisogna finanziare il debito pubblico: lo spread per ora è sotto controllo, ma se risalisse si tradurrebbe subito in maggiori spese per pagare gli interessi. Cambiare le regole del gioco in Europa è necessario, ma bisogna sedersi al tavolo, tessere alleanze, avere un progetto e un «piano B». Quando ci ha provato Tsipras, è venuto fuori all’improvviso che il «piano B» era un bluff e la Grecia l’ha pagato. Senza contare l’esplicita contraddizione del modello economico leghista, che vuole puntare sulle imprese italiane che esportano ma allo stesso tempo benedice dazi e frontiere: e se le ritorcessero contro di noi?
Facile prevedere che di tutta la costruzione «populista» l’unica strada percorribile, facile, resta quella di prendersela con gli immigrati e la concorrenza sui lavori poveri che fanno al posto degli italiani. Nell’attesa di un’autarchia impossibile, alle vittime della globalizzazione si ventila la possibilità di rifarsi a spese di altre vittime, di un altro sud. Una linea chiarissima nei discorsi e nelle pratiche della Lega, e che corre sottotraccia anche nel corpo enorme dei Cinque Stelle. E che purtroppo non ha trovato anticorpi, né un disegno alternativo, in nessuno dei pezzi perdenti e perduti degli eredi della sinistra del Novecento.
Roberta Carlini
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Dopo il 4 marzo
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ranierolavalle-fb«La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini» [R. La V.]

L’analisi di Raniero La Valle*

UNA FELICE DISCONTINUITÀ

Il voto del 4 marzo, raffigurato nella cartina colorata trasmessa quella sera in TV, ha mostrato due Italie: l’Italia del Nord, identificata dalla maggioranza di centrodestra a trazione leghista, e l’Italia del Sud, identificata dalla maggioranza 5 stelle, ben radicata e rappresentata anche nel Nord.
Diciamo subito che noi amiamo tutte e due le Italie, come un’Italia sola; che questo è un amore fatto di stima e ricco di speranza, e che nell’analisi di ciò che l’Italia ha fatto il 4 marzo cercheremo di dare ragione di questo illeso amore e di questa robusta speranza.
L’elettorato ha espresso un voto che ha sorpreso, da nessuno sondato e immaginato così. È stato un voto che in molti ha suscitato dolore, sgomento, in qualcuno addirittura indignazione e paura. Per rispetto di questi sentimenti occorre escludere qualsiasi trionfalismo e guardarsi da ogni giudizio saccente, manicheo, bianco o nero, tutto bene o tutto male.
Però si possono cogliere alcune positività non indifferenti di questo voto.
Prima di tutto è venuto meno il demone di un crescente astensionismo. Gli italiani non hanno licenziato con disprezzo la politica. Qui i poteri opprimenti non hanno ancora vinto. La democrazia continua, la Costituzione è salva. I giovani hanno votato. Anzi sono stati decisivi. Con entusiasmo lo hanno fatto quelli che, per l’età, votavano la prima volta. Incoscienti, certo, perché non sanno il passato, ma nuovi, ansiosi di futuro.

Una feconda, netta discontinuità

In secondo luogo le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato, può scoccare il tempo propizio, può giungere l’occasione che va colta, può passare quello che gli antichi chiamavano il kairόs, con le ali ai piedi, da afferrare prima che scompaia. È la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e vuoto”; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità, perché il suo tempo stancamente ripetitivo non solo era vuoto, non solo era sordo a qualsiasi parola nuova, come per esempio quella della critica di sistema di papa Francesco, ma di discesa in discesa stava arrivando a un punto di caduta, rischiosissimo, e la gente stava male. Ora dunque si tratta di prendere in mano la discontinuità, non subirla, e volgerla al meglio.
In terzo luogo l’elettorato ha sbrigato alcune pratiche che la politica professionale stentava a chiudere. Una è stata quella della interminabile uscita di scena di Berlusconi: mentre il sistema mediatico lo dava per risorto e futuro deus ex machina della nuova legislatura, l’elettorato ha chiuso la partita. La stessa cosa ha fatto con Renzi, ponendo fine alla sua azione di impossessamento e di progressiva decostruzione di un partito così importante per la democrazia italiana come il Partito Democratico. Naturalmente ci sono i sussulti della fine che rendono drammatica questa transizione, ma l’esito sembra segnato.

Non c’è più il fantasma della secessione della Padania

In quarto luogo c’è un cessato pericolo che il voto del 4 marzo certifica e sancisce. Non c’è più il fantasma della secessione della Padania. È vero che la Lega è passata dal 4 al 17 per cento, (restando pur sempre una minoranza contenuta) ma questo è il prezzo del fatto che essa da partito locale e secessionista del Nord è passato ad essere partito nazionale e unitario anche al Sud, e se proprio non può fare a meno di giuramenti, è meglio che giuri sulla Costituzione e sul Vangelo piuttosto che sul Dio Po e sulle sue ampolle. Siamo sempre al livello pagano del sacramento del potere, ma almeno siamo più tranquilli riguardo alla nazione.
C’è infine un dato molto confortante: non esiste quella ondata di riflusso al fascismo che era stata avvistata e temuta. Casa Pound ha ottenuto un risultato minimo, e la bandiera alzata su tutti gli spalti della lotta agli immigrati non si può accreditare sommariamente al razzismo e alla xenofobia. Essa è ascrivibile piuttosto alla sindrome dell’egoismo, “noi per primi”, “Prima gli italiani”, “mors tua vita mea”, che è poi la logica della politica intesa come difesa dei propri interessi e non del bene comune, della politica identificata col bipolarismo amico-nemico, ed è poi l’etica egemone del capitalismo come competizione, concorrenza, meritocrazia, scarti ed esuberi. L’egoismo non è razzismo, perché è negazione dell’altro, senza badare alla sua pelle, il razzismo semmai ne è un corollario nella situazione data; la destra stessa non si può dire xenofoba, perché non ha affatto paura degli stranieri (e anzi li sfrutta), semplicemente è contro di loro, non li vuole a tavola, non li vuole a traversare il mare, perciò è antixenita, più che xenofoba. La vera questione è che il fascismo va combattuto a monte, prima ancora che diventi tale.

Due vincitori, due sconfitti

Quanto al merito dei risultati elettorali, ci sono due vincitori e due sconfitti. Come da tutti è stato riconosciuto, I due vincitori sono il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini, con un’importante differenza però: il Movimento 5 stelle ha vinto nel Paese, la Lega ha vinto all’interno della coalizione di centro-destra, perciò non possono vantare gli stessi diritti. I due sconfitti sono il Partito Democratico e la sinistra di Liberi e Uguali.
C’è ora il problema del Parlamento che deve dare la fiducia a un governo. Non essendoci una maggioranza assoluta, i partiti presenti in Parlamento hanno non la facoltà, ma il dovere di concorrere a formare una tale maggioranza. Perciò Moro, che veniva dall’anticomunismo (inteso allora come lotta al peggiore estremismo) persuase il suo gruppo parlamentare alla Camera di unire i suoi voti con quelli del partito comunista e lo fece con una straordinaria onestà, cultura, e senso dello Stato, e con la forza di una dedizione morale che egli sapeva potesse giungere fino a costargli la vita.
Ora, per costruire una maggioranza che permetta un governo Cinque Stelle, i giochi sono aperti, e questo è del tutto legittimo. Ma non sono consentite bugie e attentati suicidi.
Quanto alle bugie, è falso che l’elettorato abbia collocato il Partito Democratico all’opposizione. Gli elettori votano sempre con l’intenzione che i loro rappresentanti abbiano parte nella direzione del Paese. Se il Partito Democratico decide a priori di stare all’opposizione, non per adempierne il mandato ma in realtà per vendicarsi del corpo elettorale, lo fa per volontà sua, rovesciando la sua stessa tradizione, e anche le tradizioni da cui proviene che si potrebbero far risalire addirittura fino al 1919.
È falso poi che l’Italia sia tutta divisa tra due estremismi, con la sola eccezione della piccola isola rimasta moderata del PD. Imputare la propria sconfitta a un elettorato fattosi d’improvviso insensato ed estremista, ha lo stesso fondamento dell’invettiva di Saragat che imputava al “destino cinico e baro” la sconfitta del PSDI.

Non come Andreas Lubitz!

È però un attentato alla Repubblica dire: “poiché ci sono due estremismi, che facciano loro il governo, se ne sono capaci”. Infatti è il tentativo, per il proprio supposto tornaconto futuro, di indurre a un’alleanza e a un governo degli opposti estremismi, che è precisamente ciò che dall’inizio della Repubblica tutti i politici e gli statisti hanno strenuamente cercato di impedire.
È infine un suicidio ritirarsi sull’Aventino, con il proprio gruppo di parlamentari fedeli. Ma è un suicidio come quello di Andreas Lubitz, il pilota tedesco dell’ Airbus che il 26 marzo 2015 si schiantò volontariamente contro una montagna delle Alpi francesi, con la deliberata volontà di distruggere l’aereo insieme con le 149 persone che erano a bordo.

La sconfitta della sinistra

Ma al di là delle conseguenze più prossime, il vero monito e il vero know how o insegnamento che viene da queste elezioni, è legato alla sconfitta della sinistra. La sconfitta di Liberi e Uguali è più significativa nel lungo periodo di quella del PD. Quella del PD infatti non ha una lettura univoca, essendo stata soprattutto una sconfitta della sua leadership. Ma quella di Liberi e Uguali è proprio una sconfitta della sinistra: veniva da una speranza delusa, ma pur sempre promettente come quella del Brancaccio; godeva del lascito di conoscenze proveniente da sinistre già sperimentate; aveva un gruppo promotore e dirigente di leaders di prestigio e di antica militanza, oltre che di giovani e di donne portatori di freschezza e novità, aveva una proposta politica dirimente come quella della creazione di nuovo lavoro, di “lavoro vero e buono”: eppure ha fallito. E se questa sconfitta si mette insieme alla costante che da un pό di tempo si è stabilita in Europa della sconfitta di tutte le sue sinistre, dalla socialdemocrazia tedesca al Labour inglese ai socialisti francesi, agli spagnoli ecc. si vede che qui c’è un problema nuovo: la sinistra non vince perché non può vincere, non può vincere più. E a quanto pare nemmeno in America o in India. Gli analisti pronti all’uso dicono che la sinistra perde perché non ha saputo adeguarsi alla nuova realtà della globalizzazione. È verissimo, ma non ha saputo farlo perché la globalizzazione non è una nuova condizione di natura, come pretende il pensiero unico, ma è il frutto di una scelta economica e politica, che ha vinto e ha chiuso il gioco, gettando la sinistra fuori dal campo. Si tratta cioè di un ordinamento artificiale, fatto da mano d’uomo, che semplicemente non prevede alternative al regime unico del neoliberismo e della finanza globale. I regimi costituzionali, come quello italiano, escludevano per legge il fascismo ma ammettevano che si potesse lottare politicamente per una scelta liberale o socialista, e pertanto le sinistre erano legittimate e potevano perfino vincere. Il regime vigente esclude per legge il socialismo e perfino il new deal; ovvero esclude politiche pubbliche o “aiuti di Stato” che intervengano nel mercato privatistico, e ne correggano gli esiti anche perversi. Queste leggi, spesso implicite, della globalizzazione, in Europa hanno trovato la loro traduzione in diritto positivo nei Trattati dell’Unione Europea, che è poi il mercato unico europeo. Qui, se la sovranità viene attribuita alla Mano invisibile del Mercato, è chiaro che si tratta di una sovranità assoluta, perché ciò che è invisibile non si può controllare o correggere, e tutte le cose che sono scritte in secoli di dottrine sociali o di dichiarazioni universali di diritti o di Costituzioni democratiche (i fini sociali dell’economia, la rimozione degli ostacoli allo sviluppo delle persone, i diritti universali, la tutela della vita e della dignità degli esseri umani) non si possono fare perché dal nuovo diritto europeo e globale sono considerate “infrazioni”. Perciò chi dice qualunquisticamente che non c’è più né destra né sinistra, dice il vero ma a metà, perché la destra c’è ed è l’unica ammessa. Sicché se la sinistra continua a pensare che il problema principale è come salvare se stessa e durare, e non quello di cambiare le cose, non può che essere anch’essa di destra.
La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini.
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* Raniero La Valle sulla sua pagina fb

Le Costituenti. Percorsi al femminile

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Oggi giovedì 8 marzo 2018. 8 marzo, Festa, Giornata? Boh! Sicuramente Occasione per un pensiero di affetto e riconoscenza alle donne della nostra vita, che amiamo. E a tutte le donne del mondo!

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E’ uscito Rocca

rocca-6-2018 E’ uscito online Rocca n. 6 del 15 marzo 2018.

Documentazione. A proposito di Reddito di Cittadinanza (e dintorni). Ne parliamo da tempo su Aladinews

lampada aladin micromicroSu Aladinews. ———————————————————-
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europa-in-europabin_italia_logo_20158Risoluzione del Parlamento europeo del 24 ottobre 2017 sulle politiche volte a garantire il reddito minimo come strumento per combattere la povertà (2017)
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ep-logo-cmyk_it- Il testo della risoluzione del Parlamento Europeo del 24 ottobre 2017.

Dopo il 4 marzo

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ranierolavalle-fb«La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini» [R. La V.]

L’analisi di Raniero La Valle*

UNA FELICE DISCONTINUITÀ

Il voto del 4 marzo, raffigurato nella cartina colorata trasmessa quella sera in TV, ha mostrato due Italie: l’Italia del Nord, identificata dalla maggioranza di centrodestra a trazione leghista, e l’Italia del Sud, identificata dalla maggioranza 5 stelle, ben radicata e rappresentata anche nel Nord.
Diciamo subito che noi amiamo tutte e due le Italie, come un’Italia sola; che questo è un amore fatto di stima e ricco di speranza, e che nell’analisi di ciò che l’Italia ha fatto il 4 marzo cercheremo di dare ragione di questo illeso amore e di questa robusta speranza.
L’elettorato ha espresso un voto che ha sorpreso, da nessuno sondato e immaginato così. È stato un voto che in molti ha suscitato dolore, sgomento, in qualcuno addirittura indignazione e paura. Per rispetto di questi sentimenti occorre escludere qualsiasi trionfalismo e guardarsi da ogni giudizio saccente, manicheo, bianco o nero, tutto bene o tutto male.
Però si possono cogliere alcune positività non indifferenti di questo voto.
Prima di tutto è venuto meno il demone di un crescente astensionismo. Gli italiani non hanno licenziato con disprezzo la politica. Qui i poteri opprimenti non hanno ancora vinto. La democrazia continua, la Costituzione è salva. I giovani hanno votato. Anzi sono stati decisivi. Con entusiasmo lo hanno fatto quelli che, per l’età, votavano la prima volta. Incoscienti, certo, perché non sanno il passato, ma nuovi, ansiosi di futuro.

Una feconda, netta discontinuità

In secondo luogo le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato, può scoccare il tempo propizio, può giungere l’occasione che va colta, può passare quello che gli antichi chiamavano il kairόs, con le ali ai piedi, da afferrare prima che scompaia. È la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e vuoto”; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità, perché il suo tempo stancamente ripetitivo non solo era vuoto, non solo era sordo a qualsiasi parola nuova, come per esempio quella della critica di sistema di papa Francesco, ma di discesa in discesa stava arrivando a un punto di caduta, rischiosissimo, e la gente stava male. Ora dunque si tratta di prendere in mano la discontinuità, non subirla, e volgerla al meglio.
In terzo luogo l’elettorato ha sbrigato alcune pratiche che la politica professionale stentava a chiudere. Una è stata quella della interminabile uscita di scena di Berlusconi: mentre il sistema mediatico lo dava per risorto e futuro deus ex machina della nuova legislatura, l’elettorato ha chiuso la partita. La stessa cosa ha fatto con Renzi, ponendo fine alla sua azione di impossessamento e di progressiva decostruzione di un partito così importante per la democrazia italiana come il Partito Democratico. Naturalmente ci sono i sussulti della fine che rendono drammatica questa transizione, ma l’esito sembra segnato.

Non c’è più il fantasma della secessione della Padania

In quarto luogo c’è un cessato pericolo che il voto del 4 marzo certifica e sancisce. Non c’è più il fantasma della secessione della Padania. È vero che la Lega è passata dal 4 al 17 per cento, (restando pur sempre una minoranza contenuta) ma questo è il prezzo del fatto che essa da partito locale e secessionista del Nord è passato ad essere partito nazionale e unitario anche al Sud, e se proprio non può fare a meno di giuramenti, è meglio che giuri sulla Costituzione e sul Vangelo piuttosto che sul Dio Po e sulle sue ampolle. Siamo sempre al livello pagano del sacramento del potere, ma almeno siamo più tranquilli riguardo alla nazione.
C’è infine un dato molto confortante: non esiste quella ondata di riflusso al fascismo che era stata avvistata e temuta. Casa Pound ha ottenuto un risultato minimo, e la bandiera alzata su tutti gli spalti della lotta agli immigrati non si può accreditare sommariamente al razzismo e alla xenofobia. Essa è ascrivibile piuttosto alla sindrome dell’egoismo, “noi per primi”, “Prima gli italiani”, “mors tua vita mea”, che è poi la logica della politica intesa come difesa dei propri interessi e non del bene comune, della politica identificata col bipolarismo amico-nemico, ed è poi l’etica egemone del capitalismo come competizione, concorrenza, meritocrazia, scarti ed esuberi. L’egoismo non è razzismo, perché è negazione dell’altro, senza badare alla sua pelle, il razzismo semmai ne è un corollario nella situazione data; la destra stessa non si può dire xenofoba, perché non ha affatto paura degli stranieri (e anzi li sfrutta), semplicemente è contro di loro, non li vuole a tavola, non li vuole a traversare il mare, perciò è antixenita, più che xenofoba. La vera questione è che il fascismo va combattuto a monte, prima ancora che diventi tale.

Due vincitori, due sconfitti

Quanto al merito dei risultati elettorali, ci sono due vincitori e due sconfitti. Come da tutti è stato riconosciuto, I due vincitori sono il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini, con un’importante differenza però: il Movimento 5 stelle ha vinto nel Paese, la Lega ha vinto all’interno della coalizione di centro-destra, perciò non possono vantare gli stessi diritti. I due sconfitti sono il Partito Democratico e la sinistra di Liberi e Uguali.
C’è ora il problema del Parlamento che deve dare la fiducia a un governo. Non essendoci una maggioranza assoluta, i partiti presenti in Parlamento hanno non la facoltà, ma il dovere di concorrere a formare una tale maggioranza. Perciò Moro, che veniva dall’anticomunismo (inteso allora come lotta al peggiore estremismo) persuase il suo gruppo parlamentare alla Camera di unire i suoi voti con quelli del partito comunista e lo fece con una straordinaria onestà, cultura, e senso dello Stato, e con la forza di una dedizione morale che egli sapeva potesse giungere fino a costargli la vita.
Ora, per costruire una maggioranza che permetta un governo Cinque Stelle, i giochi sono aperti, e questo è del tutto legittimo. Ma non sono consentite bugie e attentati suicidi.
Quanto alle bugie, è falso che l’elettorato abbia collocato il Partito Democratico all’opposizione. Gli elettori votano sempre con l’intenzione che i loro rappresentanti abbiano parte nella direzione del Paese. Se il Partito Democratico decide a priori di stare all’opposizione, non per adempierne il mandato ma in realtà per vendicarsi del corpo elettorale, lo fa per volontà sua, rovesciando la sua stessa tradizione, e anche le tradizioni da cui proviene che si potrebbero far risalire addirittura fino al 1919.
È falso poi che l’Italia sia tutta divisa tra due estremismi, con la sola eccezione della piccola isola rimasta moderata del PD. Imputare la propria sconfitta a un elettorato fattosi d’improvviso insensato ed estremista, ha lo stesso fondamento dell’invettiva di Saragat che imputava al “destino cinico e baro” la sconfitta del PSDI.

Non come Andreas Lubitz!

È però un attentato alla Repubblica dire: “poiché ci sono due estremismi, che facciano loro il governo, se ne sono capaci”. Infatti è il tentativo, per il proprio supposto tornaconto futuro, di indurre a un’alleanza e a un governo degli opposti estremismi, che è precisamente ciò che dall’inizio della Repubblica tutti i politici e gli statisti hanno strenuamente cercato di impedire.
È infine un suicidio ritirarsi sull’Aventino, con il proprio gruppo di parlamentari fedeli. Ma è un suicidio come quello di Andreas Lubitz, il pilota tedesco dell’ Airbus che il 26 marzo 2015 si schiantò volontariamente contro una montagna delle Alpi francesi, con la deliberata volontà di distruggere l’aereo insieme con le 149 persone che erano a bordo.

La sconfitta della sinistra

Ma al di là delle conseguenze più prossime, il vero monito e il vero know how o insegnamento che viene da queste elezioni, è legato alla sconfitta della sinistra. La sconfitta di Liberi e Uguali è più significativa nel lungo periodo di quella del PD. Quella del PD infatti non ha una lettura univoca, essendo stata soprattutto una sconfitta della sua leadership. Ma quella di Liberi e Uguali è proprio una sconfitta della sinistra: veniva da una speranza delusa, ma pur sempre promettente come quella del Brancaccio; godeva del lascito di conoscenze proveniente da sinistre già sperimentate; aveva un gruppo promotore e dirigente di leaders di prestigio e di antica militanza, oltre che di giovani e di donne portatori di freschezza e novità, aveva una proposta politica dirimente come quella della creazione di nuovo lavoro, di “lavoro vero e buono”: eppure ha fallito. E se questa sconfitta si mette insieme alla costante che da un pό di tempo si è stabilita in Europa della sconfitta di tutte le sue sinistre, dalla socialdemocrazia tedesca al Labour inglese ai socialisti francesi, agli spagnoli ecc. si vede che qui c’è un problema nuovo: la sinistra non vince perché non può vincere, non può vincere più. E a quanto pare nemmeno in America o in India. Gli analisti pronti all’uso dicono che la sinistra perde perché non ha saputo adeguarsi alla nuova realtà della globalizzazione. È verissimo, ma non ha saputo farlo perché la globalizzazione non è una nuova condizione di natura, come pretende il pensiero unico, ma è il frutto di una scelta economica e politica, che ha vinto e ha chiuso il gioco, gettando la sinistra fuori dal campo. Si tratta cioè di un ordinamento artificiale, fatto da mano d’uomo, che semplicemente non prevede alternative al regime unico del neoliberismo e della finanza globale. I regimi costituzionali, come quello italiano, escludevano per legge il fascismo ma ammettevano che si potesse lottare politicamente per una scelta liberale o socialista, e pertanto le sinistre erano legittimate e potevano perfino vincere. Il regime vigente esclude per legge il socialismo e perfino il new deal; ovvero esclude politiche pubbliche o “aiuti di Stato” che intervengano nel mercato privatistico, e ne correggano gli esiti anche perversi. Queste leggi, spesso implicite, della globalizzazione, in Europa hanno trovato la loro traduzione in diritto positivo nei Trattati dell’Unione Europea, che è poi il mercato unico europeo. Qui, se la sovranità viene attribuita alla Mano invisibile del Mercato, è chiaro che si tratta di una sovranità assoluta, perché ciò che è invisibile non si può controllare o correggere, e tutte le cose che sono scritte in secoli di dottrine sociali o di dichiarazioni universali di diritti o di Costituzioni democratiche (i fini sociali dell’economia, la rimozione degli ostacoli allo sviluppo delle persone, i diritti universali, la tutela della vita e della dignità degli esseri umani) non si possono fare perché dal nuovo diritto europeo e globale sono considerate “infrazioni”. Perciò chi dice qualunquisticamente che non c’è più né destra né sinistra, dice il vero ma a metà, perché la destra c’è ed è l’unica ammessa. Sicché se la sinistra continua a pensare che il problema principale è come salvare se stessa e durare, e non quello di cambiare le cose, non può che essere anch’essa di destra.
La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini.
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* Raniero La Valle sulla sua pagina fb

Poesia

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Elezioni: quale prospettiva in Sardegna? Parliamone

Comitato CoStat
18-03-07-incontro-su-risultato-elezioni

Andrea Pubusa*.

Oggi il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria ha indetto, per le 17,30 all’Hostel Marina – Scalette S.Sepolcro, un confronto sul voto e sulla prospettiva in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Una discussione aperta a cui abbiamo invitato forze e movimenti politici e tutti gli uomini di buona voltà della nostra città.
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Ma il Comitato vuol cambiar pelle? Vuole intromettersi nella politica partitica? Neanche per sogno! Sarebbe la sua morte. Manteniamo ferma la nostra originaria ispirazione. Ci battiamo per l’attuazione della Costituzione e dello Statuto e ci muoviamo solo su quel terreno. Volendo far propria una distinzione ben nota ai costituzionalisti, noi ci riteniamo portatori dell’indirizzo politico costituzionale, non di quello di maggioranza. Tradotto in termini più elementari, il Comitato si muove sul piano dei principi costituzionali, sia di quelli espressi che di quelli impliciti e di correttezza. Riflettiamo e lavoriamo sugli obiettivi costituzionali e statutari, prendiamo iniziative su questi, mentre non entriamo sull’attività dei singoli partiti, verso i quali tracciamo solo una linea fra quelli difensori e attuatori della Carta e quelli anticostituzionali o a-costituzionali. Coi primi dialoghiamo, coi secondi no.
Con questo spirito salutiamo con favore la vittoria di una forza, il M5S, che ha difeso la Costituzione e predica e pratica in modo encomiabile la moralità pubblica e lo sviluppo del Paese a partire dai ceti in sofferenza. Questa ispirazione è stata compresa ed apprezzata dal corpo elettorale. Avremmo voluto un miglior risultato per LeU e per Potere al Popolo e per Autodeterminatzione, che hanno combattuto con noi nel referendum costituzionale e avanzano proposte di sviluppo democratico del Paese e della nostra Isola. Ora, a elezioni finite, auspichiamo che il PD riveda le proprie posizioni antiunitarie e a-costituzionali. Speriamo che questo partito, cambi segretario, e riprenda un percorso di responabilità democratica, abbandonato in questi anni.
sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300E che fare in Sardegna? E’ evidente il deficit democratico nelle leggi e nell’amministrazione. C’è un problema di sovranità popolare sul versante interno. C’è molto da fare. Anzitutto, approvare una nuova legge elettorale tendenzialmente proporzionale per dare una seria rappresentanza alle forze politiche significative, senza preclusioni, iperpremi e trucchi. C’è da metter mano al governo locale, scassato dalle leggi degli ultimi decenni. Come? Rilanciando il ruolo e il carattere democratico dei Comuni e rimettendo in piedi con serietà le province come enti rappresentativi di livello intermedio fra Regione e Comuni. Bisogna ripensare la Regione e delegare poteri al livello locale, togliendo funzioni e personale alla Regione, ormai divenuta una macchina abnorme, peggiore e più arcigna dello Stato.
C’è, nella società sarda, una forte spinta ad un nuovo rapporto con lo Stato, comprovata anche dal successo di firme per l’insularità. Ma qui bisogna dire una parola chiara. Si fa ciò che è fattibile secondo Costituzione, Statuto e legge. Niente propaganda! Di fronte ai patti fra regioni del Nord e governo quali strumenti abbiamo nelle nostre leggi? Noi possiamo rilanciare il discorso dell’art. 13 Statuto, che prevede un piano organico di sviluppo, da elaborare e attuare col concorso dello Stato. Un vero patto per lo sviluppo. E siccome è organico, lì possiamo metterci tutto ciò che ci serve oggi. Questo è programma minimo. E il programma massimo? Quali le finalità di più lungo periodo? Il rinsecchimento dell’autonomia è certamente il risultato di classi politiche indeguate, ma è anche dovuto a debolezze e limiti statutari. Una rivisitazione dello Statuto in chiave federalista è possibile e doverosa. Non partiamo da zero, possiamo riprendere l’impostazione di grandi pensatori e politici sardi come Gramsci, Lussu ed altri. Qui ci vuole molta cultura, molta fantasia, molta intelligenza.
Questo indirizzo politico-costituzionale ci porta a instaurare rapporti corretti con le forze politiche democratiche e a favorire la creazione di un movimento unitario. Con l’attuale frammentazione e l’alto tasso di conflittualità, la Sardegna non è in grado di elaborare e di realizzare alcunché. Occorre un movimento di massa con obiettivi condivisi e spinta unitaria. Ci vuole un patto fra le forze democratiche sarde e ci vuole un governo regionale espressione e riferimento di questo vasto fronte popolare. Come si vede, compiti difficili e ambiziosi, ma realistici.
Con questo spirito propositivo, accogliente ed aperto noi del Comitato andiamo al dibattito di oggi.
Partecipate tutti.
Parliamone insieme
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* Anche su Democraziaoggi.
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Oggi mercoledì 7 marzo 2018

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–oggi–

———————–Oggi mercoledì 7 marzo 2018 Dibattito—————–

18-03-07-incontro-su-risultato-elezioni Elezioni: quale prospettiva in Sardegna? Parliamone.
7 Marzo 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Oggi il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria ha indetto, per le 17,30 all’Hostel Marina – Scalette S.Sepolcro, un confronto sul voto e sulla prospettiva in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Una discussione aperta a cui abbiamo invitato forze e movimenti politici e tutti gli uomini di buona voltà della nostra città.
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vita-onlineBecchetti: «Il M5S è l’argine al populismo deteriore della Lega»
di Lorenzo Maria Alvaro su Vita:
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http://www.vita.it/it/article/2018/03/05/becchetti-il-m5s-e-largine-al-populismo-deteriore-della-lega/146113/
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vitobiolchini blog occhialini1Sardegna, il tempo è finito: indipendentisti e Movimento Cinquestelle al bivio.
Vito Biolchini su vitobiolchini.it
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Tonino Dessì su fb
Detto con intento bonario, ma in tutta spontanea franchezza, questa cosa che il voto dei sardi al M5S “non avrebbe spostato di una virgola il risultato a livello nazionale” (Antony Muroni) e l’altra che i sardi “hanno votato in maniera inconsapevole” (Paolo Maninchedda), sono due autentiche scemenze, per di più neppure velatamente offensive.
I sardi sapevano benissimo intanto per chi non votare (e non li hanno votati) e hanno dato un voto “sardo” ben consapevole: andate a guardare Orgosolo, per fare solo un esempio.
C’era da dare una spazzolata a proposte, personale politico, rendite di posizione vecchie e incrostate e da non dare spazio a illusioni di rendite di posizione indigene presunte e prenotate da gente tutt’altro che di nuovo conio.
Questo si chiama “indirizzo politico”.
(segue)

Cantico dei Cantici – Un invito alla lettura

chagall_cantico-dei-cantici lampadadialadmicromicroGli editoriali di Aladinews. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma ben più beato colui che canta e comprende il Cantico dei cantici.
Cantico dei Cantici
Carlamaria Cannas – San Rocco 4 marzo 2018
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Dalla Brexit una spinta propulsiva al processo di unificazione politica dell’Europa. E’ un auspicio!

ue-futuro
Le incerte conseguenze del negoziato sul “divorzio” della Gran Bretagna dall’Unione Europea

di Gianfranco Sabattini*

Dopo il referendum del 23 giugno del 2016 e la formale notifica da parte della Gran Bretagna dell’intenzione di abbandonare l’Unione Europea (UE), stanno concretizzandosi gli accordi volti a definire le modalità del recesso, nonché le basi giuridiche che dovranno regolare i futuri rapporti tra Regno Unito e UE.
Di recente, nel dicembre del 2017, il Consiglio europeo, ha esaminato gli ultimi sviluppi dei negoziati sulla Brexit, valutando positivamente i progressi compiuti dai negoziati. Su tale base si è deciso di approvare le direttive per passare alla seconda fase dei negoziati, in cui saranno avviate le trattative anche riguardo al periodo di transizione e alle future relazioni.
Secondo l’accordo raggiunto, il costo del “divorzio” dovrebbe ammontare, per la Gran Bretagna, a circa 50 miliardi di euro; a parere di molti osservatori, si tratterebbe di un passo in avanti per il debole governo britannico, anche se esso dovrà affrontare l’opposizione, all’interno del Regno Unito, di chi lamenterà il pagamento della somma convenuta; ad opporsi saranno soprattutto i laburisti, per via del possibile impatto negativo della Brexit su diversi comparti produttivi dell’economia. Restano in ogni caso ancora da dirimere le altre due questioni preliminari (i diritti dei cittadini UE residenti nel Regno e i confini fra l’Eire e l’Irlanda del Nord) prima di poter passare alla seconda fase del negoziato sulla Brexit, quello riguardante, tra l’altro, le future relazioni commerciali.
L’abbandono di una “hard Brexit” (come si sosteneva dovesse avvenire il distacco della Gran Bretagna dall’UE all’indomani del referendum) in pro di una più plausibile “soft Brexit”, a parere di Stefano Civitarese Matteucci, docente di Diritto amministrativi pressi l’Università di Chieti-Pescara, in “Brexit: la fine dell’Europa o la fine del Regno Unito?” (Istituzioni del federalismo, numero speciale/2016), è dovuto al fatto che le elezioni politiche dell’8 giugno del 2016 hanno notevolmente indebolito il Governo di Theresa May; ciò ha consentito ai laburisti di sostenere la necessità che i negoziati siano improntati ad una strategia flessibile, con una fase transitoria sufficientemente lunga, per pervenire, dopo la fine dei negoziati, a stabilire convenienti relazioni economiche col mercato interno dell’UE e regolare convenientemente i diritti dei cittadini dei Paesi europei residenti da tempo in Gran Bretagna.
Questa preoccupazione è stata fatta propria da Theresa May, come dimostra il fatto che, nel suo discorso di Firenze del 22 settembre del 2017, rivolgendosi ai Paesi europei ha annunciato d’essere favorevole ad accettare, a negoziati conclusi, un periodo transitorio di circa due anni e ad osservare le regole comunitarie per consentire a cittadini e imprese extrabritannici di “entrare gradatamente e senza traumi nel nuovo regime”. In ogni caso, nell’incertezza di quello che sarà il nuovo regime, i maggiori interrogativi, in assenza di una chiara strategia per condurre la Gran Bretagna fuori dall’UE, riguardano, a parere di Matteucci, da un lato, la condotta dei negoziati con le istituzioni europee, e dall’altro lato, le conseguenze di carattere giuridico e amministrativo sull’ordinamento interno al Regno Unito, dopo 45 anni di appartenenza all’Unione.
Riguardo ai negoziati, la posizione dell’UE è stata indicata dalle linee guida fissate dal Consiglio europeo del 29 aprile del 2017; il processo di negoziazione deve svolgersi in due fasi distinte: la prima, per definire le modalità con cui deve avvenire il recesso; la seconda, per stabilire come regolare i futuri rapporti tra Regno Unito e la UE; ciò perché, il Consiglio ha ritenuto che l’accordo sui rapporti futuri possa essere definito “solo quando il Regno Unito sarà diventato un Paese terzo”. La posizione del Regno Unito su questo problema risultava all’origine alquanto diversa, nel senso che recesso e rapporti futuri avrebbero dovuto essere disciplinati congiuntamente, in quanto considerati strettamente interconnessi, in relazione soprattutto alle questioni concernenti il debito del Regno Unito verso la UE, i diritti dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna e la soluzione del problema dei rapporti tra le due Irlande. Si tratta di problemi complessi per la Gran Bretagna, riguardo ai quali si registrano posizioni diverse, non solo all’interno del partito conservatore, ma anche tra quest’ultimo e il partito laburista.
La questione del debito deve essere risolta tenendo conto del fatto che la programmazione finanziaria dell’Unione è basata su un bilancio settennale e che quello in corso è relativo al periodo che va dal 2014 al 2020; rispetto ad ogni bilancio settennale, sono stabiliti i programmi europei, in armonia con i versamenti dei contributi degli Stati nell’arco del settennio. Il recesso del Regno Unito, perciò, è destinato a creare uno scompenso nell’equilibrio raggiunto nei rapporti tra tutti gli altri Stati membri; al fine di evitare tale scompenso, il Regno Unito dovrà onorare la sua posizione debitoria verso l’UE sino al 2020 e, inoltre, farsi carico – afferma Matteucci – dei costi relativi all’attuazione di programmi “il cui orizzonte temporale travalichi il 2020”. Di fronte alla previsione che il debito potesse ammontare a 100 miliardi di euro, secondo l’accordo raggiunto nel dicembre scorso, la Gran Bretagna dovrebbe saldarlo versando all’Europa la metà della somma prevista.
Riguardo ai diritti dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna, dalla posizione iniziale del Regno che sembrava prospettare la perdita della cittadinanza europea da parte dei residenti non britannici, si è passati ad una posizione conciliante, come risulta dal discorso che la premier britannica ha tenuto a Firenze nel settembre dello scorso anno. Sul punto, Theresa May ha dichiarato di voler adottare nell’accordo di recesso una clausola sulla protezione giuridica per i cittadini dei Paesi dell’Unione residenti in Gran Bretagna, affermando, tra l’altro, di voler inserire la clausola sulla protezione nell’ordinamento britannico, in modo da assicurare che i giudici, in caso di eventuali controversie, possano fare riferimento diretto alla clasusola di salvaguardia dei diritti dei cittadini residenti non britannici. Tale atteggiamento viene valutato positivamente dai negoziatori dell’UE, considerando, come sottolinea Matteucci, che, insieme al controllo dell’immigrazione, il più ricorrente bersaglio dei sostenitori della Brexit era la “soggezione alle corti europee quale principale vulnus alla sovranità nazionale”.
Riguardo ai rapporti tra le due Irlande, sarebbero stati fatti notevoli progressi; secondo i giornali inglesi, il governo britannico dovrebbe devolvere all’Irlanda del Nord poteri sufficienti al fine di favorire un’armonizzazione doganale per i prodotti agricoli ed energetici. Circa la devoluzione dei poteri di armonizzazione, il governo britannico si troverà a doversi scontrare con il partito irlandese di destra, il Democratic Unionist Party, che si oppone a qualsiasi differenziazione dello status esistente tra Ulster ed Eire, temendo che l’omogeneizzazione possa essere il presupposto della riunificazione dell’Isola irlandese; non casualmente, il leader unionista Arlene Foster non manca di ribadire che non possono esservi accordi tali da compromettere l’integrità del mercato unico del Regno Unito.
Per quanto riguarda le difficoltà che il problema dei rapporti tra Ulster ed Eire continuerà a presentare per il governo inglese, nel discorso di Firenze della premier May non sono state formulate indicazioni come rimuoverle; sul punto, Matteucci, riportando il parere di Peter Leyland, docente di Public law presso l’Università di Londra, afferma che il processo di devoluzione all’Irlanda del Nord dei poteri per l’armonizzazione doganale, dovendosi articolare in accordi sopranazionali che coinvolgeranno “la Repubblica d’Irlanda a loro volta fondati sulla comune qualità di Stati membri UE di ques’ultima e del regno Unito”, presenta l’insidia di destabilizzare gli accordi di pace del Venerdì santo e il “North Ireland Act” del 1998; un vero ostacolo per la Gran Bretagna nella prosecuzione dei negoziati, posto che l’UE, conscia della criticità dell’argomento, resta ferma nell’attesa di una proposta concreta per risolvere il problema da parte del Regno Unito.
Circa le conseguenze di carattere giuridico e amministrativo del recesso sull’ordinamento interno al Regno Unito, Matteucci, sempre sulla scorta del parere di Leylend, sottolinea la “complessità del processo occorrente per ‘districare’ l’ordinamento britannico da quello europeo”, a causa dell’esistenza in quest’ultimo sia “relazioni complesse tra livelli di governo tanto infra – quanto sovra-statuali sia relazioni orizzontali tra settore pubblico e settore privato”. La conseguenza della complessità del problema vale ad evidenziare che “rimpatriare” il potere normativo, al fine di poter intervenire in via unilaterale su tale sistema, è operazione destinata a rivelarsi “molto delicata e probabilmente velleitaria”.
L’idea originaria di disciplinare il recesso sulla base di un disegno di legge, denominato dai sostenitori della Brexit “disegno della grande abrogazione” (great repeal bill), oggi è riproposta con la denominazione meno aggressiva di “disegno di legge sul recesso” (withdrawal bill), con l’intento di associare “alla abrogazione della legge del 1972 di adesione alla Comunità Europea, una clausola di incorporazione di tutta la normativa UE nell’ordinamento giuridico del Regno Unito”. Si tratterebbe – afferma Matteucci – di “una sorta di ‘naturalizzazione’ del diritto europeo nel ‘libro delle leggi’ britannico”, con la precisazione che la “legislazione post-Brexit avrà forza abrogativa [...] su quella dell’UE incorporata, ma che in caso di conflitto tra una norma UE incorporata e una pre-Brexit puramente domestica la prima continuerà a dover essere applicata”.
Tra le norme che dovrebbero essere incorporate nell’ordinamento del Regno Unito vi sono anche quelle create dalla Corte di Giustizia Europea, che siano state adottare prima dell’”exit day”; il problema che insorgerà, a questo riguardo, sarà quello del ruolo dei giudici britannici, sia circa l’interpretazione del diritto europeo, sia per quanto concerne il loro rapporto con la Corte di Giustizia. Se si considera che la giurisdizione della Corte ha a che fare con la tutela dei cittadini dei Paesi europei residenti in Gran Bretagna, è facile capite come l’incorporazione delle decisioni della Corte nell’ordinamento del Regno Unito sia destinata ad originare un ulteriore ostacolo per il governo inglese nella prosecuzione dei negoziati con l’UE.
Matteucci conclude la sua analisi delle problematiche insite nel processo di recesso della Gran Bretagna dell’Unione europea, giudicandole, secondo una prospettiva più ampia, di difficile soluzione, al punto da configurarle come l’origine della “fine del processo di integrazione europea”; ciò perché le difficoltà opposte dalla soluzione di tali problematiche può essere vista come crisi giuridico-costituzionale dell’equilibrio tra le ragioni dell’Unione e il riconoscimento del ruolo delle entità nazionali, compreso il sistema della autonomie locali, quale viene sancito dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Qust’ultimo Trattato è, accanto a quello costitutivo dell’Unione Europea (TUE), uno dei Trattati fondamentali dell’ HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_europea” \o “Unione europea” Unione. Assieme costituiscono le basi fondamentali del diritto nel sistema politico dell’UE; per questo motivo, essi vengono anche indicati come “ HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Diritto_costituzionale” \o “Diritto costituzionale” diritto costituzionale europeo”. Il TFUE svolge quindi una funzione di completamento e rappresenta la concretizzazione dei principi espressi nel TUE. Il tentativo di fusione del TUE con il TFUE, che in un primo momento era stato pianificato in modo da dare all’UE una costituzione, è fallito nel 2005, con gli esiti negativi dei referenda della HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Francia” \o “Francia” Francia e dei HYPERLINK “https://it.wikipedia.org/wiki/Paesi_Bassi” \o “Paesi Bassi” Paesi Bassi. Le difficoltà con le quali si scontreranno i negoziatori per il recesso del Regno Unito dall’UE sono certamente il sintomo dell’incapacità dell’Unione di darsi una Costituzione, in mancanza della quale diventa plausibile ipotizzare, secondo Matteucci, la possibile fine del processo di integrazione politica dell’Europa.
Tuttavia, lo shock causato dal referendum che ha condotto il Regno Unito a recedere dall’Europa sembra aver dato una scossa ai principali Stati membri, motivandoli a cercare il modo in cui uscire dall’empasse nel quale da tempo si è incagliato il processo di unificazione politica; non solo, lo shock sembra aver fornito, all’interno dei principali Stati membri (ieri in Francia, oggi in Germania e domani, è auspicabile, anche in Italia), le ragioni per indurre le forze politiche europeiste a trovare gli accordi utili ad evitare il pericolo, reale, che le coiddette forze sovraniste, xenofobe ed antieuropee, possano riscuotere il necessario consenso elettorale per accedere al governo, complicando la situazione politica all’interno di quei Paesi che, come l’Italia, non si sono ancora ripresi del tutto dagli esiti della Grande recessione.
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* Anche su Avanti online
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L’Europa dell’austerità e dei cappi di bilancio alimenta la protesta e genera questi terremoti politici”
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Intervista a Jean-Paul Fitoussi*: “L’Europa dell’austerità e dei cappi di bilancio alimenta la protesta e genera questi terremoti politici”
a cura di Umberto De Giovannangeli su HuffPost.

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L’Huff.it 5 /03/2018. “L’Europa dell’austerità e dei “cappi” di bilancio sta generando tutto questo. La Brexit doveva suonare anche per l’Italia come un campanello d’allarme: perché l’Europa dell’iper-rigorismo, dell’assenza più totale di politiche di sviluppo e di occupazione, è stata percepita come una minaccia soprattutto dai ceti più deboli, meno garantiti sul piano sociale.
In questa ottica, dire solo più Europa, senza premettere di essere contro l’Europa dell’austerità, ha finito per alimentare la protesta. Di Maio e Salvini devono ringraziare l’Europa rigorista”
. A sostenerlo, in un’intervista concessa a HuffPost è Jean-Paul Fitoussi, professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, secondo cui bisogna tuttavia distinguere fra M5S e Lega, il primo “capace di catturare consensi in varie fasce sociali e anagrafiche”, la seconda “espressione di un populismo di destra”. Per questo Fitoussi non crede a un’alleanza M5S-Lega.

Come giudica il risultato elettorale in Italia?
“Il voto è l’effetto e non la causa del terremoto politico italiano. Ne è l’effetto, perché l’Italia andava male anche prima di questo voto. Perché i governi che si sono succeduti nell’arco di un ventennio, siano essi politici o tecnici, non hanno risolto i problemi della gente. I problemi veri, quelli legati alle condizioni materiali di vita.
Si è, non so quanto consapevolmente, fatto finta che in Italia non esistesse una grande e irrisolta questione sociale. Mutatis mutandis, il centrosinistra italiano ha fatto lo stesso errore, devastante, dei democratici americani: sottovalutare gli effetti della crisi, non agire con la necessaria efficacia contro la finanziarizzazione dell’economia, incapaci di una critica non protezionistica, ma non per questo meno radicale alla globalizzazione. La disoccupazione è rimasta alta, soprattutto tra i giovani, i salari bassi, così come le pensioni, e nuove povertà si sono aggiunte a quelle vecchie”
.

Non ha pagato una narrazione che ha puntato sul racconto di una Italia in crescita.
“Non solo non ha pagato, ma ha contribuito ad alimentare la rabbia che si è innestata sul disagio sociale. Se c’è stata un po’ di crescita, questa ha finito per favorire una fascia ristretta della società. E ciò ha finito per accrescere la rabbia di quanti non hanno ricevuto alcun dividendo da questa mini-crescita.
Non si tratta di mettere in contrasto diritti civili e diritti sociali, ma quest’ultimi non possono essere considerati un retaggio del passato, perché a orientare le scelte restano in primo luogo le condizioni materiali per sé, i propri figli. Potrà sembrare poco poetico, ma è così. Ed è questo un discorso che vale per l’Italia, come per la Francia, la Gran Bretagna e, in prospettiva ravvicinata, anche per la Germania…”.

Considera quello che ha premiato il Movimento 5 Stelle e la Lega un voto anti-establishment?
“Manca un aggettivo: incompetente. La gente bada al sodo. Un amministratore delegato di un’azienda pubblica può anche prendere stipendi d’oro, ma se si rivela un incapace è certo che la protesta è destinata a travolgere non solo lui, ma i governanti che lo hanno nominato. Vede, a volte, nei salotti dei benpensanti e acculturati, si pensa di poter spiegare fenomeni di massa usando e abusando di parole che finiscono per diventare vuote: l’anti-politica, il populismo…
E di grazia quale sarebbe la buona politica che contrasta l’anti? E qual è l’antitesi del populismo: l’esaltazione dei tecnici, una idea elitaria della democrazia? Il fatto è che il voto in Italia ha reso più evidente un fenomeno che è proprio di tutte, o quasi, democrazie occidentali ed europee: la crisi di una sinistra storica o di rassemblament nati senza una discontinuità col passato. La sinistra e il centrosinistra sono stati vissuti come forze di conservazione, e questo non paga neanche quando, è il caso della Francia o dei Paesi del Nord Europa, s’intende conservare alcune realizzazione del welfare”.

Quale ricaduta può avere il voto italiano in una ottica europea?
“Io ribalterei lo schema. È questa Europa ad aver contribuito a determinare il voto italiano. L’amara verità è che oggi l’Europa manca su tutti i fronti. Manca sul fronte dell’occupazione, della lotta alla precarietà: manca sul fronte della lotta al terrorismo, manca sul piano militare. E l’elenco sarebbe interminabile. Il problema è che non può durare a lungo così. L’Europa non può dire: non ci sono i soldi. Questa giustificazione non regge più.
Puntare, anche attraverso l’intervento pubblico, su settori strategici è investire sul futuro, e lo è anche se questo significa, nel presente, allargare i vincoli di bilancio. Non farlo, significa condannarsi non solo alla marginalità nella competizione internazionale ma favorire le spinte sovraniste nazionali. Il paradosso, che genera ‘mostri’, è che questa mancanza viene però percepita come una presenza opprimente dai settori più deboli nei singoli Paesi dell’Unione, in questo caso è l’Italia. E’ una presenza-assenza che provoca ostracismo, che innesca insicurezza, e che finisce per premiare le forze meno accostate a questa Europa dell’austerità e dei cappi di bilancio”.

Molto si è discusso in passato e ancor più lo si farà dopo l’indiscutibile successo elettorale, sulla natura dei 5 Stelle. C’è chi sostiene che sono un movimento populista di destra e chi, al contrario, li pensa come qualcosa di più complesso e più orientato, almeno sul terreno sociale, a sinistra.

“La forza dei 5 Stelle sta, a mio avviso, nella capacità dimostrata di mantenersi border line, sviluppando una sorta di ‘ermafroditismo’ politico, capace di catturare consensi in varie fasce sociali e anagrafiche.
Proprio per questo sarei stupito se Luigi Di Maio guardasse in direzione della Lega, essa sì espressione di un populismo di destra come lo è il Front National in Francia, per avere i numeri per governare. Un’elezione si può vincere, ma poi si deve poi dimostrare di essere più competenti dell’establishment di incompetenti che il voto ha terremotato…”.

È la prova del governo, dunque, che darà la vera cifra dei 5 Stelle?
“Più che di governo, parlerei di cambiamento. Quest’ultimo sarà, a mio avviso, il vero banco di prova dei 5 Stelle. Quali saranno le scelte che, se dovessero essere chiamati alla guida dell’Italia, faranno sull’occupazione, le tasse, i diritti sociali e di cittadinanza, sul rapporto con l’Europa, sui migranti… Il cambiamento non è neutro, anche per i 5 Stelle”.

*Giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam
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Cari amici/e, compagni/e,
dopo il voto di domenica, che fare in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo? Partendo dalla battaglia contro la legge truffa sarda, per una nuova legge elettorale regionale, come allargare il movimento per un nuovo governi della regione? Con quali obbiettivi? Dopo i referendum lombardo e veneto e l’accordo preliminare fra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e governo che fare per la Sardegna? Quale rapporto con lo Stato? E’ ora di pensare per agire in modo unitario… Parliamone insieme.
Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria indice un’assemblea di valutazione a caldo del voto in vista delle elezioni regionali del febbraio prossimo. Sopra la locandina, con invito alla partecipazione e all’ulteriore diffusione.
Cordiali saluti.
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Cantico dei Cantici

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Cantico dei Cantici – Un invito alla lettura
Carlamaria Cannas – San Rocco 4 marzo 2018
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Il Cantico dei cantici è un libro molto piccolo: 117 versetti, in ebraico 1250 parole in tutto, ma con ben 48 hapax, cioè termini che non compaiono in altre parti della Bibbia e che quindi creano molti problemi di traduzione. Attorno a questi 117 versetti si sono accaniti per oltre duemila anni esegeti e teologi, scrittori e interpreti, lettori rigorosi e lettori fantasiosi. Prima di addentrarci nella comprensione di questo testo poetico, vale la pena soffermarci un momento sul come ha attraversato i secoli creando difficoltà di interpretazione via via diverse. Ci ritorneremo con più attenzione la prossima volta, ma credo che sia utile fare anche qui un piccolo cenno a queste difficoltà per poter poi apprezzare meglio il testo.
Fa un po’ sorridere, nota Enzo Bianchi, che per buona parte di questo periodo esegeti espertissimi, tra cui persone della spiritualità di Girolamo, abbiano letto il Cantico del Cantici senza vederne l’aspetto più letterale, senza capire che parla dell’amore umano. Bianchi ritiene, tuttavia, che Girolamo abbia compreso che questo è un canto d’amore profano; ma che forse lo dica come poteva dirlo al suo tempo, che cioè nella Bibbia c’erano libri più difficili di altri, per cui il Vangelo di Giovanni andava letto dopo i 25 anni ma il Cantico dopo i 60.
Il fatto è che dire chiaramente queste cose, ad esempio traducendo il testo nella lingua parlata dalla gente comune, era effettivamente pericoloso. Basta pensare a Luis de Leon, poeta ed ecclesiastico spagnolo del XVI secolo, che, dopo aver studiato all’università di Salamanca, fu denunciato all’Inquisizione per aver tradotto in spagnolo il Cantico dei Cantici (1560), e, incarcerato nel 1572, fu assolto e scarcerato solo quattro anni dopo.
La ‘diversità’ del Cantico dei Cantici rispetto agli altri testi biblici sembra generata da una sorta di interdetto ad accogliere nella Bibbia un testo francamente erotico. Da qui l’infinità di interpretazioni, sia in ambito ebraico che cristiano che laico. Per darvi un’idea dell’evoluzione nel tempo di questa varietà di interpretazioni vorrei farvi ascoltare che cosa pensava del Cantico Rabbì Akiba, famoso rabbino e saggio ebreo imprigionato e ucciso dai romani attorno al 132 d.C. per il suo ruolo nella rivolta di Bar Kokba. Eccola:
Il mondo intero non vale quanto il giorno in cui il Cantico fu donato a Israele, poiché tutte le Scritture sono sante ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi.
Qui Akiba fa uso della norma dell’ebraico che riguarda la ripetizione delle parole, per la quale come il Santo dei Santi significa il Santo per eccellenza così Cantico dei Cantici significa il Cantico per eccellenza, un canto da leggere per la sua bellezza, a patto ovviamente di comprenderla. Leggerlo come un canto erotico umano è una possibile maniera di capirlo, ma Akiba non si sbilancia oltre.
Circa un secolo dopo questo giudizio, Origene, giovane brillante studente del Didaskaleion, famosa scuola teologica di Alessandria d’Egitto, nel 202 d.C. si trovò improvvisamente privo di mezzi quando il padre fu messo a morte nella persecuzione di Settimio Severo, che vietava appunto il proselitismo giudaico e cristiano. Origene si mise allora (a 17 anni! e senza alcun titolo riconosciuto) a insegnare per sostenere la famiglia. Il suo insegnamento pare fosse allora fondato tutto e soltanto sulle Scritture. Il suo tenore di vita era improntato a un rigido ascetismo. Asceti, del resto, erano quasi tutti i predicatori religiosi e i filosofi del tempo. A questo periodo risale anche la sua evirazione, mutilazione volontaria probabile conseguenza del desiderio del giovane maestro di evitare sospetti in una scuola frequentata anche da donne. Probabilmente sì è trattato di un’interpretazione eccessivamente letterale dell’invito a farsi eunuchi per il Regno dei Cieli (Mt, 19, 12).
Successivamente Origene riprese gli studi e divenne il pioniere dell’interpretazione allegorica della Scrittura. Ecco che cosa pensava Origene del Cantico:
Beato colui che penetra nel Santo, ma ben più beato colui che penetra nel Santo dei santi. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma ben più beato colui che canta e comprende il Cantico dei cantici.
È chiaro da questo giudizio che per Origene capire il Cantico significa trovare la chiave giusta per risalire dal testo all’interpretazione allegorica più convincente, (o, forse, più edificante). Quanto di più lontano dall’evidenza della semplice lettura testuale come poema erotico.
Bisognerà arrivare ai tempi nostri per trovare un giudizio del Cantico che ne riconosca la natura fondamentale di canto erotico umano. Questo riconoscimento è dovuto a Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti nel carcere di Flossenbürg, per espresso ordine di Hitler, il 9 aprile 1945. Bonhoeffer era nato nel 1906 a Breslavia e la sua famiglia apparteneva all’alta borghesia dell’impero austroungarico. Per parte materna era di tradizione cristiana, ma non praticante. Dal 1912 la famiglia si trasferì a Berlino per seguire il padre Karl, eminente psichiatra con cattedra all’università di Breslavia, che nel 1912 accettò la nomina alla cattedra di psichiatria e neurologia a Berlino. Divenne così la persona più autorevole nel campo in tutta la Germania. Il suo insegnamento si caratterizzava per il rifiuto di ogni tipo di teoria confusa quali quelle religiose. L’autorevolezza della cattedra gli consentì di mantenersi saldo in questo rifiuto.
Personalmente aveva verso la psicanalisi e verso ogni altra forma di religione un atteggiamento che si potrebbe definire agnostico. Pur non personalmente credente rispettava l’attenzione che la moglie riservava all’educazione religiosa dei figli. Ciò non gli impediva di trasmettere ai figli, anche solo con un’alzata di sopracciglio, la propria insofferenza per ogni forma di sciatteria nell’esprimersi e di insegnar loro a parlare solo quando avevano qualcosa da dire. Negli scritti del figlio Dietrich questa caratteristica essenzialità è evidente, soprattutto nelle parti teologiche delle lettere dal carcere.
Sentiamo da una di queste che cosa pensa Dietrich del Cantico:
Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore; non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in un certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto … Nella Bibbia c’è il Cantico dei Cantici e non si può pensare un amore più caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla. È davvero una bella cosa che appartenga alla Bibbia, alla faccia di tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo valore.
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Oggi martedì 6 marzo 2018

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6 Marzo 2018

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(segue)