Monthly Archives: marzo 2018
I Vescovi sardi ai neo eletti parlamentari sardi
Ai nuovi Senatori e Deputati eletti dalla Sardegna nel Parlamento nazionale
Con un cordiale saluto ed augurio ci rivolgiamo ad ognuno di voi che, per il voto popolare, avete ricevuto l’onore e la responsabilità di contribuire, con dedizione e sapienza, alla crescita del nostro Paese, a partire dalle nostre popolazioni, nella ricerca del bene comune per tutti.
Nelle recenti elezioni politiche abbiamo sperato in una partecipazione alle urne più numerosa da parte dei cittadini sardi. Il persistere dell’astensionismo ci fa consapevoli di quanto impegno sia ancora necessario perché venga superata ogni sfiducia e disaffezione verso la politica, in modo che ognuno si senta responsabile nei confronti della comunità locale e nazionale.
Unendoci all’appello del Card. Bassetti, Presidente della CEI, auspichiamo che, con vero amore per il nostro popolo e per il nostro Paese tutti sappiate lavorare con impegno reciproco e collaborativo per superare le distanze tra società e politica, per “ricucire la società italiana, aiutandola a vivere come corpo vivo che cammina assieme”, affrontando “l’urgenza sociale di pacificare ciò che è nella discordia” (Prolusione al Consiglio Permanente della CEI 22.1.2018). (segue)
Prima di tutto il Lavoro e la Scuola
La scuola fabbrica di disoccupati
di Fiorella Farinelli, su Rocca
Qualsiasi governo avremo dopo il 4 marzo, dovrà occuparsi delle persistenti difficoltà di inserimento lavorativo dei neodiplomati – una parte molto grande della coorte annuale dei 19-20enni che non proseguono gli studi – e delle misure da adottare. Di sicuro misure tampone, come nelle politiche più recenti, ma augurabilmente anche strategiche, che sappiano guardare più in là della punta del naso.
Il lavoro, il futuro dei figli è tra le maggiori preoccupazioni delle famiglie italiane. È un problema che pressa da vicino anche le scuole e parte delle imprese. Che condiziona molto del presente e del futuro economico e sociale del Paese. Ma con la campagna elettorale, la più confusa ed insulsa che sia dato ricordare, non si sono fatti passi avanti. Nessuna analisi nuova, dopo la modestia di risultati delle politiche degli ultimi anni, nessun indirizzo programmatico convincente, nessuna convergenza interessante.
Come si uscirà dal disastro di una disoccupazione/sottoccupazione giovanile che costringe per anni in panchina anche chi consegue titoli professionali? Che tanto spesso obbliga a lavori non solo intermittenti ma per nulla coerenti con gli studi fatti? Che alimenta incessantemente il bacino di quelli che non studiano, non hanno un lavoro e neppure lo cercano?
le proposte LeU e Calenda
Tra gli attori in campo qualcuno in verità il tema l’ha toccato, ma senza bucare lo schermo. L’ha fatto, per esempio, Liberi e uguali, proponendo di azzerare le tariffe di iscrizione all’università per incoraggiare a studi post-diploma anche i figli dei ceti più deboli che, dall’inizio della crisi, hanno maturato un maggiore disinteresse a investire sull’istruzione di livello alto, provando invece a entrare da subito nel mondo del lavoro.
Un approccio diverso – più orientato a mettere al centro le sfide dell’evoluzione tecnologica – ha avuto invece il ministro allo sviluppo Calenda che non ha perso occasioni per sostenere la necessità di aggredire le difficoltà di inserimento dei diplomati poco propensi ai lunghi anni di formazione accademica con l’offerta di un’alta formazione tecnologica, più breve e più ancorata al lavoro, fuori dell’università. Cioè nei percorsi biennali di «istruzione tecnica superiore» che, pur istituiti già nel 2008 dal governo Prodi, sono stati poi così poco finanziati da contare oggi solo la miserabile cifra di 8.000 iscritti (contro gli 800.000 dei percorsi analoghi che ci sono da tempo in Germania), e che – particolare non banale – assicurano il lavoro, un buon lavoro, e in tempi rapidi, a più dell’80% dei superdiplomati.
Se Pietro Grasso, insomma, in sintonia con il leader dei laburisti inglesi Corbyn, punta a un paese con più laureati (in Italia siamo largamente sotto la media europea) e a un sistema di istruzione più equo e meno classista, Calenda, che nell’ultima legge di bilancio ha piazzato un surplus di finanziamento per gli Istituti Tecnici Superiori (10 milioni per il 2018,20 per il 2019, 35 a partire dal 2020), punta sì anche lui a un più diffuso proseguimento degli studi dopo il diploma, ma strettamente mirato allo sviluppo delle competenze necessarie per sostenere «Industria4.0», il piano di sviluppo dell’impresa ad altissimo contenuto tecnologico. Scommessa decisiva per un paese manifatturiero come il nostro, e orientato in una sua parte importante all’esportazione.
Ma le due proposte, che pure hanno punti di contatto, non si sono incrociate in confronti costruttivi. Ovvio, si dirà, considerata la distanza politica, e la competizione elettorale, tra Liberi e Uguali e un ministro del governo Gentiloni. Assai meno ovvio, invece, se si guarda al merito e all’importanza delle questioni. Ma ancora più grave è che entrambe le posizioni sono state inesorabilmente oscurate dal polverone provocato da un lato dal proclama tutto ideologico di un impraticabile reddito universalistico di cittadinanza che dà per scontata l’impossibilità di contrastare la «distruzione tecnologica del lavoro», dall’altro dalla replica delle solite ricettine congiunturali, quelle degli incentivi a termine alle imprese per l’assunzione dei più giovani. Per non parlare dell’idea geniale di affidare l’incremento dell’occupazione giovanile soprattutto all’abolizione dell’allungamento dell’età dei pensionamenti voluto dalla legge Fornero, come se non fosse sotto gli occhi di tutti che non sono più tempi di turn over lineari e automatici, neppure in una pubblica amministrazione pigra, conservativa, attenta al «consenso» come la nostra.
nuovi paradigmi educativi
E intanto incombe, con lo sviluppo della robotizzazione, una drastica diminuzione dei lavori esecutivi a bassa qualificazione. E la certezza, comunque, che molte delle professionalità cui sono indirizzati i curricoli attuali della scuola e anche dell’università, di qui a qualche anno non ci saranno più, o saranno profondamente trasformate. Che fare? Comincia ad essere evidente che l’elemento di forza, per le persone e per le imprese, sarà sempre di più nella capacità di creare nuove macchine, di ideare nuovi prodotti e servizi per i mercati dei paesi emergenti, quindi di disporre dei livelli culturali e delle competenze in grado di contaminare diversi saperi, e della possibilità di saper apprendere anche dopo la scuola, autonomamente e continuamente. Si chiama lifelonglearning/apprendimento permanente lungo tutto il corso della vita, e anche su questo siamo terribilmente indietro. Per tutto ciò, e per molti altri motivi, un’istruzione che si fermi al conseguimento del diploma non può bastare.
Ma oggi, a mostrare la corda, sono anche i tradizionali paradigmi educativi. C’è, certo, nella scuola italiana la nuova scommessa dell’alternanza scuola-lavoro. Ma tamponare, anche lì, non basta. Ed è addirittura sconcertante che, a fronte di una licealizzazione crescente della secondaria superiore (i liceali sono ormai il 54% degli iscritti) e di un corrispondente calo di attrattiva dei professionali e dei tecnici, il Miur non sia capace che di omeopatici ritocchi che non cambiano la sostanza delle cose.
diplomati e inserimento lavorativo
Non è un dettaglio, insomma, l’elaborazione di politiche strategiche per risolvere le difficoltà di inserimento lavorativo di tanti dei nostri diplomati. I numeri ci dicono che si tratta principalmente dei diplomati del comparto tecnico-professionale, visto che a proseguire all’università è solo il 30% di loro, contro l’80% e oltre dei diplomati liceali.
Delle correlazioni tra liceali e ceti sociali più forti – e, viceversa, tra tecnici/professionali e ceti sociali più deboli – sappiamo tutto da tempo, così come del profilo sempre più classista del nostro sistema di istruzione secondaria superiore, ma cosa succede quando il 70% di questi ultimi si presenta nel mercato del lavoro?
I dati più aggiornati vengono da una recente indagine, la prima di tipo censuario, svolta dalla Fondazione Agnelli con l’Università Bocconi di Milano e presentata qualche giorno fa al Miur (1), ma anch’essa del tutto oscurata dal turbinoso magma della campagna elettorale.
Che cosa ci dicono questi dati? Che nei primi due anni post-diploma non più del 28% dei neodiplomati non iscritti all’università ha lavorato per più di 6 mesi, mentre il 14,7% ha svolto solo lavori saltuari e frammentati. Nel 27,4% dei casi, poi, la situazione è quella, disperante, dei Neet, né lavoro né studio. Non solo, a due anni di distanza da queste prime inquietanti performances, solo 1 su 3 degli occupati svolge un lavoro coerente con gli studi fatti, la metà abbondante (51,3%) deve accontentarsi di un lavoro qualsiasi, accessibile anche con maturità di tipo diverso, o con studi di livello inferiore. Un quadro che resta preoccupante – anche se una parte tutt’altro che insignificante prima o poi ce la fa a entrare in un’occupazione stabile – in cui si riscontrano anche svantaggi relativi delle ragazze, dei neodiplomati più «vecchi» per bocciature e ritardi scolastici, dei nati in paesi diversi dall’Italia. E le solite differenze tra Nord e Sud. Poco o niente, invece, conta il voto di maturità, a cui invece guardano con immutata passione le scuole e le famiglie. Evidentemente le differenze di valutazione scolastica tra territori e scuole sono troppo grandi, e troppo note, perché i datori di lavoro di oggi ne facciano gran conto.
cecità imprenditoriale
A sembrare indifferenti a questi dati, a una scuola «fabbrica di disoccupati», non sono comunque solo le forze politiche impegnate in tutt’altri duelli. Anche all’interno delle associazioni imprenditoriali c’è ancora chi, invece che puntare – anche in proprio – a costruire opportunità di alta formazione professionale per i giovani, a partire dalla formazione continua per i propri addetti, entra nell’arena incoraggiando i giovani a fermarsi in livelli di studio medio-bassi. Lo ha fatto, recentemente e con una lettera aperta alle famiglie in occasione della scadenza delle iscrizioni scolastiche, la Confindustria di Cuneo, un’area produttiva in cui l’anno scorso ci sono state effettivamente molte nuove assunzioni di giovani operai e tecnici specializzati. E in cui c’è stata anche qualche difficoltà di reperimento di forza lavoro, o per preparazione professionale inadeguata o per indisponibilità dei giovani a lavori pesanti e mal retribuiti.
Ci sono anche queste contraddizioni, ovviamente, nell’inefficiente sistema di incrocio domanda-offerta di lavoro che c’è in Italia, e nella nostra scadente offerta di formazione professionale regionale, contraddizioni che pendono da anni e che si dovrebbero prima o poi risolvere.
oltre alle convenienze immediate
Ma non è solo dalla specificità dell’uno o dell’altro distretto industriale che si deve partire per affrontare il problema. E, tan- to meno, per sostenere che di laureati ne abbiamo fin troppi, e che l’istruzione e la formazione secondaria devono essere declinate, per assicurare un lavoro, solo sulle specifiche prestazioni professionali che servono in questo preciso momento. Chi oggi si è iscritto a un istituto tecnico o professionale, si troverà, da neodiplomato, di fronte a un mondo del lavoro diverso da quello di oggi, ad applicazioni tecnologiche oggi largamente impensabili, alla richiesta di competenze non previste dai curricoli attuali. In questione, ci sono le scuole (e in altri comparti le università), ma ci sono evidentemente anche le imprese. Non tutte orientate al futuro, non tutte lungimiranti, non tutte capaci di guardare oltre alle convenienze immediate. Cosa saranno, da qui a 10 o 15 anni, quelle che oggi preferiscono lavoratori con competenze modeste e che si augurano giovani non «troppo» formati, retribuibili con salari a dir poco modesti? O meglio, cosa pensano di voler diventare da qui ad allora? Se vogliono stare al passo con le tecnologie, espandersi in mercati nuovi, sviluppare prodotti innovativi, dovranno investire in manodopera molto qualificata, di alto livello formativo, che ne sa di più e che può imparare di più di quello che serve oggi per specifiche prestazioni. La partita, insomma, è più grande di quanto possa a prima vista sembrare. E le scorciatoie non ci sono per nessuno, governi, forze politiche, imprese, famiglie.
Fiorella Farinelli
Nota
(1) La transizione dei diplomati tecnici e professionali al mondo del lavoro, www.fga.it
ROCCA
ISTRUZIONE E LAVORO
la scuola fabbrica di disoccupati
ROCCA n. 6, 15 MARZO 2018
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- La foto del giovane al telescopio, in testa all’articolo, è tratta dal sito web della Fondazione Agnelli.
Gli editoriali di Aladinews
Il tallone di Achille della politica della Cina
Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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LA POLITICA RISPONDA ALLE ISTANZE DELLA “LAUDATO SÌ’”
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Un voto su cicatrici e ferite della crisi di Roberta Carlini, su Rocca 6/2018, ripreso da Aladinews.
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«La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini». L’analisi di Raniero La Valle, ripresa da Aladinews. UNA FELICE DISCONTINUITÀ
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In giro con la lampada di aladin
SOCIETÀ E: POLITICA » TEMI E PRINCIPI » ITALIANI BRAVA GENTE
La Rwm: «Pronti a testare le bombe in Sardegna»
di NELLO SCAVO
Avvenire, 10 marzo 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Non solo l’Italia produce, in Sardegna, le bombe più micidiali con cui rifornire i Signori della guerra e trucidare gli innocenti yemeniti, ma vogliono anche testarle in sito. E tutti cedono al ricatto della disoccupazione.
«Nella richiesta di ampliamento la consociata italiana della multinazionale tedesca prevede un’area per «prove di scoppio»
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Bombe italiane
Bombe italiane.
Raddoppia la superficie per la produzione delle micidiali bombe RMW (Rehinmetall Waffe Munition), impiegata contro le inermi popolazioni yemenite. Tutto ciò in Italia, sotto il ricatto della disoccupazione.
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sabato 10 marzo 2018
EDDYBURG » EDDYTORIALI
Eddytoriale 175. Lavoro
di EDDYBURG
I giornali e la televisione si affannano a raccontare che l’affermazione dei pentastellati al Sud sarebbe derivata dalla loro promessa di adoperarsi per un reddito di cittadinanza, intendendo con questa espressione un reddito ottenuto senza lavorare. A noi sembra invece che… (segue)
Internazionale
Il tallone di Achille della politica della Cina
Gianfranco Sabattini*
E’ diffusa l’idea che, dopo essere stata un fattore di stabilità del quadro economico mondiale, l’integrazione della Cina nell’economia globale sia destinata ad un futuro incerto; ciò, perché i ritmi del suo impetuoso sviluppo hanno generato squilibri territoriali, settoriali e sociali interni, ai quali, in questi ultimi anni, si sono aggiunti quelli finanziari, causati dal crescente indebitamento complessivo delle imprese e dello Stato. Questi ultimi squilibri hanno dato luogo ad una situazione economica e sociale potenzialmente tanto instabile, da mettere in dubbio la possibilità che possano essere perseguiti gli obiettivi stabiliti in occasione dell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi sul finire dell’anno scorso.
Com’è noto, il processo di integrazione della Cina nell’economia mondiale, teorizzato ed avviato alla fine degli anni Settanta da Deng Xiaoping, dopo aver sconfitto la politica conservatrice e isolazionista praticata da Mao Zedong, dall’atto della fondazione della Repubblica Popolare nel 1949, ha consentito al grande Paese asiatico, non solo di crescere a ritmi sostenuti, ma anche di adottare un sistema di gestione dell’economia più vicino al libero mercato, sia pure con “caratteristiche cinesi”, che non al metodo della pianificazione rigidamente centralistico.
Paola Subacchi, senior fellow del Royal Institute of International Affairs londinese, in “Cina: tra tracollo e mercato” (Aspenia, n. 79/2017), sostiene che una schiera crescente di analisti mette ora in dubbio la possibilità che la Cina possa continuare, negli anni a venire, a svolgere come nel passato la funzione stabilizzatrice del mercato mondiale; gli analisti mettono soprattutto in dubbio che la nuova leadership cinese, espressa dalla fazione vincente di Xi Jinping, uscita vittoriosa dall’ultimo congresso del partito comunista, possa riuscire a mantenere il tasso di crescita in linea con l’obiettivo economico stabilito in una crescita del PIL pari al 6,5% annuo, senza incorrere in una situazione di instabilità finanziaria. In particolare, essi non credono che la Cina possa riuscire a conservare il controllo sulle banche e, nello stesso tempo, “persuadere gli investitori internazionali a detenere attività finanziarie denominate in una moneta parzialmente internazionalizzata come il renminbi”, il cui governo dipende più dalle decisioni politiche della Banca centrale, che dagli andamenti del mercato.
A sollevare i maggiori dubbi è il tentativo del governo cinese di limitare il rischio dell’instabilità finanziaria attraverso l’introduzione di un rigido controllo dei capitali in entrata ed in uscita dal Paese. Secondo la Subacchi, le difficoltà finanziarie delle quali soffre oggi l’economia cinese sono da ricondursi alla particolare accelerazione che ne avrebbe caratterizzato l’economia negli anni immediatamente precedenti e successivi alla crisi della Grande Recessione che ha colpito l’economia mondiale a partire dal 2007/2008. “Tra il 1990 e il 2016 – afferma la Subacchi – il PIL è aumentato in termini reali al tasso medio annuo di circa il 10%, facendo del Paese la seconda più grande economia dopo gli Stati Uniti e il principale esportatore [...]. Il PIL pro-capite è passato da 350 dollari in termini nominali nel 1990 ai circa 8.300 dollari attuali”, favorendo l’uscita dalla condizione di povertà estrema a 500 milioni di persone.
In sostanza, negli ultimi trent’anni, con una politica di apertura cresce verso il resto del mondo, a fronte di un’economia mondiale in forte espansione, la Cina ha potuto sostenere la crescita della propria economia secondo ritmi che non hanno uguali nella storia, disponendo di forza lavoro a basso costo e di un elevato tasso i risparmio interno, che ha consentito alle imprese di poter disporre di finanziamenti a basso tasso di interesse. A ciò va aggiunto anche il sostegno del quale le attività produttive hanno fruito, grazie al controllo del tasso di cambio, permettendo alle imprese di conservare costante la loro competitività sul mercato internazionale. Alle particolari condizioni operative che hanno consentito alle imprese cinesi di affermarsi sui mercati mondiali, devono essere aggiunti anche gli effetti positivi degli investimenti diretti esteri, in termini non solo di capitale finanziario, ma anche di tecnologie avanzate e di competenze professionali.
L’enorme balzo in avanti del sistema economico cinese inizia ora a presentare un costo, espresso, in particolare, come già si è detto, dal crescente indebitamento dello Stato e dei governi provinciali; ciò è da imputarsi al fatto che, nonostante il risparmio delle famiglie ammonti al 38% del loro reddito netto, il debito complessivo ammonta a circa il 300% del PIL; un livello decisamente anomalo, se si considera che l’indebitamento totale prima dell’inizio della Grande Recessione era di circa il 130% del PIL. L’alto indebitamento, interno e internazionale, induce gli analisti a pensare che la prossima crisi finanziaria globale possa partire proprio dalla Cina.
Il governo cinese cerca di ricorrere ai ripari, aumentando i controlli, al fine di limitare i flussi finanziari in uscita ed intensificando, tra l’altro, l’attività di intermediazione fuori dai normali canali del credito, con la pratica del sistema bancario ombra (shadow banking), del quale in tutti gli anni di crescita sostenuta la Cina si è avvalsa. Notoriamente, il sistema bancario ombra è costituito dal complesso degli intermediari che erogano servizi bancari senza essere soggetti alla relativa regolamentazione. In particolare, tale attività è svolta mediante la raccolta di fondi in forme diverse da quella delle operazioni di deposito, e quindi, non sottoposte ai limiti imposti dalla regolamentazione e dalla vigilanza bancaria, tra i quali i requisiti patrimoniali di garanzia richiesti dagli accordi di Basilea. L’espansione di questo sistema è da ricondursi per lo più alla decisione, assunta dalle banche di diversi Paesi negli anni precedenti la crisi (anche grazie all’utilizzo di nuove tecnologie informatiche), di “esternalizzare” alcune attività, caratterizzate, oltre che da elevati margini di guadagno, anche da un forte livello di rischio, da una rilevante trasformazione della scadenza della liquidità e da un’ampia leva finanziaria (indebitamento delle imprese), tramite l’utilizzo di strumenti derivati.
A questo sistema di intermediazione del credito la Cina ha fatto ricorso, per consentire alla proprie imprese di godere della disponibilità di “prodotti di risparmio gestito” fuori da ogni controllo. Ciò ha avuto la conseguenza che il perseverare della pratica dell’intermediazione fuori dai canali istituzionali abbia “inibito lo sviluppo di un settore bancario efficiente e trasparente, con mercati finanziari liquidi e diversificati. Il risultato finale del malfunzionamento del sistema del credito è stata la necessità di ricorrerete a rigidi controlli dei movimenti di capitali da e verso i mercati esteri, che hanno “ingessato” l’”integrazione finanziaria della Cina nei mercati internazionali di capitali”, impedendo che la valuta nazionale divenisse la base per la costruzione di una sia pur limitata base valutaria indipendente dal dollaro. A differenza della valuta americana, ma anche di altre importanti valute, il renminbi è quotato solo in alcune grandi piazze finanziarie”.
Per superare la situazione di crisi, la Cina deve perciò procedere in tempi brevi a profonde riforme delle sue istituzioni finanziarie; riforme però che, a parere di Paola Subacchi, dovranno “affrontare il problema del legame tra leadership, banche e imprese di Stato che inficia la trasparenza, la governance e l’indipendenza dell’intero sistema del credito”. La soluzione di questo problema non sarà facile in tempi brevi, in considerazione del fatto che la leadership attuale, pur consapevole dell’urgenza delle riforme, ritiene che i tempi di riforma, a differenza di quanto accaduto per l’economia reale, debbano essere graduali e tali da assicurare al sistema del credito le irrinunciabili “caratteristiche cinesi”; in altri termini, le riforme non dovranno minimamente attenuare la possibilità del controllo politico sul funzionamento complessivo del sistema economico.
Realizzare “un equilibrio tra apertura e controllo che non ingessi il mercato e allo stesso tempo non indebolisca il potere del governo è un dilemma – afferma la Subacchi – che attanaglia la leadership cinese dai tempi di Deng Xiaoping”; il rischio che l’instabilità finanziaria possa ulteriormente peggiorare sta inducendo il governo cinese a propendere verso un maggior controllo del sistema del credito, destinato ad ostacolare gli ambiziosi piani di crescita e sviluppo promessi dal segretario del partito Xi Jinping.
La scelta di optare per un maggior controllo sul funzionamento del sistema economico è destinata ad avere un impatto frenante, se non negativo, sul “processo di integrazione della Cina nel sistema monetario e finanziario internazionale”, limitando la possibilità che il renminbi possa diventare strumento di regolazione delle transazioni internazionali; fatto, questo, molto limitante, se si pensa che la valuta nazionale cinese è stata recentemente inclusa nel paniere delle monete che finanziano i “diritti speciali di prelievo emessi dal Fondo monetario internazionale”: lo stretto controllo cui è sottoposto il sistema cinese del credito farà del renminbi una moneta a limitata circolazione internazionale, che ostacolerà non poco l’obiettivo della Cina di aumentare la presenza della propria economia nei mercati mondiali.
Le difficoltà finanziarie della Cina sono oggi oggetto di riflessione da parte degli osservatori internazionali. Essi sono preoccupati delle possibili difficoltà cui può andare incontro l’economia cinese, come dimostra, ad esempio, il fatto che l’Asia Society Policy Institute e il Rhodium Group (società di studio e consulenza internazionali in tema di gestione degli investimenti, di pianificazione strategica nei settori finanziario e aziendale) abbiano creato un gruppo di lavoro ad hoc, il China Dashboard (alla lettera: pannello di comando cinese); compito di quest’ultimo sarebbe quello di studiare non tanto ciò che le organizzazioni internazionali ritengono che la Cina debba fare, quanto gli obiettivi che essa si è data sul piano delle riforme e dei risultati sinora raggiunti.
A preoccupare gli osservatori internazionali riguardo al futuro della Cina, infatti, non è solo la sua capacità di tenuta in fatto di crescita del PIL, ma anche la possibilità che essa cada nella “middle income trap”, la trappola nella quale incorrono, dopo un periodo di crescita sostenuta, le economie emergenti; ciò perché un modello di crescita centrato sugli investimenti non sempre consente a un Paese, dopo un periodo di crescita sostenuta, l’opportunità di conseguire ulteriori incrementi dei livelli di reddito pro-capite, propri di un’economia avanzata. L’esperienza consente di rilevare che, in molti casi, i Paesi emergenti sono andati incontro a serie difficoltà nella prosecuzione del loro processo di crescita.
Per uscire dalla probabile trappola, alcuni osservano che la Cina potrebbe avvalersi della teoria neo-schumpeteriana, elaborata dagli economisti Philippe Aghion e Peter Howitt, secondo i quali la crescita può essere rilanciata da innovazioni in grado di riformare la struttura dell’offerta, le regole sottostanti la mobilità sociale, l’organizzazione tradizionale dello Stato, le modalità di acceso al credito e le strutture formative.
Queste innovazioni sono strumentali alla fuoriuscita dalla “trappola del reddito medio”; ciò, però, nel caso della Cina si scontra con la lentezza delle necessarie riforme, e soprattutto con la pretesa di realizzarle sotto il rigido controllo del partito: un dilemma assai arduo da risolvere, per un Paese che si propone di diventare la prima economia globale.
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*Anche su Avanti online.
In testa immagine tratta da
Oggi domenica 11 marzo 2018
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Città-globali e nuove forme di disuguaglianza sociale
11 Marzo 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Convegno Scuola-Lavoro di martedì 13 marzo 2018
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CON IL DOLORE LA PAURA E LE LACRIME I BAMBINI ANCORA SPERANO IN SIRIA
Un regalo per Francesco
(chiesadituttichiesadeipoveri) Una ragazzina cieca di 10 anni, Ansam, canta tra le macerie una struggente canzone di speranza insieme ad altri bambini rifugiati e profughi interni assistiti dall’UNICEF. Dicono al mondo: restituiteci l’infanzia. Aladinews si associa all’iniziativa del Sito chiesadituttichiesadeipoveri che pubblica il video come dono di compleanno a papa Francesco che fin dall’inizio ha amato e cercato di salvare la Siria
Video Player. Accesso al video youtube.
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Mediante questo link si può accedere a un video prodotto insieme dall’Unicef Middle East and North Africa e dall’Unicef Syria, nel quale una bambina nata cieca, Ansam, ed altri bambini rifugiati e profughi interni in Siria cantano il loro dolore dopo sei anni di guerra, di cui l’ultimo è stato il peggiore. Il loro tuttavia è un canto di speranza, essi annunciano infatti che i loro cuori battono ancora e i loro sorrisi sono ovunque, ma chiedono al mondo che sia loro restituita l’infanzia.
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Appello oltre le fedi. LA POLITICA RISPONDA ALLE ISTANZE DELLA “LAUDATO SÌ’
LA POLITICA RISPONDA ALLE ISTANZE DELLA “LAUDATO SÌ’” Se le analisi e le preoccupazioni del papa erano giuste, occorre trovare le strade per una loro traduzione nell’azione politica. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. “Ascoltare il grido della terra e il grido dei poveri”. Un’iniziativa partita da Milano, aperta alle firme
Per iniziativa di Mario Agostinelli e di don Virginio Colmegna della Casa della Carità di Milano, viene lanciato questo appello la cui finalità è che i temi dell’enciclica Laudato Sì’ di papa Francesco (il clima, la Terra, la giustizia sociale) vengano assunti come problemi politici e diventino oggetto di programmi e iniziative politiche, naturalmente allo stesso livello in cui i problemi si pongono, cioè a livello sia nazionale che globale
[vai all’editoriale]
Oggi sabato 10 marzo 2018
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Il PD ad un bivio: ripartire o sparire?
10 Marzo 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Appello oltre le fedi
LA POLITICA RISPONDA ALLE ISTANZE DELLA “LAUDATO SÌ’”
Se le analisi e le preoccupazioni del papa erano giuste, occorre trovare le strade per una loro traduzione nell’azione politica. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. “Ascoltare il grido della terra e il grido dei poveri”. Un’iniziativa partita da Milano, aperta alle firme
Per iniziativa di Mario Agostinelli e di don Virginio Colmegna della Casa della Carità di Milano, viene lanciato questo appello la cui finalità è che i temi dell’enciclica Laudato Sì’ di papa Francesco (il clima, la Terra, la giustizia sociale) vengano assunti come problemi politici e diventino oggetto di programmi e iniziative politiche, naturalmente allo stesso livello in cui i problemi si pongono, cioè a livello sia nazionale che globale
Nel 2015 papa Francesco pubblicò l’enciclica Laudato si’, prendendo le mosse dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: un testo rivolto a credenti e non credenti, segnato dall’abbandono della visione antropocentrica che caratterizza la nostra cultura e dal richiamo alla necessità di un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale.
Dopo aver indicato le profonde connessioni tra pace, accoglienza, tutela ambientale, giustizia sociale, rispetto della natura, lotta alla povertà, sostenibilità dei consumi, l’enciclica traccia un percorso di pensiero e di azione imperniato sull’ecologia integrale, che abbraccia il vivente e prende a guida la sapienza dei popoli indigeni, detentori di un rapporto con il pianeta e i suoi abitanti oggi pressoché estirpato dalla cultura occidentale e dalla sua vocazione predatoria.
Si tratta di un discorso rivoluzionario che esce dagli specialismi – anche quelli umanitari – per dirci che distruzione del pianeta, guerre, corsa al riarmo, migrazione, cultura dello scarto, spregio del vivente e violazione dei diritti civili e sociali sono fenomeni strettamente interconnessi. Quasi un programma politico – assente, nella sua globalità, dalle agende di chi ha il compito istituzionale di rappresentare i cittadini – che crediamo necessario raccogliere di fronte allo sgretolamento, quando non alla palese aggressione, della cultura umanitaria su cui si fonda la civiltà dei diritti: una civiltà fragile, faticosamente costruita a protezione dei precipizi che la Seconda guerra mondiale e la Shoah ci hanno mostrato possibili nel cuore d’Europa e nella modernità.
Il progetto che noi firmatari di questa lettera-appello riteniamo necessario e non più rimandabile si fonda su una premessa essenziale espressa da papa Francesco: «Un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri».
Uno spettro si aggira infatti per l’Europa, ed è lo spettro della povertà – povertà materiale, simbolica ed educativa. Ignorarlo, o fingere che non ci riguardi, ha lasciato un enorme numero di uomini e di donne privi di rappresentanza; esposti – come scriveva Hannah Arendt – a cadere dalla dimensione della libertà a quella del bisogno, deviando verso l’assolutismo.
Di fronte all’incrudelimento di linguaggi e comportamenti, ci impegniamo a promuovere nella scuola e nella società un discorso di mitezza e solidarietà, basato sui cardini dell’ecologia integrale tracciati dall’enciclica.
Questi cardini sono:
• Ambiente e beni comuni (clima, desertificazione, land grabbing, water grabbing, sfruttamento estrattivo, deforestazione, inquinamento del suolo e del mare, rifiuti e scorie tossiche, proliferazione nucleare) poiché «il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi».
• Migrazioni (politiche europee di respingimento, esternalizzazione e crisi dell’asilo, rifugiati ambientali, accoglienza e buone pratiche, inserimento lavorativo e inclusione sociale, programmi di accompagnamento a un rientro volontario e assistito, cooperazione allo sviluppo), poiché «è tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle Convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa».
• Povertà ed economia dello scarto (il povero come nuova categoria razziale, migranti “poveri tra i poveri”, produzione di scarti umani, alienazione del lavoro, nuovo schiavismo e traffico di organi, giustizia eguaglianza e fraternità come cardini sociali, criminalizzazione della solidarietà, riduzione del cittadino a consumatore, pratiche per un consumo critico), poiché “c’è un’«intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta».
• Il vivente (diritti della natura, rispetto dell’unicità e dignità di ogni essere, dialogo con i popoli nativi, bellezza come bene comune, diritto alla pace), poiché «noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale».
Ci impegniamo altresì a far conoscere e rendere accessibili – tramite un’educazione ai diritti e alla cittadinanza e un’attività di consulenza legale – le leggi, le direttive, le possibilità di difesa e l’applicazione dei protocolli internazionali in materia di diritti umani, cittadinanza, diritto d’asilo, ambiente, tutela dei beni comuni, diritto alla salute, architettura sostenibile e protezione del paesaggio.
Quando necessario, ricorreremo alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo proponendo azioni inerenti alla violazione dei diritti umani protetti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, denunciando disastri ecologici, malattie da inquinamento, situazioni di povertà, trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei più deboli, sfruttamento lavorativo dei migranti e dei più deboli.
Siamo convinti che sia possibile costruire una modalità di lavoro propositiva e continuativa, che sappia radicare sul territorio pratiche di relazione e al contempo promuovere una rete di cittadinanza – a livello nazionale, europeo e internazionale – per la difesa della Terra e la giustizia sociale. A tale proposito ci proponiamo di svolgere una funzione di lobbying a livello di Parlamento italiano e Parlamento europeo, promuovendo contatti e campagne affinché vengano promulgate leggi a difesa dei diritti umani, dei diritti della natura, della lotta alla povertà, dell’accoglienza, della giustizia sociale e ambientale.
Per questo intendiamo contribuire a connettere associazioni, movimenti, organizzazioni, attivisti e studiosi che si occupano delle tematiche che trovano armonica collocazione nel contesto indicato dall’enciclica Laudato si’ e farne patrimonio formativo, educativo, culturale e sociale.
1 marzo 2018
Mario Agostinelli, Don Virginio Colmegna, Erri De Luca, Emilio Molinari, Daniela Padoan, Paola Regina, Simona Sambati, Antonio Soffientini, Guido Viale, Raniero La Valle.
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Un regalo per Francesco
CON IL DOLORE LA PAURA E LE LACRIME I BAMBINI ANCORA SPERANO IN SIRIA
(chiesadituttichiesadeipoveri) Una ragazzina cieca di 10 anni, Ansam, canta tra le macerie una struggente canzone di speranza insieme ad altri bambini rifugiati e profughi interni assistiti dall’UNICEF. Dicono al mondo: restituiteci l’infanzia. Aladinews si associa all’iniziativa del Sito chiesadituttichiesadeipoveri che pubblica il video come dono di compleanno a papa Francesco che fin dall’inizio ha amato e cercato di salvare la Siria
Video Player. Accesso al video youtube.
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Mediante questo link si può accedere a un video prodotto insieme dall’Unicef Middle East and North Africa e dall’Unicef Syria, nel quale una bambina nata cieca, Ansam, ed altri bambini rifugiati e profughi interni in Siria cantano il loro dolore dopo sei anni di guerra, di cui l’ultimo è stato il peggiore. Il loro tuttavia è un canto di speranza, essi annunciano infatti che i loro cuori battono ancora e i loro sorrisi sono ovunque, ma chiedono al mondo che sia loro restituita l’infanzia.
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Un appello oltre le fedi
LA POLITICA RISPONDA ALLE ISTANZE DELLA “LAUDATO SÌ’”
Se le analisi e le preoccupazioni del papa erano giuste, occorre trovare le strade per una loro traduzione nell’azione politica. Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale. “Ascoltare il grido della terra e il grido dei poveri”. Un’iniziativa partita da Milano, aperta alle firme
Per iniziativa di Mario Agostinelli e di don Virginio Colmegna della Casa della Carità di Milano, viene lanciato questo appello la cui finalità è che i temi dell’enciclica Laudato Sì’ di papa Francesco (il clima, la Terra, la giustizia sociale) vengano assunti come problemi politici e diventino oggetto di programmi e iniziative politiche, naturalmente allo stesso livello in cui i problemi si pongono, cioè a livello sia nazionale che globale
[segue]
Internazionale
Il tallone di Achille della politica della Cina
Gianfranco Sabattini*
E’ diffusa l’idea che, dopo essere stata un fattore di stabilità del quadro economico mondiale, l’integrazione della Cina nell’economia globale sia destinata ad un futuro incerto; ciò, perché i ritmi del suo impetuoso sviluppo hanno generato squilibri territoriali, settoriali e sociali interni, ai quali, in questi ultimi anni, si sono aggiunti quelli finanziari, causati dal crescente indebitamento complessivo delle imprese e dello Stato. Questi ultimi squilibri hanno dato luogo ad una situazione economica e sociale potenzialmente tanto instabile, da mettere in dubbio la possibilità che possano essere perseguiti gli obiettivi stabiliti in occasione dell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi sul finire dell’anno scorso.
Com’è noto, il processo di integrazione della Cina nell’economia mondiale, teorizzato ed avviato alla fine degli anni Settanta da Deng Xiaoping, dopo aver sconfitto la politica conservatrice e isolazionista praticata da Mao Zedong, dall’atto della fondazione della Repubblica Popolare nel 1949, ha consentito al grande Paese asiatico, non solo di crescere a ritmi sostenuti, ma anche di adottare un sistema di gestione dell’economia più vicino al libero mercato, sia pure con “caratteristiche cinesi”, che non al metodo della pianificazione rigidamente centralistico.
Paola Subacchi, senior fellow del Royal Institute of International Affairs londinese, in “Cina: tra tracollo e mercato” (Astenia, n. 79/2017), sostiene che una schiera crescente di analisti mette ora in dubbio la possibilità che la Cina possa continuare, negli anni a venire, a svolgere come nel passato la funzione stabilizzatrice del mercato mondiale; gli analisti mettono soprattutto in dubbio che la nuova leadership cinese, espressa dalla fazione vincente di Xi Jinping, uscita vittoriosa dall’ultimo congresso del partito comunista, possa riuscire a mantenere il tasso di crescita in linea con l’obiettivo economico stabilito in una crescita del PIL pari al 6,5% annuo, senza incorrere in una situazione di instabilità finanziaria. In particolare, essi non credono che la Cina possa riuscire a conservare il controllo sulle banche e, nello stesso tempo, “persuadere gli investitori internazionali a detenere attività finanziarie denominate in una moneta parzialmente internazionalizzata come il renminbi”, il cui governo dipende più dalle decisioni politiche della Banca centrale, che dagli andamenti del mercato.
A sollevare i maggiori dubbi è il tentativo del governo cinese di limitare il rischio dell’instabilità finanziaria attraverso l’introduzione di un rigido controllo dei capitali in entrata ed in uscita dal Paese. Secondo la Subacchi, le difficoltà finanziarie delle quali soffre oggi l’economia cinese sono da ricondursi alla particolare accelerazione che ne avrebbe caratterizzato l’economia negli anni immediatamente precedenti e successivi alla crisi della Grande Recessione che ha colpito l’economia mondiale a partire dal 2007/2008. “Tra il 1990 e il 2016 – afferma la Subacchi – il PIL è aumentato in termini reali al tasso medio annuo di circa il 10%, facendo del Paese la seconda più grande economia dopo gli Stati Uniti e il principale esportatore [...]. Il PIL pro-capite è passato da 350 dollari in termini nominali nel 1990 ai circa 8.300 dollari attuali”, favorendo l’uscita dalla condizione di povertà estrema a 500 milioni di persone.
In sostanza, negli ultimi trent’anni, con una politica di apertura cresce verso il resto del mondo, a fronte di un’economia mondiale in forte espansione, la Cina ha potuto sostenere la crescita della propria economia secondo ritmi che non hanno uguali nella storia, disponendo di forza lavoro a basso costo e di un elevato tasso i risparmio interno, che ha consentito alle imprese di poter disporre di finanziamenti a basso tasso di interesse. A ciò va aggiunto anche il sostegno del quale le attività produttive hanno fruito, grazie al controllo del tasso di cambio, permettendo alle imprese di conservare costante la loro competitività sul mercato internazionale. Alle particolari condizioni operative che hanno consentito alle imprese cinesi di affermarsi sui mercati mondiali, devono essere aggiunti anche gli effetti positivi degli investimenti diretti esteri, in termini non solo di capitale finanziario, ma anche di tecnologie avanzate e di competenze professionali.
L’enorme balzo in avanti del sistema economico cinese inizia ora a presentare un costo, espresso, in particolare, come già si è detto, dal crescente indebitamento dello Stato e dei governi provinciali; ciò è da imputarsi al fatto che, nonostante il risparmio delle famiglie ammonti al 38% del loro reddito netto, il debito complessivo ammonta a circa il 300% del PIL; un livello decisamente anomalo, se si considera che l’indebitamento totale prima dell’inizio della Grande Recessione era di circa il 130% del PIL. L’alto indebitamento, interno e internazionale, induce gli analisti a pensare che la prossima crisi finanziaria globale possa partire proprio dalla Cina.
Il governo cinese cerca di ricorrere ai ripari, aumentando i controlli, al fine di limitare i flussi finanziari in uscita ed intensificando, tra l’altro, l’attività di intermediazione fuori dai normali canali del credito, con la pratica del sistema bancario ombra (shadow banking), del quale in tutti gli anni di crescita sostenuta la Cina si è avvalsa. Notoriamente, il sistema bancario ombra è costituito dal complesso degli intermediari che erogano servizi bancari senza essere soggetti alla relativa regolamentazione. In particolare, tale attività è svolta mediante la raccolta di fondi in forme diverse da quella delle operazioni di deposito, e quindi, non sottoposte ai limiti imposti dalla regolamentazione e dalla vigilanza bancaria, tra i quali i requisiti patrimoniali di garanzia richiesti dagli accordi di Basilea. L’espansione di questo sistema è da ricondursi per lo più alla decisione, assunta dalle banche di diversi Paesi negli anni precedenti la crisi (anche grazie all’utilizzo di nuove tecnologie informatiche), di “esternalizzare” alcune attività, caratterizzate, oltre che da elevati margini di guadagno, anche da un forte livello di rischio, da una rilevante trasformazione della scadenza della liquidità e da un’ampia leva finanziaria (indebitamento delle imprese), tramite l’utilizzo di strumenti derivati.
A questo sistema di intermediazione del credito la Cina ha fatto ricorso, per consentire alla proprie imprese di godere della disponibilità di “prodotti di risparmio gestito” fuori da ogni controllo. Ciò ha avuto la conseguenza che il perseverare della pratica dell’intermediazione fuori dai canali istituzionali abbia “inibito lo sviluppo di un settore bancario efficiente e trasparente, con mercati finanziari liquidi e diversificati.
Il risultato finale del malfunzionamento del sistema del credito è stata la necessità di ricorrerete a rigidi controlli dei movimenti di capitali da e verso i mercati esteri, che hanno “ingessato” l’”integrazione finanziaria della Cina nei mercati internazionali di capitali”, impedendo che la valuta nazionale divenisse la base per la costruzione di una sia pur limitata base valutaria indipendente dal dollaro. A differenza della valuta americana, ma anche di altre importanti valute, il renminbi è quotato solo in alcune grandi piazze finanziarie”.
Per superare la situazione di crisi, la Cina deve perciò procedere in tempi brevi a profonde riforme delle sue istituzioni finanziarie; riforme però che, a parere di Paola Subacchi, dovranno “affrontare il problema del legame tra leadership, banche e imprese di Stato che inficia la trasparenza, la governance e l’indipendenza” dell’intero sistema del credito”. La soluzione di questo problema non sarà facile in tempi brevi, in considerazione del fatto che la leadership attuale, pur consapevole dell’urgenza delle riforme, ritiene che i tempi di riforma, a differenza di quanto accaduto per l’economia reale, debbano essere graduali e tali da assicurare al sistema del credito le irrinunciabili “caratteristiche cinesi”; in altri termini, le riforme non dovranno minimamente attenuare la possibilità del controllo politico sul funzionamento complessivo del sistema economico.
Realizzare “un equilibrio tra apertura e controllo che non ingessi il mercato e allo stesso tempo non indebolisca il potere del governo è un dilemma – afferma la Subacchi – che attanaglia la leadership cinese dai tempi di Deng Xiaoping”; il rischio che l’instabilità finanziaria possa ulteriormente peggiorare sta inducendo il governo cinese a propendere verso un maggior controllo del sistema del credito, destinato ad ostacolare gli ambiziosi piani di crescita e sviluppo promessi dal segretario del partito Xi Jinping.
La scelta di optare per un maggior controllo sul funzionamento del sistema economico è destinata ad avere un impatto frenante, se non negativo, sul “processo di integrazione della Cina nel sistema monetario e finanziario internazionale”, limitando la possibilità che il renminbi possa diventare strumento di regolazione delle transazioni internazionali; fatto, questo, molto limitante, se si pensa che la valuta nazionale cinese è stata recentemente inclusa nel paniere delle monete che finanziano i “diritti speciali di prelievo emessi dal Fondo monetario internazionale”: lo stretto controllo cui è sottoposto il sistema cinese del credito farà del renminbi una moneta a limitata circolazione internazionale, che ostacolerà non poco l’obiettivo della Cina di aumentare la presenza della propria economia nei mercati mondiali.
Le difficoltà finanziarie della Cina sono oggi oggetto di riflessione da parte degli osservatori internazionali. Essi sono preoccupati delle possibili difficoltà cui può andare incontro l’economia cinese, come dimostra, ad esempio, il fatto che l’Asia Society Policy Institute e il Rhodium Group (società di studio e consulenza internazionali in tema di gestione degli investimenti, di pianificazione strategica nei settori finanziario e aziendale) abbiano creato un gruppo di lavoro ad hoc, il China Dashboard (alla lettera: pannello di comando cinese); compito di quest’ultimo sarebbe quello di studiare non tanto ciò che le organizzazioni internazionali ritengono che la Cina debba fare, quanto gli obiettivi che essa si è data sul piano delle riforme e dei risultati sinora raggiunti.
A preoccupare gli osservatori internazionali riguardo al futuro della Cina, infatti, non è solo la sua capacità di tenuta in fatto di crescita del PIL, ma anche la possibilità che essa cada nella “middle income trap”, la trappola nella quale incorrono, dopo un periodo di crescita sostenuta, le economie emergenti; ciò perché un modello di crescita centrato sugli investimenti non sempre consente a un Paese, dopo un periodo di crescita sostenuta, l’opportunità di conseguire ulteriori incrementi dei livelli di reddito pro-capite, propri di un’economia avanzata. L’esperienza consente di rilevare che, in molti casi, i Paesi emergenti sono andati incontro a serie difficoltà nella prosecuzione del loro processo di crescita.
Per uscire dalla probabile trappola, alcuni osservano che la Cina potrebbe avvalersi della teoria neo-schumpeteriana, elaborata dagli economisti Philippe Aghion e Peter Howitt, secondo i quali la crescita può essere rilanciata da innovazioni in grado di riformare la struttura dell’offerta, le regole sottostanti la mobilità sociale, l’organizzazione tradizionale dello Stato, le modalità di acceso al credito e le strutture formative.
Queste innovazioni sono strumentali alla fuoriuscita dalla “trappola del reddito medio”; ciò, però, nel caso della Cina si scontra con la lentezza delle necessarie riforme, e soprattutto con la pretesa di realizzarle sotto il rigido controllo del partito: un dilemma assai arduo da risolvere, per un Paese che si propone di diventare la prima economia globale.
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*Anche su Avanti online.