Monthly Archives: marzo 2018
La crisi degli intellettuali
Sconfitti dai social, il tramonto degli intellettuali
di Giuseppe Lupo su Il Sole 24 ore online
Dibattito e stato dell’arte su RdC e dintorni
Il punto di vista di un autorevole economista cattolico.
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Il reddito per soccorrere deboli e poveri. È il lavoro a fondare la cittadinanza
È il lavoro a fondare la cittadinanza
di Luigino Bruni
mercoledì 14 marzo 2018 su Avvenire.it
(…) ci sono due culture che oggi si fronteggiano, ben diverse tra di loro. L’una vede come primario il nesso reddito-cittadinanza; l’altra (che è anche la mia) dà la priorità al binomio lavoro-cittadinanza (…).
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Oggi giovedì 15 marzo 2018
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Rompere lo schema. Dopo-voto arduo, generosità necessaria
di Mauro Magatti
martedì 13 marzo 2018, Avvenire.it
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I referendari insulari cambiano tattica
15 Marzo 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Insularità: Sardegna e Sicilia su progetto di legge costituzionale
(Regioni.it 3342 – 13/03/2018) I consigli regionali di Sicilia e Sardegna lavorano sulla condizione di insularità, cercando tra l’altro insieme delle modifiche statutarie o l’applicazione di norme già esistenti.
Reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza non è strumento per il superamento del capitalismo
di Gianfranco Sabattini*
Di recente è comparso in libreria un volume, curato da Willy Gianinazzi, che raccoglie alcuni scritti di André Gorz, col titolo “Il filo rosso dell’ecologia”. Tra gli scritti, ve ne è uno dedicato al ruolo del reddito di cittadinanza, che Gorz chiama “reddito di esistenza”; l’argomento era stato trattato originariamente dal filosofo-economista francese nel libro intitolato “L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale”, edito in francese e in italiano nel 2003, pochi anni prima che Gorz morisse.
Come filosofo, Gorz è sempre stato portatore di un pensiero anti-economista, anti-utilitarista e anti-produttivista, che l’ha condotto a rifiutare la logica capitalista delle crescita continua e del consumismo; la sua opposizione all’individualismo edonista e utilitarista, come al collettivismo materialista e produttivista, ha sempre riflesso l’importanza che egli ha assegnato alla rivendicazione del valore sociale della persona, strettamente coniugata alla corrispondente rivendicazione dell’autonomia dell’individuo.
E’ impossibile formalizzare un corpus stabile e coerente del pensiero di Gorz, perché egli è sempre stato propenso ad affermare il suo anti-economismo, anti-utilitarismo e anti-produttivismo, in funzione dell’impatto che sul suo pensiero hanno avuto i problemi di maggior rilievo insorgenti durante l’evoluzione delle modalità di funzionamento dei siatemi capitalistici. Agli effetti dell’”ondivagare” della sua riflessione filosofica sui problemi di natura economico-sociale, non è risultato estraneo il ruolo e la funzione del reddito di cittadinanza.
Riguardo, appunto, al reddito di cittadinanza (o reddito di esistenza, secondo il lessico di Gorz) il “pensiero gorziano – afferma nell’Introduzione il curatore del libro Willy Gianinazzi – non ha smesso di evolversi e di approfondirsi. Nel 1990 Gorz credeva soprattutto che un reddito garantito incondizionato rischiasse di scavare un fossato tra i lavoratori integrati e quelli considerati come semplici scarti”.
All’inizio del nuovo secolo, l’erogazione del reddito di esistenza è stata invece connessa al riconoscimento delle potenzialità “sovversive” della ‘produzione di sé’”, nel senso che esso consentirebbe l’autorealizzazione dell’individuo, indipendentemente dalla valorizzazione del capitale. Il reddito di esistenza, secondo Gorz – acquisterebbe così “tutto il suo significato se venisse concepito – secondo Gianinazzi – come uno strumento utile a favorire lo sviluppo di attività non mercantili, come quelle legate all’economia solidale, o la nascita di attività locali di autoproduzione individuali o collettive che potrebbero contribuire alla produzione di nuove ricchezze”; ricchezze fatte di “valori d’uso non misurabili e dall’estensione di legami sociali”. In altre parole, per Gorz, se il reddito di esistenza fosse erogato solo per rendere possibile il consumo, non si farebbe altro che alimentare il feticismo del denaro, con il risultato di mantenere i suoi beneficiari sotto il giogo del capitalismo.
Sia l’interpretazione che nel 1990 Gorz ha dato del reddito di esistenza, inteso come reddito incondizionato, sia quella formulata dallo stesso Gorz all’inizio del nuovo secolo sono estranee al significato e alla funzione del reddito incondizionato che coloro che l’hanno formalizzato in tempi successivi hanno inteso assegnargli. All’origine James Meade ha attribuito al reddito di cittadinanza, inteso come reddito universale e incondizionato erogato a favore di tutti i cittadini, in sostituzione del più “burocratizzato” (e non equitativo sul piano distributivo) welfare State; a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, un gruppo di economisti, facenti capo all’Università di Lovanio, hanno finalizzato il reddito di cittadinanza alla compensazione della crescente insicurezza reddituale della forza lavoro (in stato di disoccupazione irreversibile, originata dalle moderne forme di funzionamento de capitalismo), con l’intento di realizzare le condizioni di una stabilità economica compatibile con una condivisa equità distributiva.
Gorz, assegnando al reddito di esistenza un ruolo ed una funzione “eversivi” e di superamento del capitalismo, si pone fuori dalla prospettiva degli economisti di Lovanio; ciò determina l’insostenibilità del suo assunto che vorrebbe che il superamento dell’”ordine economico” esistente possa determinarsi con l’erogazione di un “reddito sociale”, reso disponibile proprio dall’”ordine” che dovrebbe essere superato, grazie soprattutto, secondo la sua analisi, con l’avvento dell’”economia della conoscenza”.
La rivoluzione informatica, afferma Gorz, “ha dato avvio, facendo delle differenti forme di conoscenza la principale forza produttiva, a quelle trasformazioni che hanno messo in crisi le categorie fondamentali dell’economia politica. La cosiddetta economia della conoscenza [...] non è altro che un capitalismo che cerca di ridefinire le sue categorie chiavi – il lavoro, il valore, il capitale – e che facendo questo si estende a domini che fino ad ora erano sfuggiti alla sua logica”. Gorz spiega il processo di formazione dell’economia della conoscenza e dei suoi effetti nei termini che seguono.
Con l’avvento dell’informatica, ogni risultato dell’attività lavorativa ha acquisito una “componente cognitiva sempre più determinante”; si è trattato di una componente non formalizzata e codificata, ma “di competenze acquisite con l’esperienza pratica”; il modo in cui tali competenze sono impiegate “non è mai né predeterminato, né dominabile. E’ un fatto che dipende dall’investimento di se stessi nel lavoro”, che non è il lavoro di Smith o di Marx, dal quale origina il valore sostanziale, comune a tutte le merci prodotte, ma una conoscenza immateriale, considerata dalle imprese il loro “capitale umano”. Esse si appropriano di questo capitale, facendo diventare i lavoratori stessi degli imprenditori, responsabili del loro lavoro, mentre la “loro messa in concorrenza [...] serve a costringerli ad interiorizzare l’imperativo del profitto”. In questo modo, il lavoratore diventa un’impresa e lo “sfruttamento è rimpiazzato dall’autosfruttamento”, del quale si avvantaggiano le imprese, alle quali gli “imprenditori di se stessi” vendono il risultato della propria attività lavorativa.
Il conflitto centrale che in tal modo viene a determinarsi, tra forza lavoro e capitale, non mette in causa il “dominio” che quest’ultimo ha esercitato fino ad oggi sugli uomini, per mezzo delle macchine; mette “in causa l’egemonia dominatrice dello spirito tecnoscientifico – della razionalità ‘cognitivo-strumentale’ che ha fornito alla tecnica i mezzi di ‘violare e schiavizzare’ tutto l’Esistente”. Se si mette in discussione la strumentalizzazione con cui sinora il capitale si è espanso, allora – afferma Gorz – “bisogna mettere in discussione anche tutto l’indirizzo delle scienze”; perché le scienze sono sempre state un parente stretto del capitale, e viceversa. Ora, poiché la digitalizzazione della conoscenza ha determinato un processo di espansione del capitale, per la cui creazione la forza lavoro, pur in presenza di una crescente disoccupazione, è divenuta sempre meno necessaria, diventa urgente e inevitabile l’introduzione di un reddito di esistenza.
Questo reddito, però, non può essere finanziato secondo le modalità tradizionali; ciò perché il finanziamento dovrebbe avvenire all’interno di un’economia che “produce sempre più merci con sempre meno lavoro produttivo di capitale”; quindi un’economia che, pur in presenza dell’accrescimento della produttività, distribuisce sempre meno mezzi di pagamento, rendendo inevitabile una generalizzata instabilità, qualora si pretendesse il suo concorso al mantenimento della crescente disoccupazione, attraverso il finanziamento di crescenti trasferimenti di reddito “tramite prelievi fiscali sui salari e sul plusvalore”.
In tal modo, l’erogazione di un reddito di esistenza rivela, secondo Gorz, la necessità di un’altra economia, per via dell’obsolescenza di quella “fondata sul lavoro mercantile”. Di conseguenza, l’erogazione di un reddito di esistenza cessa di avere lo stesso ruolo e la stessa funzione delle sue forme anteriori. Queste, sempre secondo Gorz, si limitavano a richiedere allo Stato sociale la rivendicazione di una parte del “plusvalore prodotto”; ora, l’erogazione di un reddito di esistenza è imposta dalla necessità del superamento del capitalismo.
Perché questa prospettiva di trascendimento del capitalismo possa diventare reale, l’erogazione del reddito di esistenza deve essere ricondotta al fatto che la disoccupazione delle forza lavoro non significa ”né inattività sociale né inutilità sociale”, ma soltanto estraniazione di una quota crescente delle forza lavoro dalla creazione di capitale; una parte di quest’ultimo, essendo esso un “bene collettivo”, viene “messa in comune”, attraverso il reddito di esistenza, per il mantenimento delle forza lavoro involontariamente disoccupata.
In questo modo, conclude Gorz, si ha uno “spostamento” della giustificazione del reddito di esistenza, che da economica, diventa politica; ciò vale a rendere lo sviluppo di tutte le “disposizioni creatrici” degli uomini un “fine in se stesso”, perseguito “perché lo si desidera e non come una produzione di sé obbligata, richiesta dall’imperativo di occupabilità”. Il reddito di esistenza, perciò, nella prospettiva di Gorz, fuori dalla logica capitalistica, assume il significato non di “un reddito di consumo ordinario grazie al quale dei disoccupati possano acquisire tutte le merci che sono loro indispensabili”, ma di un reddito per il consumo di beni prodotti sulla base di una divisione del lavoro sociale affrancata dalla logica propria del modo di produzione capitalistica.
Ciò che Gorz manca di considerare è che il finanziamento di un reddito di esistenza, come egli lo intende, pone inevitabilmente un problema irrisolvibile sul piano macroeconomico, in quanto non viene spiegato come tale forma di reddito possa essere finanziata; se il reddito di esistenza è concepito come strumento per il superamento del modo di produzione capitalistico e non come misura di una politica economica a sostegno della redditualità di chi perde involontariamente lo status di occupato, occorre giustificare il modo in cui, dal punto di vista macroecoenomico, un sistema produttivo che, utilizzando sempre meno lavoro, per effetto del progresso tecnico-scientifico, e distribuendo sempre meno salari, possa continuare a conservarsi funzionante. In altri termini, occorre giustificare come un sistema economico fondato sulle modalità di funzionamento descritte da Gorz possa evitare il collasso, se il reddito di esistenza viene sottratto al ruolo di stabilizzatore del processo produttivo, per essere destinato al finanziamento del “consumo ordinario”, grazie al quale i disoccupati possano acquisire i beni dei quali abbisognano. In mancanza di ciò, diventa ardua la spiegazione del come può essere finanziato il reddito di esistenza.
In conclusione, la concezione gorziana di un reddito di cittadinanza non finalizzato a garantire la stabilità di funzionamento del sistema economico e l’equità distributiva, con l’erogazione di un reddito a favore della forza lavoro in condizione di instabilità occupazionale (involontaria e irreversibile), non sfugge alla considerazione critica che può essere formulata nei confronti di tutte le proposte volte a svincolare il reddito di cittadinanza (o reddito di esistenza) dall’esigenza che esso risulti strumento per il conseguimento dell’equilibrio macroeconomico del sistema produttivo.
In altre parole, la proposta di Gorz di assegnare al reddito di esistenza una funzione diversa da quella che gli è stata attribuita, per rimuovere i limiti del welfare State, non può che risultare contraddittoria rispetto al corretto funzionamento del mercato capitalistico, cui è finalizzata l’erogazione del reddito di cittadinanza correttamente inteso.
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* Anche su Avanti online
Foto in testa a sn: Boccioni Forme_uniche_della_continuità_nello_spazio
Ripartire dalla Cultura
CHE COSA LA CULTURA DEVE PRETENDERE DALLA POLITICA
Pubblicato il: 09/03/2018
di PIER LUIGI SACCO sul Giornale delle Fondazioni
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Oggi mercoledì 14 marzo 2018
Giornata del Paesaggio.
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Il 4 marzo impone di cambiare la legge elettorale
Alfiero Grandi, vice presidente Coordinamento per la democrazia costituzionale, su Democraziaoggi. Per il Comitato una nuova battaglia per la democrazia.
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I 5Stelle e la sinistra spaesata
14 Marzo 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Corriere della Sera, 13 marzo 2018
Il voto del Sud è una ribellione da non leggere con superficialità
L’Italia che traspare dal voto del 4 marzo è spaccata in due: Nord e Sud. Nella storia del nostro Paese una divisione così netta nelle preferenze politiche non si vedeva dai tempi del referendum sulla monarchia. Il voto al Sud è stato attribuito alla domanda di assistenzialismo e alla chiusura della società meridionale tipicamente avversa al cambiamento e alla globalizzazione. Si è anche detto che l’esito elettorale del nostro Mezzogiorno è simile a quello di altri Paesi europei dove la crisi ha minato la fiducia nei partiti tradizionali e premiato i partiti «antisistema».
(segue)
Democrazia e Sussidiarietà. «Ogni cosa deve essere dentro l’umanità, niente deve essere contro l’umanità, nulla deve essere fuori dall’umanità»
La sussidiarietà come reagente sociale: dalla persona alla comunità globale
di Filippo Maria Giordano – 13 marzo 2018, su LabSus
La storia è ricca di idee e principi originali in ogni ambito del sapere, alcuni dei quali hanno svolto nell’ambito delle relazioni umane la funzione di “reagenti”. Come in chimica, hanno favorito una reazione e rivelato la presenza di risorse ignote e di energie nascoste, attivando nella “fisiologia sociale” valori condivisi e diffusi, fino ad allora incapaci di combinarsi agevolmente.
La sussidiarietà fa parte di questo patrimonio ideale, che favorisce una cosciente e matura condizione del vivere civile. Essa rende l’uomo più indipendente e solidale e gli consente di accrescere la consapevolezza di sé e il proprio stato di benessere, condividendo con gli altri il destino della comunità in cui vive e facendosi portatore di molteplici interessi generali a seconda del livello in cui si trova ad agire.
Da “principio speranza” a motore di sviluppo sociale
L’originalità di questo principio, che trova fondamento in categorie antropologiche e si nutre di riflessioni filosofiche e sociologiche, ha un passato ricco di contaminazioni e nel tempo si è prestato con naturalezza alla costruzione di modelli sociali e politico-istituzionali altamente complessi. I sistemi costituzionali sembrano attratti da questo principio in forza della sua versatilità e, forse anche, della sua discrezionalità per far fronte alla complessità dei problemi posti dalla globalizzazione. Negli ultimi tre decenni, la sussidiarietà ha cominciato ad acclimatarsi nei sistemi giuridici occidentali a partire dall’Unione europea e dall’Italia, più recentemente; e la curiosità per questa idea-principio, specie nella sua accezione orizzontale, si sta rapidamente diffondendo anche in altre parti d’Europa, come in Spagna, in Francia e Germania.
I filoni discorsivi, le argomentazioni e i dibattiti, più o meno alti, intorno a questo principio sono numerosi e assai differenti fra loro per approccio disciplinare e per intendimenti, tanto da aver suscitato negli anni Novanta l’idea che la sussidiarietà (verticale), fosse divenuta un “principio speranza”, specie riguardo al diritto costituzionale europeo. Un’ampia pletora di commenti ha generato talvolta incomprensioni sulla natura della sussidiarietà e alcune difficoltà nel trovare un’applicazione coerente del principio, almeno nel profilo e nell’ordine dei valori da esso espressi, se non anche nelle potenziali vie cui si presta e invita ad agire.
In Italia, questo processo ha avuto un esito positivo e la sussidiarietà è riuscita a intercettare le istanze profonde di una società in rapida trasformazione. Assecondando e favorendo il bisogno di cambiamento, è riuscita ad esprimere concretamente i suoi valori fondanti senza tradire la propria natura. Nella sua accezione orizzontale ha così avviato nel nostro Paese un mutamento sostanziale di prospettiva nelle relazioni tra amministrazione pubblica e parti sociali. Grazie all’aiuto di alcuni accorgimenti innovativi, come il Regolamento di Bologna e i Patti di collaborazione, la sussidiarietà ha attivato grandi risorse sociali ed energie civiche, prospettando anche una rivoluzione sul piano delle relazioni interpersonali. Si tornava così a porre al centro della scena il cittadino, restituendo al singolo dignità politica, sociale e morale, rispettivamente nel suo rapporto con le istituzioni, in relazione con gli altri membri della comunità e nel dialogo con se stesso in qualità di soggetto autonomo.
Sussidiarietà senza ambiguità: un principio necessario
Esiste dunque una pluralità di manifestazioni della sussidiarietà a seconda delle disposizioni che traducono il principio in norma di diritto positivo. Nel momento in cui esso viene costituzionalizzato assume un certo valore e peso nell’organizzazione della società che lo ha recepito e contribuisce a dare forma alla società stessa. Oltre a possedere una dimensione giuridica, che il diritto mette al servizio della prassi politico-istituzionale, la sussidiarietà ha però prima ancora una valenza filosofica e morale. Si tratta infatti di un principio antico che trae valore dalla persona umana e dalla sua condizione di essere sociale.
La sua validità è data dall’esperienza storica e dalla stessa natura che richiama l’uomo a ricomporre in sé le antinomie dell’esistenza, prime fra tutte quelle che derivano dalla libertà del suo agire e dalle correlative responsabilità, sia rispetto al contesto sociale sia nei confronti del bene comune a tutti i livelli del suo manifestarsi, materiale e immateriale, particolare e universale. Questa condizione definisce le coordinate della sussidiarietà: l’uomo nella sua interiorità, da cui l’uomo in relazione con gli altri, in una circolarità di relazioni che lo richiama alle sue responsabilità singole e collettive nei confronti della comunità umana in cui vive e del pianeta che abita. La sussidiarietà si traduce così nell’esercizio consapevole di coltivare insieme ad altri valori diffusi e condivisi che traggono origine dalla condizione stessa dell’uomo.
In concreto, quindi, le istituzioni politiche e le pubbliche amministrazioni che ad essa si riferiscono e a cui si attengono, dovrebbero intendere sempre correttamente la natura di questo principio e porre al centro della loro attenzione il singolo nella dimensione personale e il suo mondo di relazioni, favorendone sviluppo e percorsi di realizzazione. Tale condizione, non solo consente al cittadino di poter realizzare meglio se stesso, al di là del mero interesse personale e in uno spirito di comunione con gli altri, ma genera a sua volta un capitale sociale straordinario che supera in aspettative qualunque intervento funzionale sia pubblico sia privatistico. Questo cambio di prospettiva, che la sussidiarietà favorisce riposizionando l’accento sulla persona umana e sul valore morale del suo agire responsabilmente in relazione con gli altri, è il vero contributo che essa offre alle comunità politiche di oggi, nonché il suo obiettivo. Allo stesso tempo, questa rivoluzione sociale e politica induce il singolo a ridefinire l’ordine stesso delle priorità intime, agendo nel suo profondo con la stessa forza e i medesimi intendimenti.
La sussidiarietà può favorire un nuovo umanesimo?
Siamo di fronte a una sorta di neo umanesimo delle società complesse, in cui si è avviato un radicale ripensamento dei valori esistenziali e delle priorità relazionali dell’uomo in funzione di una visione più armonica e responsabile del (con)vivere. Una prospettiva che contempla insieme la dimensione locale e globale, integrate da una fitta rete di identità e compiti condivisi. Ciò che sorprende della sussidiarietà è proprio la sua valenza universale e trasversale, che deriva dal suo essere norma antropologica. Essa riesce a orientare, se accolta, l’intera gamma delle azioni umane, accrescendo le attitudini relazionali dell’uomo e agendo da lievito nella costruzione delle comunità sociali e politiche. Si tratta di una rivoluzione silenziosa che si realizza nei gesti di tutti i giorni.
Alla base di questa rivoluzione si pone il potenziamento della “persona-in-relazione”, cui accenna Papa Francesco, che trova nell’ambiente familiare – ampiamente e laicamente inteso, aggiungiamo noi – il suo principio naturale e da cui si sviluppa gradualmente. Essa è la condizione di un “autentico sviluppo sostenibile e di una crescita armoniosa della società”. Due presupposti che sostengono la “casa comune” e “la irrobustiscono per affrontare il futuro”, non con spirito “rassegnato e timoroso, ma creativo e fiducioso”. Il monito, dunque, che viene rivolto a coloro che abbiano responsabilità in campo politico e amministrativo e vogliano servirsi della sussidiarietà per edificare una società nuova e rigenerata, più rispondente ai bisogni dei cittadini, è quello di “un paziente e umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare i legami tra la gente e le istituzioni”. Solo “da questa tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si avviano a soluzione questioni che, a causa della loro complessità, nessuno può pretendere di risolvere da solo”.
A partire dalla “persona-in-relazione”, su cui si fonda, la sussidiarietà si contrae per farsi regola interiore e si dilata per divenire strumento di aggregazione, condivisione e (co)gestione di interessi frammentati sul piano della vita associata e lungo l’asse delle articolazioni politico-istituzionali che corrono dalle realtà locali a quelle internazionali. Secondo Benedetto XVI, la sussidiarietà è espressione inalienabile della libertà umana. Il principio si rivela anche un valido criterio “per la collaborazione fraterna” perché riconosce nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano e suscita un’attitudine positiva alla libera partecipazione “in quanto assunzione di responsabilità”. Si tratta “di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano” perché “può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento”. Tuttavia, per seguire questa strada occorre attribuire alla globalizzazione un’autorità, “in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace”.
La “Città dell’Uomo”, verso una democrazia compiuta
Il rapporto tra persona e società era già stato colto nella sua essenzialità da Jacques Maritain, quando nella sua riflessione su “La persona e il bene comune” aveva criticato le filosofie sociali e politiche dominanti il suo tempo. L’individualismo borghese, l’anti-individualismo comunista e quello totalitario e dittatoriale avevano ridotto l’individuo a entità materiale, svalutando la persona umana e privandola della sua dimensione spirituale. Per il filosofo francese, la relazione dell’individuo rispetto alla società non doveva “concepirsi sul tipo atomistico e meccanico dell’individualismo”, che sopprime “la totalità sociale organica”, né “sul tipo biologico e animale”, caratteristico delle concezioni totalitarie, che fanno della persona un “elemento istologico”, né infine su quello “biologico industriale” della concezione comunista, che considera l’uomo l’operaio del “grande alveare” in funzione del “tutto sociale”.
Almeno due di queste ideologie appartengono al passato e sono state sconfessate dalla storia, tuttavia le riflessioni di Maritain sono ancor più attuali di prima perché la persona umana è un valore imprescindibile e senza tempo, come attuali sono i rischi che minano la sua identità e limitano la sua autonomia d’azione. Le minacce sono oggi più sofisticate e difficili da cogliere e, quindi, più insidiose perché tendono a impoverire e allentare le relazioni sociali e a frantumare le comunità umane, creando un individualismo molecolare alimentato da un nuovo tipo di relazione, quello che potremmo definire “biologico consumistico e mediatico”. Un modello caratteristico della società del benessere ma non solo, che mercifica l’uomo-monade facendone un soggetto passivo, consumatore di prodotti (reali e virtuali), e fisicamente “sconnesso” dai suoi simili.
Probabilmente ci troviamo di fronte a un processo che tende a conformare le comunità, spersonalizzando i suoi soggetti ma generando anche nuove manifestazioni di individualismo, inclini a promuovere comportamenti sempre più “asociali” o sociali-virtuali. La sussidiarietà, come principio antropologico in grado di sollecitare le relazioni umane, coinvolgendo tutta la persona, potrebbe essere un fattore fondamentale di rigenerazione sociale e politica. È quindi vero, come si legge ne “La Città dell’Uomo” che “nessuna vita soggettiva può essere vissuta al di fuori di una buona società e che il singolo cittadino deve tendere al Bene comune che va oltre se stesso così come va oltre ogni singola comunità e ogni generazione vivente”. La democrazia matura insegna infatti “che ogni cosa deve essere dentro l’umanità, che niente deve essere contro l’umanità e che nulla deve essere fuori dall’umanità”.
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Su LABSUS LEGGI ANCHE:
La ricerca della sussidiarietà. Invito a rileggere: Socialismo liberale di Carlo Rosselli
Città e sussidiarietà: da Aristotele ai beni comuni
Sussidiarietà come autonomia e creatività. Ben oltre la logica del baratto
ChiesadituttiChiesadeipoveri. Newsletter n.74 del 13 marzo 2018.
Materiali per il Convegno CoStat-Anpi-Cidi “Prima di tutto il Lavoro e la Scuola” di oggi martedì 13 marzo 2018
La scuola fabbrica di disoccupati di Fiorella Farinelli, su Rocca.
(segue)
Oggi martedì 13 marzo 2018
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Il 4 marzo impone di cambiare la legge elettorale
13 Marzo 2018
Alfiero Grandi, vice presidente Coordinamento per la democrazia costituzionale, su Democraziaoggi
Per il Comitato una nuova battaglia per la democrazia.
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SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2018
Paura e povertà. L’Italia del dopo-voto
di MARIO PIANTA
Comune.info-net, 12 marzo 2018, ripreso da aladinews e da eddyburg. I dati quantitativi e i moventi che hanno spino al risultato elettorale del 4 marzo. I mostri da sconfiggere per riprendere il cammino.
Un papa messianico
13 marzo 2013-13 marzo 2018. Cinque anni dopo
UN PAPATO MESSIANICO
Lo scarto è finito, non c’è nessuno che non sia eletto da Dio. Contrappasso non è giustizia, la divina commedia è finita. Il Signore ritorna, la parola cammina, la sua voce risuona in molte voci, voce dei poveri voce di tutti, voce della Chiesa, le nostre voci
di Raniero La Valle su chiesadituttichiesadeipoveri.
Dopo cinque anni di papa Francesco, certamente si può confermare ciò che già apparve all’inizio del pontificato, e cioè che egli fosse venuto per riaprire, a una modernità che l’aveva chiusa, la questione di Dio . E infatti il ministero di papa Francesco è un ininterrotto annuncio del Dio del vangelo, un Dio inedito, un Dio che sorprende, un Dio non più “tremendum” ma solo “fascinans”. Però oggi dire questo non basta più. Ci vuole una sorta di “relectio de papa Francisco”, una rilettura che vada al di là dei due stereotipi in base a cui oggi si parla di lui: quello dell’esaltazione e quello della denigrazione: apologetica contro riprovazione. Mi pare invece che l’approccio giusto sia quello di una interpretazione: il pontificato di Francesco va interpretato perché nasconde un mistero. Come si parlò di un “mistero Roncalli”, “ le mystère Roncalli”, alludendo al mistero o carisma del papa che aveva convocato il Concilio, così c’è un segreto di questo pontificato che va interrogato, che va svelato. E forse da questa interpretazione, anche dopo che esso sarà concluso, dipenderà il futuro della Chiesa.
C’è un’interpretazione diffusa di questo pontificato come di un pontificato profetico. E certamente è verissima, né è smentita dal fatto che esso sia contrastato, perché anzi è proprio della profezia essere combattuta. Però se fosse solo profetico, non ci sarebbe niente di veramente straordinario, perché la storia della Chiesa, sia sul versante della successione apostolica che sul versante della tradizione dei discepoli, è piena di profeti, papi compresi: basta pensare a Leone Magno che con la sua lettera a Flaviano dona alla Chiesa la fede di Calcedonia, o a Gregorio Magno che attraverso la figura di san Benedetto è il vero padre dell’Europa.
Io però penso che si possa dare un’interpretazione ulteriore, come non solo di un pontificato profetico, ma di un pontificato messianico.
Messianico cioè, semplicemente, cristiano
Neanche questo di per sé sarebbe straordinario; perché messianico non è che l’altro nome del cristiano, Cristo non è che il greco di Messia, quindi “un papa messianico” è come dire “un cristiano sul trono di Pietro”, come si disse di papa Giovanni; ma siccome ci siamo dimenticati di questa identità messianica e il popolo cristiano ignora il greco, non è così ovvio, e un pontificato messianico appare effettivamente straordinario.
Ma di quale messianismo si tratta? Infatti non tutti i messianismi sono buoni, tanto che alcuni maestri talmudici hanno detto: “Se questo è il messia, non lo voglio vedere”.
C’è un messianismo apocalittico, come quello di Qumram o del IV libro di Esdra, che annuncia un mondo nuovo ma attraverso la catastrofe del mondo presente, e non si tratta certo di questo, anzi come dice padre Antonio Spadaro nel suo ultimo libro , questo pontificato è una “sfida all’Apocalisse”, e come abbiamo detto noi nell’assemblea di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, semmai è una forza frenante, che resiste, che trattiene la catastrofe, come il katécon messianico paolino.
C’è poi un messianismo utopico che si aspetta il realizzarsi delle promesse messianiche nella storia, ma soffre l’angoscia del loro non avverarsi, del loro ritardo; secondo lo storico e filosofo ebreo Gershom Scholem, ciò avrebbe fatto della vita ebraica una vita in condizioni di rinvio, una vita vissuta nel differimento, mentre secondo molti saggi dell’ebraismo, un attivismo messianico che cercasse di abbreviare questo ritardo si risolverebbe in tragedia.
Né l’apocalisse, né l’irrealtà dell’utopia
Il messianismo del pontificato di Francesco non assomiglia a nessuno di questi modelli. Non a quello apocalittico; semmai, come dice la biblista Rosanna Virgili, è escatologico, dove l’escatologia accende un’attesa in cui si apre lo spazio al presente.
Ma quello del pontificato di Francesco non assomiglia neanche al messianismo che, tutto proteso verso il futuro, vive, come dice Scholem, “in una situazione di irrealtà”; il significato messianico del pontificato di Francesco non sta nella logica del differimento. La sua vera patria è l’oggi di Dio, l’oggi biblico dell’ascolto della sua voce, come dice la lettera agli Ebrei (Eb. 3, 7), è un nunc, è il nun kairós paolino (Rm. 3,26; 8,18; 11,5), è il tempo presente investito dall’evento messianico, è l’irruzione del tempo di Dio nel tempo storico, nel tempo di ora. Non è il tempo che verrà, è il tempo che viene ed è questo, dice Gesù alla Samaritana. Sta qui, nella storia.
Però è un presente, un oggi che non è chiuso nella conservazione e nell’eterna ripetizione di se stesso, non è “un tempo omogeneo e vuoto”, come dice Walter Benjamin, ma è il tempo dove il nuovo accade e la storia avanza. Ma non si tratta di una crescita continua, di uno sviluppo costante e graduale dall’antico al moderno, al postmoderno, come lo pensa il progressismo; no, questo non è un papato migliorista. Esso infatti assume il tempo di ora, ma lo assume nel senso della discontinuità, una discontinuità che accade nel presente. C’è un cambiamento, pacifico, certo, ma vero, è una rivoluzione.
Restano allora da individuare alcuni momenti nodali, topici di questa discontinuità messianica, di questo cambiamento epocale (perché, come si dice, questa non è un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento d’epoca). Ne indicherei tre.
Non scarti, non esuberi
1) Il primo è che si chiude l’età dello scarto. Cioè si chiude un intero ciclo della storia dell’Occidente, e non solo dell’Occidente, che si è fondato e si è svolto nel pensiero della diseguaglianza tra gli uomini. Se vogliamo assumere simbolicamente il nome che più rappresenta questo pensiero della diseguaglianza, che gli ha dato autorità e lo ha fatto diventare cultura diffusa, prenderei, e spero di non scandalizzare nessuno, il nome di Aristotile. Ancora nel 1500, al tempo della conquista delle Americhe, per dimostrare che gli Indi non erano veramente uomini, e che perciò gli Spagnoli avevano il diritto di assoggettarli, si ricorreva all’antropologia di Aristotile, per la quale vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono schiavi per natura, naturaliter servi. È la tesi che cita anche Francisco De Vitoria nella sua Relectio de Indis, per confutarla: ma intanto gli Indios erano stati assoggettati come incapaci di essere liberi e padroni di se stessi, e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.
Ma alla teoria dell’inevitabile diversità di destino tra sommersi e salvati hanno dato spago anche le culture castali dell’Oriente e, da noi, le teologie dell’elezione, della predestinazione, della natura non risanata dalla grazia, dell’ “extra Ecclesiam nulla salus”, che sono le teologie di un privilegio.
Il diritto aveva provato ad affermare che non c’è e non ci può essere un’umanità di scarto, ma basta vedere che fine fanno nel Mediterraneo gli scartati in nome del diritto, in nome della legge per la quale i perseguitati dalla fame, a differenza dei perseguitati dai signori del potere e della guerra, non hanno diritto di passare, per l’Europa non hanno diritto di esistere.
La discontinuità messianica di papa Francesco sta in questo, che oggi, e non domani, nessuno deve essere scartato, nessuno deve essere escluso, non ci sono tante umanità quanti sono gli Stati, le lingue, le religioni, c’è una sola ed unica umanità, ed è Dio stesso che se ne fa garante, perché si è fatto umanità nel Figlio, si è rivestito dell’umanità come di una tunica che in nessun modo può essere lacerata e spartita. È in questo scatto, in questa discontinuità messianica che si colloca il paradosso di una teologia missionaria che respinge il proselitismo, di un papa che “sta in Roma ma sa che gli Indi sono sue membra”, come già aveva ricordato il Concilio citando san Giovanni Crisostomo, e quindi considera una sciocchezza l’annetterseli, perché già sono nell’unità di Dio.
Non il contrappasso come giustizia
2) Il secondo punto cruciale di questo messianismo è l’uscita dall’ideologia del contrappasso. Il contrappasso è la giustizia della pesata uguale, come la chiamava Isacco di Ninive: tu hai fatto una cosa a me, io faccio una cosa a te. È la legge del taglione, occhio per occhio dente per dente. È la bilancia della giustizia che su un piatto mette il delitto, sull’altro la vendetta; una vendetta che poi, certo, l’incivilimento vuole non più privata, ma pubblica, ma a cui i privati non rinunciano e che continuano a pretendere, per loro soddisfazione, proprio dallo Stato. Quando dicono che “vogliono giustizia”, significa che vogliono vendetta. Anche Dio è incluso in questo girone infernale. Se non condanna non è giusto. Se lo si risarcisce, se lo si soddisfa, se gli si offre riparazione, sacrificio, allora può perdonare. Se vogliamo assumere il nome che più rappresenta questo pensiero, che gli ha dato autorità e lo ha fatto diventare cultura diffusa (e, di nuovo, non vorrei scandalizzare nessuno), prenderei il nome di Dante. L’Occidente non ha bisogno del catechismo, basta la Divina Commedia. L’immaginario è quello, inferno purgatorio e paradiso, contrappasso e stridor di denti.
Il pontificato messianico sta in questo, che annuncia la misericordia, come il tutto di Dio. Non è l’alchimia della retribuzione, non c’è un do ut des divino. La divina commedia è finita. Dio è il padre che non solo ti aspetta, ma accorcia il tempo dell’attesa, cancella il differimento, arriva per primo, “primerea”, come dice il papa con il suo neologismo argentino. E così devono fare gli uomini, secondo il vangelo: settanta volte sette, cioè sempre. Rimandare questo a domani è l’apocalisse, farlo oggi è messianismo.
C’è una miriade di detti di papa Francesco che si potrebbero citare a questo proposito. Ne citerò solo uno, rivolto il 4 gennaio scorso a un gruppo di ragazzi romeni ospiti di un orfanotrofio. Un ragazzo gli aveva raccontato che di uno di loro, che era morto l’anno scorso, un prete ortodosso (perché i romeni sono ortodossi) aveva detto che era morto peccatore e per questo non sarebbe andato in paradiso. E il papa ha risposto: “Forse quel prete non sapeva quello che diceva, forse quel giorno quel prete non stava bene, aveva qualcosa nel cuore che l’aveva fatto rispondere così. Ti dico una cosa che forse ti stupisce: neppure di Giuda possiamo dirlo”. E ha aggiunto: “Io ti dico che Dio vuole portarci tutti in paradiso, nessuno escluso. Dio non se ne sta seduto, lui va, come ci fa vedere il vangelo, è sempre in cammino per trovare quella pecorella, e anche se siamo sporchi di peccati, se siamo abbandonati da tutto e dalla vita, lui ci abbraccia e ci bacia. Sono sicuro che questo è ciò che il Signore ha fatto con il vostro amico”.
La discontinuità messianica è tra ciò che quel prete aveva nel cuore, in base alla teologia che gli era stata insegnata, e la buona notizia che Francesco ha dato ai ragazzi, e che sta dando al mondo, che il Signore non lascia indietro nessuno. Se si pensa all’angoscia di Lutero riguardo alla salvezza e se si pensa alle prime quattro tesi di Wittenberg, secondo le quali tutta la vita dei fedeli deve essere un sacro pentimento, vissuto nella mortificazione della carne fino all’ingresso nel regno dei cieli , si vede che la vera Riforma è questa. La “sola misericordia” è la vera risposta alla “sola fide”, la trascende; è per questo che, 500 anni dopo, l’ecumenismo si può ora realizzare.
Il Signore ritorna, continua a parlare
3) La terza discontinuità messianica sta nell’annuncio che Gesù veramente ritorna, e ritorna oggi. Il cuore del messianismo cristiano sta nella fiducia che il Signore torni. I cristiani aspettano il ritorno di Gesù. Ma egli non può tornare se tutto è già scritto, se la rivelazione è chiusa, e tutto quello che c’è da fare è di portare a buon fine ciò che la Tradizione ci ha già consegnato. C’è stato anche il buon lavoro fatto dall’esegesi, che al di là del Cristo della fede ha ritrovato il Gesù storico, ma proprio in quanto storico quel Gesù è definitivo. Se vogliamo assumere il nome che più rappresenta questo pensiero dell’impossibile ritorno di Gesù, prenderei quello del Grande Inquisitore di Dostoevskij, che dice a Gesù, tornato a Siviglia, di non venire a disturbare il loro lavoro.
Il messianismo di questo pontificato sta nel mostrare che Gesù continua a parlare, non solo spiegando meglio e facendoci capire meglio le cose già dette, ma proprio dicendo cose nuove, inedite, che erano sconosciute anche a lui. Il papa sa che nel Vangelo non tutto è stato scritto, perché anzi, come dice Giovanni alla fine, se fossero scritte tutte le cose compiute da Gesù, “il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”; e ci sono cose che Pietro non ha capito nemmeno quando aveva Gesù ai suoi piedi che glieli lavava, e che capirà solo dopo, non l’indomani, perché anzi l’indomani lo tradirà, ma nei secoli futuri; per esempio Pietro ha capito solo adesso che la pena di morte non ci deve stare nel Catechismo, e ha detto ai suoi di toglierla, perché “è necessario … che la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce; questa Parola non può essere conservata in naftalina”: Gesù di Nazaret cammina con noi, lo Spirito Santo non si può legare e Dio non cessa di parlare alla Chiesa (discorso dell’11 ottobre 2017). Questo dice il papa: la rivelazione infatti non è chiusa e la notizia migliore è quella che oggi ancora non fa notizia, non si può dare, non ci può essere nei Telegiornali, perché è una notizia che ancora non c’è. E allora Gesù può tornare. Ma non per essere licenziato di nuovo con un bacio, come quello esangue del Grande Inquisitore, ma per essere accolto e fatto parlare e ascoltato, certo, attraverso le voci degli angeli che lo acclamano ma anche attraverso le voci della sterminata moltitudine di uomini, di donne, di poveri che lui ama e che sono, dopo di lui, i secondogeniti di Dio sulla terra, di noi che siamo i secondogeniti del Padre. Le loro voci, le nostre voci. Come disse papa Giovanni la sera dell’apertura del Concilio, affacciandosi alla finestra di piazza san Pietro nel buio illuminato dalle fiaccole: “Sento le vostre voci”, ascolto le vostre voci….
Raniero La Valle
(Intervento alla Federazione Nazionale della Stampa, il 2 marzo 2018)