Monthly Archives: marzo 2018
Documentazione Anni70 – Agli esordi di Cittàquartiere (1976-1977-1978)
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——–Gli Speciali di Città quartiere. Giugno 1978—-
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- Altre informazioni su Cittàquartiere.
DIBATTITO. Reddito di cittadinanza e Rei. La proposta del Movimento 5 Stelle, tra limiti e opportunità: l’opinione di Chiara Saraceno
POVERTÁ e INCLUSIONE
Così il reddito di cittadinanza può migliorare il Rei
La proposta del Movimento 5 Stelle, tra limiti e opportunità: su lavoce.info l’opinione di Chiara Saraceno
di Chiara Saraceno
16 marzo 2018 su
Il reddito di cittadinanza proposto da M5s è insostenibile nel breve-medio periodo dal punto di vista finanziario e dubbio sotto quello dell’equità e dell’efficacia. Ma alcune sue caratteristiche potrebbero essere integrate nel Rei, per migliorarlo.
[segue]
La nuova questione settentrionale
A Priolo, provincia di Siracusa, sede del polo petrolchimico che fu il più grande d’Europa, già simbolo di una stagione del meridionalismo e adesso di proprietà della russa Lukoil, il Movimento Cinque Stelle nelle ultime elezioni ha preso il 71,73%. Una percentuale eclatante, un giallo intenso nel mare giallo che ha invaso tutto il Mezzogiorno nelle elezioni del 4 marzo. Che, non avendoci ancora fornito una soluzione e una maggioranza in grado di governare, un merito l’hanno avuto: la riscoperta della questione meridionale. Ossia del fatto che il gap tra Nord e Sud del Paese, risalente all’unificazione, mai ricoperto davvero negli anni dei miracoli e dell’industrializzazione, poi cambiato nelle dimensioni e nelle caratteristiche fino a fine Novecento, e di nuovo riapertosi nel periodo della crisi degli anni Dieci del Duemila, è ancora un problema. Questa riscoperta è stata spesso banalizzata, con critiche e lazzi contro i meridionali «fannulloni» che si mettono in coda per il reddito di cittadinanza promesso dai Cinque Stelle – una «notizia» che tale non era, ma pure ha campeggiato sui giornali di carta e sui siti per diversi giorni fino a diventare un luogo comune –, oppure è stata più seriamente trattata. Una discussione che però ha eclissato l’altra questione che emerge dal voto: quella settentrionale. Se è giusto e necessario chiedersi come mai tutto il Mezzogiorno ha votato così compattamente contro i governi passati e contro l’establishment, ricalcando – lo ha mostrato l’Istituto Cattaneo – le percentuali che le stesse regioni davano nel 1992 alla Democrazia Cristiana, sarebbe interessante anche chiedersi come mai il Nord ha scelto oggi la Lega di Salvini. Una Lega che ha cambiato pelle, non chiede più il secessionismo, difende l’italianità e la sovranità nazionale, chiede e ottiene voti anche al Sud. E che ha conquistato, rispetto alle elezioni del 2013, ben 4 milioni e 223mila voti in più, laddove Forza Italia ne ha persi quasi 2 milioni e 800mila. Perché il Nord ha preferito Salvini a Berlusconi?
crollo di Forza Italia
I dati del travaso di voti da Forza Italia a Lega parlano chiaro. Il crollo di Forza Italia, del partito azienda che recava nel suo simbolo l’impossibile («Berlusconi presidente», condizione giuridicamente irrealizzabile per le condanne dell’ex Cavaliere), è stato generalizzato e maggiore, sia in percentuale che in numeri assoluti, di quello dell’altro grande sconfitto, il partito democratico. Nel voto italiano, il Pd ha perso il 30,2%, quasi un voto su tre; Forza Italia il 38,1%, quasi quattro su dieci. È successo un po’ ovunque, così come la Lega è avanzata un po’ ovunque, con incrementi percentuali mirabolanti in alcune zone del Sud: però in quei casi partiva da numeri piccolissimi, dunque il grosso dei suoi voti viene ancora dallo zoccolo duro del Nord e dall’altra fascia-cuscinetto che si va consolidando, nella cintura delle regioni ex-rosse.
Ma vediamo cos’è successo nelle due regioni-chiave, quelle dove tutto è cominciato nella storia del Carroccio e in quella dell’azienda-partito di Mediaset-Forza Italia. Secondo le elaborazioni dell’istituto Ixe, in Lombardia il 22% di coloro che avevano votato Forza Italia nel 2013 stavolta ha votato Lega. In Veneto, la percentuale sale ancora: il 43,1% di transfughi nell’urna dal partito di Berlusconi a quello di Salvini. Quest’ultimo ha preso un partito malridotto dopo gli scandali, l’eclissi di Bossi e la crisi di un gruppo dirigente; ne ha cambiato l’identità rivoltandolo e togliendo persino la parola «Nord» nel simbolo; ha perso l’appoggio della vecchia guardia di Maroni, ex governatore lombardo; e ciò nonostante è riuscito a mantenere fedeli i suoi, e a conquistare il voto degli altri. Pescando un po’ ovunque, ma soprattutto tra i suoi alleati. Tra l’offerta di destra «moderata» dell’ottantunenne Berlusconi e quella estremista del quarantacinquenne Salvini, il Nord ha scelto la seconda.
l’offerta-Lega
Va detto che non è la prima volta che ci si trova davanti a una sorpresa del genere, e forse dovremmo smetterla di sorprenderci: la stessa avanzata e vittoria di Berlusconi nel 1994, e gli anni successivi, dimostrarono che una destra moderata e conservatrice italiana non c’è, neanche dove è più forte, socialmente, la media e piccola borghesia produttrice. Berlusconi vinse proprio perché era estremo, la destra moderata e rispettabile ha avuto di recente un nome e cognome nobili – Mario Monti, anno 2013 – che al voto ha incassato un risultato molto magro. Così come è discutibile accettare la qualifica di «moderato» per Berlusconi solo perché ha abbassato i toni con le cancellerie estere e si è posto come loro garante, pur presentando un programma, basato tutto su flat tax e condoni, estremamente radicale dal punto di vista economico e sociale (radicale, a favore dei ceti possidenti). Però questa era l’immagine, questa l’offerta politica, questo il posizionamento. Rifiutato dagli elettori, che hanno preferito l’offerta-Lega, caratterizzata da due prodotti tra loro combinati: il «prima gli italiani» e la lotta all’immigrazione. La difesa dalla globalizzazione e dall’invasione, nelle loro parole. Sovranismo e xenofobia, per usare le stesse parole con le quali chiamiamo i movimenti simili, e spesso alleati, degli altri Paesi.
Stiamo parlando delle due regioni che trainano l’economia italiana. Quelle a maggior prodotto interno lordo, e in testa anche nel reddito pro capite. Rovesciando nel suo contrario la banalizzazione che è stata fatta dei disoccupati del Sud in cerca di assistenza, si potrebbe dire che il ricco Nord cerca di pagare meno tasse. Ma le cose non sono così semplici: il messaggio «meno tasse» era importante nella campagna della Lega, ma anche – e forse più – in quella di Berlusconi. Mentre il marchio distintivo della campagna leghista è stato quello dell’immigrazione. Al centro di tutti i discorsi, in tv, su internet, sui social, nelle piazze, nelle radio, sulle magliette, sui distintivi. In modo ossessivo e pervasivo, a partire da quella rete tv – Rete 4 – di fatto appaltata da Mediaset agli alleati leghisti, le cui trasmissioni hanno cavalcato e alimentato il panico. Fino all’episodio-clou della campagna elettorale, che se non ne ha deciso il senso certo lo ha disvelato, ossia la sparatoria di Macerata su neri colpiti per strada a caso da un ex militante della Lega: che il 4 marzo a Macerata è passata dallo 0,6 al 21%.
il Nord e la globalizzazione
Il discorso anti-immigrati si nutre di insofferenze e sofferenze reali e di esagerazioni e mistificazioni (che viaggiano più veloci delle loro precisazioni e smentite); e fa presa laddove ci sono più immigrati: nelle regioni del Nord appunto, che attraggono proprio perché c’è più lavoro. Ma il suo successo è probabilmente rafforzato dalla saldatura con l’altra parte del discorso, la difesa da altre «minacce» che vengono d’oltreconfine: i prodotti cinesi, le regole europee, la competizione nei servizi. Tutto il mondo che ci cade addosso e viene visto come una minaccia terribile allo status esistente e al futuro. In questo, il Nord chiede protezione dalla globalizzazione almeno quanto il Sud. Ma il paradosso è che esso stesso ne ha beneficiato e ne beneficia. Tornando ai dati economici: la Lombardia è la prima regione italiana per export, con 88 miliardi di euro di valore. Segue il Veneto, con 45 miliardi. Insieme, fanno più del 40% delle esportazioni italiane. Viene da chiedersi come abbiano potuto votare in massa un partito che vuole frontiere e dazi. Cosa sarebbero Veneto e Lombardia senza il libero commercio internazionale? E quanti dei piccoli e medi imprenditori elettori di Salvini hanno immigrati a salari convenienti nei loro capannoni? Quanti vanno a produrre, o a comprare semilavorati, oltreconfine? C’è qualcosa di antico, in queste contraddizioni: il richiamo a un capitalismo all’italiana che del libero commercio vuole prendersi solo quel che serve e conviene, e le regole piegarle a suo uso e piacimento. Ma c’è anche una irrazionalità nella richiesta di difesa che non aiuta a capire bene da dove l’attacco viene, o è venuto.
Pure, sarebbe sbagliato pensare che quella del Nord è la rivolta di un ceto benestante che vuole solo tutelare quel che ha. L’economia che produce e tira e fa profitti è quel che resta di una selezione operata dalla crisi, che ha lasciato molti fuori e molti in difficoltà. Non solo. La crisi ha anche reso evidente a tutti che ogni conquista è a termine e rischia di essere cancellata in pochi giorni, o settimane. La ripresa che c’è stata ha portato produzione e profitti, ma non lavoro buono e ben pagato. E il rischio di povertà, che come rivela l’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia interessa il 23% tra le famiglie italiane, negli anni della crisi è rimasto stabile al Sud mentre è cresciuto al Nord. I numeri sono ancora molto distanti: a Mezzogiorno è sotto la soglia di povertà relativa il 39,5% delle famiglie, mentre al Nord «solo» il 15%. Però nel Nord, prima della crisi, ossia nel 2006, questa condizione interessava l’8,3% delle famiglie. A livello nazionale, il rischio di povertà è aumentato soprattutto per la componente straniera della popolazione. Il Nord resta relativamente più ricco, anzi guida la nuova ripresa di ricchezza e produzione, ma ha dentro anche più sofferenza, insofferenza e povertà: in altre parole, più Sud. E questo mix aiuta a capire la nuova questione settentrionale, più della vecchia ambizione della rivolta fiscale.
* Roberta Carlini su Rocca 07 del 1° aprile 2018
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. Rocca 7/2018
Oggi domenica 18 marzo 2018
———Dibattiti&Commenti&Riflessioni————
Pietre d’inciampo, pensieri
18 Marzo 2018.
“Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo
E’ sempre bene mantenere viva la memoria anche dopo il “Giorno della memoria”.
ALCUNI PENSIERI PENSATI DINANZI ALLE PIETRE D’INCIAMPO A VITERBO. Su Democraziaoggi.
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Reddito minimo garantito: reddito incondizionato (RdC) o reddito di inclusione sociale? Un dibattito tra la babele terminologica, le teorie e le esperienze in attuazione.
“…Si possono distinguere, schematicamente, due tipi di reddito minimo garantito: il reddito di base garantito ai soli bisognosi, previo accertamento della mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere e/o di altre condizioni, e quello invece conferito a tutti quale oggetto di un diritto fondamentale, e perciò universale, recuperato poi dalle persone abbienti con un adeguato prelievo fiscale”.
Non è assistenzialismo
L’UTOPIA CONCRETA DEL REDDITO MINIMO GARANTITO
Comunque lo si voglia chiamare esso va giudicato nella nuova situazione di un lavoro che non è più disponibile a tutti. Ci sono ragioni etico-politiche (il diritto alla vita), economiche, sociali e costituzionali per le quali questo istituto, presente nella maggior parte degli Stati europei, dovrebbe entrare nella naturale organizzazione di un Paese democratico
di Luigi Ferrajoli [1]
Due modelli di reddito di base garantito. Quattro fondamenti
L’esplosione della disuguaglianza e la crescita della povertà e della disoccupazione stanno oggi minacciando, nei paesi poveri ma anche in quelli di economia avanzata, la sopravvivenza delle persone. Torna perciò a riproporsi, in maniera sempre più urgente e drammatica, la questione del diritto alla vita, sulla cui garanzia si basa, fin dal modello hobbesiano della modernità, la ragion d’essere dello Stato e delle pubbliche istituzioni.
E’ precisamente il diritto alla vita che richiede oggi, quale sua essenziale garanzia, l’introduzione di un reddito minimo di base. Di questa garanzia vitale di livelli minimi di sussistenza e perciò di uguaglianza sostanziale, idonei a garantire a tutti la sopravvivenza, esistono molte versioni, differenti quanto all’estensione dei beneficiari e quanto ai loro presupposti. Per tutti, o solo per i disoccupati, o per i soli disoccupati disposti a lavorare? Per tutti o solo per i più poveri? Per tutti o per determinate fasce d’età? Per l’individuo o per la famiglia? Per una durata illimitata o solo per periodi di tempo determinati? Sottoposto a controprestazioni – per esempio a qualche tipo di attività utile o all’accettazione di un qualsiasi lavoro – oppure incondizionato? Questo reddito di base, infine, deve essere una variabile indipendente o una variabile dipendente dall’economia? Dovrebbe essere comunque garantito – e in quale misura –, oppure la sua garanzia deve dipendere dalla sua fattibilità economica? E cosa deve intendersi per “fattibilità economica”?
Si possono quindi distinguere, schematicamente, due tipi di reddito minimo garantito: il reddito di base garantito ai soli bisognosi, previo accertamento della mancanza di un reddito sufficiente a sopravvivere e/o di altre condizioni, e quello invece conferito a tutti quale oggetto di un diritto fondamentale, e perciò universale, recuperato poi dalle persone abbienti con un adeguato prelievo fiscale.
La prima ipotesi è quella più largamente sperimentata in Europa. Con presupposti differenti, per importi diversi, talora sotto forma di integrazioni, essa è stata realizzata in Austria, in Belgio, nella Repubblica Ceca, in Germania, in Danimarca, nel Regno Unito, in Spagna, in Francia, in Finlandia, nel Lussemburgo, in Irlanda, in Olanda, in Portogallo, in Romania, in Slovenia, in Svezia e perfino, pur se in misura assai ridotta, in Slovacchia e in Polonia. Fanno eccezione la Grecia, la Bulgaria, l’Ungheria e l’Italia, dove sono previste, come si vedrà più oltre, solo misure frammentarie, regionali o limitate ad alcune categorie sociali[2].
La seconda ipotesi è quella ben più radicale e ambiziosa del reddito di base incondizionato. Essa comporta l’attribuzione del reddito minimo a tutti, dalla maggiore età in poi, finanziata mediante adeguate imposte sui redditi. Sganciato dal lavoro, il reddito base non sarebbe legato a condizioni o a controprestazioni, ma verrebbe corrisposto a tutti, a garanzia della dignità personale. Sarebbe un istituto che cambierebbe la natura della democrazia e anche del lavoro, garantendo, più d’ogni altra prestazione sociale, la riduzione delle disuguaglianze sostanziali.
Secondo un luogo comune diffuso in gran parte del mondo politico, una simile garanzia di carattere universale sarebbe un’utopia, un sogno, una proposta suggestiva ma irrealistica. Altri, invece, la propongono come possibile, ma accompagnano la sua proposta con l’accettazione dell’odierna flessibilità del lavoro, o peggio di una riduzione del welfare e delle garanzie degli altri diritti sociali. Si tratta invece, come cercherò di mostrare, di un istituto concretamente realizzabile, la cui funzione garantista della vita e della dignità personale è strettamente connessa, soprattutto nella sua forma universalistica e incondizionata, precisamente alla sua introduzione non certo in alternativa, bensì in aggiunta all’intero sistema delle garanzie dei diritti sociali e del lavoro, che come si è detto nei capitoli che precedono andrebbero restaurate e rafforzate, in particolare con il vincolo della gratuità delle prestazioni sanitarie e di quelle scolastiche. Non solo. Nelle condizioni di precarietà che come si è visto caratterizzano, in forme sempre più drammatiche, il lavoro e la vita di masse crescenti di persone e soprattutto di giovani, il reddito di base garantito a tutti, unitamente a riforme fiscali in senso realmente progressivo, è la sola misura in grado, realisticamente, di fronteggiare la crisi sociale ed economica in atto e la sola alternativa a un futuro di disuguaglianze crescenti, di crescente povertà e di tensioni e conflitti sociali insolubili e distruttivi.
Nelle pagine che seguono indicherò tre fondamenti o ragioni di questa garanzia vitale di un reddito di base: a) il fondamento etico-politico, b) il fondamento giuridico e costituzionale, c) il fondamento economico e sociale. Argomenterò poi le molte ragioni che fanno della sua forma universale e incondizionata un fattore non soltanto di effettiva garanzia dell’uguaglianza sostanziale e delle condizioni minime della sopravvivenza, ma anche di rifondazione della dignità del lavoro.
A) Il fondamento etico-politico: il diritto alla vita
Qual è, innanzitutto, il fondamento assiologico, morale e filosofico-politico di questo nuovo diritto fondamentale che è il diritto a un reddito minimo vitale? La risposta a questa domanda è la medesima che fu data da Hobbes, alle origini della modernità giuridica, alla questione della ragion d’essere di quell’artificio che è lo Stato: questo fondamento è la garanzia della vita – del diritto fondamentale alla vita – contro la libertà selvaggia e violenta che è propria di quello specifico stato di natura che è oggi il mercato.
Si pone qui una questione teorica di fondo. Alle origini della modernità il diritto alla vita fu concepito come una libertà negativa, cioè come la semplice immunità da aggressioni altrui; mentre la sopravvivenza veniva concepita come un fatto naturale, affidato all’iniziativa individuale. Fu così che John Locke, nel suo Secondo trattato sul governo, poté fondare la sopravvivenza sull’autonomia dell’individuo: sul suo lavoro, e perciò sulla proprietà che del lavoro è il frutto, e quindi sulla sua libera e responsabile iniziativa; in breve, sulla volontà di lavorare. Giacché sarà sempre possibile purché lo si voglia, argomentava Locke, andare a coltivare nuove terre “senza pregiudicare nessuno, perché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti”, se non altro emigrando “in qualche parte interna e deserta dell’America”[3]. Fu su questa base che il primo liberalismo poté teorizzare un nesso forte tra libertà, lavoro, proprietà e vita, alla cui mutua conservazione è finalizzato il contratto sociale; un nesso, peraltro, integrato dallo ius migrandi che già Francisco de Vitoria, come si vedrà nel prossimo capitolo, aveva teorizzato un secolo e mezzo prima come fondamento della conquista spagnola del nuovo mondo.
Oggi quel nesso tra autonomia, lavoro, proprietà e sussistenza, formulato da Locke come il fondamento etico-politico così dello Stato come del mercato capitalista, si è rotto, essendo radicalmente mutati i rapporti tra l’uomo e la natura e tra l’uomo e la società. Si è rotto, in primo luogo, il rapporto tra autonomia individuale e sopravvivenza, assicurato dallo scambio – ingiusto quanto si vuole, ma in via di principio accessibile a tutti – tra lavoro e sussistenza, essendo venuta meno la possibilità per tutti di trovare un lavoro. Si è rotto, in secondo luogo, il rapporto tra ius migrandi e lavoro quale condizione sia pure estrema di sopravvivenza, essendo stato quel diritto negato e trasformato nel suo contrario non appena i flussi migratori si sono invertiti: non più, come in passato, dai nostri paesi avanzati al resto del mondo, a fini di conquista e colonizzazione, ma dal resto del mondo impoverito ai nostri paesi. E si è rotto, in terzo luogo, il rapporto storico tra occupazione e produzione di beni: a seguito dello sviluppo tecnologico, e in particolare delle tecnologie informatiche ed elettroniche, la tendenza odierna, non reversibile ma anzi destinata a crescere, è infatti quella all’aumento della produzione simultaneo alla diminuzione dell’occupazione e alla crescente svalutazione del lavoro.
Non basta più, perciò, la volontà di lavorare, e neppure quella di emigrare per trovare un’occupazione. Non è più vero che il lavoro è accessibile a tutti, purché lo si cerchi e lo si voglia cercare. Il lavoro umano è sempre più fungibile, e non ci sono più campagne cui fare ritorno né nuovi mondi nei quali emigrare. Oggi è perciò diventato impossibile ciò che in passato era possibile: l’accesso al lavoro e più ancora l’emigrazione. Può darsi che questi presupposti elementari della legittimazione del capitalismo siano sempre stati, di fatto, largamente illusori e ideologici. Ciò che è certo è che essi, oggi, hanno sicuramente cessato di esistere, e che la tradizionale legittimazione dell’ordine esistente – sia del diritto che del potere politico – sulla base della sua funzione di tutela della vita è duramente smentita dalla realtà.
Del resto, quanto più cresce il processo di integrazione sociale, tanto più l’uomo si allontana dalle risorse e dalle condizioni naturali di vita e tanto maggiore diventa perciò la dipendenza dalla società della sua sopravvivenza. “L’uomo civilizzato”, scriveva già Tocqueville, “è infinitamente più esposto alle vicissitudini del destino dell’uomo selvaggio”[4]: più esposto, prima di tutto, alla mancanza dei mezzi di sussistenza e degli apporti del lavoro altrui. Giacché il progresso e più in generale il processo di civilizzazione sono avvenuti simultaneamente all’allontanamento crescente dell’uomo dalla natura, allo sviluppo della divisione del lavoro e perciò alla perdita progressiva di autosufficienza delle persone e alla crescita della loro interdipendenza sociale.
A questa crescente interdipendenza sociale si è aggiunto oggi un processo parimenti crescente di espulsione del lavoro dai processi produttivi. Secondo il rapporto McKinsey del 2016, il 49% dei lavori attuali è destinato, nei prossimi dieci anni, ad essere sostituito dalle macchine e dalle tecniche digitali, che trasferiscono sugli acquirenti o sugli utenti gran parte del lavoro richiesto dalle prestazioni di beni e servizi. E’ insomma in atto una rivoluzione di enorme portata nelle forme e nei rapporti di produzione che renderà sempre più marginale il lavoro umano: una rivoluzione che sarà un fattore di progresso anziché di regresso, di liberazione e di crescita civile anziché di crescita della povertà e della precarietà di vita, soltanto se sarà accompagnata da ingenti riduzioni degli orari di lavoro, equa redistribuzione dell’occupazione, abbassamenti dei prezzi, ripensamento delle forme di lotta e di organizzazione sindacale, massima socializzazione della produzione della ricchezza e, soprattutto, forme di solidarietà sociale e sicure garanzie della sussistenza indipendenti dal lavoro.
La disoccupazione crescente e strutturale, che una pur doverosa politica del lavoro può contenere ma certo non eliminare, sta insomma ponendo in crisi la legittimità dell’intero sistema politico ed economico; il quale non può più limitarsi alla garanzia negativa della vita contro gli omicidi, ma richiede altresì le garanzie positive delle condizioni materiali e sociali della sopravvivenza. Dobbiamo finalmente prendere atto che nelle società odierne, caratterizzate da un alto grado di interdipendenza e di sviluppo tecnologico, anche la sopravvivenza, non meno della difesa della vita da indebite aggressioni, è sempre meno un fenomeno naturale ed è sempre più un fenomeno artificiale e sociale. Ben più che in passato, tutte le condizioni della sopravvivenza dell’uomo – dal lavoro all’emigrazione, dall’abitazione alla salute e all’alimentazione di base – sono affidate alla sua integrazione sociale, cioè a condizioni materiali e a circostanze giuridiche e sociali di vita che vanno ben al di là della sua libera iniziativa. Di qui la trasformazione del diritto a sopravvivere in un corollario del classico diritto alla vita, cioè a non essere uccisi: in un diritto fondamentale all’esistenza[5], che al pari della vecchia immunità da aggressioni esterne richiede, in presenza di quella che è ormai una disoccupazione strutturale, di essere garantito dalla sfera pubblica attraverso quella sola garanzia possibile che è precisamente il reddito di base.
B) Il fondamento costituzionale
Il secondo fondamento del reddito di base è quello giuridico, e specificamente costituzionale, indebitamente leso in Italia, che come si è detto è tra i pochi paesi europei nei quali questa garanzia non esiste. Hanno infatti un fondamento costituzionale entrambe le due versioni del reddito di base: quella condizionata e quella incondizionata e universalistica.
Ha un esplicito fondamento costituzionale, innanzitutto, il reddito di base nella sua prima versione, quella che lo lega allo stato bisogno, e che tuttavia in Italia non esiste. Si tratta di due norme, disposte entrambe dall’articolo 38 della Costituzione, il quale nel 1° comma conferisce il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” ad “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e nel 2° comma stabilisce che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” non solo “in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia”, ma anche in caso di “disoccupazione involontaria”.
Ebbene, a parte qualche limitata esperienza locale come quella avviata nel Lazio con la legge regionale n. 3 del 3.11.2009[6], nessuna di queste due norme è stata in Italia seriamente attuata. Una modesta attuazione della prima è stata operata con la legge n. 114 del 16.4.1974, la quale ha introdotto la cosiddetta “pensione sociale” nella misura di 492 euro per chi abbia superato i 65 anni di età e sia al di sotto di una soglia minima di reddito, anche se non ha prestato attività lavorative e non ha perciò contribuito all’assicurazione obbligatoria.
Al presupposto della “disoccupazione involontaria” previsto dalla seconda delle norme suddette è invece riconducibile l’istituzione della Cassa integrazione guadagni – quella ordinaria istituita dal decreto legislativo n. 788 del 9.11. 1945 e quella straordinaria introdotta dalla legge n. 1115 del 5.11.1968 e riformata dalla legge n. 164 del 20.5.1975 – che comporta, per determinati periodi di tempo, un’indennità, decisa discrezionalmente dal governo, a favore dei lavoratori sospesi o a orario ridotto, a causa di crisi industriali o comunque non dipendenti dalla loro volontà.
E’ chiaro che nessuna di queste misure – i cosiddetti “ammortizzatori sociali” – integra il reddito minimo garantito previsto dell’articolo 38 sopra citato: nessun reddito di base è stato infatti introdotto né per i poverissimi che non abbiano raggiunto i 65 anni di età, né per i casi di “disoccupazione involontaria”, come quelli della disoccupazione giovanile, non conseguenti alla perdita del lavoro.
Neppure corrisponde alla garanzia voluta dall’articolo 38 della Costituzione il cosiddetto “reddito di inclusione”, introdotto da un decreto legislativo del 2017 e consistente – in sostituzione di altre due misure più o meno del medesimo importo, il Sostegno all’inclusione attiva (Sia) e l’Assegno sociale di disoccupazione (Asdi) – in un assegno mensile oscillante tra i 190 euro (per le persone singole) e i 485 euro (per le famiglie) e concesso, per un periodo massimo di 18 mesi, a chi abbia redditi inferiori a 6.000 euro l’anno e si impegni a svolgere determinate attività o servizi (in totale a circa 400 o 500 mila famiglie, non più di un quarto delle persone in condizioni di povertà assoluta). 190 o 485 euro, infatti, non bastano certo “al mantenimento” o ai “mezzi adeguati alle esigenze di vita” di cui parla l’articolo 38. Inoltre questo cosiddetto reddito di inclusione, a rigore, non è neppure un reddito, bensì un beneficio rateizzato in 18 mesi che può essere rinnovato, con le stesse complicazioni burocratiche, dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dall’ultima erogazione. Continua quindi a persistere, come una vistosa e illegittima lacuna, la mancata attuazione di questo essenziale principio costituzionale.
C’è poi, nella Costituzione italiana, un altro fondamento del reddito di base in entrambe le sue versioni, quella universalistica e incondizionata e quella condizionata alla mancanza di lavoro o allo stato di bisogno. Esso fu identificato molti anni fa, da Massimo Severo Giannini, nell’articolo 42 della Costituzione, quello dedicato alla proprietà privata, che nel suo 2° comma stabilisce che la legge “determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti” della proprietà “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Dunque la legge deve rendere possibile a tutti l’accesso alla proprietà. Si tratta, scrisse Giannini, di una norma che può essere intesa non solo come un corollario del principio di uguaglianza formale in ordine alla capacità d’agire e ai diritti civili, ma anche, sulla base dell’associazione a “proprietà privata” del predicato “accessibile a tutti”, come un’enunciazione “interamente esplicativa del principio di costituzione materiale di uguaglianza sostanziale”[7]. Deve insomma risultare accessibile a tutti, secondo questa autorevole interpretazione, una qualche forma di proprietà: quanto meno dei beni elementari necessari alla sussistenza.
Ma è lo spirito stesso della Costituzione – dai principi di uguaglianza e dignità stabiliti dall’articolo 3 ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” previsti dall’articolo 2 – che impone una simile misura. Si aggiungano le norme del diritto sovrastatale: la Carta dei diritti dell’Unione Europea, il cui articolo 34 stabilisce che “ai fini di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”; la Dichiarazione universale dei 1948, che nell’articolo 25 stabilisce che “ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia”; i Patti sui diritti economici del 1966 sul diritto di ciascuno, stabilito dall’articolo 11, “a un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario ed alloggio”. Sono insomma tutte le carte dei diritti, nazionali e sovranazionali, che impongono questa elementare garanzia della sopravvivenza, sempre più essenziale e vitale in presenza dei mutamenti crescenti delle forme della produzione.
4. C) Il fondamento economico e sociale
Il terzo fondamento del diritto a un reddito minimo di base è quello di carattere economico e sociale. Non parlerò del fondamento sociale di tale diritto nella sua versione condizionata, che è il medesimo di tutti gli altri diritti sociali: la garanzia della sopravvivenza e la riduzione delle eccessive disuguaglianze, quali condizioni della coesione e della pace sociale. Parlerò invece del suo fondamento economico, essendo precisamente il costo economico la principale obiezione alla proposta della sua introduzione, tanto più se in forma universale e incondizionata.
Certamente questo diritto costa, come costano tutti i diritti sociali. Ma l’idea che il costo di tale diritto sia anti-economico è un luogo comune da sfatare. Costa molto di più, anche sul piano economico, lo stato di indigenza provocato dalla sua mancata garanzia. Come si disse in via generale nel § 3.4 del terzo capitolo a proposito del nesso tra sviluppo economico e garanzia dei diritti sociali, anche la garanzia di quel diritto vitale per antonomasia che è il diritto a un reddito di base rappresenta un investimento primario, essendo in grado non solo di assicurare la sopravvivenza e di aumentare il benessere delle persone, ma anche di accrescere le loro capacità produttive.
Sono cose sotto gli occhi di tutti. I paesi europei sono più ricchi rispetto agli altri paesi e al loro stesso passato perché, almeno fino a ieri, hanno garantito, sia pure imperfettamente, i minimi vitali. Al contrario, dove i diritti sociali non sono soddisfatti – dove mancano l’istruzione pubblica, la garanzia dell’assistenza sanitaria, le tutele del lavoro, l’organizzazione sindacale dei lavoratori e, soprattutto, le garanzie della sussistenza – non solo crescono la povertà e le disuguaglianze, ma vengono meno la produttività individuale e quella collettiva e con esse la produzione della ricchezza. Non a caso, in Italia, il boom economico nei primi decenni della Repubblica è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, allo sviluppo dell’istruzione di massa e al rafforzamento della sanità pubblica. La crisi recessiva è iniziata quando sono stati tagliati i finanziamenti alla scuola, è stato aggredito il servizio sanitario nazionale universale e gratuito e il diritto del lavoro è stato distrutto. Precarietà del lavoro e assenza di garanzie di sussistenza generano solo insicurezza, panico sociale, angoscia, frustrazioni, sprechi di competenze e di saperi, cioè altrettanti fattori di recessione e di riduzione della ricchezza. E sono altresì all’origine di gran parte della delinquenza di strada e di sussistenza.
C’è poi un altro ordine di considerazioni, che riguarda specificamente la garanzia del reddito minimo di base. L’attuale crisi economica colpisce soprattutto le giovani generazioni, che sono le più penalizzate dalla precarizzazione di massa, dalla disoccupazione e dalla sottoccupazione. Essa mette in pericolo il futuro dei giovani, che equivale al futuro in generale, accentuando in maniera esponenziale le disuguaglianze. Oggi, in Italia, un giovane su due non trova lavoro e in 100.000 ogni anno sono costretti a emigrare. Sono quindi soprattutto i giovani che trarrebbero giovamento dal reddito minimo garantito. Anche per questo tale misura sarebbe un sicuro fattore di sviluppo e di riconciliazione della società con la democrazia: perché l’assenza di crescita o la bassissima crescita sono anche l’effetto dell’assenza di opportunità e di prospettive per i giovani, che equivale, ripeto, all’assenza di prospettive per il futuro di tutti. Di tutto questo i giovani, come attestano le loro rivolte in tutto il mondo, sono perfettamente consapevoli. I soli che non ne sono consapevoli o che comunque di tutto questo non si occupano né si preoccupano sono quanti hanno responsabilità di governo.
Luigi Ferrajoli
[1] Dal capitolo 6 di Luigi Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, 2018 Laterza Bari
[2] Una rassegna dei diversi tipi di reddito di base presenti nei diversi paesi europei è contenuta in Bin Italia, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Gruppo Abele, Torino 2012, cap. II, pp. 55-75, che contiene anche un’ampia bibliografia.
[3] J. Locke, Due trattati sul governo cit., cap.V, cap.V, § 36, pp. 267 e 266. Su questa tesi lockiana, che fa dello ius migrandi una condizione della legittimazione politica del capitalismo, tornerò più oltre, nel § 2 del prossimo capitolo.
[4] A. de Tocqueville, Mémoires sur le paupérisme (1838), in Id., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1989, tome XVI, Mélanges.
[5] L’espressione è di G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Gruppo Abele, Torino 2011, p. 35. Sul reddito di base si vedano anche, dell’ormai vasta letteratura, A. Fumagalli, M. Lazzarato (a cura di), Tute bianche, disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, DeriveApprodi, Roma 1999; P. Van Parijs e Y. Vanderborght, Il reddito minimo universale, Bocconi Editore, Milano 2006; Basic Incom Network Italia, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, Roma 2009; Bin Italia, Reddito minimo garantito cit.; Th. Casadei, Oltre i diritti sociali? Il basic income (e i suoi problemi), Firenze, University Press, Firenze 2012, con ampia bibliografia. Si vedano anche i sei Quaderni per il reddito del 2016, a cura di Bin Italia.
[6] Intitolata “Istituzione di un reddito minimo garantito”. Su queste limitate esperienze, cfr. G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza cit., pp. 94-101; Bin Italia, Reddito minimo garantito cit., cap. III, pp. 103-135.
[7] M.S. Giannini, Basi costituzionali della proprietà privata, in “Politica del diritto”, II, 1971, p. 474. Analoga la disposizione dell’articolo 17 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha diritto ad avere una proprietà sua o in comune con altri”.
Oggi sabato 17 marzo 2018
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Nuxis. Oggi sabato 17 “Giornata contro le mafie e per la legalità” in ricordo di Antonio Pubusa, medaglia d’oro, carabiniere di Nuxis
17 Marzo 2018
Red su Democraziaoggi.
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La verità che salva e fa liberi
“Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, e io sarò comunque perdente” (Aldo Moro)
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UN ATOMO DI VERITÀ
di Raniero La Valle
Oggi, 16 marzo, è il quarantesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione degli uomini della sua scorta. Per ricordarlo si è fatto largo ricorso sui giornali e in TV a interviste ai brigatisti che compirono il crimine, i quali hanno rievocato fatti e ideologie del tempo, con abbondanza di particolari e con un certo distacco più da storici che da criminali. Così nelle due puntate di Atlantide di Andrea Purgatori si sono potuti ascoltare Mario Moretti, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e, in un filmato fatto prima che morisse, il carceriere di Moro, Prospero Gallinari.
Quello che ne risulta è il tragico infantilismo e l’incultura del modo in cui essi “pensarono” la rivoluzione. Sapevano dai cinesi, e lo dicono, che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, ma allora ne fanno un gioco; un gioco con la vita degli altri di un cinismo e di un’ingenuità senza pari, un gioco assurdo giocato come se fosse serio: la rivoluzione come navicella che galleggia su un lago di sangue, la vita del giudice ucciso che è solo un granello irrilevante nel turbine, la folle idea che la rivoluzione non debba essere processata dallo Stato e ciò prima ancora che abbia vinto, nel momento stesso in cui cerca di abbatterlo, la presunzione che tutto si decida qui, che loro sono liberi da ogni controllo, che il mondo di cui l’Italia è parte non esiste, il delirio di pensare che nessuno li stesse usando, Moro che deve essere ucciso perché se no chi glielo dice ai compagni che non si è ottenuto niente?
È mancata però nel contempo la contestazione della loro verità. Ci sono scaffali interi di libri, a cominciare da quelli di Sergio Flamigni, e c’è soprattutto il libro del fratello di Aldo Moro, il giudice Carlo, “Storia di un delitto annunciato” in cui è dimostrato irrefutabilmente che tutta la ricostruzione fornita dalle Brigate Rosse del sequestro, della detenzione e dell’assassinio di Moro è falsa. Le cose non sono affatto andate come ce le hanno raccontate nei diversi processi, come ancora ci dicono e come il sistema stesso ha voluto credere e farci credere fin qui. Non era nella realtà che si fosse a un anno zero della rivoluzione in Italia e che un gruppo di militanti armati potesse scatenarla da solo contro tutti i sindacati e i partiti storici della sinistra; è chiaro che c’erano altri protagonisti e altri moventi che cospiravano per una neutralizzazione politica di Moro, dalla segreteria di Stato americana, ai custodi tedeschi dell’atlantismo, agli italiani “decisi a sparare” pur di impedire l’accesso dei comunisti al governo, a cui le BR sono apparse come fortunato strumento sostitutivo per compiere ciò che altrimenti in altri modi avrebbe dovuto essere compiuto; una sorta di “sussidiarietà” per la quale non tanto contava chi e come provvedesse, ma che si ottenesse il risultato e nulla ne intralciasse la realizzazione. Perciò il delitto Moro è stato intriso nella menzogna: falso è stato che le lettere di Moro fossero a lui “non attribuibili”, perché dettate dalle Brigate Rosse; che con le BR non si potesse trattare, perché ciò ne avrebbe rappresentato il riconoscimento; che, una volta uccisi gli uomini della scorta, il caso Moro, caso politico per eccellenza, non dovesse considerarsi che come il “caso umanitario” di un qualunque cittadino sequestrato, sicché le BR lo dovessero rilasciare “senza alcuna condizione”; e che solo così lo Stato si sarebbe salvato. E in mezzo a tante false ragioni, private e di Stato, non a caso l’unico che si appella alla verità – la verità che salva e fa liberi – è proprio Moro, che in una lettera scritta dal carcere all’on. Misasi, ma non recapitata, scrive: “Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, e io sarò comunque perdente”. E la verità era – scriverà poi a Zaccagnini – che la DC era “sempre là” con il suo “vecchio modo di essere e di fare”, e che era illusorio cambiare la situazione “con nuove alleanze” se non cambiava essa per prima, se non capiva “ciò che agita nel profondo la nostra società”, se non aveva la volontà di perseguire un proprio “disegno di giustizia, di eguaglianza, di indipendenza, di autentico servizio all’uomo”. E se non faceva questo, tanto meno poteva e voleva salvare Moro.
Raniero La Valle
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Approfondimenti su Aladinews
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È stato quello il punto di svolta nella storia della Repubblica; per ricordarlo il sito chiesadituttichiesadeipoveri rinvia a un testo già pubblicato nel medesimo sito il 26 maggio scorso, “Ragion di Stato e uccisione dell’innocente”.
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RAGION DI STATO E UCCISIONE DELL’INNOCENTE
26 MAGGIO 2017 /
di Raniero La Valle
La violenza sacrificale è tra i mezzi ingiusti più usati dal potere per conservarsi ed accrescersi. Il caso Moro e le nuove esecuzioni a distanza: una nuova ragion di Stato a livello globale. Rovesciare tale ideologia oggi non è un’utopia, è una condizione di sopravvivenza
Raniero La Valle
In un seminario sulla “Ragion di Stato” alla Scuola Superiore di Catania il 17 maggio 2017 il prof. Maurizio Viroli, docente all’Università di Princeton, ha spiegato come il concetto di “ragion di Stato” sia stato introdotto da Guicciardini nel “Dialogo del reggimento di Firenze” nel 1521 per giustificare come nella battaglia tra Genova e Pisa i genovesi avessero fatto ricorso alla crudeltà e ucciso i prigionieri di guerra per debellare la forza politica dei pisani, come difatti avvenne. Secondo il linguaggio politico del tempo questo non sarebbe stato ammissibile, ma in base all’invenzione della nuova regola suprema degli interessi dello Stato, ciò diventava lecito. Tuttavia quel trattato sul governo di Firenze del Guicciardini non fu allora pubblicato, e toccò a Giovanni Botero, nel 1589, teorizzare la categoria della ragion di Stato, definendola così: “La ragion di Stato è notizia (conoscenza) di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare uno Stato”. Si parla di “mezzi”, senza specificazioni; non necessariamente deve trattarsi di mezzi legittimi o giusti, anzi spesso non lo sono, mentre lo Stato, in quel sistema di pensiero, era inteso come “dominio fermo sopra i popoli”, e poteva anche essere una tirannide.
Il concetto di “ragion di Stato” che di certo esisteva anche prima che fosse teorizzato nel Cinquecento (“salus Rei-publicae suprema lex”!) ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi, ed oggi è correntemente utilizzato per motivare tutte le imprese, anche le più perverse, della politica e degli Stati: solo il costituzionalismo, sul piano giuridico, e la misericordia, sul piano umano, ne possono costituire la critica e l’alternativa.
Secondo Maurizio Viroli oggi va rovesciata la logica della ragion di Stato, per tornare all’idea classica di politica intesa come ricerca del bene comune. Intervenendo alla tavola rotonda tenutasi a conclusione del seminario di Catania, ho detto che questa del prof. Viroli non è una utopia, è una condizione di sopravvivenza. E, al di là della discussione teorica, ho citato alcuni casi in cui la ragion di Stato ha giocato e gioca un ruolo determinante nella politica contemporanea; e mi sono riferito al caso Moro di quarant’anni fa, e al caso delle uccisioni mirate mediante i droni che vengono praticate oggi.
Aldo Moro sacrificato alla ragion di Stato
Per quanto riguarda il caso Moro, fu quello il momento nel quale la questione della ragion di Stato si pose in modo drammatico in Italia davanti a tutto il Paese. E si pose in modo tale da rimettere in gioco la stessa identità della Repubblica, della DC che la governava e da determinare e condizionare quello che ne sarebbe stato il futuro. Moro, sequestrato dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, per cinquantacinque giorni fu oggetto di un conflitto ideologico sulla risposta politica da dare al suo rapimento, e divenne infine vittima sacrificale delle Brigate Rosse e della ragion di Stato, in nome della quale fu consegnato indifeso alla sua sorte.
Nello svilupparsi del dramma, furono messe in gioco alcune questioni cruciali.
1) La prima questione fu quella dell’identità della vittima, cioè dell’identità di Moro. Può sembrare strano, perché tutti sapevano chi era Moro, eppure in quei giorni proprio l’identità di Moro fu negata. Infatti perché trionfasse la ragion di Stato era necessario dire che Moro non era Moro.
In che cosa consisteva in quel caso la ragion di Stato, almeno quella confessata dai suoi assertori? Essa consisteva nel fatto che lo Stato non dovesse derogare dalle sue leggi scritte, che non dovesse fare eccezioni per Moro di cui si diceva che fosse un cittadino come gli altri, e che perciò non si dovesse trattare con i brigatisti, essendo interesse supremo dello Stato non riconoscere i brigatisti come interlocutori politici e invece trattarli come delinquenti comuni. Era la cosiddetta linea della fermezza, adottata dal governo Andreotti e dai partiti, che tenne banco per tutti i cinquantacinque giorni, debolmente messa in questione poi dal solo partito socialista.
Era chiarissimo, agli stessi protagonisti di allora, quale fosse il prezzo di questa linea intransigente. Lo dimostra una lettera di Francesco Cossiga, che era il ministro degli interni del tempo, pubblicata vent’anni dopo l’omicidio.
Ne fu occasione una solenne commemorazione di Aldo Moro tenutasi il 9 maggio 1998 nell’aula di Montecitorio, alla presenza del presidente della Repubblica, Scalfaro. Cossiga non ci andò, e ne spiegò le ragioni in una tragica lettera pubblicata il 12 maggio successivo sul quotidiano la Repubblica. Essa proclamava una verità che mai era stata ammessa con tanta franchezza dai responsabili del tempo: e cioè che la linea della fermezza avrebbe inevitabilmente portato all’uccisione di Aldo Moro; che lui stesso, Cossiga, aveva fatto quella scelta ben comprendendo che le BR non avrebbero potuto rispondere a quella “resistenza dello Stato” che giungendo “al tragico epilogo dell’esecuzione della sentenza”; che egli era consapevole – “drammaticamente” sapeva – che la sua scelta “anche in quanto ministro dell’Interno, responsabile delle forze dell’ordine, polizia e carabinieri sanguinosamente colpite al momento del rapimento”, aveva “concorso sul piano dei fatti alla morte di Aldo Moro” (lasciando al giudizio di Dio – aggiungeva Cossiga – “se fu responsabilità solo di fatto, oppure politica o financo morale”); che ciò fu il frutto di una “fatalità inesorabile” consistente nel “dover scegliere brutalmente tra lo Stato inteso come il portatore degli interessi generali e fondamentali della comunità e la vita di un uomo innocente”; e che perciò, “per aver concorso a determinare una situazione che ha portato all’uccisione di Aldo Moro”, egli aveva “ritenuto coerente non partecipare, specie di fronte al reiterato dolore della Famiglia, a così solenne celebrazione”.
Questa verità diceva due cose: prima di tutto che per salvare Moro non esisteva che una soluzione politica, e che non c’erano alternative umanitarie, tanto sbandierate quanto utili solo a fare scena, e in secondo luogo che fu fatta consapevolmente una scelta tra un interesse collettivo, come Cossiga chiamava la ragion di Stato, e la vita di un uomo innocente.
Noi sappiamo da duemila anni in che cosa consiste questo scambio tra un supposto interesse collettivo e la vita di un innocente, lo sappiamo da quando Caifa ha detto a proposito di Gesù: “E’ meglio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca la nazione intera”. Si tratta di una vittima e di un sacrificio.
Ora perché questo sacrificio offerto alla ragion di Stato potesse compiersi era necessario o che la vittima lo accettasse, oppure che ne venisse spenta la voce. Ma Moro non ci sta, non accetta la logica spietata della ragion di Stato e non accetta il sacrificio. E nelle sue lettere dal carcere al segretario della DC Zaccagnini e a molti altri protagonisti respinge il dogma della ragion di Stato e lo fa non perché lui ne sarebbe stato la vittima, ma perché questa era stata sempre la sua dottrina politica, la sua ermeneutica giuridica e tale era anche la prassi di altri Paesi come la Germania, che in analoghe circostanze avevano avuto un’attitudine più flessibile e umana.
Negata l’identità della vittima
Il sistema politico italiano, di cui la DC era il centro, non poteva reggere un dissenso con Moro prigioniero e perciò scelse la strada della negazione, dicendo che Moro nelle mani dei brigatisti non era più Moro, e che le sue lettere, scritte di suo pugno, non erano ascrivibili a lui.
Perciò a Moro fu tolta la parola, dal suo stesso partito, e con la parola l’agibilità politica. Il principale protagonista della politica italiana fu espropriato della sua credibilità e disconosciuto dalla DC e dai maggiori mezzi d’opinione.
Già alla prima lettera dal carcere, prima di ogni possibile verifica, veniva operato questo sdoppiamento; da quel momento cessava il problema politico del presidente della DC in mano alle BR, cioè del rovesciamento che per tale via si stava imponendo alla politica italiana ai fini di un secco ritorno all’anticomunismo, e nasceva il problema psicoanalitico di un falso Moro che era sotto sequestro, che era un uomo come gli altri, che rientrava nella norma comune, e a cui il massimo di risposta da dare era una risposta di tipo umanitario, senza l’assunzione di alcuna responsabilità politica che non fosse quella del rifiuto di ogni trattativa e della ricerca sbadata del covo in cui era tenuto nascosto. In questo sdoppiamento ed esproprio della personalità di Moro, la DC attuava in modo rovesciato la parola evangelica che dice: non temete quelli che possono prendere il vostro corpo, ma non possono possedere la vostra anima. La DC lasciava il corpo ai carcerieri, e ne sequestrava l’anima, decideva lei che cosa fosse, come dovesse essere, come dovesse parlare il vero Moro, cioè la sua anima. E siccome questa finzione non poteva durare troppo a lungo man mano che si succedevano le lettere di Moro e il disconoscimento della sua identità appariva non più a lungo credibile finché venisse fatto da un corpo politico che come tale non sa nulla dell’anima, ecco che alla fine, su consiglio di un esperto americano, consigliere di Cossiga, Pieczenik, vennero fatti scendere in campo gli amici di Moro, quelli che venivano dalla sua stessa esperienza della FUCI e dei Laureati cattolici, che scriveranno il 26 aprile che “Aldo Moro non è presente nelle lettere scritte a Zaccagnini”. Ciò a cui Moro replicò scrivendo il 27 aprile: “Devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons. Zama, all’avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse”.
La verità e il potere
2) Questo infatti non era vero. E la verità è la seconda grande questione messa in gioco nel sequestro.
Moro pose esplicitamente la questione della verità in una lettera all’on. Misasi, e attraverso di lui all’intero partito. “Quello che io chiedo al partito – scrive Moro a Misasi – è uno sforzo di riflessione in spirito di verità, perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altro un atomo di verità, e io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità e obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità”.
Qui Moro pone un problema cruciale, che è il rapporto tra il potere e la verità. Il potere e la verità sono eterogenei l’uno all’altra, la verità critica il potere, e il potere molto spesso è incompatibile con la verità.
Le lettere di Moro erano veramente sue. Quando era ormai troppo tardi questa verità venne riconosciuta, e ora si annunzia che esse verranno pubblicate nell’Edizione Nazionale delle opere di Aldo Moro istituita per decreto del Ministero dei beni culturali. Si tratta di una riparazione, di una restituzione: lo Stato che aveva tolto a Moro la sua identità e la sua parola, ora gliele restituisce, perché almeno ne resti integra la memoria.
Il sacrificio prezzo della ragion di Stato
3) L’operazione per la quale in nome degli interessi generali della collettività si tradisce e si occulta la verità, è l’operazione tipica della ragion di Stato. Ragione contro verità. Essa per affermarsi ha bisogno della violenza; ma questa violenza non può essere confessata, e viene pertanto mascherata e sublimata nelle forme del sacrificio; la violenza sacrificale è per l’appunto tra i mezzi giudicati più “atti a fondare, conservare e ampliare uno Stato”. Il sacrificio è dunque la terza grande questione messa in gioco nel delitto Moro.
Il sacrificio consiste nel concentrare la violenza su una vittima, che può essere una persona, ma anche una collettività, una classe sociale, un popolo, perché tutti gli altri ne abbiano un bene.
Il potere funziona così. Le guerre sono così, sono tutte giustificate come sacrificio. Il sistema economico vigente, specie dopo la vittoria del neoliberismo, funziona così: perché pochi si arricchiscano occorre che molti si impoveriscano; i profughi lasciati affogare nel Mediterraneo davanti alle frontiere chiuse dell’Europa, sono l’offerta sacrificale ai bilanci in pareggio, alla privatizzazione dell’economia, ai benefici già goduti dagli abitanti dell’Unione.
La tragedia è che il sacrificio non funziona, non realizza ciò che promette. Non funzionò il sacrificio di Moro, nel quale la razionalità politica di un potere che cercava in tal modo di difendere e conservare immutato se stesso, aveva cercato di nascondere il rifiuto a cercare una soluzione politica della crisi, Anzi i partiti che lo decretarono, la DC e il PCI, ne furono travolti, oggi nemmeno esistono più, e la Repubblica invece di salvarsi entrò in una crisi profonda, da cui non siamo ancora usciti. Il papa Paolo VI addirittura ne morì.
La grandezza di Moro fu di opporsi a questa logica. Con il coraggio della verità, Moro con le sue lettere rompe il meccanismo sacrificale non accettando di essere vittima, offre delle alternative politiche al sacrificio. Questo fu il vero conflitto. Quello che venne attribuito alla sua debolezza, al desiderio di salvare la sua vita, fu invece in Moro un grande atto politico e pubblico, la protesta e il grido contro tutte le violenze che nella storia si sono mascherate e si mascherano dietro la pretesa salvifica del sacrificio. Moro protesta la sua innocenza ma non vuole che della sua innocenza si faccia un trofeo religioso, il mito del democristiano caduto, l’emblema della dedizione, fino al sacrificio, allo Stato e al partito. Per questo non volle le autorità ai suoi funerali. Dalla sua innocenza egli fece appello invece alla laicità del diritto, a Cesare Beccaria, alla oggettività delle garanzie, alla stessa Costituzione, in ciò pienamente moderno, in ciò pienamente cristiano.
Il sacrificio in versione moderna
Il cristianesimo di papa Francesco, con il suo annuncio della misericordia, sta uscendo dall’ideologia religiosa del sacrificio. Esso però continua a dominare nella cultura della modernità. Perciò nel discorso alla Scuola Superiore di Catania mi sono riferito a un secondo caso, tutto moderno, di sacrificio alla ragion di Stato, e a una ragion di Stato che ormai non è circoscritta nello spazio di una nazione, ma è una ragion di Stato di dimensione globale: il caso della guerra moderna e delle uccisioni a distanza con i droni. C’è un film inglese di un regista sudafricano (Gavin Hood), “Il diritto di uccidere”, in cui il tema del sacrificio viene riconosciuto e declinato in termini moderni. Si tratta delle nuove modalità di violenza che sono rese possibili dalle attuali tecnologie, e in particolare della guerra che viene condotta con i droni e delle uccisioni che vengono perpetrate da grandissima distanza. Il film racconta di un’operazione militare inglese, condotta dal Nevada, che coinvolge politica, diritto e Stati maggiori d’America e d’Inghilterra, operazione che consiste nell’uccidere a Nairobi con due missili lanciati da un aereo senza pilota quattro terroristi che in una casa stanno indossando i giubbotti esplosivi per andare a fare altrettanti attentati terroristici. Il problema è che davanti alla casa che dovrà essere distrutta c’è una bambina keniota che vende il pane. Un caso da manuale: quale ragion di Stato più forte che uccidere quattro terroristi che stanno per compiere chissà quali stragi? Ma c’è la bambina che non c’entra niente. C’è l’innocente. Che fare? Procedere con l’operazione o fermarla?
Ci si consulta in tempo reale attraverso mezzo mondo, entra in campo una ragion di Stato a livello mondiale: sono coinvolte cancellerie, sale operative, primi ministri, segretari di Stato, consulenti giuridici e procuratori, perché sia chiaro che a decidere non è una persona sola, magari un colonnello spietato, ma a decidere è tutta la catena di comando, è tutto il sistema, è il sistema mondo, o almeno è il sistema Occidente. E la decisione è per il sacrificio: è bene che la bambina innocente muoia perché il mondo sia salvato.
Messe così le cose è probabile che la maggior parte delle persone sia d’accordo, perché in quella ragion di Stato c’è implicita l’idea di un male minore, e perché che cosa si vuole di più dall’etica dell’Occidente, dalla sua nobiltà d’animo, dalla sua gloria? Prima di uccidere quattro terroristi assassini si è perfino preoccupato che di mezzo ci fosse una bambina di colore, si è chiesto se quel “danno collaterale” fosse più o meno accettabile.
Il problema è che non è affatto vero che così si salvava il mondo, come sempre si sbaglia quando si fa ricorso alla logica del sacrificio, cioè alla violenza esercitata contro gli uni perché gli altri si salvino. Così ha fallito il nazismo con la guerra e con la shoà, ha fallito il fascismo con l’aggressione alla Francia e con lo “spezzeremo le reni alla Grecia”, ha fallito l’America con il Vietnam, ha fallito con le guerre contro l’Iraq, con l’Afghanistan, con la guerra perpetua di Bush agli “Stati canaglia” e al terrorismo; questo è il fallimento di tutte le guerre, di tutte le uccisioni, da Saddam Hussein, a Gheddafi, a Moro.
Il sacrificio non salva, aggiunge violenza a violenza e dunque non è un calmiere della violenza, come si pretende che sia, ne è il moltiplicatore, non procura il bene attraverso l’irrogazione del male.
Nel caso sollevato dal film a nessuno è venuto in mente che il vero modo per scongiurare la violenza dei terroristi non era ucciderli insieme agli innocenti, ma era togliere di mezzo le ragioni per cui essi indossavano le cinture esplosive, togliere le ragioni della loro violenza, cioè agire sulle cause che sono all’origine dell’ingiustizia e dell’odio; certo non lo potevano fare i militari che premevano da diecimila chilometri di distanza il bottone dei missili, ma potevano decidere di farlo la politica, il diritto, le cancellerie, lo poteva fare il sistema. È il sistema mondo che deve cambiare, che deve rovesciare la logica del sacrificio e la sua origine nella ragion di Stato. La vera ragion di Stato non consiste nel fatto che uno muoia per tutto il popolo, ma nel fatto che tutto il popolo, e tutti i popoli siano salvati, cioè che la politica e il diritto tornino ad avere come scopo e criterio supremo il bene comune, cioè il bene di tutti, dell’umanità di questo unico mondo, a cominciare dai poveri, dai deboli, dai profughi, dagli esclusi, così che nessun innocente debba più morire perché gli altri trionfino. Nei confronti della ragion di Stato non deve cambiare solo la risposta, cambia la domanda.
Raniero La Valle
Oggi venerdì 16 marzo a Cagliari
We are Afrin. Questa sera il sit-in per chiedere il cessate il fuoco
16 marzo 2018 su il manifesto sardo. ————————-
Stephen Hawking.
Oggi la diseguaglianza economica rischia di sgretolare la società
ESSENDO un fisico teorico che vive a Cambridge, ho vissuto la mia vita in una bolla di eccezionale privilegio. Cambridge è una città insolita, tutta incentrata su una delle grandi università del pianeta. All’interno di questa città, la comunità scientifica di cui sono entrato a far parte quando avevo vent’anni è ancora più esclusiva. E all’interno di questa comunità scientifica, il gruppo ristretto di fisici teorici internazionali con cui ho trascorso la mia vita lavorativa potrebbe a volte essere tentato di vedersi come un apogeo. In aggiunta a tutto questo, con la celebrità che mi hanno procurato i miei libri e l’isolamento imposto dalla malattia, ho la netta impressione che la mia torre d’avorio diventi sempre più alta.
Pertanto, faccio parte senza dubbio di quelle élite che recentemente, in America e in Gran Bretagna, sono oggetto di un inequivocabile rigetto. L’elettorato britannico ha deciso di uscire dall’Unione Europea, i cittadini americani hanno scelto Donald Trump come prossimo presidente.
Qualunque cosa possiamo pensare di queste decisioni, non c’è alcun dubbio, nella mente dei commentatori, che siamo di fronte a un grido di rabbia da parte di persone che si sono sentite abbandonate dai loro leader.
Tutti sembrano d’accordo nel dire che è stato il momento in cui i dimenticati hanno parlato, trovando la voce per rigettare il consiglio e la guida degli esperti e delle élite di ogni latitudine.
Io non faccio eccezione a questa regola. Prima del voto sulla Brexit ho lanciato l’allarme sugli effetti negativi che avrebbe avuto per la ricerca scientifica in Gran Bretagna, ho detto che uscire dall’Unione Europea sarebbe stato un passo indietro: e l’elettorato — o almeno una parte sufficientemente ampia di esso — non si è curato del mio parere così come non si è curato del parere di tutti gli altri leader politici, sindacalisti, artisti, scienziati, imprenditori e personaggi famosi che hanno dato lo stesso consiglio inascoltato al resto del Paese.
Quello che conta adesso, molto più delle vittorie della Brexit e di Trump, è come reagiranno le élite. Dovremmo, a nostra volta, rigettare questi risultati elettorali liquidandoli come sfoghi di un populismo grossolano che non tiene in considerazione i fatti, e cercare di aggirare o circoscrivere le scelte che rappresentano? A mio parere sarebbe un terribile errore.
Le inquietudini che sono alla base di questi risultati elettorali e che concernono le conseguenze economiche della globalizzazione e dell’accelerazione del progresso tecnologico sono assolutamente comprensibili. L’automatizzazione delle fabbriche ha già decimato l’occupazione nell’industria tradizionale e l’ascesa dell’intelligenza artificiale probabilmente allargherà questa distruzione di posti di lavoro anche alle classi medie, lasciando in vita solo i lavori di assistenza personale, i ruoli più creativi o le mansioni di supervisione.
Tutto questo a sua volta accelererà la disuguaglianza economica, che già si sta allargando in tutto il mondo. Internet, e le piattaforme che rende possibili, consentono a gruppi molto ristretti di persone di ricavare profitti enormi con un numero di dipendenti ridottissimo. È inevitabile, è il progresso: ma è anche socialmente distruttivo.
Tutto questo va affiancato al crac finanziario, che ha rivelato a tutti che un numero ristrettissimo di individui che lavorano nel settore finanziario possono accumulare compensi smisurati, mentre tutti gli altri fanno da garanti e si accollano i costi quando la loro avidità ci conduce alla deriva. Complessivamente, quindi, viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza finanziaria si sta allargando invece di ridursi, e in cui molte persone rischiano di veder scomparire non soltanto il loro tenore di vita, ma la possibilità stessa di guadagnarsi da vivere. Non c’è da stupirsi che cerchino un nuovo sistema, e Trump e la Brexit possono dare l’impressione di offrirlo.
C’è da dire anche che un’altra conseguenza indesiderata della diffusione globale di Internet e dei social media è che la natura nuda e cruda di queste disuguaglianze è molto più evidente che in passato. Per me la possibilità di usare la tecnologia per comunicare è stata un’esperienza liberatoria e positiva. Senza di essa, già da molti anni non sarei più stato in grado di lavorare.
Ma significa anche che le vite delle persone più ricche nelle parti più prospere del pianeta sono dolorosamente visibili a chiunque, per quanto povero, abbia accesso a un telefono. E visto che ormai nell’Africa subsahariana sono più numerose le persone con un telefono che quelle che hanno accesso ad acqua pulita, fra non molto significherà che quasi nessuno, nel nostro pianeta sempre più affollato, potrà sfuggire alla disuguaglianza.
Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: i poveri delle aree rurali affluiscono nelle città spinti dalla speranza, ammassandosi nelle baraccopoli. E poi spesso, quando scoprono che il nirvana promesso da Instagram non è disponibile là, lo cercano in altri Paesi, andando a ingrossare le fila sempre più nutrite dei migranti economici in cerca di una vita migliore. Questi migranti a loro volta mettono sotto pressione le infrastrutture e le economie dei Paesi in cui arrivano, minando la tolleranza e alimentando ancora di più il populismo politico.
Per me, l’aspetto veramente preoccupante di tutto questo è che mai come adesso, nella storia, è stato maggiore il bisogno che la nostra specie lavori insieme. Dobbiamo affrontare sfide ambientali spaventose: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare, il sovrappopolamento, la decimazione di altre specie, le epidemie, l’acidificazione degli oceani.
Insieme, tutti questi problemi ci ricordano che ci troviamo nel momento più pericoloso nella storia dello sviluppo dell’umanità. Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la capacità di fuggire da questo pianeta. Forse fra qualche secolo avremo creato colonie umane fra le stelle, ma in questo momento abbiamo un solo pianeta, e dobbiamo lavorare insieme per proteggerlo.
Per farlo è necessario abbattere le barriere interne ed esterne alle nazioni, non costruirle. Se vogliamo avere una possibilità di riuscirci, è indispensabile che i leader mondiali riconoscano che hanno fallito e che stanno tradendo le aspettative della maggior parte delle persone. Con le risorse sempre più concentrate nelle mani di pochi, dovremo imparare a condividere molto più di quanto facciamo adesso.
Non stanno scomparendo solo posti di lavoro, ma interi settori, e dobbiamo aiutare le persone a riqualificarsi per un nuovo mondo, e sostenerle finanziariamente mentre lo fanno. Se le comunità e le economie non riescono a sopportare gli attuali livelli di immigrazione, dobbiamo fare di più per incoraggiare lo sviluppo globale, perché è l’unico modo per convincere milioni di migranti a cercare un futuro nel loro Paese.
Possiamo riuscirci, io sono di un ottimismo sfrenato sulle sorti della mia specie: ma sarà necessario che le élite, da Londra a Harvard, da Cambridge a Hollywood, imparino
le lezioni di quest’ultimo anno. Che imparino, soprattutto, una certa umiltà.
Stephen Hawking, fisico teorico e scrittore, all’inizio dell’anno ha lanciato il sito www.unlimited.world ( Traduzione di Fabio Galimberti)
The Guardian 2016
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Da La Repubblica online del 7 dicembre 2016
Oggi venerdì 16 marzo 2018
- Marielle.
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Nuxis. Sabato 17 “Giornata contro le mafie e per la legalità” in ricordo di Antonio Pubusa, medaglia d’oro, carabiniere di Nuxis
16 Marzo 2018
Su Democraziaoggi.
Tito Siddi dal sito Tentazioni della penna di S. Antioco
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16 marzo 1978 – 16 marzo 2018
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Oggi su ilFattoquotidiano.
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Aldo Moro
16.3.1978. La fine di Aldo Moro. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro, leader della DC, fu rapito e avviato alla morte. Le centrali del sistema capitalistico, utilizzando le Brigate rosse, interruppero così il processo di avvicinamento tra mondo comunista e mondo cattolico, di cui Moro era uno dei tessitori (vedi su eddyburg l’articolo di Miguel Gotor: Il sequestro della Repubblica)
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » POLITICA
Aldo Moro, il sequestro della Repubblica
di MIGUEL GOTOR
il Fatto quotidiano, 8 marzo 2018. La storia dell’evento che cambiò radicalmente la storia dell’Italia e la trasformò un una pedina dell’impero Usa, mediante il rapimento, la tortura morale e l’assassinio di uno statista democratico. con postilla
Oltre il 4 marzo
No all’Aventino, la democrazia è a rischio!
di Giovanni Sarubbi su il dialogo
A distanza di una settimana dal voto, tutta quella che si definisce come “la classe dirigente italiana” è intenta a discutere di come affermare il proprio potere sull’intera società italiana, pur rappresentando essa solo una piccola minoranza della popolazione.
Anche quest’anno è aumentato notevolmente il numero di coloro che non sono andati a votare o hanno annullato la scheda. Il numero dei votanti è stato del 72,93 del totale degli elettori che per la camera era di oltre cinquanta milioni (50.782.650). Hanno votato cioè solo 37.035.786 elettori. Ma i voti validamente espressi sono stati soltanto 32.830.000 e quindi altri 4.205.786 persone hanno annullato la propria scheda o votato scheda bianca. In totale le persone che si sono astenute o hanno annullato la scheda sono stati circa 18milioni (17.952.650) cioè il 35,35% del totale degli elettori.[1]
Il maggior partito è dunque quello degli astenuti e i calcoli della influenza dei singoli partiti, su cui da sempre si specula nel dopo voto, andrebbero fatti rispetto all’intero corpo elettorale e non già rispetto ai voti validamente espressi, che sono utili solo per la ripartizione dei seggi e non certo, sul piano politico, per valutare la credibilità e l’influenza che i singoli partiti hanno sul piano politico-sociale.
E allora facendo un po’ di conti i dati veri dell’influenza politica dei vari partiti che si stanno dilaniando per sapere chi potrà esercitare il proprio comando sull’intera società, sono questi:
La destra (Lega, FI, FDI, UDC) rappresenta appena il 23,92% degli elettori;
il Centro Sinistra (PD+alleati) rappresenta il 14.77% degli elettori
il M5S rappresenta il 21,12 % degli elettori
LeU rappresenta il 2,19% degli elettori
gli altri partiti sono praticamente insignificanti ed incapaci di costituire alcun punto di riferimento valido neppure per una minima percentuale di popolazione.
Nessuno preso singolarmente rappresenta la maggioranza del popolo italiano e nessuno da solo o in coalizione può arrogarsi il diritto di comandare e imporre la propria volontà al popolo italiano nel suo complesso. Tutti, dice la Costituzione, hanno l’obbligo di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È l’art. 49 della Costituzione che non prevede l’idea di maggioranza ed opposizione, di uomini soli al comando, di minoranze sociali che possono imporre la propria volontà al resto della società.
I partiti politici che siedono nel parlamento e tutta la società nel suo complesso si sono allontanati da tempo dallo spirito e dalla lettera della Costituzione. Spirito e lettera che è stato attuato, anche se non pienamente, durante quella che viene definita “prima repubblica”, fino a quando cioè, a partire dagli inizi degli anni ‘90 del secolo scorso, non venne scardinata la legge elettorale proporzionale esistente e sostituita con la legge maggioritaria, che comporta l’idea di un uomo solo al comando e di una minoranza che impone la propria politica alla maggioranza dei cittadini.
Nella cosiddetta “prima repubblica” la grandissima maggioranza delle leggi sono state approvate con maggioranza elevatissime. Il PCI, che in quella fase non ha mai partecipato al governo, approvava quasi sempre le leggi e partecipava attivamente alla loro formazione entrando nel merito dei provvedimenti tenendo un collegamento continuo con i cittadini.
Oggi assistiamo ad una “classe politica”, cioè ad una casta di persone che nel loro complesso si sentono separati e diversi dagli altri cittadini, in preda a deliri di onnipotenza, a pretendere di volere il potere tutto per se e a ritenere di essere investiti da una sorta di unzione divina che imporrebbe loro di avere tutto il potere per se. Ma è, sopratutto, una “classe politica” incapace di mettere al primo posto quello che la Costituzione chiama “la politica nazionale”, cioè il bene comune della popolazione, che non coincide mai con gli interessi di una piccola parte della società ma con ciò che è utile alla grande maggioranza della popolazione. Avere armi in ogni casa, ad esempio, corrisponde agli interessi delle industrie armiere non certo a quello di tutta la popolazione, che ha bisogno di vivere in una società pacifica e non di avere una società modello far-west americano dove ogni giorno ci sono stragi di innocenti per le troppe armi che possono essere acquistate liberamente.
Dunque la sindrome dell’uomo solo al comando è trasversale a tutti i partiti e a tutti i parlamentari presenti in parlamento, con rare eccezioni. La logica del maggioritario che nega lo spirito e la lettera della nostra Costituzione pervade tutti i comportamenti dei leader politici che hanno trasformato l’arte della politica, che consiste nel trovare compromessi che soddisfino tutte le componenti della società e non una parte sola, in una schizofrenia collettiva. Il maggioritario, con la sua semplificazione che ha ridotto il “governare” al semplice “comandare”, ha fatto ritenere alla grande maggioranza dei politici che ciò poteva risolvere tutte le contraddizioni sociali esistenti.
Ma arricchendo una sola parte della società, quella dei ricchi e gaudenti che da oltre trent’anni determinano a loro uso e consumo le scelte politiche nazionali, ci ritroviamo oggi con un paese alla fame, con tutto ciò che questo comporta in termini di tensioni sociali.
E sono proprio i partiti che hanno la maggiore responsabilità nell’aver esercitato la dittatura di una minoranza della società, quella dei ricchi e gaudenti, che oggi alzano la loro voce e utilizzano le loro TV e tutti i mezzi di comunicazione di massa che possiedono per rivendicare di avere tutto il potere. Ma sono una minoranza.
Per fortuna la loro legge elettorale truffa non ha funzionato e loro sono di fronte ad un nulla di fatto. “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, dive il vecchio adagio popolare e così i vari partiti sono di fronte a solo due possibilità: quella di trovare dei compromessi oppure quella di andare a nuove elezioni, magari con una legge iper-maggioritaria che però la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale.
Ci vorrebbero persone con capacità di capire quelle che sono le forze in campo e capaci di guidare un percorso politico che non consegni alla destra fascio-leghista un potere che scatenerebbe azioni violente ancora peggiori di quelle che stanno venendo fuori in questi ultimi mesi.
I mafiosi hanno interesse a dire che la mafia non esiste, così i fascisti e i razzisti hanno lo stesso interesse. Ma la mafia, il razzismo e il fascismo esistono e sono organizzate come ho più volte scritto su queste pagine.
Lo testimoniano gli omicidi e le tentate stragi realizzate o le aggressioni a sedi di giornali o di associazioni pacifiste. L’ultimo omicidio, quello del senegalese Idy Diene di Firenze, uomo pacifico e buono, è particolarmente indicativo di una situazione esplosiva e del pericolo che la diffusione di armi comporta. Ma altrettanto significativi sono i tanti troppi delitti efferati contro le donne, ultimo quello delle due bambine di 7 e 13 anni ucciso dal padre carabiniere che poi si è suicidato. Il soffiare continuamente sul fuoco dell’odio razziale e il continuo appello del capo della Lega al diritto di uccidere e ad armarsi spacciato per “legittima difesa”, sta facendo venire a galla un vero e proprio impazzimento generale.
La politica e la vita sociale in Italia sta scivolando verso una deriva psichiatrica. E quando parlo di politica mi riferisco non solo ai capi o ai dirigenti dei partiti ma anche a tutta la popolazione nel suo complesso.
Per fortuna la gente onesta reagisce come è stato dimostrato dalla grande manifestazione antirazzista di ieri 10 marzo a Firenze. E siamo convinti che una grande mano al popolo italiano a liberarsi dall’odio razziale e dalle politiche discriminatorie che vorrebbe imporre la destra fascio-leghista, la daranno proprio gli immigranti, con i quali abbiamo il dovere di interagire e di lavorare.
Non si illuda la destra fascio-leghista sulla possibilità di realizzare il proprio programma basato su espulsioni di massa di migranti o su chiusura di luoghi di culto, in particolare di quelli musulmani.
I nostri fratelli migranti hanno già dimostrato di non avere paura delle minacce del capo della Lega. Si tratta di persone che in larghissima parte sono giovani che non hanno nulla da perdere.
Occorre così ritornare alla Costituzione. Occorre mettere da parte una visione “aventiniana” della politica che sta avanzando all’interno del PD, con comportamenti che definire bambineschi e dir poco. L’idea che i cittadini hanno indicato al PD di stare all’opposizione è figlia della depravazione maggioritaria della politica e dello stravolgimento dello spirito e della lettera della Costituzione che invece ci impone di “concorrere alla definizione della politica nazionale”.
Il congelare i propri voti, il ritirarsi sull’Aventino dell’opposizione, ha il solo scopo di favorire la politica della destra e paralizzare il PD che dimostrerebbe così di essere un partito inutile.
Occorre invece capire, per il PD, che la propria politica finalizzata agli interessi delle grandi multinazionali è stata duramente condannata dagli elettori tradizionali di quel partito che hanno votato in larga parte per il M5S e, in percentuale minore, anche per la destra fascio-leghista. Lo spostamento a destra di regioni come l’Umbria o l’Emilia Romagna dovrebbe far riflettere chi nel PD ha un cuore che batte a sinistra.
Il PD deve scegliere se continuare ad avere come proprio punto di riferimento Marchionne o gli altri amministratori delegati delle aziende che detengono il potere economico e quindi anche politico del mondo, o gli interessi dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati, di tutti coloro che non sfruttano il lavoro altrui per arricchirsi fregandosene di tutti e pensando solo ai propri interessi. La scelta è semplice e chiarissima.
Questa è la scelta di fronte alla quale siamo oggi. Ed è una scelta che riguarda tutti, anche quei partiti di sinistra che sono rimasti fuori dal parlamento o che in parlamento hanno pochi seggi. Soprattutto perché se la destra fascio-leghista riuscisse ad andare al governo o a imporre una modifica in senso maggioritario della legge elettorale per poi ritornare alle urne, la nostra democrazia sarebbe a rischio. Sarebbero a rischio la stampa, le associazioni, i partiti e le associazioni che si oppongono al razzismo e al fascismo, come già è successo nella storia del nostro paese. Ed è una storia che non possiamo e non dobbiamo rivivere.
Giovanni Sarubbi
NOTE
[1] Per i risultati complessivi del voto 2018 vedi Vedi it.wikipedia.org
RdC
Il reddito di cittadinanza del M5s. Welfare o workfare?
Cronisti politici e fini analisti da ore vanno cimentandosi nel racconto di un’Italia che, soprattutto al Sud, si è fatta convincere dal “reddito di cittadinanza” del Movimento 5 stelle. Analisi comoda e scontata. Ipotizzare una sorta di “voto di scambio” sul terreno della crisi e dell’inoccupazione è un gioco semplice, di immediato seguito, di base per la chiacchiera da bar. Poi, però, basta chiedere a chi la campagna elettorale l’ha seguita in strada per capire come del “reddito di cittadinanza”, nella realtà, fuori dai social network e da qualche studio televisivo, non c’è quasi traccia.
Ricordando Ignazio Garau
di Gigi Sotgiu
Ho conosciuto Ignazio Garau nei primi anni ’70 quando eravamo giovani e belli e militanti del Manifesto. Quando capitavo a Roma per qualche riunione andavo spesso a dormire nella sua casa al quartiere San Lorenzo, una specie di comune con tanti studenti fuori sede, simile a quella dove vivevo io a Cagliari, in Via Baylle. Una volta rientrato a Cagliari, diventato un valente architetto, alla fine degli anni ’70, Ignazio progettò la ristrutturazione della mia casa di famiglia a Cuglieri.
(segue)