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LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948 – 26 FEBBRAIO 2018.
LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI
DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948-26 FEBBRAIO 2018
SIG. PRESIDENTE DELLA REPPUBLICA ON. SERGIO MATTARELLA
Benibeniu, Benvenuto, Sig. Presidente a Cagliari, capitale dell’Isola di Sardegna, che nell’immaginario collettivo di molti di noi sardi vorremmo capitale della Nazione Sarda dentro un contesto federale della Repubblica Italiana in una Europa dei Popoli. Vorremmo sottoporle alcune problematiche presenti nella nostra isola, di cui difficilmente sentirà parlare nei discorsi ufficiali dei Rappresentanti delle Istituzioni Regionali poiché il rigido protocollo e la brevità della Sua visita non prevede la possibilità di interventi non programmati.
1.LA SARDEGNA E’ OCCUPATA MILITARMENTE da poligoni e basi militari in una percentuale (66%) altissima di suolo pubblico vincolato a servitù militare oltre ogni misura e legalità. Ciò nuoce allo sviluppo della nostra economia in particolare al turismo, all’agricoltura ed all’allevamento. Le recenti conclusioni della Commissione Parlamentare sulla presenza dell’uranio impoverito utilizzato negli armamenti nei poligoni sardi hanno acclarato che non si può escludere un nesso di causalità sui numerosi casi di tumori verificatesi nell’arco di un lungo periodo fino ai nostri giorni sui militari e sulla popolazione civile dei territori interessati dalla presenza delle basi.
2.IN SARDEGNA VI E’ UNA FABBRICA DI BOMBE, la RWM Italia SpA di Domusnovas/Iglesias controllata al 100% dal Gruppo tedesco Rheinmetall, i cui ordigni transitano sul territorio italiano e vengono venduti all’ Arabia Saudita (21 mila bombe nel 2016 ) che li utilizza contro la popolazione inerme dello Yemen, distruggendo città e paesi dove vengono uccisi centinaia di migliaia di civili tra cui numerosissime donne e bambini. Tutto ciò in aperta violazione dell’art.11 della nostra Costituzione -“l’Italia ripudia la guerra”, mentre è al sesto posto della classifica mondiale (fonte Milocca/Milena Libera) degli stati che producono e vendono armi( nel 2016 ha raggiunto i 14,6 miliardi, una crescita dell’85,7% rispetto al 2015 ),e della Legge Italiana Nr.185 del 1990 che vieta espressamente la vendita di armi a Paesi belligeranti, prevedendo inoltre che lo Stato intervenga concretamente nella riconversione delle fabbriche d’armi, come auspicato dal Comitato sardo per la Riconversione della Fabbrica di Domusnovas, divenuto un caso nazionale ed internazionale oggetto di numerose interrogazioni parlamentari ,di una Commissione d’inchiesta del Consiglio dei diritti umani dell’ONU e di ben tre deliberazioni della Commissione Europea. La Sardegna è un’isola di Pace ed i suoi abitanti ripudiano tutte le guerre ovunque nel mondo e sono aperti all’accoglienza ed inclusione di chi fugge dalle guerre, dalle dittature e dalla miseria. La Città di Cagliari è Medaglia d’oro al valore civile e proprio nel mese di febbraio del 1943- di cui quest’anno ricorre il 75.mo anniversario – ha subito ripetuti bombardamenti dalle Forze Alleate con più di 2 mila morti e la distruzione dell’80 % delle abitazioni civili, delle chiese e dei palazzi pubblici.
3.LA SARDEGNA RISCHIA ANCORA DI ESSERE SCELTA COME IL DEPOSITO UNICO NAZIONALE DELLE SCORIE NUCLEARI. E’ ben vero che il Ministro dell’Ambiente e diverse Autorità negano che vi sia questa volontà e fanno di tutto per rassicurare la popolazione dello scampato pericolo, ma ancora non vi è un pronunciamento ufficiale che allontani definitivamente questo incubo.
4.LA SARDEGNA E’ IN FORTE E PERICOLOSO DECLINO SOCIALE ED ECONOMICO sia a causa dell’alto indice di disoccupazione, sia per lo spopolamento delle zone interne col rischio reale di estinzione di molti paesi sia per il basso tasso di natalità e per la ripresa dell’emigrazione soprattutto dei nostri giovani in cerca di lavoro.
5.LA SARDEGNA REGISTRA ANCORA AD OGGI IL 53,6 % DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE (Fonte Eurostat) Solo recentemente all’inizio della campagna elettorale 2018 per il rinnovamento del Parlamento e ad appena un anno prima delle elezioni regionali del 2019 la Giunta ed il Consiglio Regionale hanno recuperato 100 milioni dal vecchio Piano Sulcis e messo in Bilancio ulteriori 27 milioni da destinare a cantieri per il lavoro (LAVORAS)che assorbiranno in gran parte lavoratori in cassa integrazione a scadenza e purtroppo ancora pochi giovani di primo impiego. La Sardegna, inoltre, è ai primi posti negli indici di povertà relativa a cui si aggiunge l’aumento delle persone costrette a rinunciare alle medicine e cure mediche a causa di una folle riforma sanitaria basata esclusivamente sul fattore economico.
6.LA SARDEGNA HA FALLITO COL VECCHIO PIANO DI SVILUPPO E CHIUDE NEGATIVAMENTE LA SUA ESPERIENZA DI GOVERNI AUTONOMISTI, un piano basato su una industrializzazione di base per Poli ,energivora ed impattante sul territorio dove ha provocato gravi e ampi disastri ambientali e sanitari che non compensano i posti di lavoro creati e che oggi con la crisi ed abbandono del tessuto industriale lasciano spazio alla disoccupazione di massa ed alla cassa integrazione di lunga durata trasformata in puro assistenzialismo per chi ha perso il lavoro e purtroppo nella negazione di ogni speranza per chi cerca nuova occupazione.NE’ CI CONVINCONO LE SCELTE POLITICHE DELLA NOSTRA CLASSE DIRIGENTE DEL GOVERNO NAZIONALE E REGIONALE che guarda ancora una volta al passato, investendo ingenti risorse di denaro pubblico su Fabbriche fuori mercato e fortemente impattanti sull’ambiente come l’ALCOA nel Sulcis /Iglesiente e l’EURALLUMINA che si vuol far ripartire collegandola ad una CENTRALE A CARBONE progettata a 400 metri dall’abitato di Portoscuso e con il RADDOPPIO DELLE COLLINE E DEL LAGO DEI FANGHI ROSSI ed infine il grande imbroglio della CHIMICA VERDE nel Nord Sardegna a Portotorres ,un vero e proprio Mega-Inceneritore.
7. LA SARDEGNA HA URGENTE BISOGNO DI UN NUOVO PIANO DI RINASCITA SULLA BASE DELL’ART.13 DEL SUO STATUTO SPECIALE per progettare ed attuare UN NUOVO PIANO DI SVILUPPO che deve essere un piano ecocompatibile e sostenibile, rispettoso del territorio e del paesaggio. Esso deve prevedere UN PIANO GENERALE DI BONIFICHE col vincolo europeo di “chi inquina, paga” con cantieri aperti in tutta l’isola ormai devastata in gran parte dalla vecchia industrializzazione e dalla speculazione. Esso deve attuare grandi investimenti sulla Rete Ferroviaria in gran parte da ridisegnare e rifare per consentire ai sardi di uscire dall’isolamento interno. Un PIANO che punta alla modernizzazione e rilancio del Comparto Agroalimentare e Pastorale con industrie di trasformazione e conservazione dei prodotti. Un PIANO che favorisca l’industria turistica diffusa nel territorio e per tutto l’anno e punti su Industrie ad alta innovazione tecnologica e ricerca con investimenti consistenti nell’industria aerospaziale.
8.LA SARDEGNA NON PUO’ ESSERE LA PIATTAFORMA ENERGETICA NAZIONALE perché come isola non ha bisogno di surplus di energia da fonti fossili che già inquinano ( LA SARAS BASTA E AVANZA ) né ha necessità di reti di Gas/Metano che ci vengono imposte tecnologicamente superate e fortemente inaffidabili né tantomeno ha bisogno di RIGASSIFICATORI incredibilmente progettati nelle vicinanze dei centri abitati, come quello a 300 metri dal Villaggio dei Pescatori e a 500 metri dal centro della città di Cagliari. E’ necessario, invece, investire maggiormente sulle fonti energetiche alternative e pulite quali il sole ed il vento, di cui la Sardegna abbonda in tutto l’anno.
9.IN SARDEGNA A 70 ANNI DALLA SUA APPROVAZIONE (26 FEBBRAIO 1948 ) ABBIAMO BISOGNO DI RISCRIVERE LO STATUTO SPECIALE, adeguandolo alla visione europea ed internazionale e alle nuove esigenze delle società moderne, allargando le sue competenze primarie in primo luogo per quanto riguarda le potestà in materia fiscale ,sui beni archeologici, museali e artistici, sulla scuola e sull’insegnamento come materia curriculare della lingua storia e cultura sarda.
10.LA SARDEGNA HA DIRITTO DI ESSERE COLLEGATA E RAGGIUNGIBILE DALL’EUROPA E DAL TUTTO IL MONDO, RICONOSCIUTA E RISPETTATA COME ISOLA TOTALMENTE IN REGIME DI ZONA FRANCA NEI SUOI PORTI, AEROPORTI E TERRITORI.
LA SALUTIAMO DA SARDI CON IL NOSTRO AUGURIO “SALUDI E TRIGU”, SALUTE E ABBONDANZA DI RACCOLTO OVVERO FELICITA’ E BENESSERE ,“FORZA PARIS”, FORZA INSIEME.
Cagliari, 26/02/2018
GIACOMO MELONI SEGRETARIO NAZ. LE CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA-CSS
MARCO MAMELI PRESIDENTE ASSOTZIUS CONSUMADORIS SARDIGNA ONLUS
ANGELO CREMONE – ENNIO CABIDDU COORDINATORI DI SARDEGNA PULITA
RICCARDO PIRAS SEGRETARIO REGIONALE DI ALTRA AGRICOLTURA
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di Aladin
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
Caro Presidente
LETTERA APERTA AL PRESIDENTE
SERGIO MATTARELLA
IN VISITA A CAGLIARI PER I
70 ANNI DELLO STATUTO SARDO
26 FEBBRAIO 1948 –
26 FEBBRAIO 2018.
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LETTERA APERTA AL PRESIDENTE SERGIO MATTARELLA IN VISITA A CAGLIARI PER I 70 ANNI
DELLO STATUTO SARDO 26 FEBBRAIO 1948-26 FEBBRAIO 2018
SIG.PRESIDENTE DELLA REPPUBLICA ON. SERGIO MATTARELLA
Benibeniu, Benvenuto, Sig. Presidente a Cagliari, capitale dell’Isola di Sardegna, che nell’immaginario collettivo di molti di noi sardi vorremmo capitale della Nazione Sarda dentro un contesto federale della Repubblica Italiana in una Europa dei Popoli. Vorremmo sottoporle alcune problematiche presenti nella nostra isola, di cui difficilmente sentirà parlare nei discorsi ufficiali dei Rappresentanti delle Istituzioni Regionali poiché il rigido protocollo e la brevità della Sua visita non prevede la possibilità di interventi non programmati.
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Che succede all’Università di Sassari?
Documentazione su una questione delicata e rilevante su cui ritorneremo
L’Unione Sarda venerdì 23 febbraio 2018 – Provincia di Sassari (Pagina 40 – Edizione CA)
SASSARI. Bufera all’Università. Il Rettore: tutto falso, ci tuteleremo
Assunti senza requisiti:
«La Commissione sapeva»
«Pensavamo di tirare un filo ed è venuto giù tutto il maglione». Così l’avvocato Gianni Loy, che descrive un sistema «fatto di arroganza e di potere», dove tutto sembra permesso, anche non rispondere alla domanda di accesso agli atti.
L’ipotesi, sostenuta dai ricercatori esclusi, è che cinque candidati su sette non avessero i requisiti: avrebbero solo «intrattenuto saltuarie relazioni scientifiche di collaborazione con istituti stranieri» o svolgevano dottorati di ricerca nell’Isola.
Un tira e molla che si è concluso con il ritiro dell’ultima tranche dei denari stanziati dalla Regione a favore dell’Università di Sassari (circa 500mila euro), per il rientro dei cervelli, procedura avviata nel 2008 per favorire il rientro in Sardegna delle sue forze migliori.
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Oggi venerdì 23 febbraio 2018
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Elezioni: chi vincerà che cosa? E la rappresentanza?
23 Febbraio 2018
Gonario Francesco Sedda su Democraziaoggi.
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Per onorare il Grande Sardo Giovanni Maria Angioy, morto esule a Parigi il 22 febbraio 1808.
Quale classe dirigente per la Sardegna che vorremo
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di Aladin, 8/5/2016.
«Malgrado la cattiva amministrazione, l’insufficienza della popolazione e tutti gli intralci che ostacolano l’agricoltura, il commercio e l’industria, la Sardegna abbonda di tutto ciò che è necessario per il nutrimento e la sussistenza dei suoi abitanti. Se la Sardegna in uno stato di languore, senza governo, senza industria, dopo diversi secoli di disastri, possiede così grandi risorse, bisogna concludere che ben amministrata sarebbe uno degli stati più ricchi d’Europa, e che gli antichi non hanno avuto torto a rappresentarcela come un paese celebre per la sua grandezza, per la sua popolazione e per l’abbondanza della sua produzione.»
In un recente convegno sulle tematiche dello sviluppo della Sardegna, un relatore, al termine del suo intervento, ha proiettato una slide con la frase sopra riportata, chiedendo al pubblico (oltre duecento persone, età media intorno ai 40/50 anni, appartenente al modo delle professioni e dell’economia urbana) chi ne fosse l’autore, svelandone solo la qualificazione: “Si tratta di un personaggio politico”. Silenzio dei presenti, rotto solo da una voce: “Mario Melis?”. No, risponde il relatore. Ulteriore silenzio. Poi un’altra voce, forse della sola persona tra i presenti in grado di rispondere con esattezza: “Giovanni Maria Angioy“. Ebbene sì, proprio lui, il patriota sardo vissuto tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, (morto esule e in miseria a Parigi, precisamente il 22 febbraio 1808), nella fase della sua vita in cui inutilmente chiese alla Francia di occupare militarmente la Sardegna, che, secondo i suoi auspici, avrebbe dovuto godere dell’indipendenza, sia pur sotto il protettorato francese (1). [segue]
Gli editoriali di Aladinews
Usa – Cina, condominio del mondo. La Russia bussa per entrare.
Gli interessi che legano a “doppio filo” gli USA e la Cina
di Gianfranco Sabattini su Aladinews.
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Oltre il 4 marzo.
Questo articolo, pubblicato nel sito chiesadituttichiesadeipoveri dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, segnalava tre questioni prioritarie da affrontare per far ripartire il cammino della civiltà: il diritto umano universale di muoversi e stabilirsi dovunque, la liberazione della politica dal vecchio alibi del Dio violento, la sovranità tolta al denaro.
Raniero La Valle
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Il salutare paradosso di imprenditori che uniscono economia e comunione. Un germe suscettibile di sviluppo. Il sistema dell’azzardo del capitalismo idolatrico distrugge milioni di famiglie, crea, scarta e poi nasconde i poveri. Evasione ed elusione fiscale tradiscono la legge del reciproco soccorso. La condivisione crea nuovo pane e nuovo bene
Il 4 febbraio 2017 papa Francesco riceveva i partecipanti all’incontro “economia di comunione” promosso sulla scia di un’esperienza avviata venticinque anni fa in Brasile, e teneva questo discorso in cui affermava la possibilità di un’altra economia che invece di uccidere fa vivere perché condivide.
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Oltre il 4 marzo IL COMPITO DELLA POLITICA? SBLOCCARE LA CIVILTÀ .
Questo articolo, pubblicato nel sito chiesadituttichiesadeipoveri dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, segnalava tre questioni prioritarie da affrontare per far ripartire il cammino della civiltà: il diritto umano universale di muoversi e stabilirsi dovunque, la liberazione della politica dal vecchio alibi del Dio violento, la sovranità tolta al denaro.
Raniero La Valle
In prossimità delle elezioni del 4 marzo, riproponiamo questo articolo comparso nel sito chiesadituttichiesadeipoveri il 7 febbraio 2017, in cui dopo l’esperienza del referendum si ponevano tre questioni di fondo per una ripartenza della politica e una nuova avanzata della civiltà
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L’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, mostrando un’intelligenza politica popolare tutt’altro che spenta, ci consegna una responsabilità che non possiamo ridurre a proposte di corto respiro; occorre invece affrontare come prioritari i nodi che oggi bloccano la politica e strozzano lo sviluppo stesso della civiltà in tutto il mondo. Fare politica vuol dire precisamente rimuovere queste strozzature.
Io vedo tre questioni prioritarie, tre “forze frenanti” su cui dovrebbero misurarsi il pensiero e l’iniziativa culturale, politica e religiosa per consentire la ripresa di un cammino di civiltà, che per ora sembra bloccato o addirittura in ripiegamento rispetto alle conquiste del ‘900; e non solo per Trump.
Il mondo è di tutti
Il primo blocco consiste nella mancata risposta di civiltà al fenomeno della migrazione di massa. Ma non si tratta di un fenomeno, cioè di un evento, si tratta piuttosto di un nuovo mondo, il mondo globalizzato, che è stato pensato come un mondo di residenti, e risponde presentandosi invece come un mondo di migranti; era un mondo di stabilità la cui qualità era la durata – il tempo indeterminato – e si ritrova costruito come un mondo di precarietà, la cui qualità è vivere nell’imprevedibile. Per integrare in un cammino di civiltà tale mondo nuovo è necessario che si riprenda il processo dell’imputazione dei diritti fondamentali a tutti gli uomini come diritti universali e permanenti e se ne preveda l’effettività per tutti gli abitanti del pianeta. E’ dalla conquista dell’America, cioè dal primo apparire di un “nuovo mondo” che tale cantiere si è aperto. Aveva scritto Francisco de Vitoria in una sua “relectio de Indis” che “all’inizio del mondo, quando tutto era comune era lecito a ognuno trasferirsi e muoversi in qualunque regione volesse; ora non pare che la divisione dei territori abbia annullato questo diritto, dal momento che l’intenzione dei popoli non è mai stata di abolire, con quella divisione, la comunicazione reciproca fra gli uomini. Non sarebbe lecito ai francesi proibire agli spagnoli di muoversi in Francia o anche di vivervi, né viceversa, purché questo non rechi loro danno e tanto meno faccia loro torto”, e questo perché “totus orbis aliquo modo est una respublica”, tutto il mondo in qualche modo è una repubblica.
La condizione è di non recarsi danno a vicenda. Ma la costruzione di questo edificio è ancora tutta da fare. Il principio è stato enunciato con la massima chiarezza nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”; e oltre che nelle Carte e nelle Costituzioni, il principio dell’eguaglianza universale è stato espresso con la massima efficacia nell’enciclica “Pacem in terris” di Giovanni XXIII, e sembrò allora ricevere il generale consenso: “non ci sono esseri umani superiori per natura ed esseri umani inferiori per natura, ma tutti gli esseri umani sono eguali per dignità naturale. Di conseguenza non ci sono neppure comunità politiche superiori per natura e comunità politiche inferiori per natura: tutte le comunità politiche sono uguali per dignità naturale” (Pacem in terris n.50). Ciò è affermato come una verità, non solo come una decisione etica positiva.
Questo principio comportava che quanto al godimento dei diritti umani fondamentali, oltre alle discriminazioni già escluse (razza, sesso, religione, ecc.), non potesse ammettersi quella relativa alla cittadinanza. E per quanto attiene al diritto di mobilità e di immigrazione, la cosa era detta così: “ogni essere umano ha la libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana, e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale” (Pacem in terris n. 12).
Questo è il criterio con cui dovrebbe essere affrontata la crisi delle migrazioni, la crisi più grave – come è stato detto – dalla fine della seconda guerra mondiale; ed è anche il criterio in base a cui il mondo nuovo sarebbe assunto nel processo della civiltà; ma sarebbe anche il criterio in base al quale nulla potrebbe restare com’è, e profondi cambiamenti dovrebbero essere introdotti nelle mentalità, nel costume, negli ordinamenti, nella politica, nell’economia e nella finanza.
Per questo è molto difficile fare questa scelta e anche nelle società pur pervase da sentimenti umanitari, o che si danno da fare per salvare o accogliere un certo numero di profughi e di stranieri, nessuno fa appello a questo criterio. L’unico a dirlo è papa Francesco che, costante nel suo appello ad accogliere i profughi, nel messaggio per la giornata del migrante 2017 ha ancora una volta ripetuto che “le migrazioni oggi non sono un fenomeno limitato ad alcune aree del pianeta, ma toccano tutti i continenti e vanno sempre più assumendo le dimensioni di una drammatica questione mondiale. Non si tratta solo di persone in cerca di un lavoro dignitoso o di migliori condizioni di vita, ma anche di uomini e donne, anziani e bambini che sono costretti ad abbandonare le loro case con la speranza di salvarsi e di trovare altrove pace e sicurezza. Sono in primo luogo i minori a pagare i costi gravosi dell’emigrazione, provocata quasi sempre dalla violenza, dalla miseria e dalle condizioni ambientali, fattori ai quali si associa anche la globalizzazione nei suoi aspetti negativi”. E nella Laudato sì egli aveva sottolineato come i cam¬biamenti climatici intacchino le risorse pro-duttive dei più poveri, i quali “si vedono ob¬bligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciu¬ti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa”: così il papa. E in Italia il solo che incessantemente sostiene che bisogna accogliere tutti gli immigrati e poi anche dar loro il diritto di voto è il Centro per la pace di Viterbo. Per il resto, l’apertura delle frontiere, dei porti, degli aeroporti, dei valichi agli immigranti, la loro integrazione, il riconoscimento anche a loro dei diritti politici è oggetto di esorcismo, è il tabù che non si può violare; e l’Europa, che doveva essere il luogo dove la storia si compie di contro ai “popoli senza storia”, muore. Anche Hegel è fallito.
Affrontare questo tema nelle sue diverse implicazioni – a cominciare da una nuova considerazione nella Costituzione Italiana del cosiddetto diritto di asilo, che era stato concepito come un caso di eccezione in una situazione del tutto diversa – dovrebbe essere il primo cimento di una nuova responsabilità politica. Altrimenti non ci sarà l’ostacolo della Costituzione a impedire l’iniquità, annunciata dal ministro Minniti, di respingere e cacciare dalI’Italia il 90 (!) per cento dei profughi considerandoli immigrati “irregolari”. Insieme a ciò, dovrebbe essere posto come priorità di un programma politico il disegno di portare tutti i Paesi dell’ Unione a una rinegoziazione dei Trattati europei, così che dall’Europa non sia scartato nessuno. Il fatto che nemmeno si metta in conto come ipotesi, neanche a sinistra, di intraprendere questa strada, fa sì che le opinioni pubbliche siano politicamente e culturalmente condizionate a difendere l’esistente e a chiudere le porte ed i varchi agli “estranei”, e apre un’autostrada alle proposte politiche dei predicatori dell’egoismo e del primato della Nazione (“prima di tutto l’America”, “ prima gli italiani” o i francesi o gli inglesi) alla Trump, alla Salvini, alla Le Pen, alla May. È vero che dopo la “Brexit”, l’elezione di Trump e la ripresa dei protezionismi, la globalizzazione, fallita nelle sue promesse, è oggi rimessa in discussione, ma non è affatto detto che ciò porti a rallentare i flussi migratori; anzi c’è addirittura chi prevede 250 milioni di migranti e profughi a metà di questo secolo.
La violenza religiosa
Il secondo blocco che intercetta e ipoteca lo sviluppo storico è il ritorno in forme incontrollate e cruente della violenza religiosa, che scaturisce non più come in passato da matrici cristiane, ma da matrici islamiche. E’ evidente che una violenza che viene da soggetti e gruppi di cultura o anche di fede islamica non è violenza dell’Islam, ed è noto che nel suo complesso la “Umma” (comunità) musulmana, sconfessa e condanna la violenza estremista, per cui in nessun modo si può interpretare la guerra stragista in atto come una guerra religiosa, e tanto meno come una guerra tra Islam e Occidente, anche se proprio questo era stato lo scenario su cui in Italia e nella NATO nel 1991 era stato impostato il nuovo “Modello di Difesa”, dopo il venir meno del nemico sovietico. E se c’è una cosa che ancora oggi impedisce alla lotta per la supremazia nel Medio Oriente e alla lotta contro il terrorismo di degenerare in guerra di religione, non è certo la cultura dell’Occidente ma è il fermo rifiuto di papa Francesco di un coinvolgimento della Chiesa e delle religioni in una simile guerra.
Tuttavia non c’è dubbio che lo scontro con lo Stato Islamico e col terrorismo si nutre, sia in un campo che nell’altro, di motivazioni religiose, sincere o strumentali che siano. Ciò comporta che la questione religiosa non possa essere messa tra parentesi o semplicemente ignorata, ma debba essere assunta nella gestione e soluzione anche politica della crisi, se si vuole affrontare quello che veramente sta accadendo e non una sua falsa o monca rappresentazione.
Perciò la questione religiosa, e segnatamente quella del rapporto tra le grandi religioni monoteiste, Islam, ebraismo e cristianesimo, va affrontata non come estranea al conflitto e alla crisi geopolitica in atto, ma come fattore rilevante se non determinante di essa.
Per poterlo fare occorre però riconoscere che il conflitto non è tra le tre religioni e le tre culture come tali, ma è tra le degenerazioni di queste tre religioni, cioè, mondanamente, è un conflitto tra un radicalismo islamico, il sionismo e l’ideologia della cristianità occidentale, intesa come cristianesimo ridotto a potere politico sacrale in Occidente. Si tratta di tre forme storiche di queste tradizioni, che sono filiazioni o deformazioni di quella che è la loro autenticità religiosa originaria. E allora se vogliamo venirne fuori occorre sciogliere questi nodi, superare i conflitti tra queste tre ideologie, e bisogna che ciascuna religione in qualche modo converta se stessa. Il cristianesimo ha cominciato a farlo, papa Francesco è l’esempio di questo superamento dell’idea di un cristianesimo come sovranità, come cristianità, cioè come civiltà, come potere. Però questo deve avvenire anche per le ideologie tratte dalle altre due religioni, sia per il sionismo rispetto all’ebraismo, sia per l’islamismo estremista rispetto all’Islam.
Non basta la laicità
Qui però c’è un vuoto da colmare. Infatti la risposta, l’unica risposta che finora la modernità occidentale ha dato a questo problema e propone a tutto il mondo, è del tutto insufficiente, anzi addirittura sta altrove, rispetto al problema. L’unica risposta data finora è quella della secolarizzazione, che è il punto d’arrivo di quella pur feconda cultura della laicità messa in campo dalla modernità per impedire che il progresso storico venisse bloccato da una malposta ipoteca religiosa. Sulla scia di questo vissuto lo schema su cui si muove l’Occidente suppone che da questa pseudo guerra di religione si esca con la laicizzazione, con la secolarizzazione, con la riduzione della religione a una dimensione privata. In tal modo si pensa che ogni religione possa in qualche modo essere messa in uno stato di estraneità, in condizione di non nuocere. Ma è anche una reazione conservatrice, che difende il potere com’è. Non si può infatti ignorare il movente religioso di molte obiezioni di coscienza al potere, e non si può reprimere o dissolvere, in nome della laicità, la potenza di rinnovamento e di resistenza all’iniquità che prorompe dal Vangelo. Altrimenti sarebbe illegittimo l’“aggiornamento” dell’annuncio evangelico di papa Francesco, il suo far credito ai Movimenti Popolari, il suo appellarsi alla responsabilità politica non solo dei credenti, ma di tutti gli abitanti della terra.
Io penso che la soluzione non sia figurarsi un mondo senza religioni, perché le religioni non scompaiono, e perché appunto il conflitto non è fra le religioni, ma tra le ideologie che ne derivano. Invece il rimedio è che ciascuna di queste religioni ritrovi la propria autenticità e che quindi tutte vadano a monte del conflitto; e credo che oggi sia possibile, perché siamo in un momento in cui ciò di cui si sta discutendo non è tanto l’assetto, l’ideologia, o i dogmi di questa o quella religione, ma si sta scavando sull’ identità e l’ immagine di Dio, che è alla fonte di tutte le religioni. E allora il vero problema è di quale Dio parliamo, di quale Dio parlano queste religioni quando parlano di Dio: è il Dio violento, il Dio della vendetta, il Dio del giudizio, il Dio che punisce, il Dio che nel giudizio finale distribuisce punizioni e meriti come farebbe un giudice umano, oppure è un altro Dio, il Dio della misericordia, dell’ accoglienza, del perdono, quello che “arriva primo nell’ amore”? Questa mi pare che sia la questione. Perché se l’Islam si rifà al Dio violento, al Dio con la spada, non si rifà al vero Dio dell’Islam: ci sono molti testi islamici, e c’è anche un documento di grandi saggi islamici rivolto nel settembre 2014 a Abū Bakr al-Baghdādī, il sedicente califfo, in cui si dice che anche Maometto ha preso la spada per una contingenza storica, ma non è quella l’ identità e il destino dell’Islam. Qui da noi c’è questo papa che ha scoperto e proclamato un Dio nonviolento. Il documento che egli ha scritto per la giornata della pace 2017 fa della nonviolenza (che è stata un’ideologia nata in territori anche non cristiani come quelli gandhiani) l’identità stessa del cristianesimo. Allora il problema non è la secolarizzazione ma la conversione rispetto ai falsi dei, rispetto agli idoli, rispetto al Dio della guerra, rispetto al Dio della violenza, rispetto al Dio che legittima le sopraffazioni, le ingiustizie e i soprusi del potere: un Dio, dice Francesco, “che non esiste”. Questo a me pare sia il futuro: non la pace nonostante le religioni, ma la pace anche come primo anelito e potenza creativa delle religioni.
Di quale Dio si parla
Si potrebbe obiettare che si tratta solo di un problema religioso, che riguarda unicamente i credenti. Non è così. Se le religioni sono le prime implicate in questo processo, la politica non vi è estranea e non può pensarsi fuori del conflitto. Non certo per una ricaduta nel giurisdizionalismo o addirittura in un giuseppinismo di vecchi tempi, o in altre forme di reciproca ingerenza e di sbandate clericali, ma perché il Dio sbagliato delle religioni ha profondamente influenzato, in passato e fino ad ora, le posizioni e le culture politiche.
Dopo la sua ascesa alla Casa Bianca ci si è interrogati su quale sia il Dio di Trump. E lo storico Alberto Melloni ha risposto che nel suo discorso di insediamento, Trump, distorcendo il salmo 133 che esalta l’unità dei fratelli in senso universalistico, l’ha attribuita agli americani intesi come “popolo di Dio”, presentando Dio come il garante di un privilegio americano, che farebbe dell’America un «“popolo eletto” portatore di una specie di teologia della singolarità globale».
Non si tratta affatto di una cosa nuova. Dicendo questo Trump interpreta perfettamente uno dei filoni in cui la “cristianità” (intesa come unità organica di istituzioni, popolo, civiltà e cristianesimo), si è articolata in Occidente. Come scrive Erich Przywara nel suo “L’idea d’Europa” nell’età costantiniana il cristianesimo invece di annunciarsi come la novità di un rapporto – di “uno scambio” attraverso la croce – tra Dio e l’uomo, si sviluppò in «una nuova “antica alleanza”», che ripeteva quella che era stata propria degli Ebrei, ma estesa a nuovi eletti: tale fu il Sacro Impero, tale fu poi la «nuova “comunità di eletti” fondata da Lutero che successivamente Calvino strutturò a Ginevra basandola su “eletti predestinati”». Questa impostazione comportò l’idea di «una “terra razionale e divina” secondo legge e ordine» che «si diffuse con il puritanesimo, conquistando l’Inghilterra e il Nord America che, ancora oggi, sono formati interiormente da questa idea. Ne è scaturito il pensiero di una “terra razionale e divina anglosassone” che, secondo legge e ordine, ha portato e porta al modo di funzionare e ai risultati di un capitalismo fondato sul calvinismo».
Ma anche il marxismo, secondo Przywara, proviene dalla stessa matrice, rovesciandosi in risultati opposti: il materialismo dialettico «scaturisce essenzialmente dal profetismo rivoluzionario del primo ebraismo che (per quanto oggi non lo si voglia riconoscere) è il fuoco più intimo della riflessione di Marx. Ma scaturisce ugualmente dallo gnosticismo rivoluzionario russo, di tipo apocalittico-escatologico il cui profeta più infiammato è Bakunin». Per Przywara Marx pur ateo, sarebbe nel profondo “un ebreo della più genuina antica alleanza” e Bakunin, pur antiteista, sarebbe nel profondo “un cristiano greco-ortodosso di quella nuova alleanza che attende e anticipa il regno del ritorno di Cristo”.
Un altro filone in cui si è proposta la “cristianità” è quello scaturito dal tentativo novecentesco di restaurare una società cristiana mediante i partiti cristiani, il socialismo cristiano o altre forme di “occidente cristiano”.
Questo è ciò che ci racconta la storia. Ma queste diverse “forme cristiane” – secondo Przywara – sono una distorsione del messaggio, «portano in sé un “no”, frutto di dura cervice, all’ “unico e vero cristianesimo” che è il cristianesimo dello “scambio che redime”».
Erich Przywara era un teologo gesuita tedesco, e citarlo qui non è casuale perché è l’autore a cui ha fatto riferimento papa Francesco quando, riproponendo in termini nuovi il messaggio evangelico, ha postulato l’uscita dalla cristianità, e nel ricevere il premio Carlo Magno ha ignorato lo stereotipo dell’Europa cristiana e ha dato alla Chiesa la missione del servizio e quella di “lavare i piedi” all’Europa. Uscire dal regime di cristianità per non perdere il cristianesimo, significa tornare all’autenticità del messaggio originario, e rompere l’identificazione tra fede, potere, cultura e politica.
Questa operazione però deve essere fatta anche dalle culture politiche e dalle forze storiche che agiscono nella laicità, ma sono in diversi modi portatrici di concezioni sacrali della politica (“il sacramento del potere” messo in luce dall’opera storica di Paolo Prodi) e sono state o sono ancora interpreti di modi di essere propri della cristianità; dunque questo è un compito proprio della politica e può e deve essere parte di un progetto o programma politico per la ripresa di un cammino di civiltà.
Per la Chiesa uscire dalla cristianità vuol dire compiere molte, decisive revisioni. Ma questo non vale solo per il cristianesimo, vale anche per l’Islam e per ogni altra religione. Perché il problema dell’uscita dalla “cristianità” non è solo del cristianesimo. Tutte le religioni hanno avuto la loro notte oscura, in cui hanno sognato il sogno di Costantino, “in hoc signo vinces”, in cui si sono smarrite dando ascolto alla voce del Tentatore che ha voluto persuaderle dicendo: “tutti questi regni ti darò col loro splendore se prostrandoti mi adorerai”. Tutte le religioni, ognuna con i suoi tempi, devono uscire dalla loro forma di cristianità, devono allontanarsi da quel sogno di vittoria, spogliarsi delle maschere regali. L’Islam dovrà ritrovare nel Corano il pluralismo, uscire dall’ideologia della sharia realizzata contro la società degli infedeli, Israele deve separarsi dall’ideologia di Sion e dello Stato degli Ebrei concepito come lo “Stato della redenzione” (ma “catastrofe” per i palestinesi), l’induismo “convertito”, come dice Raimundo Panikkar, tornerà a bagnarsi nel Gange alle sue sorgenti, incontaminato dal potere, le culture laiche dovranno rinunciare ai loro assoluti di riserva, a cominciare da quello del denaro e del mercato.
Ciò non vuol dire che si perderanno le differenze, il sincretismo globalista non è, né deve essere, nel nostro futuro. Tutte le tradizioni manterranno la loro identità; è sull’incontro tra le loro differenze che si fonda l’unità umana.
Rovesciare il denaro dal trono
Il terzo blocco che oggi inibisce il cammino della civiltà e intercetta e soffoca lo sviluppo storico, è prodotto dall’ascesa del denaro al potere sovrano nel mondo. Se è proprio della politica innalzare o deporre i sovrani (e delle Costituzioni e del diritto regolare l’esercizio della sovranità) il primo compito della politica odierna è la decisione sul potere sovrano: è giusto che la sovranità appartenga al denaro e a lui sia rimessa l’ultima decisione, e in quali forme e limiti ne può essere regolato l’esercizio?
Non stiamo parlando di una scelta tra sistemi economici, di una lotta tra capitalismo e socialismo, tra globalizzazione e protezionismo. Cosa sarà di ciò dipende da una ripresa del pensiero e del dibattito economico, dal rinnovato confronto tra le ideologie politiche e appartiene a tutta la vicenda politica del futuro. Parliamo di una cosa che viene prima, che è una scelta di civiltà, e da cui dipende la legittimità sia dell’uno che dell’altro sistema. Perché è chiaro che se a governare non è l’essere umano, ma il denaro, un manufatto, qualcosa che non esiste in natura, che può essere creato dal nulla e spesso viene creato da poteri irresponsabili, la questione non è più di economia politica, ma è una questione antropologica, interpella l’idea dell’umano, anche se è la politica che ha gli strumenti per dirimerla. E se vince il denaro, l’uomo è perduto. Finisce il diritto del lavoro, se ne vanno le fabbriche, non trovano difese i terremoti, si innalzano i muri, il mare fa da fossato confine e cimitero, la terra può essere riscaldata e spremuta, la salute è calpestata e perfino il paradiso, messo al plurale, non è più per l’uomo ma per i soldi scappati dal fisco. E questo non è capitalismo, è barbarie. Perciò un progetto, un compito politico diretto a sgombrare gli ostacoli che inibiscono la ripresa di un cammino di civiltà, deve primariamente assumere questa tematica, deve prefiggersi il rovesciamento del denaro dal trono, la sua restituzione come strumento al servizio dell’economia e della vita, e il ristabilimento della sovranità in capo agli esseri umani ed ai popoli.
Con quali strumenti politici?
Attraverso quali strumenti politici affrontare questi problemi cruciali? Quali soggetti politici possono farsi carico di assumerli e di lottare per la loro soluzione, per il superamento di queste chiusure che bloccano l’incivilimento umano?
Raniero La Valle
Nell’articolo qui sopra riprodotto si faceva un’ipotesi, in risposta a questa domanda. Non la riproduciamo qui perché la domanda resti aperta, ed abbia risposte quali possono essere pensate nella situazione di oggi.
Comunicazioni CoStat
Cari compagni/e, amici/e,
l’incontro coi candidati del NO mi pare sia andato bene sia per la partecipazione sia per il contenuto. E’ stato chiaro, pur nella delicatezza dell’argomento, che il Comitato fa politica a modo suo, intervenendo più sull’indirizzo politico costituzionale che su quello contingente di maggioranza.
Per una sintesi dell’incontro rinvio a democraziaoggi link http://www.democraziaoggi.it/?p=5334#more-5334
Ora, con lo stesso spirito, bisognerebbe prendere un’iniziativa dopo il 4 marzo per mettere in piedi un movimento di riforma della legge elettorale regionale e dintorni: il tema riguarda la sovranità e la rappresentanza dei sardi, a partire dall’elezione dell’Assemblea regionale.
Sul tema possiamo provare a costruire una convergenza delle forze del No, secondo il nostro stile, senza inutili manovre, in pubblico. E’ un lavoro difficile, ma mi pare abbiamo acquistato la credibilità per tentare. Abbiamo comunque il dovere di provarci, anche in sintonia col Comitato nazionale che ha lanciato LA LEGGE D’INIZIATIVA POPOLARE PER UNA NUOVA LEGGE ELETTORALE,
Nel frattempo il gruppo di su “lavoro e scuola” ha continuato a riunirsi, mentre il gruppo su “ambiente e lavoro” si accinge a farlo.
Mi pare ci sia materia per fare una delle nostre riunioni ordinarie mercoledì prossimo (28 febbraio) alle 18, in CSS. Con all’odg: iniziative sulla legge elettorale regionale dopo il 4 marzo; convegno Lavoro e Scuola, impostazione convegno Ambiente e Lavoro.
Cordiali saluti a tutti (Andrea Pubusa).
Oggi giovedì 22 febbraio 2018
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Francesco Cocco, con rigore e generosità anche dopo…
22 Febbraio 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Ricordando Francesco Cocco, un vero Maestro.
di Franco Meloni, su Aladinews del 26 dicembre 2017.
Avevamo 19 anni nel 1969, qualcuno qualche anno in più, noi studenti della 5a B dell’Istituto Commerciale Martini di Cagliari. Io adoravo la Scuola. Non così tutti i miei compagni. Ma c’era un docente che tutti ci faceva riconciliare con essa. Ed era il prof. Francesco Cocco, che ci insegnava l’Economia e il Diritto. Lui era il nostro idolo e la nostra considerazione per la sua scienza e per il suo rapportarsi nei nostri confronti erano talmente alti che pretendevamo che ci insegnasse qualcosa di più dell’economia e del diritto. (segue)
La prima volta che ho visto il mare.
Storie di immigrazione in forma teatrale
partendo da Seui.
di Gianni Loy.
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Elezioni
La sedia
di Vanni Tola
Elezioni: arma di distrazione di massa? La sorpresa potrebbe essere una diffusa diserzione del voto.
Entro certi limiti appare ovvio e scontato che le elezioni politiche siano l’argomento principale dei Media. Da lì a cancellare quasi totalmente tutto ciò che accade intorno a noi c’è una bella differenza. E non sono fatti di poco conto. Una piattaforma petrolifera dell’Eni diretta in una parte del mediterraneo importantissima per i suoi giacimenti di petrolio, è bloccata in alto mare circondata da navi militari che mettono in discussione i contratti che l’Eni ha ottenuto per le trivellazioni in quell’area geografica. Una vasta parte del Mediterraneo nella quale si trovano vastissimi giacimenti petroliferi che attribuiscono a quella parte di mare un valore strategico per i paesi limitrofi. Un luogo intorno al quale soffiano crescenti venti di guerra, una miccia accesa che se non disinnescata immediatamente potrebbe determinare l’avvio di un conflitto bellico a due passi da casa nostra. E noi tutti li, davanti ai televisori, ad assistere alle rappresentazioni del teatrino della politica con i vari Di Maio, Renzi, Salvini e l’immarcescibile ex cavaliere che continua a scendere e riscendere in campo in una sorta di moto perpetuo. Trump, il funambolico presidente americano, ha appena annunciato che intende rilanciare la corsa all’armamento nucleare e convenzionale facendo carta straccia di tutti gli accordi internazionali per il disarmo e la progressiva distruzione delle armi nucleari e promettendo la realizzazione di “mini” atomiche più facilmente trasportabili e meglio impiegabili nei conflitti “locali”. Quasi nessuno se ne preoccupa pur sapendo che tali decisioni del presidente Trump comporteranno, per conseguenza diretta, una generalizzata ripresa della corsa agli armamenti in molti altri paesi del mondo accrescendo il pericolo di conflitti internazionali dalle conseguenze inimmaginabili. Il traffico di migranti e gli sbarchi in Italia sono ripresi e crescono nonostante i dati governativi parlino di un consistente calo degli stessi. Si sa ma non si dice. Motivazioni di carattere elettorale impongono di blindare la cosi detta vittoria della linea Minniti e il suo scellerato patto sull’immigrazione con la Libia almeno fino al dopo elezioni. Analoga scelta è stata fatta per la discussione sullo Jus Soli, accantonata in attesa di “tempi migliori” per puro calcolo elettoralistico. Va bene cosi alla sinistra renziana ma anche alla destra fascista e xenofoba che dal permanere di tale condizione trae linfa per la propria campagna elettorale. L’Italia continua a essere un paese in guerra – come ha puntualmente denunciato Gino Strada – e nessuno dei partiti impegnati nella campagna elettorale fa sentire parole di denuncia contro questa palese violazione di uno dei punti fermi della nostra Costituzione, il ripudio della guerra per la risoluzione di conflitti tra popoli e nazioni. Partono i nostri soldati, questa volta verso l’Africa. Risolviamo tutto definendo tali azioni “missioni di pace” e ciò basta per rendere tutto lecito perfino la produzione nella nostra Isola di bombe da destinare ai belligeranti. A noi, o meglio a molti di noi, sembra interessare soltanto la conclusione della campagna elettorale e andare al voto. Tutto concorre a farci credere che questo sarà il nostro unico scopo di vita per le prossime settimane. Circolano con abbondanza i soliti e poco attendibili sondaggi che ci dicono perfino quale sarà il risultato del voto con un largo anticipo. Votare è bello, votare è giusto, votare é doveroso, non si ammettono obiezioni in proposito. L’informazione nel suo complesso e quella televisiva in particolare, insistono su questo, stanno sulla notizia, dando per scontato che l’unico comportamento possibile, quello atteso, sarà il voto. Poco ci si sofferma sul fatto che un buon trenta per cento degli elettori (forse anche più) non andrà a votare esercitando un diritto di scelta legittimo almeno quanto quello al voto. (segue)
Usa – Cina, condominio del mondo. La Russia bussa per entrare.
Gli interessi che legano a “doppio filo” gli USA e la Cina
di Gianfranco Sabattini*
L’ordine mondiale, almeno nel momento attuale, sembra non soffrire di alcun pericolo riguardo alla sua stabilità; ciò, per via del fatto che le due massime potenze economiche globali, USA e Cina, non hanno interesse, per vari motivi, a deteriorare i loro rapporti. La Cina è impegnata sul fronte interno per rimediare ai profondi squilibri, approfonditisi malgrado l’impetuosa crescita sperimentata negli ultimi decenni. La stabilizzazione dei risultati conseguiti è però strettamente legata alla possibilità di poter continuare ad espandere le proprie esportazioni verso il resto del mondo. Inoltre, come gli Stati Uniti, la Cina ha interesse a risolvere il problema della minaccia nucleare rappresentata dalla politica di Pyongyang, per garantire la stabilità dei traffici internazionali, necessaria per supportate la crescita delle proprie esportazioni.
Con riferimento agli USA, per quanto siano molti i motivi di possibili conflitti che potrebbero insorgere con la Cina, il problema del necessario “congelamento” della minaccia atomica della Corea del Nord li ha riavvicinati alla potenza asiatica in quanto, a parere di Carlo Jean, esperto di geopolitica e di studi strategici (“USA e Cina: competitori legati a filo doppio”, in Aspenia n. 79/2017), per Washington è indispensabile il sostegno di Pechino nel gestire l’”affaire” nordcoreano, “anche per la riluttanza di Seul a contemplare l’uso della forza, malgrado le pressioni di Donald Trump – che è persino giunto a minacciare la cancellazione dell’accordo di libero scambio tra i due Paesi per indurre la Corea del Sud ad allinearsi con le minacce americane di attacco preventivo”.
Gli USA, però, non hanno sinora definito una stabile strategia per spingere la Cina a collaborare per la risoluzione del problema della denuclearizzazione di Pyongyang, mostrando poco interesse alla proposta avanzata da Henry Kissinger, consistente nell’impegno che gli USA dovrebbero assumere nei confronti della Cina, in caso di collasso della Corea del Nord, a ritirare le forze americane attualmente dislocate nella penisola coreana, a cessare le esercitazioni militari congiunte con le forze di Seul e, soprattutto, a non favorire ciò che la Cina teme al di sopra di ogni altra minaccia: la possibile riunificazione delle due Coree.
Tuttavia, a parere di Jean, anche se gli USA fossero disposti a dare seguito alla proposta di Kissinger, la Cina avrebbe valide ragioni per continuare a nutrire seri dubbi sulla volontà di Washington di rispettare gli impegni assunti; ciò, per varie ragioni, antiche e moderne. Innanzitutto, perché la Cina non è, com’è noto, tanto disponibile a dimenticare i torti subiti, anche se lontani nel tempo, come quello che gli USA hanno “consumato” ai suoi danni, in occasione degli accordi di Versailles del 1919, allorché hanno promesso al Giappone i territori cinesi occupati dagli Stati europei. In secondo luogo, perché buona parte delle politica internazionale dell’amministrazione Obama è stata condotta col preciso intento di contenere la continua espansione internazionale degli interessi cinesi, cui ha fatto seguito la campagna presidenziale del 2016, nello svolgimento della quale Trump ha avuto modo di affermare che la Cina sottraeva posti di lavoro agli americani, “manipolando” la moneta e “barando al gioco” con la Corea del Nord. Infine, la diffidenza di Pechino nei confronti di Washington è alimentata dal fatto che il dibattito pubblico statunitense faccia trapelare che nei rapporti con la Cina persista il convincimento dell’esistenza della “Trappola di Tucidide”, evocante, al pari di quanto accaduto nei rapporti fra Atene e Sparta prima della guerra del Peloponneso, l’”inevitabilità di uno scontro fra la potenza egemone e una potenza emergente che ne insidi la superiorità”.
Non è detto però che sia destinata a materializzarsi la presunta inevitabilità di un conflitto armato o di una guerra commerciale; anzi sono molti, invece, i motivi che spingono le due potenze economiche globali a collaborare tra loro; a parere di Jean, fra questi, soprattutto da parte degli USA, vi è sicuramente la palese incapacità di “salvaguardare il ‘proprio’ ordine mondiale”, ma anche e soprattutto “la crescente consapevolezza di Washington di non poter gestire la questione nordcoreana senza il sostegno cinese”.
La propensione degli USA a collaborare con la Cina non è nuova, se si tiene conto del fatto che negli Stati Uniti, negli ultimi decenni, si sono affermate due “dottrine” contrapposte sulle relazioni con il grande Paese asiatico: la “dottrina Armitage” e la “dottrina Zoellick”. La prima, che trae il nome da Richard Armitage, consulente del Ministero della difesa americana ai tempi di Bush padre, sostiene l’inevitabilità di un conflitto e la necessità di contenere Pechino, sia sul piano economico che su quello strategico; la seconda, che trae il nome da Robert Zoellick, vice Segretario di Stato ai tempi di Bush figlio, sostiene, al contrario, l’essenzialità della Cina nel condividere, con gli Stati Uniti, le “responsabilità della conservazione del nuovo ordine mondiale”.
Questa seconda dottrina prevede la possibile gestione di tale ordine in regime di duopolio; la ragione che la ispira sta nell’assunzione della complementarità delle due economie, nella convinzione da parte americana che la Cina “non possa mai competere con gli Stati Uniti in una guerra commerciale, né che mai costituirà una seria minaccia militare agli interessi americani nel mondo, e neppure nel sistema Asia-Indo-Pacifico”. La dottrina Zoellick trova conforto nel fatto che, dopo il suo inserimento nell’economia mondiale e il particolare sviluppo dei comparti produttivi manifatturieri, la Cina ha reso la propria economia dipendente dal mercato mondiale e dalla disponibilità di grandi infrastrutture (quali sono le vie della seta in fase di realizzazione, con l’attuazione del progetto BRI-“Belt & Road Iniziative”) attraverso le quali importare le materie prime delle quali necessita e per esportare i propri manufatti.
Contrariamente alle tendenza protezionistiche attuali degli Stati Uniti, la Cina sarà interessata ad integrare sempre di più la propria economia nel mercato globale, diventando il principale sostenitore della globalizzazione e del multilateralismo economico, occupando il vuoto creato dall’attuale amministrazione americana, “nel dare priorità all’’America First’, rispetto alla leadership mondiale, che era stata l’obiettivo costante di Washington dopo il secondo conflitto mondiale”. A parere di Jean, la Cina persegue i propri obiettivi, ricorrendo in modo esclusivo a un “soft power”, in sostituzione di quello americano fondato sui “principi”, che le consente di accreditare le propria politica commerciale in termini pacifici; fatto questo che le permette anche di porre, sempre più nettamente, la propria politica commerciale mondiale in alternativa a quella americana.
Secondo Jean, alla base della disponibilità di Washington a tollerare la continua espansione commerciale della Cina, e a consentire la prosecuzione della realizzazione delle grandi vie della seta, potrebbe esservi anche l’obiettivo degli USA di contenere la concorrenza della Russia nei Paesi dell’Asia centrale, che Mosca considera ricadenti all’interno della propria esclusiva zona di influenza. Per altro verso, l’interesse della Cina a collaborare con Washington potrebbe essere giustificato dalla necessità di attenuare lo stato di tensione causato dalla trasformazione della Corea del Nord in potenza nucleare. Ciò perché il governo cinese non possiederebbe il “livello di influenza e capacità di pressione su quello nordcoreano che gli Stati Uniti le attribuiscono”; ragione, quest’ultima, per cui la Cina, sempre in funzione della conservazione di stabili condizioni di pace nell’area del Pacifico, tende ad affievolire gli “intenti punitivi di Washington ai danni di Kim Jong-un, ma anche per evitare che a trarne vantaggio possa essere la Russia, che approfittando dell’instabilità strategica che il perdurante stato di tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord potrebbe offrirle, anche solo come “possibile mediatore”, sebbene i suoi rapporti commerciali con la Corea del Nord siano del tutto trascurabili.
Le considerazioni sinora svolte sono di per sé sufficienti a lasciar prevedere l’interesse degli USA e della Cina ad approfondire la collaborazione economica, senza che ciò possa essere ostacolato dagli effetti del deficit commerciale e dell’indebitamento estero degli Stati Uniti. A parere di Jean, sia il deficit commerciale che l’indebitamento estero, e soprattutto il fatto che la Cina ne possieda una consistente quota, non possono compromettere l’interesse alla reciproca collaborazione. Ciò perché – afferma Jean – la competizione strategica e commerciale e la possibile manipolazione delle monete non “avvengono nel vuoto: sono inseparabili dalla geopolitica, dalla lotta politica interna e dagli equilibri economici e militari globali. Inoltre, lo scarso “interesse di Trump per i diritti umani”, tradizionale motivo con cui le precedenti amministrazioni americane erano solite giustificare in parte l’aggressività della loro politica estera, tende ad avvicinare ancora di più USA e Cina nella collaborazione sul piano della politica commerciale globale. Malgrado le minacce protezionistiche del nuovo presidente americano, lo scoppio di una guerra commerciale, almeno nella fase attuale, appare plausibilmente del tutto improbabile, in quanto le sue conseguenze sarebbero disastrose per entrambe le due superpotenze.
Concludendo, Jean è del parere che le relazioni fra Stati Uniti e Cina non siano destinate, almeno per ora, a deteriorarsi; sarà, infatti, “la politica interna, più che la geopolitica, a determinare il futuro dei rapporti fra Washington e Pechino”; per cui le preoccupazioni da molti avanzate “circa l’aumento della potenza militare cinese e il sorpasso del PIL americano da parte di quello cinese sono in gran parte ingiustificate”.
I problemi interni che la Cina dovrà affrontare per diminuire gli squilibri territoriali e sociali saranno di enorme portata. A tal fine, essa dovrà affrontare un’incisiva ristrutturazione economica, destinata ad avere “profondi riflessi sulle relazioni con gli Stati Uniti e con il resto del mondo”, non solo per l’intento, che sicuramente non vorrà abbandonare, di voler continuare a conservare un sistema economico liberista, per quanto gestito da un sistema politico fortemente centralistico ed autoritario, ma anche perché gli accresciuti squilibri territoriali e sociali non mancheranno di creare condizioni di instabilità, che varranno ad ostacolare la politica inaugurata da Xi Jinping. Questi, infatti, pur avendo rafforzato il proprio potere e quello del Partito Comunista Cinese, vuole aprire alla Cina una “nuova era”, dopo quella della liberalizzazione dell’attività economica voluta Deng Xiaoping; a tal fine, Xi avrà bisogno di stabilità, non solo interna, ma anche internazionale; pena la mancata possibilità di perseguire, entro il 2050, l’obiettivo di fare della Cina la più grande potenza economica mondiale.
La realizzazione dell’obiettivo renderà anche irrinunciabile l’approfondimento della collaborazione con gli USA; da un lato, perché sarà necessario il supporto del mercato interno statunitense per perseguire con successogli obiettivi interni e internazionali; da un altro lato, perché, assieme agli USA, la potrà meglio contenere, quantomeno in una posizione di stallo, la situazione critica dei rapporti con la Corea del Nord. Tuttavia, se la prospettiva di un continuo approfondimento della collaborazione tra gli Stati Uniti e la Cina può salvaguardare la conservazione di condizioni di stabilità e di pace a livello globale, non è privo di preoccupazioni il fatto che dal nuovo “condominio del mondo USA-Cina” sia estranea la Russia, proprio per questo propensa, come molti affermano, a “pescare nel torbido”, ovvero a creare situazioni di crisi, per trarne vantaggio.
Vien fatto di pensare che l’atteggiamento russo a livello internazionale, non sia la conseguenza di una politica premeditatemene aggressiva ai danni del resto del mondo, quanto l’esito degli effetti ereditati dal passato regime; quest’ultimo, avendo privilegiato costantemente l’industria pesante, ha impedito, dopo il crollo dell’URSS un processo di riconversione della struttura produttiva che si integrasse progressivamente nel mercato mondiale dei prodotti dei comparti produttivi leggeri, così come invece ha fatto la Cina. Oggi, perciò, alla Russia non resta che fare affidamento sulle esportazioni di materie prime, prevalentemente energetiche, che la estraniano dal mercato globale che conta, dove la Cina occupa una posizione dominante.
Il fatto che la Russia nella sua politica commerciale mondiale usi a volte la natura particolare delle sue esportazioni come strumento di ricatto può indurre a farla percepire come aggressiva e propensa a “pescare nel torbido”; per altro verso, però, il possibile fraintendimento dell’uso delle esportazioni, vale ad affermare la necessità che, al pari di quanto avvenuto all’indomani del crollo dell’URSS, i Paesi che l’hanno “aiutata” si adoperino per favorire una maggiore diversificazione della sua produzione nazionale, per supportare una sua crescente integrazione nel mercato mondiale. Ciò nell’interesse di tutti, per la conservazione di uno stabile ordine mondiale in condizioni di pace.
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* Anche su Avanti online
Oggi mercoledì 21 febbraio 2018. X Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale. Le migrazioni: Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare
Associazione di Cooperazione Internazionale
Centro Studi di Relazioni Industriali dell’Università di Cagliari- Fondazione Anna Ruggiu onlus.
Nell’ambito del progetto: Verso la parità di genere: donne nella storia, nelle istituzioni, nel diritto e nella società.
X Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale
Le migrazioni: Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare
6° giornata: 21 febbraio 2018,
dalle ore 15 alle ore 19
LE MIGRAZIONI GUARDANDO AL FUTURO
Interventi
Lectio magistralis
- Sami Naïr,
docente di Scienze Politiche e Direttore del Centro mediterraneo Andalusì dell’Università di Siviglia,
“La teoria del cosviluppo”
- Tavola rotonda finale
[segue programma completo]
Oggi mercoledì 21 febbraio 2018
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Sviluppo locale e coinvolgimento diretto delle popolazioni
21 Febbraio 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Ieri assemblea coi candidati del NO. Appuntamento al 5 marzo per iniziare la campagna contro la legge elettorale-truffa regionale
21 Febbraio 2018
Red su Democraziaoggi.
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