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La rigenerazione di beni e spazi urbani
La rigenerazione di beni e spazi urbani: il nuovo volume a cura di Francesca Di Lascio e Fabio Giglioni
Filippo Maria Giordano – 15 gennaio 2018, su LabSus.
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LabSus da comunicazione della recente pubblicazione del volume curato da Francesca Di Lascio e Fabio Giglioni su La rigenerazione di beni e spazi urbani. Contributo al diritto della città, edito da il Mulino nella collana “Percorsi” (2017). Il libro sarà presentato il 30 gennaio alle ore 16.30 presso l’Instituto Luigi Sturzo a Roma, in occasione del Convegno “La rigenerazione delle città“.
Popolo che da sempre…
Popolo che da sempre stai sulla breccia
incazzato da diecimila anni e più
calpestato e diviso
fottuto e deriso
ma quante volte non hai tenuto più, e a testa bassa
ti sei buttato
il baraccone tutto in aria l’hai mandato
e quante volte teste bastarde
ai padroni hai tagliato.
Ma il padrone senza aspettare pasqua è sempre
resuscitato.
Alleluia!
Sempre è tornato.
Alleluia!
Da capo, un’altra volta oh! Miracolo è tornato!
Alleluia!
Con capriole e blandizie
promesse e sgambetti
con preti e prefetti!
Alleluia!
Riforme e buffetti
con giudici e poliziotti
sempre da capo, il padrone è tornato!
Alleluia!
Com’è che c’è riuscito?
Il trucco c’è ed è risaputo,
di sta storia
cerchiamo una volta di capire perché,
insieme cerchiamo almeno una volta di capire il perché
di scoprire il trucco dov’è.
“In quale tempo accade il ‘ma’ del tempo sperato”. Quattro soglie oltre le quali c’è la morte o la vita: la guerra privatizzata, l’esodo dei migranti, la de-creazione della terra, l’uscita dalla cristianità
Le relazioni del 2 dicembre 2017 all’assemblea di Roma. Pubblichiamo, tratta dal sito, quella introduttiva di Raniero La Valle [disponibile anche il video-audio, curato da Radio Radicale].
PER IL TEMPO CHE VIENE UN NUOVO “NOMOS DELLA TERRA”
di Raniero La Valle
1 . Noi non abbiamo promosso questa assemblea solo perché volevamo dare continuità e futuro a questa nostra meravigliosa aggregazione che abbiamo chiamato “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. Al contrario l’abbiamo convocata perché volevamo riconoscere una discontinuità. Sentiamo e vediamo infatti che un grande mutamento è in corso.
Come molti ormai hanno detto, noi non siamo in un’epoca di cambiamenti, ma aun cambiamento d’epoca. Ebbene, noi siamo qui per capire e prenderci la responsabilità di stare in mezzo a due epoche: il che vuol dire che stiamo tra una fine e un principio.
Una fine che incorpora un principio
Però la cosa non è così semplice, e nemmeno è così tragica, come se anzitutto dovessimo vivere una fine.
La verità è che noi siamo a una fine che incorpora un principio. Non c’è prima la fine e poi il principio. La fine, la discontinuità di cui parliamo non è un’interruzione, un black-out, è un passaggio, ossia, per dirla con una lingua antica, l’aramaico, è un pasah, per dirla in ebraico è pesach, per dirla in italiano è pasqua. Noi non stiamo in mezzo tra una fine e un principio, in terra di nessuno, né di là né di qua. Noi siamo dentro la fine e dentro il principio, i quali perciò dipendono anche da noi.
Dove sta veramente il cambiamento
2. Perciò prima di tutto dobbiamo discernere dove sta veramente il cambiamento. Perché non tutto ciò che muta è un vero cambiamento. Come dice il Concilio nella Gaudium et Spes (n. 10) sotto tutti i cambiamenti ci sono delle cose che non mutano (affirmat Ecclesia omnibus mutationibus subesse quae non mutantur).
Prendiamo per esempio la tecnologia: è veramente lei che fa cambiare il mondo, per cui a ogni balzo in avanti della tecnologia nulla è più come prima? Certo, la tecnica ci assoggetta al suo dominio, e se l’automazione soppianta il lavoro umano è una tragedia, se si fabbrica l’uomo in bottega come Geppetto ha fatto con Pinocchio si va nel disumano, e lo scatenarsi del nucleare sarebbe la fine. Ma molte conquiste della tecnologia non sono vere novità. Il treno è sempre lo stesso, da quando è stato inventato, i cavalli vapore si chiamano così perché ci fanno correre come i vecchi cavalli ferrati, le macchine sono la riproduzione delle carrozze di ieri, gli aerei si tengono sulla portanza dell’aria come l’arca sulle acque del diluvio o le navi sul mare, i missili sono la gigantografia del cannone; io ho vissuto mezza vita senza computer e l’altra mezza col computer, ma non per questo ho vissuto due vite.
Bisogna saper riconoscere i veri cambiamenti. Il povero Renzi ha fallito tutta la sua impresa politica perché credeva che il cambiamento stesse nel fatto che nel telefonino non si possono mettere i gettoni.
Perciò dovremmo fare l’inventario di ciò che veramente finisce, almeno delle cose più decisive, perché ciò che ne consegue non sia la fine di tutto, non sia la distruzione ma la vita, non sia la dissoluzione di ogni diritto ma l’avvento di ogni giustizia, perché il nuovo che viene non sia l’anomos, il senza-legge, come lo descriveva san Paolo, ma sia invece chi agisce per un mondo più umano.
È questo il punto in cui si inserisce il katécon, ossia la resistenza o il freno che deve far sì che la fine non sia apocalittica. Noi infatti non siamo qui ad annunziare l’apocalisse. Il vangelo milita contro l’apocalisse, contro la scure posta alla radice dell’albero (Mt. 3, 10). Infatti il katécon paolino, cui si intitola il nostro appello a resistere per creare un mondo non genocida “patria di tutti, patria dei poveri”, si inserisce in un contesto messianico che annuncia la salvezza, e nella nostra tradizione, pur frequentata da tanti falsi profeti, c’è un solo messia, che è Gesù, che appunto perciò è chiamato il Cristo. Ma perché il suo giorno venga, bisogna passare attraverso il katécon. Noi crediamo che papa Francesco abbia messo in campo questo katécon. Esso però non è un contropotere politico, come molti hanno creduto, fino a Cacciari; sono invece i popoli stessi, sono i martiri e i santi, siamo anche noi che lo dobbiamo attivare. Questo è il senso dell’appello che parte in questi giorni anche da qui, e va per il mondo.
Pertanto io proverò ora a estrarre dalla marea dei cambiamenti quattro cose che veramente finiscono e su cui massimamente, a mio parere, si gioca l’alternativa tra una fine che potrebbe essere tombale e un nuovo principio di cui forzare l’aurora.
Finisce la riserva di guerra
3. 1 La prima cosa che finisce è una delle più vetuste istituzioni dell’umanità nella forma in cui l’abbiamo conosciuta e praticata finora; parlo della guerra come istituzione perversa ma pur sempre suscettibile di essere governata, controllata e perfino ripudiata dagli Stati. È grazie a ciò che la guerra più terribile, quella nucleare, siamo riusciti a fermarla nel 900. Ora questa guerra che noi conosciamo, e che abbiamo criticato, combattuto, esorcizzato e perfino messo fuori legge nella Carta dell’ONU, aveva una caratteristica che essenzialmente la identificava, che la distingueva da qualsiasi altra violenza, rissa o strage; la caratteristica era quella di appartenere allo spazio pubblico, di ricadere sotto una responsabilità pubblica, di essere combattuta con armi pubbliche; in ciò essa si distingueva dai delitti comuni, dalla criminalità organizzata, dalle mafie, dalle camorre, dai narco-traffici. Per dirla con una definizione folgorante, che fu data da Alberico Gentili alle origini del diritto internazionale, la guerra è una “publicorum armorum iusta contentio”, cioè è una legittima contesa che si combatte con armi pubbliche. Che le armi siano pubbliche è dunque ciò che condiziona che una guerra sia legittima ed eventualmente possa farla considerare giusta.
Oggi sappiamo che la guerra non può essere giusta, anzi per la Chiesa, a partire dalla Pacem in terris di papa Giovanni, la guerra è addirittura aliena dalla ragione, fuori della ragione, come è fuori della ragione l’attuale minaccia di una guerra nucleare, per sventare la quale è più che mai necessario che tutti siano vincolati al trattato dell’ONU per l’interdizione totale delle armi nucleari. Il problema però è che oggi la guerra non è più quella di ieri, di cui ancora si poteva discutere se fosse giusta o ingiusta, secondo ragione o fuori della ragione. È caduta infatti la riserva di guerra alla sfera pubblica. Oggi la guerra si combatte fuori del quadro pubblico, senza una responsabilità pubblica, e si combatte con armi private.
La guerra è privatizzata perché gli Stati stessi la combattono con combattenti privati, mercenari, contractors, milizie che si trovano sul mercato (il giro d’affari stimato nel 2003 era già sui 100 miliardi di dollari all’anno). Non a caso sono stati aboliti gli eserciti di leva.
E le armi sono private perché sono prodotte, commerciate e necessariamente consumate e usate per il profitto privato, o per un profitto insieme pubblico e privato ma secondo le leggi del profitto privato; è questa la ragione per cui papa Francesco insiste tanto, prima ancora che sulla guerra, sulle armi che inevitabilmente la provocano.
Ma poi le armi sono private perché oggi sono armi i corpi stessi dei militanti, che solo mutandosi in armi si fanno visibili, rilevanti per gli altri, e uccidono uccidendosi; allora ogni cosa in mano a loro può diventare un’arma imprevedibile e impropria, un camion, un furgone, una bombola di gas, una pentola a pressione piena di chiodi e di tritolo, uno spray, una cintura esplosiva, o un mitra della collezione di casa. E pensate che cosa sarebbe se armi nucleari, che oggi sempre più sono fabbricate non per dissuadere ma per essere usate, uscissero dal controllo pubblico, e cadessero in mani anarchiche e private.
Perciò questa guerra non la si può oggi in alcun modo controllare né sventare, è una guerra mondiale, ma una guerra mondiale a pezzi, come dice il papa, che è un ossimoro, è ubiquitaria, pandemica, arriva senza preavviso, senza possibilità né di allarme né di difesa.
E perciò se la vecchia guerra finisce, non si può ammettere che sia sostituita da questa nuova. E c’è un solo mezzo per bloccare la guerra privata e le armi private, ed è quello di sopprimere fermamente e per sempre la guerra pubblica, non solo quella nucleare, nonché frenare la produzione e abolire il commercio delle armi destinate agli Stati, che sono legittimazione e modello delle armi private e della trasformazione di ogni cosa comune in armi improprie e private.
Finisce il mondo colombiano
3. 2 La seconda cosa che finisce è il mondo colombiano; quel mondo cioè in cui i popoli, intesi come Indi, stavano fermi sulla loro madre terra e le caravelle andavano a scovarli e assoggettarli. È allora che fu proclamato lo ius migrandi , ma ad uso esclusivo degli spagnoli; e se poi altri popoli furono fatti migrare, lo furono come schiavi, e fu quella la tratta degli schiavi. Oggi invece i popoli si muovono, premono per uscire dagli argini dei loro dolori come fiumi in piena, e se riescono a partire lo fanno come clandestini, e questa è la tratta degli esuli. Ma una volta che i migranti sono passati, non intercettati da navi e uomini armati, non inabissati nel mare, non fermati da reticolati e da muri, sono dei fuorilegge, rei per il solo fatto di esistere, senza diritti e senza dimora, sans papier, come dicono i francesi, senza carte; sono dei nessuno da imprigionare o da sfruttare.
Le democrazie che ciò fanno non sono più democrazie, perché in Stati di diritto tengono masse intere di persone fuori del diritto, giuridicamente invisibili, sicché nello stesso territorio c’è un popolo e un non-popolo.
Ma ad essere negato non è solo il popolo dei migranti. Ci sono altri popoli che oggi sono considerati non-popolo. Si pensi alla Palestina, dove una legge in discussione alla Knesset dispone che solo uno dei due popoli inclusi nello Stato di Israele abbia il diritto all’autodeterminazione, l’altro, quello arabo e palestinese, non lo ha. Oppure si pensi ai Rohingya negati nel Myanmar, di cui il papa è andato l’altro giorno a rivendicare il diritto di vivere nella terra che considerano la loro casa, e di cui infine ha pronunciato il nome, dicendo loro che “la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”.
Dunque ci sono popoli e non-popoli. Ma l’operazione per cui un popolo per gli altri non deve esistere, deve rovesciarsi in non-popolo, deve essere tolto alla vista, si chiama genocidio.
Finisce l’equilibrio delle acque
3. 3 La terza cosa che finisce è l’equilibrio delle acque. Questo è un potente simbolo del cambiamento perché come è noto quando si rompono le acque allora si nasce, viene al mondo una nuova creatura. Però se si rompono le acque e il nuovo non nasce, è una catastrofe. Oggi si sciolgono i ghiacci dei Poli, si alza il livello dei mari, erompono i fiumi messi sotto terra, si scatenano le acque degli uragani e degli tsunami, molte isole-Stati hanno fatto un’alleanza tra loro perché già sanno che saranno sommerse. Noi sappiamo che la separazione delle acque dall’asciutto è il principio stesso della creazione, o che essa sia avvenuta in un “fiat”, o che sia frutto di un’evoluzione. Dice il Salmo 23 che il Signore “ha fondato la terra sulle sue basi, quando l’oceano l’avvolgeva come un manto, le acque coprivano le montagne; e lui pose un limite alle acque, non lo passeranno, non torneranno a coprire la terra”. E dice il Signore a Giobbe di aver messo un chiavistello al mare ordinandogli: “Fin qui giungerai e non oltre, e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde” (Gb, 38, 10-11). È grazie a questa stabilità delle acque che gli uomini hanno costruito con fiducia città sul mare e hanno stretto amicizia con esso. Ma oggi viene passato il limite, salta il chiavistello; dunque si tratta di una de-creazione, che non è di Dio né dell’evoluzione ma è nostra, perché non siamo stati buoni a custodire il clima, a provvedere alla salvaguardia del creato.
Per questo Francesco ha mandato una lettera, un’enciclica, “Laudato sì”, non solo ai cristiani o a quelli di buona volontà, ma “a ogni persona che abita questo pianeta”. Perché la vera Chiesa è l’umanità intera, ed è questa che dobbiamo realizzare. E perché quello che è in atto è un ecocidio, e noi lo dobbiamo fermare.
Finisce il regime di cristianità
3.4 La quarta cosa che finisce, anzi che è finita, è il regime di cristianità, cioè quella versione del cristianesimo che ha preso la forma della cristianità e che coincide con l’età costantiniana della Chiesa.
È finita cioè la formula della religione intesa come un monoteismo che fonda un’unità politica, formula che passa per Costantino, Eusebio, Teodosio, arriva a Carlo Magno e nell’ultimo millennio diventa la grande pretesa della Chiesa di essere lei la sovrana sulla terra, la sostituta di Dio, di essere lei quella che realizza l’unità organica tra regime politico, religione e fede. Questa pretesa apparteneva a una teologia che non a caso partiva con Ario, cioè dalla negazione del dogma trinitario, perché il modello era: un Dio un imperatore, una terra, una fede, per cui, come diceva lo storico Eusebio, «il Dio unico troneggia come il Gran Re nella sua dimora reale, nel suo palazzo celeste. Sulla terra lo rappresenta Costantino». Ma ciò non si ferma a Eusebio. Nel suo saggio su “L’idea di Europa”, il grande filosofo novecentesco Husserl scrive che la modernità è uscita da un tempo, il Medioevo, in cui si era costituita “un’unità di cultura gerarchica” tale per cui la scienza era normata dalla fede, e la Chiesa si poneva come “una comunità sacerdotale sovranazionale organizzata in modo imperialistico, quale portatrice dell’autorità divina e organo deputato alla guida spirituale dell’umanità”. Secondo lo storico viennese Fiedrich Heer, c’è un arco che va da Costantino a Hitler, che passando da Carlo Magno, patriarca dello “Stato totalitario europeo”, attraverso la riforma gregoriana di Gregorio VII arriva fino al Novecento. E secondo Erich Przywara, il teologo gesuita tedesco citato dal papa, nell’età costantiniana il cristianesimo invece di annunciarsi come la novità di un rapporto – di “uno scambio” attraverso la croce – tra Dio e l’uomo, si sviluppò in «una nuova “antica alleanza”», che ripeteva quella che era stata propria degli Ebrei, ma estesa a nuovi eletti, ciò da cui scaturì l’idea di «una “terra razionale e divina” secondo legge e ordine» che ebbe diverse ricadute sia luterane che cattoliche, anglosassoni e perfino marxiste.
Questa però è la cristianità, non è il cristianesimo,
Tutto questo finisce con la modernità e con Porta Pia: però ancora dopo la seconda guerra mondiale ha corso la versione maritainiana di una cristianità che si realizza con altri mezzi, ma il cui fine è sempre quello, è la società cristiana; la regalità di Dio è trasposta nella regalità della Chiesa, che istituisce l’umanesimo integrale. E questo arriva fino al Concilio Vaticano II. Io ricordo benissimo che allora si ripeteva che si stava uscendo dall’età costantiniana, ma di fatto, come dirà Dossetti, il Concilio stesso è rimasto dentro quella idea di cristianità. La grande dimostrazione di debolezza data dalla Chiesa dopo il Concilio e nella fase della sua ricezione, aveva la sua causa proprio nel fatto che essa non era riuscita a venire fuori da quel modello, a metabolizzarne la fine.
Ora l’attuale papato formalizza questa fine, e dichiara esso stesso che la cristianità è finita; ma questo non vuol dire che è finito il cristianesimo o l’idea stessa di Dio; esso va ripreso da un’altra parte. Il cambiamento epocale è questo. Gli atei devoti se ne sono accorti prima di noi, e sono furibondi. Finisce un’epoca di quasi due millenni, finisce l’idea di una istituzionalizzazione politica della città di Dio sulla terra. E il papa che fa? Quando gli hanno offerto il Premio Carlo Magno, e i leader europei sono venuti a Roma a portarglielo, Francesco ha fatto un discorso nel quale quella corona che un suo predecessore aveva messo sul capo di Carlo Magno l’ha rimessa idealmente nelle mani del popolo, l’ha ridata a Cesare, all’umanità, alla politica. Ancor prima papa Francesco all’Onu aveva affermato “la sovranità del diritto” intendendo per diritto non il “diritto naturale”, ma il diritto positivo che sta scritto nelle Costituzioni.
Il papa dunque prende atto che c’è una forma religiosa che è finita. E in compenso ha la forza e la capacità di dar vita a una nuova predicazione cristiana. La predicazione nasce da una teologia, da una liturgia, da una lettura della Scrittura. Così infatti si era formata la cristianità, a partire da una teologia pervasa da una certa immagine di Dio, che era il Dio della potenza, del giudizio, della condanna, che aveva bisogno del sacrificio del Figlio per essere soddisfatto dell’offesa ricevuta. È dunque a partire da un nuovo annuncio di Dio, che la cristianità si converte in cristianesimo. Questo papa dice tante cose che gli altri non dicevano, ma soprattutto ci sta offrendo un altro annuncio di Dio. Quando egli insiste sulla misericordia non fa solo allusione a uno dei tanti nomi di Dio, a un predicato come gli altri del nome divino, ma ne fa la sostanza della sua predicazione, della sua catechesi. E ci parla di un Dio nonviolento. Un documento che spesso cito, firmato dall’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, card. Muller, e preparato durante il pontificato di Benedetto XVI, dice che il Dio violento è il frutto di un fraintendimento umano. Ciò avviene anche nella Bibbia dove, dice il documento, ci sono pagine “per noi credenti molto impressionanti e difficili da decifrare”, ciò che accade perché la Rivelazione non è avvenuta come per trasmissione di un fotogramma fisso, ma è avvenuta nel corso di un lungo processo, che è documentato dalla Scrittura, nel corso del quale c’è una purificazione della fede. Pertanto le immagini di un Dio violento ritraggono un Dio che non esiste; il Dio della guerra dice il papa, non esiste. Quello che resiste è il Dio che sulla croce si scambia con l’uomo, che dell’umano prende su di sé la gioia e la speranza, il lutto e il dolore.
Quattro vie alternative
4. Dunque per riepilogare abbiamo quattro soglie ciascuna delle quali si apre su due scenari possibili.
4.1 La prima soglia è la fine della riserva di guerra. Lo scenario che immediatamente ne deriva sarebbe la guerra di tutti contro tutti, l’uccidibilità generalizzata, e quindi la spirale del genocidio.
L’alternativa è attuare finalmente il sogno millenario delle lance convertite in falci, del “mai più la guerra”; l’alternativa è realizzare questa prima e costitutiva somiglianza con Dio: se Dio è non violento, lo siamo anche noi, se il Dio della guerra non esiste, non deve esistere neanche la guerra. È una rivoluzione.
4.2 La seconda soglia è la fine del mondo colombiano, del mondo a compartimenti stagni, dove ciascuno resta dove sono le sue culle e le sue tombe, il mondo di cui un tempo si diceva: cuius regio, eius et religio: una terra, una religione, uno Stato.
Il primo scenario che si apre oltre questa uscita è che il popolo dei migranti, forse 250 milioni nei prossimi anni, venga respinto, affondato, imprigionato, tolto alla vista, e questo è genocidio.
L’alternativa è che si statuisca e si regoli il primo dei diritti umani proclamato agli albori della modernità, lo ius migrandi, cioè il diritto di ognuno di piantare le sue tende, il suo lavoro e la sua vigna, insomma di “eleggere” il suo domicilio, dove lo porta la speranza di realizzare la sua vita. Allora ogni sistema politico, economico e sociale dovrebbe attrezzarsi e cambiare, per rispondere alla nuova situazione di fatto. Perché come dice l’art. 3 della nostra Costituzione bisogna cambiare le condizioni che di fatto impediscono l’eguaglianza e il pieno sviluppo della persona umana.
4.3 La terza soglia è la rottura dell’equilibrio delle acque. Un suo esito prevedibile è l’ecocidio, la rottura del patto con la terra, il trionfo dell’anomos, del mistero dell’anomia, come lo chiama la seconda lettera ai Tessalonicesi.
Qui allora l’alternativa è un nuovo nomos della terra, dove nomos non è solo la legge, significa l’ordine complessivo della società, anzi, secondo i greci, da cui nascono questa parola e questo concetto, è l’ordine della società conforme all’ordine del cosmo. Il nomos dell’Occidente, come l’ha descritto Carl Schmitt, consiste in un ordine fin dal principio identificato e finalizzato al ciclo economico e definito dalla sequenza appropriazione, divisione, produzione, una triade che, secondo Claudio Napoleoni, inevitabilmente sfocia nel dominio. Quindi si tratta di ripartire dal principio, dal Sabato, come lui diceva, per dare un altro corso all’opera dell’uomo che nel sabato della creazione ha dato il cambio al lavoro di Dio. Si tratta di dar luogo “a un nuovo inizio”, come diceva la Carta della Terra citata dalla Laudato sì al n. 207. Ed un nuovo nomos potrebbe essere pensato così: invece dell’appropriabilità universale dei beni, che genera la scarsità, la condivisione che genera l’abbondanza, e insieme il lieto uso delle cose, secondo la lezione di san Francesco; non la sola proprietà privata e la spartizione ineguale delle risorse della terra, ma la tutela e la libera fruizione dei beni comuni, cioè non appropriabili da nessuno; non la crescita illimitata, ma un nuovo modo di produzione, di consumo e di vita; e infine un nuovo modo di coabitare, liberi ed eguali sulla terra, invece del dominio.
4.4 La quarta soglia è la fine della cristianità. Qui il primo scenario che ne potrebbe conseguire è l’ulteriore sviluppo del processo di secolarizzazione come ateismo di massa, ma allora si perderebbe la dolcezza di Dio.
L’alternativa è quella per cui è riunita questa assemblea, ed è di dare mente, cuore e gambe perché venga il tempo e sia questo, in cui non solo nei santuari nè a Gerusalemme, sia adorato il Padre in spirito e verità
Dunque queste quattro cose:
Interdizione della guerra, ius migrandi, nuovo nomos della terra, abbraccio al Padre in spirito e verità; sono quattro cose difficili, perché comportano che molte altre cose cambino con loro, le culture e le religioni, l’economia e la politica, ma non sono impossibili, sono nell’orizzonte del tempo che viene, del tempo a cui, col resistere agendo, dobbiamo aprire la strada. E non solo con le parole, con gli appelli, con le firme, che pure sono importanti ma, come ci ammoniva Bonhoeffer dal carcere di Tegel, “d’ora in poi penserete solo ciò di cui risponderete agendo”, e si potrebbe aggiungere: d’ora in poi spererete solo ciò che concorrerete a far accadere agendo.
Raniero La Valle
Oggi lunedì 15 gennaio 2018
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La Costituzione, tanti modi per violarla, un solo modo per difenderla: attuarla.
15 Gennaio 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Gli editoriali di Aladinews.
Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)
Notizie da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Newsletter n. 60 del 12 gennaio 2018
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Oggi domenica 14 gennaio 2018
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70 anni della Costituzione
14 Gennaio 2018
Sandra Bonsanti
[Democraziaoggi] Domani lunedì ricorderemo il 70° della Costituzione lunedi a Cagliari (ore 17 Sala Fondazione di Sardegna via S, Salvatore d’Horta 2). In vista di questo incontro pubblichiamo l’intervento Sandra Bonsanti al Convegno in ricordo della promulgazione Costituzione che il Comitato nazionale per la democorazia costituzionale ha tenuto a Roma al Palazzo della Minerva il 27 dicembre scorso.
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La Rivoluzione d’ottobre e le eresie interne
10 Gennaio 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
—————–elezioni: commenti—————
La corsa solitaria del Polo dell’Autodeterminatzione: un progetto nuovo che nasce con un metodo vecchio.
Vito Biolchini su vitobiolchini.it.
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Approfondimenti (dalla pagina fb del Progetto)
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Gli attacchi a papa Francesco, di cui non si sopporta il vangelo dei poveri, mirano a una restaurazione della Chiesa nella modalità della lotta e del potere. I critici sono contro Pietro perché ha abbandonato le vestigia del potere regale. Non amano la semplicità, adorano gli ermellini. Al fondo sognano il Sacro Romano Impero alla cui perdita non si sono mai rassegnati.
Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)
Notizie da
Chiesa di tutti Chiesa dei poveri
Newsletter n. 60 del 12 gennaio 2018
Cari Amici,
nella campagna elettorale appena iniziata si pone un problema di verità, come si pose in occasione del recente referendum costituzionale. Si è dato per scontato, da giornalisti degli studi televisivi, col supporto del filosofo di studio, che “tutti” dicono bugie, perché la campagna elettorale sarebbe il luogo delle favole, non della realtà effettiva. Ma se “tutti” dicono bugie, non c’è ragione di sceglierne alcuno: dunque gettare il fango della menzogna su tutti i politici e su tutto il momento elettorale della politica, significa militare per l’antipolitica, stornare dal voto gli elettori di cui pure si lamenta l’astensione, incoraggiare i populismi e quindi in sostanza, ancora una volta licenziata la politica, conservare l’attuale dominio dei poteri qual è.
Non a caso la previsione-speranza che emerge da gran parte dei talk show televisivi è che, non potendosi dopo le elezioni mettere insieme una fiducia a un governo, resti a governare a tempo indeterminato (un precario in meno!) un governo senza fiducia, cioè in pratica quello che c’è.
Di questo deficit di verità, imputato ai politici, peraltro i giornalisti non sono esenti, anzi proprio per il loro ruolo molti di loro, nell’accanimento con cui cercano di promuovere uno e distruggere altri, sono gli officianti ministri della menzogna.
Per esempio è una bugia dire che tutti promettono di abbassare le tasse; non tutti lo fanno, e in ogni caso bisognerebbe spiegare che si parla di due cose diverse: una cosa è abbassare le imposte per tutti, e un’altra è abolire una tassa. Nel primo caso si tratta di togliere risorse alla fiscalità generale fino a promettere un’aliquota del 15 % per tutti, cosa impedita dalla sacrosanta progressività del sistema tributario, non a caso prevista dalla Costituzione all’art. 53 non nel titolo dei “rapporti economici” ma in quello dei “rapporti politici”, perché ne va della democrazia e della Repubblica; nel secondo caso si tratta di agire su una tassa di scopo, con cui si pagano dei servizi, che per altissimi motivi lo Stato può prendersi a carico, come fa per la sanità garantita a tutti i cittadini; sarebbe questo il caso dell’abolizione delle tasse universitarie per assicurare a tutti, ricchi o poveri che siano, il diritto allo studio fino ai gradi più alti.
Ma un problema di verità si pone anche quando l’ISTAT dà i numeri dell’aumento dell’occupazione, intendendo per occupazione anche un lavoro di un’ora alla settimana, e in realtà si sono perdute un miliardo e duecento milioni di ore lavorative; come c’è un problema di verità quando ci si gloria della riduzione dei flussi migratori, mentre in questo inizio di gennaio vi sono già quasi 200 migranti morti o dispersi nel Mediterraneo centrale, quando nell’intero mese di gennaio dell’anno scorso i morti furono 254.
Un problema di verità si pone peraltro anche nella Chiesa. Qual è il vero significato delle incalzanti critiche a papa Francesco? Lo spiega il filosofo Massimo Borghesi in un’intervista a Andrea Tornielli che pubblichiamo nel sito. Il problema non sono i divorziati che finalmente possono fare la comunione; il problema è che gli oppositori del papa vogliono tornare alla Chiesa preconcilliare, alla Chiesa nemica della modernità, alla Chiesa di cristianità, alla Chiesa di lotta e di potere. Per questo sono così contraddittori: sono papisti, e screditano il papa; sono protestanti e negano la libertà della coscienza; sono tradizionalisti e combattono la Grande Tradizione; sono antimodernisti ma vorrebbero ripristinare il modernariato della Chiesa inchiodata al Vaticano I.
Della Grande Tradizione parte saliente è la tradizione biblica; un esempio di come recepirla ricomprendendone la lezione è un lontano discorso sull’antropologia biblica del non ancora cardinale Gianfranco Ravasi, che per il suo interesse pubblichiamo oggi nel sito. E’ una risposta al salmista che si chiedeva chi sono l’uomo e la donna perché Dio si curi di loro.
Aggiungiamo una notizia sui costi del viaggio del papa in Cile e in Perù.
A titolo di speranza riproponiamo infine il link al testo “L’amore come risposta alla crisi”.
Con i più cordiali saluti
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Un’intervista a Massimo Borghesi
VOGLIONO TORNARE ALLA CHIESA PRECONCILIARE
Gli attacchi a papa Francesco, di cui non si sopporta il vangelo dei poveri, mirano a una restaurazione della Chiesa nella modalità della lotta e del potere. I critici sono contro Pietro perché ha abbandonato le vestigia del potere regale. Non amano la semplicità, adorano gli ermellini. Al fondo sognano il Sacro Romano Impero alla cui perdita non si sono mai rassegnati
Andrea Tornielli
Oggi sabato 13 gennaio 2018
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La Costituzione, patto d’amicizia e di speranza
13 Gennaio 2018
Domenico Gallo
[Democraziaoggi] Mentre ci avviciniamo alla Celebrazione del 70° della Costituzione lunedi a Cagliari (ore 17 Sala Fondazione di Sardegna via S, Salvatore d’Horta 2), pubblichiamo le conclusioni di Domenico Gallo al Convegno in ricordo della promulgazione Costituzione che il Comitato nazionale per la democorazia costituzionale ha tenuto a Roma al Palazzo della Minerva il 27 dicembre scorso.
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Gli editoriali di Aladinews. Lavoro: nuove schiavitù. di Giannino Piana su Rocca.
Lo sciopero dei lavoratori di Amazon, che si è verificato alla filiale di Castel San Giovanni, vicino a Piacenza, lo scorso 24 novembre, il giorno di Black Friday simbolo degli affari, ha messo a nudo l’avanzare anche nel nostro Paese di una situazione che, concernendo un settore dell’attività commerciale destinato costantemente ad espandersi, non può che suscitare giustificato allarme [...].
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Le statistiche e la vita reale
UN PAESE CHE SOFFRE (dal sito www.chiesadituttichiesadeipoveri.it.
I dati dell’ISTAT in termini percentuali fanno cantare vittoria; ma i disoccupati sono 2.855.000, aumentano gli ultracinquantenni che lavorano per effetto della riforma Fornero, e cresce il precariato.
I cattolici e l’impegno in politica
Elezioni. Il mondo cattolico alla politica: puntare su giovani, sussidiarietà, famiglia [di Truffelli, Prosperi, Rossini, Costalli, Martinez, Poli, Goller, Battilana, Spanò, Serra]
Su Avvenire, By sardegnasoprattutto / 7 gennaio 2018/ Società & Politica
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Avvenire.it 7 gennaio 2018 . Movimenti e associazioni chiedono ai partiti meno slogan e più progetti concreti per dare prospettiva ai ragazzi. Fondamentali la formazione e una visione valoriale. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha battuto un colpo. A due mesi dal voto, nel messaggio di fine anno ha chiesto ai partiti «programmi realistici». Due parole, nulla di più. Ma il dibattito si è inevitabilmente acceso. Perché i cittadini sono stanchi di promesse elettorali. E perché chiedono, con sempre maggior forza, proposte concrete.
“Avvenire” ha deciso di interpellare prima i leader dei partiti che il 4 marzo chiederanno il voto agli italiani. Poi è intervenuto il Forum delle associazioni familiari che ha proposto a tutti la firma di un Patto per la natalità. Quindi è stata la volta delle parti sociali. Ai leader di sindacati e imprese abbiamo rivolto tre domande sulle loro priorità riguardo a occupazione, giovani e natalità. Le stesse che oggi, infine, abbiamo rivolto ad alcuni movimenti e associazioni cattoliche perché indichino al mondo politico, oltre a ricette pratiche, anche le linee valoriali, gli orizzonti e le attese del mondo cattolico alla vigilia della consultazione elettorale.
Le tre domande:
1) Nel messaggio di fine anno il presidente Sergio Mattarella ha indicato come priorità per il Paese le questioni dei giovani e del lavoro. Facendo appello alle forze politiche affinchè, nei programmi elettorali, avanzino su questi temi proposte realistiche e realizzabili. Raccogliendo tali indicazioni, quali sono, secondo lei, le ricette realizzabili che le forze politiche dovrebbero inserire nei programmi per favorire l’occupazione e lo sviluppo?
2) E come valorizzare la condizione dei giovani, anche per evitare il distacco delle nuove generazioni dalla partecipazione alla vita politica e sociale?
3) Un’altra emergenza, in parte collegata ai temi del giovani e del lavoro, è sicuramente quella della denatalità che colpisce il nostro Paese. Quali misure andrebbero proposte per favorire la formazione di nuove famiglie e le nascite? (Segue)
Oggi venerdì 12 gennaio 2018
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- Anche su Democraziaoggi.
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La Rivoluzione d’ottobre e le eresie interne.
10 Gennaio 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Gli editoriali di Aladinews. Tracce per un’economia verso il bene comune
L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto (John Maynard Keynes, da La fine del laissez-faire, del 1926).
di Luca Benedini, su Rocca
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Parlamentarie: fatto democratico o sceneggiata?
12 Gennaio 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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DIRITTI nuove schiavitù nel mondo del lavoro
Lo sciopero dei lavoratori di Amazon, che si è verificato alla filiale di Castel San Giovanni, vicino a Piacenza, lo scorso 24 novembre, il giorno di Black Friday simbolo degli affari, ha messo a nudo l’avanzare anche nel nostro Paese di una situazione che, concernendo un settore dell’attività commerciale destinato costantemente ad espandersi, non può che suscitare giustificato allarme. Le ragioni dello sciopero nei confronti del colosso di Seattle non sono soltanto rivendicazioni di carattere economico, ma chiamano anche (e soprattutto) in causa la richiesta di tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. L’aspetto peggiore della situazione è infatti costituito dalle condizioni di lavoro, che sembrano rappresentare un ritorno agli anni cinquanta del secolo scorso.
torna la catena di montaggio?
Ma, entrando più direttamente nel merito della questione, è importante prendere anzitutto in considerazione alcuni dati, che forniscono un quadro puntuale di quanto è avvenuto e sta avvenendo. La filiale della Amazon di Castel San Giovanni è una grande azienda, che conta attualmente circa quattromila lavoratori, metà a tempo indeterminato col badge blu e l’altra metà interinali, cioè precari. Si tratta di un’azienda in costante crescita del fatturato, con straordinari balzi in avanti – in cinque anni l’aumento è stato del 500% – che pratica a livello salariale condizioni anacronistiche, applicando soltanto il contratto nazionale senza un contratto di secondo livello e senza l’assegnazione del premio di produzione.
Al di là del trattamento economico, non in linea con i parametri oggi vigenti, a destare particolare preoccupazione sono soprattutto le modalità di esecuzione del lavoro, il cui ritmo si presenta ripetitivo e pesante. Lavorare in Amazon è una corsa quotidiana contro il tempo: l’attività lavorativa, che consiste essenzialmente nell’imballare gli articoli in vendita, nel sistemarli e nel prelevarli dagli scaffali del magazzino per inviarli ai clienti con una maratona quotidiana anche di venti chilometri, prevede che ogni dipendente segua un target, la cui media produttiva è stabilita sulla base del personale con maggiore anzianità di servizio. A ciò si aggiunge l’abolizione della pausa per il caffè e la fissazione di tempi contati per andare in mensa e in bagno: fattori questi ultimi che aggravano ulteriormente il disagio.
Si tratta, in definitiva, di una condizione psicologicamente stressante e fisicamente logorante – frequenti sono tra i lavoratori le patologie della schiena e della colonna cerebrale – la quale presenta somiglianze indubbie con la vecchia catena di montaggio, con un apparato tuttavia assai più sofisticato che consente un controllo immediato della rendita produttiva di ciascun lavoratore. Esiste infatti un sistema elettronico che permette di registrare, di volta in volta, ciò che si verifica, mettendo in grado il manager di conoscere quanto ciascuno produce e in quanto tempo, con la possibilità perciò di penalizzare chi non riesce a tenere il ritmo previsto.
la deriva dei diritti
Il caso Amazon non è, d’altra parte, unico. Si moltiplicano anche nel nostro Paese situazioni analoghe di società di distribuzione di prodotti on line (e non solo), dove i trattamenti stile anni cinquanta del secolo scorso, con turni di lavoro massacran- ti, con mansioni ripetitive e un clima pesante, nonché con condizioni salariali tutt’altro che ottimali, sono all’ordine del giorno. La crisi economica tuttora non superata, che ha provocato un forte incremento della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile con livelli assolutamente patologici, favorisce il perpetuarsi di questa condizione: sono molti i giovani e gli stranieri – questi ultimi sempre più numerosi grazie all’avanzare del fenomeno migratorio – che accettano passivamente questo status, pur di non perdere il posto, indebolendo in tal modo (e talora persino vanificando) la funzione del sindacato.
A farne le spese è dunque la questione dei diritti, che vengono tranquillamente conculcati da aziende multinazionali, che concentrano nelle proprie mani una parte consistente dell’attività commerciale (e lo fa- ranno sempre più nei prossimi anni) – vi è chi ha previsto la fine entro dieci anni dei centri commerciali e dei supermercati – e che, grazie alla loro trasversalità geografi- ca riescono ad evadere con facilità il fisco – è il caso della Amazon che ha tuttora un contenzioso per evasione dal 2009 al 2015 con l’Agenzia delle entrate italiana di circa 110 milioni di euro – violando, in questo caso, i diritti dell’intera popolazione.
quali possibili rimedi?
Di fronte a questo pesante stato di cose, che ha introdotto anche nei paesi sviluppati dell’Occidente, forme di schiavitù che si ri- tenevano del tutto superate, la denuncia, per quanto importante, non basta. Diviene necessaria un’ampia riflessione sul modello di civiltà che si è venuti costruendo, sui parametri in base ai quali si sono verificate (e tuttora si verificano) le scelte sia in campo economico che politico. Le previsioni sul futuro, infatti, se si lasciano le cose come sono, risultano tutt’altro che ottimistiche. Mentre l’economia finanziaria ha tuttora il primato su quella produttiva, accrescendo in modo esponenziale le diseguaglianze, si assiste nel mondo del lavoro all’introduzione di macchine autonome nello svolgimento predittivo delle loro funzioni che, oltre a sottrarre all’uomo larghi spazi lavorativi con il rischio di un livello sempre più alto di disoccupazione, sono in grado di espropriarne anche l’intelligenza.
La rimessa al centro del lavoro, o meglio – come indicava la Laborem exercens di Giovanni Paolo II – dell’uomo lavoratore, con la sua dignità e i suoi diritti inalienabili, suppone anzitutto un’inversione di rotta nell’ambito del mondo economico, con la creazione di un sistema che si proponga come obiettivi fondamentali il rispetto dell’ambiente, l’uso parsimonioso delle risorse e l’equa distribuzione dei beni prodotti, con la preoccupazione pertanto non solo di quanto si produce, ma di che cosa, per chi e come lo si produce. Ma esige anche la restituzione del primato (che è anche frutto di riacquisita autorevolezza morale) alla politica, alla quale compete il ruolo di elaborazione degli indirizzi e delle regole, che devono guidare i processi collettivi (quello economico in primis) contribuendo alla realizzazione di una ordinata convivenza civile.
Tutto questo senza dimenticare l’importanza del ruolo della cultura, alla quale è richiesto, da un lato, di promuovere con urgenza nuove modalità di rapporto tra la- voro e conoscenza – solo in questo modo è possibile combattere l’alienazione derivante dal tipo di sapere inglobato in larga misura dalla macchina –; e, dall’altro, di rimodulare – come suggerisce Remo Bodei (Macchine per moltiplicare i desideri, Il Sole 24 ore, 10 settembre 2017, p. 27) – il desiderio umano, proiettandolo verso beni – quelli relazionali in primo luogo – che hanno a che fare con un’autentica umanizzazione e limitandone l’espansione, facendo cioè seriamente i conti con l’effettiva possibilità di crescita dell’intera famiglia umana e attribuendo un’importanza privilegiata alla qualità della vita.
Giannino Piana
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Fabbriche e Grandi Magazzini
MACCHINE PER MOLTIPLICARE I DESIDERI
I dilemmi tra lavoro e spinte al consumo della rivoluzione industriale alla robotizzazione dei nostri giorni.
di Remo Bodei
La civiltà delle macchine, con il conseguente avvento della civiltà industriale, ha radicalmente modificato non solo la struttura dei nostri desideri e della nostra vita, ma anche la natura del consumo e, ovviamente, del lavoro. In tutte le culture umane e per millenni il desiderio è stato, infatti, frenato o inibito dalla scarsità delle risorse disponibili. Nella Regola Celeste Lao-Tse diceva: “Non c’è colpa maggiore / che indulgere alle voglie! Non c’è male maggiore / Che quel di non sapersi contentare. / Non c’è danno maggiore / Che nutrire bramosia d’acquisto”. Nella nostra tradizione occidentale sono stati soprattutto gli Stoici, in forme meno radicali dei Cinici, a invitare alla rinuncia ai desideri di possesso. Cleante ha così potuto affermare: ‹‹Se vuoi essere ricco, sii povero di desideri››, seguito da Seneca nel ripetere che: ‹‹è povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più››. La tecnica messa in atto per combattere la pleonexia, il desiderio insaziabile di avere sempre di più, consisteva nell’abbassare la soglia delle pretese degli individui piuttosto che alzare quella delle loro attese.
Alla base di tutte queste prescrizioni cautelative vi è non solo la consapevolezza che i desideri umani, abbandonati a se stessi, sono inesauribili, ma anche la constatazione che il desiderio è in sé, per definizione, una passione legata al futuro e segnata, di conseguenza, dall’incertezza sul conseguimento dei suoi obiettivi. Per questo motivo, seppure per finalità differenti, già nel mondo antico, pagani e cristiani avevano cercato di mettere argini all’insaziabilità dei desideri proponendo, rispettivamente, la saggezza in questa vita e l’attesa della beatitudine nell’altra. L’età moderna si caratterizza invece per la caduta di tale divieto e, spesso, per l’esplicito riconoscimento della legittimità di soddisfare i desideri nella vita terrena.
Sono, soprattutto, le macchine a provocare questa mutazione antropologica. Già con Galilei – allorché la meccanica passa da pratica disprezzata a scienza, adornandosi dell’aggettivo “razionale” -, la costruzione di macchine esattamente programmabili rende i suoi prodotti a buon mercato rispetto a quelli prima ottenuti dal lavoro servile artigianale. Nel corso della rivoluzione industriale, l’accentuata divisione del lavoro grazie alle macchine, tuttavia innesca una grave crisi. Infatti, come dimostrerà nel 1817 l’economista svizzero Sismondi, l’allargamento della forbice tra sovrapproduzione e sottoconsumo – nel senso che la industriale produce troppo rispetto alle possibilità di acquisto da parte della maggior parte dei possibili consumatori – provoca la disoccupazione di massa e la conseguente distruzione delle macchine da parte dei luddisti inglesi che davano loro la colpa della perdita di lavoro.
Una soluzione che tamponerà a lungo questa crisi verrà trovata da alcuni altri economisti francesi negli anni Quaranta dell’Ottocento grazie alla proposta di aumentare i consumi per far fronte all’enorme produttività di macchine sempre più efficienti. Dalle loro teorie, ben presto messe in pratica, discende sia la nascita dei grandi magazzini, sia la parallela, vertiginosa crescita della pubblicità, tesa a orientare e far crescere i consumi. Il primo grande magazzino al mondo è l’Au Bon Marché, aperto nel 1852 da Aristide Boucicault, che esiste ancora a Parigi. Diverse le novità qui introdotte. In primo luogo, vi si stabiliscono prezzi fissi, cosa non ovvia (anche in Europa si procedeva allora a mercanteggiare come ancora oggi nei suk arabi). L’acquisto di enormi stock di merci portava, in secondo luogo, all’abbassamento del prezzo unitario dei prodotti. Veniva poi, concessa la possibilità di restituire la merce che non piaceva e si accettavano, infine, acquisti rateizzati. Si aprì così la strada alla “democratizzazione del lusso” e all’attrazione fatale per le merci. Lo avrebbe mostrato ben presto, nel 1883. Émile Zola nel romanzo Au bonheur des dames, dove si descrive l’espandersi dei supermercati a detrimento del piccolo commercio.
Un altro momento simbolicamente importante è costituito dalla scoperta delle vetrine, nel 1902, da parte di un certo Foucault (che non è né quello del pendolo, né il filosofo, ma un bravo artigiano). Prima era impossibile fabbricare grandi superfici di vetro senza che si rompessero per gli sbalzi di temperatura.
Rispetto al grande magazzino, in cui per essere indotti a comprare occorre prima entrarvi, la vetrina attira e seduce già dalla strada esibendo, si potrebbe dire, il trasparente oggetto del desiderio. Nuovi strumenti (il carrello negli anni Trenta del secolo scorso, la carta di credito nel 1949 da parte di Frank X. McNamara, fondatore del Diners Club) incrementano ulteriormente le brame acquisitive.
I discorsi moralistici sul consumismo, sulla “abbondanza frugale”, possono avere una loro intrinseca giustificazione solo se non si dimentica che il consumo è legato alla produzione, che nel nostro attuale sistema economico, se non si consuma, non si produce, e, se non si produce, ne risulta la catastrofe di questa società. Il consumismo ha, infatti, finora salvato la società industriale, ma mostra oramai la sua inadeguatezza perché non è in grado di soddisfare le esigenze di una popolazione mondiale in continua crescita in società che continuano a sprecare risorse non rinnovabili.
È in corso un’altra mutazione che trasformerà, assieme alla dinamica dei nostri desideri e dei nostri stili di vita, anche il lavoro come fino a pochi decenni fa lo abbiamo concepito. A differenza dell’artigianato, in cui conoscenza e lavoro convergono nell’apprendimento e nella pratica di un mestiere, il tipo di sapere che s’impone nell’epoca del fordismo-taylorismo, impersonato dalla catena di montaggio, quello inglobato nella macchina, che richiede al lavoratore l’esecuzione di pochi, semplici e ripetitivi movimenti fisici e si concentra invece in un numero ristretto di addetti negli alti livelli della progettazione e del management.
Si è, quindi avvertita l’urgenza di riunire nuovamente lavoro e conoscenza. Oggi è, tuttavia, facile accorgersi del fatto che il trionfale affermarsi delle tecnologie informatiche, della robotica e dell’intelligenza artificiale rischia, almeno per una fase di transizione di indefinibile durata, di portati a una situazione analoga a quella della prima industrializzazione.
Si ridurrà cioè inesorabilmente il numero degli occupati, sostituiti da macchine non più assistite dall’uomo in processi che espropriano solo il corpo del lavoratore (come, appunto, accade nella catena di montaggio), ma macchine autonome nello svolgimento predittivo delle loro funzioni e capaci di espropriarne anche l’intelligenza. La sostituzione di posti di lavoro umano sarà accentuata dalla nuova generazione di robot dotati di maggiore destrezza fisica, di riconoscimento visivo tridimensionale e, presto, della capacità di collegarsi a “potenti hub computazionali centralizzati”, ossia al cloud da cui attingeranno sia una messe di dati dalle risorse della rete, sia l’aggiornamento continuo del loro software.
Ecco alcuni esempi: l’automazione nella raccolta del cotone o del grano è negli Stati Uniti ormai quasi completa; la preparazione del cibo nelle catene di fast food sta anch’essa cancellando un gran numero di occupati, grazie a una macchina che “riesce a preparare circa 360 hamburgers all’ora, tosta anche il pane e affetta gli ingredienti freschi come i pomodori, le cipolle e i cetrioli sott’aceto, inserendoli nel panino una volta ricevuto l’ordine”, la raccolta delle arance sta per essere compiuta da robot a forma di polipo in grado di riconoscere, localizzare i frutti e coglierli con i loro otto tentacoli.
Se il lavoro umano non manterrà un margine insostituibile di intelligenza e di creatività rispetto all’automazione e se la società non sarà capace di auto-sovvertirsi per far fronte alle nuove tecnologie, le conseguenze saranno molteplici e, certo, non piacevoli. In primo luogo, come aveva già immaginato nel 1949, Norbert Wiener, il padre della cibernetica, a causa dell’avvento di una “rivoluzione industriale di una crudeltà assoluta”, vi saranno macchine capaci di “ridurre il valore economico del comune operaio al punto che non varrà più la pena di assumerlo. A qualunque prezzo”. In secondo luogo, la disoccupazione e la sottocupazione ridurranno drasticamente i consumi, di modo che il consumismo, che ha salvato la rivoluzione industriale, non sarà più utilizzabile. In terzo e ultimo luogo, in che modo gestiremo e organizzeremo i nostri desideri e la nostra vita nella prospettiva dell’enorme quantità di tempo lasciato libero dal lavoro delle macchine?
Remo Bodei dal Sole 24 Ore DOMENICA – 10 Settembre 2017
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- La foto della manifestazione sindacale è tratta da Piacenza 24.
STATO SOCIALE. Tracce per un’economia verso il bene comune
Tracce per un’economia verso il bene comune
L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto (John Maynard Keynes, da La fine del laissez-faire, del 1926)
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di Luca Benedini, su Rocca
Come ricordava Joseph E. Stiglitz in In un mondo imperfetto (Donzelli, 2001), messi di fronte all’eclatante questione dei «fallimenti del mercato» (1) i sostenitori del liberismo tipicamente mettono in evidenza i «fallimenti dello Stato» ed «esprimono [...] scarsissima fiducia nella possibilità di sanare le carenze del settore pubblico». In questo, tuttavia, essi ogni volta fingono di non saper nulla dei diversi paesi in cui da tempo vi è un efficace «Stato sociale» e trascurano cruciali considerazioni come quella in premessa, il cui autore può essere considerato la levatrice stessa dello «Stato sociale». In tal senso, l’attività fondamentale di uno Stato moderno dovrebbe essere evidentemente indirizzata – oltre che ad una regolamentazione equa, imparziale e trasparente degli organismi pubblici stessi e dei vari settori del mercato (nella quale si dovrebbe evitare accuratamente di cadere nell’estremo opposto del liberismo, cioè in una burocratizzazione esasperante, piena di inutili lungaggini e costosa per i cittadini che interpellano le istituzioni) (2) – agli interventi miranti ad ovviare adeguatamente a ciascuno dei «fallimenti del mercato», i quali non solo danneggiano direttamente la qualità della vita di molti, ma generalmente favoriscono anche le stagnazioni e recessioni economiche.
far fronte alla globalizzazione
In questi interventi, il punto più debole oggi è tutto ciò che ha a che fare con la globalizzazione, gestita sinora secondo la logica liberista che produce società deregolamentate dove abbondano il caos e crisi di vario genere e dove vincono sistematicamente i pochi più ricchi, più forti e più furbi (che si espandono sempre più in privilegi, potere e ricchezze a danno degli altri, i molti «perdenti» sempre più emarginati ed esclusi).
A patto di cominciare ad occuparsene, nel medio-lungo termine sarà possibile mettere a punto gli strumenti per riuscire a gestire in maniera umana l globalizzazione, che come figlia dell’evoluzione tecnologica in se inevitabile: strumenti internazionali (oggi inesistenti) e nazionali (finora attuati ampiamente solo in pochissimi paesi).
Su scala nazionale vi possono essere metodologie combinate che diano sostegno alla concorrenzialità in ambito internazionale e che incoraggino le imprese innovative: p. es., sostegni alla ricerca, all’innovazione e al credito per le imprese; collegamenti tra università e attività produttive; contributi concreti a progettare e realizzare efficienti «reti produttive integrate» in cui varie aziende locali si completino vicendevolmente; corsi di formazione professionale attenti anche alle tecniche produttive più recenti; forme di assicurazione sociale che facilitino il passaggio da un tipo di lavoro ad un altro; efficaci ammortizzatori sociali. Inoltre – sulla base di norme adeguate che tra l’altro dovrebbero addebitare gli eventuali costi operativi agli importatori e non ai contribuenti – si possono compiere rigorosi controlli per garantire che la qualità delle merci importate non sia inferiore alla qualità richiesta ai prodotti locali.
Su scala internazionale, è soprattutto questione di inserire delle clausole sociali e ambientali negli accordi commerciali e una serie di diritti umani e di prescrizioni ecologiche in specifici trattati, in modo da tutelare la qualità della vita dei lavoratori, l’ambiente e il clima (3): qualora un produttore che intendesse esportare merci in un paese non rispettasse tali clausole oppure qualcuno di questi trattati vigenti in quel paese, ciò dovrebbe implicare per le merci in questione un bando commerciale o per lo meno delle sanzioni equiparabili a dei marcati dazi doganali.
In attesa di strumenti complessi come questi, appare però indispensabile riuscire a difendersi anche nell’immediato da scelte aziendali drammatiche e contestate come la decisione di delocalizzare o chiudere impianti economicamente funzionali. Come extrema ratio e come fattore-chiave, alla fin fine occorrerebbe la disponibilità degli Stati a nazionalizzare tali impianti – di solito in via provvisoria, in attesa di trovare imprese cooperative o private interessate a gestirli – indennizzando la proprietà solamente all’osso (4). Questa disponibilità permetterebbe anche di sottrarre alle multinazionali il loro attuale potere di giocare con l’apparato produttivo mondiale in maniera ricattatoria e speculativa come se si trattasse di un gioco da tavolo, tipo Risiko o Monòpoli. Inoltre, qualora un’impresa intenda delocalizzare o chiudere degli impianti si potrebbe obbligarla a restituire tutte le eventuali forme di aiuto pubblico collegate ad essi e stanziate durante i precedenti 15-20 anni.
altri aspetti-chiave
Dallo specifico punto di vista delle dinamiche macroeconomiche e delle prospettive di evoluzione della società, appaiono nodali anche ulteriori interventi pubblici attualmente quanto mai insufficienti nel mondo:
– una redistribuzione e regolamentazione dei redditi e del lavoro, indirizzata a tutti, che ponga rimedio alla possibilità di sperequazioni economiche molto intense nella popolazione, che tuteli il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza una «giusta causa» e che faciliti il part-time (come basilare forma di personalizzazione del lavoro), le cooperative e l’economia comunitaria (5);
– efficaci forme di fiscalità inerenti alla tassazione delle transazioni finanziarie, alla carbon tax sulle emissioni dei gas-serra, alla web tax sui guadagni realizzati tramite Internet e – nei periodi di recessione economica – a specifiche imposte sui grandi patrimoni (mediante le quali è possibile tutelare dalla crisi i bilanci pubblici senza deprimere ulteriormente i redditi bassi e medi, che costituiscono il fulcro della domanda interna di beni e servizi) (6);
– l’effettiva messa al bando dei paradisi fiscali (che fanno enormemente comodo alla criminalità organizzata, agli evasori fiscali e alle speculazioni finanziarie);
– possibilità pubbliche di credito e microcredito per famiglie e piccole e medie imprese (spesso sfavorite dagli istituti creditizi privati), evitando parallelamente nel settore bancario e finanziario un ritorno alla deregolamentazione neoliberista che negli anni scorsi ha consentito la «crisi dei mutui»;
– iniziative concrete per la ricerca, l’innovazione e l’informazione nelle varie aree tecnico-scientifiche che, pur potendo es- sere di grande utilità generale, difficilmente otterrebbero sufficienti finanziamenti e realizzazioni attraverso il mercato (7);
– stringenti normative per un’economia sostenibile, p.es. accelerando quanto possibile la sostituzione dei combustibili fossili (principali cause dell’effetto serra e dello smog) con forme di energia solare ambientalmente corrette, prevedendo l’obbligo di ciascuna industria di programmare in un prossimo futuro tanto il completo riciclo di ciascuno dei suoi prodotti una volta che ne sia terminato l’uso (così da porre tendenzialmente termine a inceneritori e discariche) quanto la fine dell’uso commerciale di prodotti chimici gravemente tossici, prevedendo parallelamente il rifiuto degli organismi geneticamente modificati (ogm) e la prossima abolizione dei pesticidi ed erbicidi sintetici in agricoltura, impegnandosi per bloccare la distruzione di ecosistemi fragili come le foreste pluviali e boreali e – ovviamente – accompagnando tutto ciò con una congrua evoluzione dei programmi scolastici e universitari e dei corsi di formazione e aggiornamento professionale;
– la cancellazione del potere che le varie istituzioni nazionali e internazionali riconoscono ufficialmente alle agenzie private di rating.
Per il Terzo mondo appaiono altrettanto cruciali anche altri interventi, che avrebbero comunque ricadute molto positive anche sulle dinamiche sociali ed economiche dei paesi «sviluppati». La questione forse più fondamentale si impernia sull’attribuzione degli «aiuti allo sviluppo» molto più alle comunità locali che ai governi (i quali molto spesso operano contro le esigenze e gli interessi della loro «popolazione comune»), sull’inserimento di tali aiuti e degli «aiuti umanitari» in più ampie prospettive sociali, ecologiche e produttive che la comunità internazionale dovrebbe tutelare in ogni realtà locale e, soprattutto, sull’incontro con investitori internazionali che sappiano essere dei veri partner economici – consapevoli della valenza civile ed umana dell’attività produttiva (come avviene con particolare attenzione nel «commercio equo e solidale») – anziché dei cinici sfruttatori e dei corruttori come è solitamente avvenuto p.es. con i tanti speculatori che popolano il mondo della finanza mondiale e con lo stesso Fondo monetario internazionale (8). L’attività produttiva dovrebbe mirare anche a rendere ciascuna area subcontinentale relativamente autonoma dal punto di vista economico, senza una sua pesante dipendenza da importazioni da paesi lontani. Particolarmente urgente appare anche l’elaborazione di accordi internazionali che blocchino ovunque il più possibile sia le colture energetiche in agricoltura (di fatto responsabili di aumenti di prezzo delle derrate alimentari per i quali, negli ultimi anni, milioni di persone in più si sono ritrovate alla fame) sia la possibilità di giocare in borsa e speculare sui prezzi correnti e futuri di tali derrate e dei terreni agricoli mettendo artificiosamente a repentaglio la sopravvivenza stessa di ampie fasce di popolazione. Parallelamente – in base a ineludibili ragioni specificamente giuridiche (9), oltre che sociali e umane – andrebbe riavviato un effettivo impegno internazionale per l’abbattimento di un’ampia parte del debito estero attribuito ai paesi del Terzo mondo.
Luca Benedini
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Note
(1) Come ha ampiamente notato per es. lo stesso Stiglitz in Economia del settore pubblico (Hoepli, 1989), da tempo è nota una serie di indiscutibili «cause di insufficienza del mercato» lasciato a se stesso, dalle quali hanno origine i molti ed evidenti «fallimenti del mercato» sul piano sociale, ambientale, umano e anche economico. Cfr. anche Oltre Keynes (Rocca, n.13/ 2017).
(2) In molti paesi, peraltro, le leggi elettorali e referendarie e le norme operative delle pubbliche istituzioni appaiono ispirate molto più alla formazione di una vera e propria casta politica – posta su una sorta di piedistallo rispetto ai «cittadini comuni» – che all’equità e alla trasparenza. La supposizione che la conquista del suffragio universale basti a dar corpo a una democrazia funzionante ed effettiva è uno degli equivoci più colossali e controproducenti in cui pare caduta gran parte dell’umanità moderna. (3) Per concretizzare questo approccio, un punto di partenza già pronto potrebbe essere costituito da norme, regolamentazioni o impegni internazionali già esistenti. Per es., al primo aspetto potrebbe essere associata una serie di diritti inclusi nella «Dichiarazione universale» del 1948 (in particolare – essendoci un’ovvia enfasi sul lavoro – nei suoi artt. 23 e 24), nel «Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali» entrato in vigore nel 1976 (con uno speciale riferimento ai suoi artt. 6, 7, 8, 9 e 10) o in qualcuna delle convenzioni dell’Ilo. Malgrado la loro piena normatività giuridica basata in molti paesi sui princìpi costituzionali stessi (che danno valore di legge a vari atti internazionali), si tratta di diritti che sono spesso disapplicati da politici e imprenditori e che, tra l’altro, sanciscono inequivocabilmente l’obiettivo pubblico di una pressoché piena occupazione.
(4) Cfr. per es. gli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 41, 42, 45 e 46 della Costituzione italiana.
(5) Una tale redistribuzione consentirebbe anche di avviare una progressiva riduzione del peso abnorme e socialmente «patologico» che hanno oggi il capitale finanziario e la finanza speculativa. Cfr. per es. Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, n. 12/2016).
(6) Cfr. per es. Imposta patrimoniale per chi ha di più, di Pietro Modiano (Corriere della Sera, 8/ 7/2011), dove si suggerisce anche un eccellente modo di ovviare a vari aspetti dell’evasione fiscale.
(7) Un passo estremamente significativo sarebbe anche l’approvazione di norme – il più possibile internazionali – che riescano ad impedire efficacemente ai proprietari di brevetti non pericolosi di tenere segrete e/o deliberatamente inutilizzate le tecnologie brevettate. La questione potrebbe essere risolta attraverso il passaggio dall’attuale impostazione normativa ad una simile a quella impiegata per i diritti d’autore in ambito musicale.
(8) Cfr. per es. Una pietra al collo, di Roberto Bosio (Emi, 1998); L’illusione umanitaria, di M. Deriu e al. (Emi, 2001); La carità che uccide, di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2010); Da Seattle alla crisi dei mutui (Rocca, n. 8/2009); Aiuti ai paesi poveri: solo parole (La Civetta, dicembre 2010). Cfr. anche le attività concrete di Emergency, di Survival International, della Leonardo Di Caprio Foundation e di varie altre associazioni di volontariato nel Terzo mondo.
(9) Cfr. per es. Debito estero: le ragioni per non pagarlo (Rocca, n. 22/2002) e gli articoli di David C. Gray (Devilry, Complicity, and Greed: Transitional Justice and Odious Debt) e di Kunibert Raffer (Odious, Illegitimate, Illegal, or Legal Debts – What Difference Does It Make for International Chapter 9 Debt Arbitration?) apparsi su Law and Contemporary Problems rispettivamente in estate e autunno 2007.
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Oggi giovedì 11 gennaio 2018
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Occupazione, il trucco c’è e si vede
11 Gennaio 2018
Alfonso Gianni – Il Manifesto del 10.1.2018, ripreso da Democraziaoggi.
Alla TV e alla Radio tambureggia la propaganda governativa sulla ripresa dell’occupazione… che nessuno vede. Alfonso Gianni ci svela il trucco.
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Roberta Carlini su Rocca
Gli editoriali di Aladinews.
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Oggi mercoledì 10 gennaio 2018
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La Rivoluzione d’ottobre e le eresie interne
10 Gennaio 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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