Monthly Archives: gennaio 2018
Oggi sabato 20 gennaio 2018
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Ricordo di Francesco e Vincenzo
20 Gennaio 2018
[Democraziaoggi] Lunedì 15 gennaio 2018, abbiamo dedicato l’incontro per il 70° della Costituzione, presso la Fondazione di Sardegna, a Francesco Cocco e Vincenzo Pillai, due persone molto diverse, ma unite dagli stessi ideali di uguaglianza e fratellanza, entrambi comunisti, iscritti all’ANPI e aderenti al Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria. Ecco come li abbiamo ricordati davanti all’affollata assemblea in commosso silenzio.
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Gli editoriali di Aladinews. Ernesto Balducci, uomo di pace: no alla guerra, no alla violenza. III T. O.; B; Gio 3, 1-5. 10- SALMO: 24/25; 1 Cor 7, 29-31; Mc 1, 14-20 –
di Ernesto Balducci
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Il punto di Raniero La Valle
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Balducci, uomo di pace: no alla guerra e no alla violenza.
III T. O.; B; Gio 3, 1-5. 10- SALMO: 24/25; 1 Cor 7, 29-31; Mc 1, 14-20 –
di Ernesto Balducci
Ora sappiamo quello che le vecchie generazioni non sapevano: se noi crediamo di affermare la pace attraverso la violenza non ci riusciamo perché muoiono le cose. Ora sta morendo il mare. Chissà quante cose moriranno!
Io sono convinto che viviamo nei tempi in cui la parola di Dio arriva da due sorgenti che un tempo sembravano senza relazioni fra di loro.
La prima sorgente è la coscienza dell’uomo, la quale ha in sé una verità antica come le montagne, occultata da strati di cultura feroce e la verità antica come le montagne è questa: non uccidere, non fare violenza. E una verità così profonda che sembra non vera, perché deve attraversare mille strati di distinguo e di sottigliezze inventate dalla nostra civiltà violenta.
Questa però è la verità. «Io ho messo davanti a te – questa è la formula del Deuteronomio – la vita e la morte. Secondo che tu sceglierai così avverrà». È la grande verità che però sembra urtare contro l’altra verità, quella che un grande fiorentino chiamò la ‘verità effettuale’, quella del realismo secondo cui ci vuole la violenza per respingere la violenza.
Questa verità profonda oggi trova un riscontro perentorio nella verità effettuale, nei fatti.
Ora sappiamo quello che le vecchie generazioni non sapevano: se noi crediamo di affermare la pace attraverso la violenza non ci riusciamo perché muoiono le cose. Ora sta morendo il mare. Chissà quante cose moriranno! Noi dobbiamo capire una verità che è predicata non dalla coscienza ma dalle pietre.
Il grande evento storico è che la coscienza e le pietre si sono incontrate.
Non è un evento così chiaro che travolge i parlamenti, però è un evento che sta arrivando alle coscienze. È questo un dato di fatto, fra tante ragioni di pessimismo, che dobbiamo afferrare. Le coscienze si stanno muovendo dovunque ma è difficile per queste coscienze, come per Giona, stare a predicare la conversione. È difficile, non è cosa scontata, perché in apparenza la loro è una parola innocentissima – ‘No alla guerra, no alla violenza’ – però in queste situazioni è una parola sovversiva, esecrabile, disfattista.
Ecco perché non va bene per i profeti, in questo tempo. Quando parlo di profeti non voglio alludere a figure singole perché ogni coscienza è profetica quando stabilisce quella specie di coniugazione con le pietre, con la verità che sale dalle cose. Prima tutto era a favore di chi sosteneva che se vuoi la pace prepara la guerra. Questa era la verità, come contestarla?
Viviamo in un mondo strutturalmente diviso. Se gli altri piangevano noi godevamo; la tua morte era la mia vita, io distruggo te e mi allargo – questa era la verità effettuale – oggi non è più così. Tutto è così legato che anche se la guerra è lontana perfino i mercatini della lontana sponda dell’Europa del Nord ne risentono. Siamo una sola città, lo vogliamo o no comprendere.
Essere profeti vuol dire gridare.
Quanto è bello vedere che sempre più numerosi sono coloro che lo gridano, incontrando certamente disprezzo, dileggio, criminalizzazione anche. Questo però deve avvenire senza ambiguità, cioè con fedeltà alla verità.
Non dobbiamo dimenticarci che la tragedia in cui siamo è dovuta alla prepotenza, alla prevaricazione, allo spregio di ogni diritto umano da parte di un potente. Questo non dobbiamo nasconderlo e spesso si rischia di nasconderlo. Un profeta amante della verità non deve però nascondere il tutto, deve affermare che per smontare questa prepotenza non ci vuole la violenza.
Tutte le vie vanno seguite tranne quella, perché nella violenza entriamo in una spirale che è mortale per tutti. A me piace chiamare questa coscienza profetica, con un linguaggio più partecipabile perché laico, ‘coscienza cosmopotitica’, cioè una coscienza che fa sua consegna la premura- per il mondo intero come tale.
Ecco allora le parole di Paolo che per noi acquistano un senso straordinario: «Il tempo è breve, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero, …».
Io continuo: quelli che sono italiani vivano come se non fossero italiani, quelli che sono nel blocco di qua vivano come se non fossero di nessun blocco perché il tempo è breve e questo tempo breve ci unisce tutti in una stessa sorte. Ogni uomo è fratello all’uomo, di qualunque razza e religione. Anche il popolo di cui in questo momento siamo nemici armati è un popolo di nostri fratelli e noi non dobbiamo volere lo sterminio di nessuno. Se muore un bambino non domandiamoci di che parte è, è l’uomo che muore. Voi direte: questa è utopia. No, è realismo…
Ernesto Balducci – Dalle omelie inedite – anno B
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Le guardie armate dell’apartheid europeo.
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di Raniero La Valle (dalla sua pagina fb)
Le guardie armate dell’apartheid europeo
La cosa più brutta è stato il decreto con cui si sono rifinanziate tutte le missioni militari italiane di “difesa avanzata” e si è dato il viatico all’esercito che torna in Africa in assetto di guerra, da colono. Poiché la bugia fa coppia fissa non con la politica, ma con la governabilità, cioè con la pretesa del potere di governare senza regole e senza Costituzione, il capo del governo ha detto che è una missione “no combat”, non per combattere; sarebbe con le buone che si respingerebbero le carovane dei profughi nel deserto verso i loro inferni, per non far loro passare i confini d’Europa, avanzati anche quelli fino al Sahel. Ma appunto è un bugia; ha avuto la lucidità di darne notizia la Repubblica, nonostante essa sia oggi accusata di essere in stato confusionale dal suo capitalista fondatore, l’ing. De Benedetti (quello che “indovina chi viene a cena” ed è sempre un Grande della terra). Ha scritto la Repubblica che nei colloqui con il governo Gentiloni i francesi non hanno usato mezzi termini: “nel Sahara siete i benvenuti, ma ricordatevi: noi lì facciamo la guerra”. Questo significa essere coloni seri: lo faccio e lo dico. Dal 1967 Israele mette colonie in terre non sue, e se ne fa un vanto; il Congo fu addirittura chiamato Congo Belga, e l’Algeria, senza pudore, francese. Noi invece mandiamo l’esercito ma non lo diciamo a nessuno di troppo, lo facciamo con un mormorio. Quando, la prima volta, nel settembre 1911, l’Italia dichiarò guerra alla Turchia ottomana e andò a prendersi Tripoli, il re era in vacanza a San Rossore, il Presidente Giolitti, come se niente fosse, se ne stava a Dronero, e il Parlamento era chiuso per ferie; e nemmeno i giornalisti italiani che erano a Costantinopoli, in casa del Nemico, ne sapevano niente, tanto che non ne parlarono nei loro dispacci, come si può leggere oggi nelle corrispondenze di uno di loro, pubblicate da Bordeaux nel libro “Cronache Ottomane di Renato La Valle”, utili per capire qualcosa di quello che succede anche oggi.
Dicono oggi che non andiamo nel Niger a combattere; chissà perché allora ci andiamo ben armati; ci fu una missione militare italiana veramente umanitaria, nel 1991-92, quando si trattava di risollevare l’Albania dal baratro, dopo la fine del suo comunismo alla cinese; ma lì l’esercito italiano ci andò senza portare armi, e non a caso l’operazione si chiamò “Pellicano”. Si portarono invece i camion, e ogni mattina i soldati partivano dalla base e andavano in montagna a portare cibo alle popolazioni stremate, e talvolta a spartire anche la loro colazione. La destra (allora c’era il Movimento Sociale Italiano) era furibonda, perché non si era mai visto un esercito senz’armi, indifeso. E il generale che comandava quei mille militari del contingente spiegò che la loro sicurezza stava proprio nel non avere armi, e perciò non essere percepiti come occupanti e nemici. Nel Niger saranno percepiti invece, insieme ai francesi, come le guardie armate dell’ “apartheid europeo”, che tornano nei vecchi domini per filtrare uomini donne e bambini e far passare solo le ricchezze, uranio o petrolio che siano. Inutilmente un missionario italiano in Niger, Mauro Armanino, ha scritto da laggiù che saremmo andati ad alimentare il terrorismo di Stato in un Paese di sabbia e di vento, uno dei più poveri del pianeta; il Parlamento, umiliato, ha vissuto il suo “mercoledì delle ceneri”, perché, già sciolto, è stato riconvocato apposta non per approvare fuori tempo massimo la legge che dà i diritti dello “ius soli”, ma per approvare fuori tempo massimo il decreto che intercetta il diritto di asilo e sparpaglia pezzi di forze armate italiane in trentacinque missioni su tre continenti.
La storia non si cancella
Prima Guerra mondiale, Vittorio Emanuele III e il colpo di stato.
di Francesco Casula
La salma di Vittorio Emanuele III, il 17 dicembre scorso è ritornata in Italia. Con il beneplacito del Governo Gentiloni e del Presidente della Repubblica Mattarella. Con un volo di stato. Ovvero pagato dai contribuenti. Una scelta sciagurata. Una vergogna. Dimenticandosi della politica funesta di Sciaboletta, “le cui colpe – si ricorda in un bell’articolo su Il Manifesto – sono ben antecedenti alle infami leggi razziali del 1938: in sintesi, la sua intera carriera politica è stata all’insegna del tradimento degli interessi della nazione, della volontà del suo popolo, degli stessi orientamenti politici del Parlamento. Nel maggio 1915 egli firmò l’entrata in guerra dell’Italia, contro il volere della larga maggioranza del Parlamento, d’accordo soltanto con il primo ministro (Salandra) e il responsabile degli Esteri (Sonnino). Si trattò di un vero e proprio colpo di Stato: il primo di una serie, come ricordò il grande Luigi Salvatorelli”1.
Ma vediamo, analiticamente come andarono le cose.
Dopo i fatti di Saraievo e la dichiarazione di guerra dell’impero austro-ungarico, l’Italia assume una posizione neutralista, firmando la sua dichiarazione ufficiale il 3 agosto 1914 . “Essa – ricorda Salvatorelli – riscosse consenso pressoché generale nella opinione pubblica e nel mondo politico” 2 .
Il Parlamento, per la stragrande maggioranza, era contrario alla guerra. Le elezioni del 1913 avevano sancito infatti la vittoria dei liberali, socialisti e cattolici, tutti neutralisti, con questo risultato: Unione liberale (270 seggi con il 47,62%); Partito Socialista Italiano (52 seggi con il 17,62%); Unione elettorale cattolica italiana (20 seggi con il 4,23%).
Dopo la dichiarazione di neutralità il Governo inizia la trattativa con l’Austria, che è disposta a cedere all’Italia il Trentino. Ma forse anche di più. Giolitti infatti il 1 febbraio 1915 in una pubblica dichiarazione ebbe a sostenere che “nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra” 3. (Segue)
NON È ISLAM
Terrorismo ed errate risposte
NON È ISLAM
La pretesa corrispondenza tra terrorismo e radicalismo islamico è tanto ripetuta quanto arbitraria e strumentale. Anche la norma divina coranica passa attraverso la mediazione e interpretazione umana. Una reazione sbagliata delle democrazie occidentali porta al disfacimento dei principi su cui si regge la cultura giuridica del costituzionalismo moderno
Dalla Rivista telematica www.statoechiese.it n. 2 del 2018 pubblichiamo uno stralcio (senza l’intero corredo delle note) del saggio del prof. Francesco Alicino, associato di Diritto pubblico delle religioni nella LUM Jean Monnet di Casamassima – Bari, sul tema “Lo Stato laico costituzionale di diritto di fronte all’emergenza del terrorismo islamista”, destinato alla pubblicazione nel volume collettaneo su “L’impatto delle situazioni di urgenza sulle attività umane regolate dal diritto”, Giuffrè, Milano. Vi si troveranno importanti considerazioni sul conclamato rapporto tra terrorismo e Islam, e sui pericoli di perdere la democrazia che si corrono nel combatterlo maldestramente.
1 – Introduzione
La minaccia del terrorismo islamista ha comprensibilmente incrementato la domanda di sicurezza che, nei momenti di maggiore tensione e paura collettiva, è elevata a obiettivo prioritario per lo Stato e i relativi organi pubblici. Motivo per cui questa domanda conduce a interventi statali eccezionali, che spesso finiscono per ridurre gli spazi di tutela di alcuni diritti, come quelli afferenti alla libertà personale, alla libertà di espressione e a quella di religione: pilastri normativi su cui, com’è noto, si fonda e si regge un ordinamento costituzionale, democratico e laico[1]
Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Non è la prima volta che nella storia recente del costituzionalismo occidentale si affaccia il binomio sicurezza-libertà: nel nome della sicurezza e in vista di ripristinare una situazione di normalità, la lotta alle varie forme di terrorismo ha spesso comportato una temporanea rottura della tutela delle libertà e una sospensione dell’ordinaria legalità. Il fatto è che oggigiorno questa problematica assume contorni giuridici inediti e orizzonti temporali sconosciuti, che mettono in discussione il significato stesso di alcune nozioni, a cominciare proprio da quelle riguardanti le situazioni di emergenza. Sembra infatti di essere dinanzi a un periodo che, avendo fra le sue caratteristiche una condizione di allarme stabile e quasi permanente, differisce a data incerta il momento del ritorno alla normalità e, quindi, all’impiego dei comuni meccanismi e strumenti legali. In questo modo i timori suscitati dal terrorismo alimentano un ossimorico e paradossale stato di ordinaria emergenza, attraverso il quale i due concetti si annullano e, al contempo, si rinforzano a vicenda: divenendo la regola, il pericolo e la paura di nuovi attentati assumono sempre più rilevo nella vita quotidiana di milioni di persone; il peso esercitato dell’emergenza terroristica porta in molti settori di normazione giuridica a ridurre al minimo gli spazi di ordinaria legalità[2].
Ora, su questa situazione pesa un’importante questione, non sempre però analizzata con la dovuta chiarezza e lucidità, anche perché forse legata alla difficoltà di individuare e definire con precisione le peculiari caratteristiche delle attuali forme di terrorismo.
Di fronte alla sua minaccia e alla crescente domanda di sicurezza, le istituzioni statali stanno difatti vivendo una condizione di profondo spaesamento. E questo perché il terrorismo islamista è dotato di una diffusa, potente e – soprattutto – imprevedibile carica di lesività, sovente lanciata senza scrupolo e con estrema determinazione da anonimi attentatori nei confronti di civili impreparati al tipo di azioni da esso ispirate. Il che ne aumenta a dismisura la pericolosità, giacché in grado di coinvolgere attivamente una vasta gamma di individui i cui atteggiamenti sfuggono a qualsivoglia inquadramento di tipo sociologico, per un verso, dando corpo a metodi, strumenti e bersagli estremamente diversificati, per l’altro. E va pure ricordato che queste difficoltà non diminuiscono, ma anzi s’infoltiscono, quando l’attenzione si focalizza sulle vittime: la cui caratteristica è proprio quella di non avere tra loro nulla o quasi in comune, se non di essere indiscriminatamente considerate come ‘infedeli’.
Ed ecco che in modo prepotente la questione religiosa s’inserisce nella tragica narrazione, ponendo l’analisi sull’impatto dell’emergenza terroristica nell’ordinamento statale di fronte a due domande cruciali, tra loro intimamente connesse: in che modo e con quale significato le attuali forme di terrorismo possano dirsi di matrice religiosa? E qual è il rapporto che realmente sussiste fra il terrorismo e l’Islam?
La fondatezza di queste domande è anche data da quanto emerge da alcune accurate ricerche. Queste hanno in particolare dimostrato come nella maggior parte dei casi i motivi profondi che armano la mano degli attentatori afferiscano in primo luogo a fattori diversi da quello religioso: fattori quali, per restare ai casi più noti, l’estremismo nazionalista, acuito in alcuni ambienti dal senso di oppressione e di rivalsa nei confronti dell’Occidente, dei suoi ‘invasori’ e della logica colonizzatrice, a volte sostenuta nel nome della cultura dei diritti umani; l’incancrenirsi di alcuni conflitti territorialmente localizzati; gli equilibri socio-economici; la mancata integrazione di immigrati di seconda e terza generazione.
Elementi, questi, che molto spesso agiscono sulle difficili condizioni personali e psichiche degli attentatori sparsi in tutto il mondo, siano essi aspiranti o già operativi. Rispetto a tali giustificazioni, la religione interviene solo in un secondo momento, prendendo corpo attraverso modalità e intenti subdolamente strumentali che, come si vedrà, fanno leva su interpretazioni teologicamente elementari delle fonti del diritto islamico.
Interpretazioni che poco hanno da spartire con la lunga millenaria tradizione musulmana e con i suoi fondamenti. Che, se diversamente commentati, sostengono soluzioni diametralmente opposte a quelle prospettate dal radicalismo islamista: ragione per la quale bisogna stare attenti anche a connotare tali derive interpretative come fondamentalistiche. Il che, tuttavia, non ne ridimensiona l’importanza, soprattutto se lette alla luce dell’efficienza della macchina terroristica, la sua mortale e imprevedibile pericolosità. Sebbene con letture grossolane e rudimentali, negli ambienti del radicalismo islamista la religione, o meglio la sua strumentalizzazione, agisce come una ‘coperta’: viscidamente sfruttata da abili mandanti e organizzatori, essa s’insinua nella mente degli attentatori avvolgendo e dissimulando tutte le altre motivazioni. In questo modo l’elemento religioso alimenta un’incontenibile determinazione nell’attuare i piani mortali. Al punto che, rispetto a questi piani e come sovente accade negli ambienti sovversivi di siffatta natura, il primo presupposto a essere dato per scontato e messo in conto dal terrorista è la perdita della propria vita: una morte ricercata, voluta e, a volte, felicemente invocata in vista della ricompensa divina.
A ciò si aggiunge un’altra considerazione, non meno inquietante di quelle sommariamente esposte fino a ora.
Nella logica rozza ed elementare del terrorista le interpretazioni radicalizzanti dei precetti religiosi hanno il grande merito di creare dal nulla una platea sterminata d’infedeli che, ai suoi occhi, si trasformano con impressionante immediatezza in potenziali nemici, facili da colpire ed eliminare. Il che spiega perché la lotta al terrorismo islamista risulta spesso asimmetrica. In spregio alla dignità dell’uomo e sebbene minoritari, i terroristi non hanno nessun timore di morire in battaglia. Anzi, considerano e usano i propri corpi come insuperabili strumenti di morte contro la vita, la dignità e i diritti inviolabili di milioni di persone umane: ciò che, al contrario, la cultura giuridica occidentale e i principi basilari delle democrazie costituzionali valutano come beni supremi, da tutelare e difendere sopra ogni cosa.
Come però si accennava, questo spiega anche la situazione estremamente difficile in cui si ritrovano le istituzioni e i poteri statali che, di fronte a un’emergenza tanto sfuggente e indefinibile quanto pericolosa e sconvolgente, cercano di intervenire in vario modo. Compreso quello di incentivare la produzione di atti legislativi che, seppur generici nella loro formulazione (o forse proprio per questo), influiscono pesantemente sull’ordinario funzionamento della legalità costituzionale e sul relativo corredo di principi. A cominciare da quelli afferenti alla libertà religiosa e alla laicità dello Stato che, per restare all’accezione della giurisprudenza della Consulta italiana, implica la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, il divieto di discriminatorie distinzioni in ragione dell’appartenenza a una religione, l’eguale libertà di tutte le confessioni nonché il diritto di professare la propria fede e di farne eventualmente propaganda.
Sotto la minaccia terroristica, la tutela di questi beni rischia in altre parole di essere continuamente scompaginata da situazioni e regole eccezionali che, per questa via, tendono a (con)fondersi con quelle ordinarie rendendo piuttosto ardua la distinzione delle une dalle altre. Con tutto quello che ciò comporta per il lavoro dei giusdicenti, sempre più spesso chiamati ad applicare fattispecie alquanto generiche e indefinite per fenomeni altamente lesivi e altrettanto indecifrabili. E, come se non bastasse, lo scenario è ulteriormente complicato da posizioni che, talvolta con intenti propagandistici, alimentano una emplicistica (con)fusione fra terrorismo e Islam. Un’idea questa che, con variazioni più o meno evidenti, si è affermata all’interno di porzioni importanti di popolazione occidentale, condizionando non di rado l’attività di istituzioni e poteri pubblici.
2 – La lunga tradizione del diritto islamico
Se si analizzano con attenzione i numerosi attentati terroristici attuati dal 2001 a oggi sul suolo occidentale si scopre che, sotto l’aspetto religioso, il fattore comune non è l’Islam in quanto tale, come si sente spesso dire da alcuni commentatori: ciò che nei migliori dei casi denota una scarsa conoscenza della religione musulmana, mentre in quelli peggiori rileva la funzionale posizione degli impresari della paura e del relativo corredo di propaganda elettoralistica. Quello che in realtà accomuna le attuali forme di terrorismo e le attinenti condotte sono le variegate conformazioni di radicalismo, ispirate e armate da minoritarie, incolte, rozze, grossolane, letterali e strumentalmente orientate interpretazioni di alcuni tratti della lunga tradizione musulmana e di limitate prescrizioni religiose.
Interpretazioni che, come si accennava, finiscono però spesso per alimentare minacce pericolose, per un verso, e difficili da prevenire e scardinare, per l’altro. (Segue)
Oggi venerdì 19 gennaio 2018
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Gli editoriali di Aladinews. di Raniero La Valle
RESISTENZA DI FRONTE ALL’AVANZARE DEL PARADIGMA TECNOCRATICO
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Che distanza fra Paolo e Christian!
19 Gennaio 2018
Amsicora su Democraziaoggi.
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Il problema del Psd’Az? Non è l’alleanza con la Lega ma la sua assoluta subalternità e inconsistenza culturale.
Vito Biolchini su vitobiolchini.it.
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Un commento di Tonino Dessi su fb.
Non è che tutti i partiti siano privi del tutto di un programma economico.
Il centrodestra ne ha uno, abbastanza preciso.
Far pagare meno tasse ai ricchi (un’unica aliquota inverte la progressività tributaria stabilita in Costituzione: pagherebbe relativamente di più chi ha effettivamente di meno) e vendere ai privati i beni e i diritti dello Stato.
“Una crescita stimolata altresì dalla grande rivoluzione della Flat tax, un’aliquota unica per tutti, totalmente finanziata dal taglio delle “tax expenditures”, vale a dire le deduzioni e detrazioni fiscali attualmente in vigore, dal taglio della cattiva spesa pubblica, dall’emersione del sommerso e dal “reset” delle liti pendenti.
Con stretto riferimento alle tecnicalità del piano di attacco al debito, Forza Italia intende, in particolare:
- Individuazione dei beni patrimoniali e dei diritti dello Stato, disponibili e non strategici;
- Loro vendita ad una società veicolo (Spv) partecipata principalmente da istituzioni finanziarie con capitale rilevante.”
…
Renato Brunetta, Presidente del Gruppo F. I. alla Camera dei Deputati, su Il Foglio di avantieri, 17 gennaio 2018.
Proposte recepite nell’accordo Berlusconi-Salvini-Meloni sottoscritto ieri, 18 gennaio 2018.
Giusto per sapere, per capire, per valutare nel concreto chi starà meglio e chi peggio se vincono loro.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
Il nuovo Partito della sinistra radicale spaventa Grasso e M5S
di ANDREA CARUGATI E ILARIO LOMBARDO
la Stampa, 17 gennaio 2018, ripreso da eddyburg. Sul quotidiano torinese una buona informazione sulla novità politica italiana, che restituisce a molti il gusto di fare politica, e forse lo da a chi non l’ha mai fatta.
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————–Oggi——————–
Cagliari, oggi venerdì 19 gennaio 2018 ore 9,30, Aula magna Rettorato Via Università: Nereide Rudas che “parlò con voce di donna”
By sardegnasoprattutto/
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Sul sito della Fondazione Sardinia le riflessioni di Nereide Rudas su Sa die de sa Sardigna. Un testamento culturale.
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Nereide
———————————Domani————————–
Cagliari, Venerdi 19 gennaio 2018 ore 9,30, Aula magna Rettorato Via Università: Nereide Rudas che “parlò con voce di donna” [di Redazione]
By sardegnasoprattutto /
Oggi giovedì 18 gennaio 2018
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SUCANIA – Associazione di Cooperazione Internazionale
Centro Studi di Relazioni Industriali dell’Università di Cagliari- Fondazione Anna Ruggiu onlus.
Nell’ambito del progetto: Verso la parità di genere: donne nella storia, nelle istituzioni, nel diritto e nella società.
X Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale
Le migrazioni: Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare
1° giornata: 18 gennaio 2018,
dalle ore 15 alle ore 19 Università di Cagliari aula B Facoltà di Scienze giuridiche, economiche e sociali, Viale S.Ignazio.
LE MIGRAZIONI – INTRODUZIONE AL TEMA
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La felicità: nei secoli è aumentata o diminuita?
18 Gennaio 2018
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Gli editoriali di Aladinews.
di Raniero La Valle
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Cotti e Scanu fuori dal prossimo parlamento: chi tocca le servitù militari muore?
Vito Biolchini su vitobiolchini.it
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Psdaz – Lega uniti al voto.
di Vanni Tola
Sorprende fino ad un certo punto. Non è da oggi che, il psdaz dichiara di non essere né di destra né di sinistra. Sarebbe stato bello se fosse diventato qualcosa di altro, una sorta di terza via alternativa ai vecchi grandi schieramenti. Ciò non è accaduto ed è chiaro che, alla stretta finale, subentrano altri criteri di scelta, altri parametri di riferimento, logiche di sedie e di visibilità magari conquistata a caro prezzo e alleandosi con una forza indecente e in contrasto con i principi fondativi del Partito Sardo. Campagna acquisti, come nel calcio. In cambio Zaia, anziché meridionali, li chiama bravi ragazzi. Un bel risultato!
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Cosa dice il “Nobel per la pace” 2017: SCEGLIETE LA VERITÀ PIUTTOSTO CHE IL TERRORE
Cosa dice il “Nobel per la pace” 2017
SCEGLIETE LA VERITÀ PIUTTOSTO CHE IL TERRORE
Il discorso di Beatrice Fihn ad Oslo a nome dell’ICAN, premiata col Nobel per la riuscita campagna a favore del Trattato ONU che mette al bando l’atomica. Un appello alle Nazioni a scegliere la libertà, il disarmo, la legge, i diritti umani, la ragione, il senso, la logica, il senso comune, la saggezza, la fine delle armi nucleari
Il 10 dicembre 2017, l’ICAN ha ricevuto il Premio Nobel per la pace per l’opera volta alla stipulazione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari. Quello che segue è il discorso tenuto da Beatrice Fihn, direttore esecutivo del network, nella cerimonia di consegna del Premio, la cui notizia è stata occultata dalle Televisioni e dai giornali italiani:
Oggi mercoledì 17 gennaio 2018
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Domusnovas, non si può pensare che si può produrre e vendere altro in luogo delle armi di morte?
17 Gennaio 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DONNA
Meno disuguaglianze se la governance è donna
di MARCO COCH
Nigrizia, 6 gennaio 2018, ripreso da eddyburg e da aladinews. Drammatico il divario tra ricchi e poveri nel Continente antico, massimo in Nigeria e in Sudafrica. Che fare per superarlo, secondo la rivista dell’Onu. Africa Renewal, che spiega come il promuovere l’uguaglianza di genere, anche nella gestione del potere, giovi alla società e all’economia.
—————————–Elezioni———————————–
Non diamo fin d’ora per scontato il nostro orientamento di voto, non regaliamolo in anticipo.
Prima facciamo più corposamente emergere la nostra domanda di cittadini rivolta a migliorare tutta l’offerta politica nel suo complesso e a ricordare con incisività che il 4 marzo il giudizio finale spetterà a noi e che sarà libero, rigoroso, selettivo, perfino, occorrendo, severo.
Una nota di Tonino Dessì (su fb)
Immagino che tutte e tutti si stiano ponendo il problema di chi votare, essendo in pieno corso la campagna elettorale.
In questi giorni, pur nell’impalpabilità dei programmi delle varie forze politiche e coalizioni quanto a realistiche proposte economiche e sociali, alcune questioni sono pur sempre emerse.
L’esplicitazione di una piattaforma razzista, oltre che xenofoba, del centrodestra: di tutto, non solo della Lega, o di Fratelli d’Italia, ma anche di Berlusconi.
Il problema del lavoro: hanno un bel diffondere cifre, ma l’occupazione stabile resta un fantasma, in un mare di precariato e di disagio. Intanto in fabbrica e sul lavoro si muore malamente, com’è accaduto ieri alla Lamina.
A fronte di chi pensa, anche in Sardegna, a confuse prospettive localiste o separatiste, si prospettano ben più solide le premesse, poste dai referendum leghisti di Veneto e Lombardia e dall’iniziativa dell’Emilia Romagna guidata dal centrosinistra, di una differenziazione censitaria tra le Regioni.
In palio le risorse per lo Stato sociale: sia ben chiaro che se passano queste pulsioni censitarie, spazio per altri non ce n’è e la già compromessa solidarietà finanziaria ed economica italiana salterà definitivamente.
Tutti prevedono un Parlamento instabile, ma in un simile contesto l’affermazione della destra, la fragilità culturale del centrosinistra nel suo insieme e l’evaporazione dello spirito democratico-radicale nel M5S riaprirebbero spazio alle tentazioni di un nuovo attacco alla Costituzione.
Avremmo tutti voglia, i democratici, specie quelli che, andando o tornando al voto, hanno determinato la vittoria del NO nel referendum del 4 dicembre scorso, di scendere in campo e di schierarci limpidamente per mantenere in vita una prospettiva civilmente e socialmente avanzata, in questo Paese.
Non ci viene, oggettivamente, al momento, offerta questa possibilità.
Benchè astenersi sia diventata la modalità più eclatante di protesta politica generalizzata, tanto da coinvolgere metà dell’elettorato, ogni scelta, anche quella di non votare, resta estremamente problematica e delicatissima.
Io oggi mi sentirei di dare un consiglio, di fare una sorta di appello o di raccomandazione.
C’è ancora tempo, perché sotto la spinta di movimenti dell’opinione pubblica, queste elezioni cambino tenore.
I partiti devono ancora comporre e proporci le liste dei candidati e anche queste costituiranno un metro di giudizio.
Toni, priorità, argomenti e proposte possono ancora essere influenzati.
Pur nell’insidiosità del meccanismo elettorale, si prospetta ancora un’offerta politica variegata e in un contesto proporzionalista anche la rappresentanza parlamentare di forze minori democraticamente caratterizzate avrebbe una funzione positiva.
Non diamo fin d’ora per scontato il nostro orientamento di voto, non regaliamolo in anticipo.
Prima facciamo più corposamente emergere la nostra domanda di cittadini rivolta a migliorare tutta l’offerta politica nel suo complesso e a ricordare con incisività che il 4 marzo il giudizio finale spetterà a noi e che sarà libero, rigoroso, selettivo, perfino, occorrendo, severo.
Noi non siamo ancora tenuti a fare passiva propaganda per prodotti confezionati da altri.
Abbiamo un potere residuale intatto: facciamolo valere su temi, argomenti, proposte, obiettivi, perché da qui al 4 marzo c’è ancora il tempo per farlo.
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Gli editoriali di Aladinews
Le relazioni del 2 dicembre 2017 all’assemblea di Roma. Pubblichiamo, tratta dal sito, quella introduttiva di Raniero La Valle [disponibile anche il video-audio, curato da Radio Radicale].
PER IL TEMPO CHE VIENE UN NUOVO “NOMOS DELLA TERRA”
di Raniero La Valle, relazione ripresa da Aladinews.
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E’ online il manifesto sardo duecentocinquantatre
Il numero 253
Il sommario
RWM Domusnovas: Sardegna vittima e complice di politiche di guerra (Cinzia Guaita, Arnaldo Scarpa), Verso la Shoah. Lo sterminio dei disabili (Claudio Natoli), Prima Guerra mondiale, Vittorio Emanuele III e il colpo di stato (Francesco Casula), Ma Cagliari vuole avere una vera politica di gestione del territorio? (Stefano Deliperi), Il ritorno dell’emigrato nel Paese d’origine e i problemi connessi al suo reinserimento (Gianfranco Sabattini), Non bruciamoci il futuro: dati fasulli e nessun confronto con i cittadini (Red), Turchia e dintorni. Ridere è peccato: la Turchia e le sue donne (Emanuela Locci), Indipendentismo e identità (Egidio Addis), Tempi bui per la democrazia. Chi ha paura di chi? (Claudia Zuncheddu), Tirocini: la necessità di un Tripadvisor dello sfruttamento (Red), Donne che rompono il silenzio. Una storia politica (Bia Sarasini).
Contro la sentinella
Come la sentinella di Isaia, la sentinella del profeta, il papa ripete il suo grido di allarme: badate, “siamo al limite”, se non raddrizzate le vostre vie una guerra nucleare può scoppiare anche per caso, per un incidente. Lo ha ripetuto nell’aereo che lo portava a un difficile viaggio in Cile e in Perù, e per l’occasione ha anche distribuito ai giornalisti una fotografia scattata a Nagasaki nel 1945, di un bambino che reca sulle spalle, per portarlo al crematorio, il fratellino morto grazie alla seconda bomba atomica americana sul Giappone, e accanto alla foto ha scritto: questi sono i frutti della guerra. Poi, sbarcato a Santiago, per prima cosa alla presidente Michelle Bachelet ha recato “il dono della pace” fondata sulla sinfonia delle differenze e sulla resistenza al “paradigma tecnocratico”.
Francesco è l’unico ormai che fa un discorso che si prenda cura del futuro. E lo fa con gesti che ne svelano il motivo: è l’amore per i bambini, per l’universo umano, l’amore per l’uomo che rischia di morire suicida sulla sua Terra. Per questo il mondo che non vuole essere distolto dai propri interessi, quale che ne sia il costo, ce l’ha con il papa; e l’avversa e lo perseguita in tutti i modi, anche nei momenti più difficili.
Difficile è questo viaggio in America Latina, non solo per i Mapuche, che hanno tutte le ragioni, da secoli, per avercela con la Chiesa, ma per i violenti e gli integralisti che hanno messo piccole bombe e appiccato piccoli incendi nelle chiese per protestare contro di lui. Ma è proprio vero che queste sono piccole bombe, bombe private, al paragone di quelle grandi, pubbliche, i cui frutti ci narrano le foto? Non è forse vero che, dietro, gli scenari, i moventi sono gli stessi?
Il viaggio del papa è difficile, anche perché va lì, ma passa sopra il suo Paese, non va in Argentina, dove un presidente eletto, Mauricio Macri, usa violenza contro il suo popolo, anche se una violenza diversa da quella degli ammiragli e dei colonnelli. E naturalmente c’è chi ne approfitta per sobillare anche una protesta di argentini contro il papa. E questi trovano una sponda a Roma, un’eco, o magari il contrario: l’eco sta lì e la gola sta qua. Fatto sta che il blog antipapista dell’Espresso, gestito da Sandro Magister, ha pubblicato un pamphlet anonimo, in spagnolo, di “un argentino credente cattolico romano” che accusa il papa di avere in questi cinque anni avviato un processo “de dilapidación, de deconstrucción” della Chiesa e dice che quello che per gli argentini poteva essere un privilegio e un’opportunità, che il papa cioè fosse un argentino, sarebbe diventato un peso e “una vergogna”.
Mai si era scesi fin qui nella lotta antipapista. E ciò sia detto perché si capisca la posta in gioco, e come debba essere vigilante la fede.
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Cosa dice il “Nobel per la pace” 2017
SCEGLIETE LA VERITÀ PIUTTOSTO CHE IL TERRORE
Il discorso di Beatrice Fihn ad Oslo a nome dell’ICAN, premiata col Nobel per la riuscita campagna a favore del Trattato ONU che mette al bando l’atomica. Un appello alle Nazioni a scegliere la libertà, il disarmo, la legge, i diritti umani, la ragione, il senso, la logica, il senso comune, la saggezza, la fine delle armi nucleari
Il 10 dicembre 2017, l’ICAN ha ricevuto il Premio Nobel per la pace per l’opera volta alla stipulazione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari. Quello che segue è il discorso tenuto da Beatrice Fihn, direttore esecutivo del network, nella cerimonia di consegna del Premio, la cui notizia è stata occultata dalle Televisioni e dai giornali italiani:
Vostre maestà, membri del Comitato Nobel norvegese,stimati ospiti,
oggi è un grande onore accettare il Premio Nobel per la Pace 2017 a nome delle migliaia di persone ispiratrici che hanno preso parte alla Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN).
Insieme abbiamo portato la democrazia al disarmo e stiamo ridando forma alla legge internazionale.
Più di tutti ringraziamo umilmente il Comitato Nobel Norvegese per aver riconosciuto il nostro lavoro e aver dato impulso alla nostra cruciale causa.
Vogliamo dare riconoscimento a coloro che hanno donato così generosamente a questa campagna il loro tempo e le loro energie.
Vogliamo ringraziare i coraggiosi ministri degli esteri, i diplomatici, la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa, i funzionari delle Nazioni Unite, gli accademici e gli esperti con i quali abbiamo collaborato per avanzare nel nostro obiettivo comune.
E ringraziamo tutti coloro che si impegnano per debellare dal mondo questa terribile minaccia.
In dozzine di luoghi intorno al mondo – dentro silos con missili sepolti nella nostra terra, su sottomarini che navigano attraverso i nostri oceani, e a bordo di aerei che volano in alto nei nostri cieli – si trovano 15.000 oggetti di distruzione dell’umanità.
Forse è l’enormità di questo fatto, forse è l’inimmaginabile scala delle conseguenze, che porta molti semplicemente ad accettare questa truce realtà, a continuare con le proprie vite quotidiane senza pensare ai folli strumenti che ci circondano.
Perchè è follia permettere a noi stessi di essere governati da queste armi. Molti dei critici di questo movimento insinuano che siamo noi quelli irrazionali, gli idealisti senza criterio di realtà. Quegli stati dotati di armi nucleari non molleranno mai le loro armi.
Ma noi rappresentiamo la sola scelta razionale. Rappresentiamo quelli che rifiutano di accettare le armi nucleari come ospiti fissi del nostro mondo, quelli che rifiutano di tenere il proprio destino legato a poche righe di un codice di lancio.
La nostra è la sola realtà possibile. L’alternativa è impensabile.
La storia delle armi nucleari avrà una fine, e dipende da noi quale sarà questa fine.
Sarà la fine delle armi nucleari, o sarà la nostra fine?
Una di queste cose accadrà.
L’unica via di azione razionale è quella di smettere di vivere nella condizione per cui la nostra distruzione reciproca dipende da un mero capriccio impulsivo.
Oggi io voglio parlare di tre cose: paura, libertà e futuro.
Per ammissione di coloro stessi che le posseggono, la reale utilità delle armi nucleari sta nella loro abilità nel provocare paura. Quando fanno riferimento al loro effetto “deterrente”, i sostenitori delle armi nucleari celebrano la paura come arma di guerra. Si gonfiano il petto dichiarandosi pronti a sterminare, in un lampo, innumerevoli migliaia di vite umane.
Il Premio Nobel William Faulkner, accettando il suo premio nel 1950, disse: “Rimane solo la questione di quando mi faranno saltare in aria”. Ma da allora, questa paura universale ha lasciato il posto a qualcosa di ancora più pericoloso: la negazione.
Andata è la paura dell’Armageddon in un istante, andato è l’equilibrio tra due blocchi che è stato utilizzato come giustificazione per la deterrenza, andati sono i rifugi dalle piogge radioattive.
Ma una cosa rimane: le migliaia e migliaia di testate nucleari che ci hanno riempiti di questa paura.
Il rischio per l’ uso delle armi nucleari è oggi anche maggiore che alla fine della guerra fredda. Ma a differenza della guerra fredda, oggi ci troviamo di fronte a molti più stati dotati di armi nucleari, a terroristi e a guerre cibernetiche. Tutto questo ci rende meno sicuri.
Imparare a vivere con la cieca accettazione di queste armi è stato il nostro grande errore seguente.
La paura è razionale. La minaccia è reale. Abbiamo evitato la guerra nucleare non grazie a una prudente leadership, ma per pura fortuna. Prima o poi, se non agiamo, la nostra fortuna si esaurirà.
Un momento di panico o di disattenzione, un commento frainteso o un ego ferito, potrebbero facilmente condurci all’inevitabile distruzione di intere città. Un’escalation militare calcolata potrebbe portare all’assassinio indiscriminato di massa di civili.
Se si utilizzasse solo una piccola parte delle armi nucleari odierne, fumo e fuliggine delle tempeste di fuoco si depositerebbero in alto nell’ atmosfera – raffreddando, oscurando e prosciugando la superficie terrestre per oltre un decennio.
Eliminerebbero le colture alimentari, mettendo a rischio per fame miliardi di persone.
Eppure continuiamo a vivere nella negazione di questa minaccia esistenziale.
Ma Faulkner nel suo discorso al Nobel ha anche lanciato una sfida a coloro che sono venuti dopo di lui. Solo in quanto voce dell’ umanità, ha detto, possiamo sconfiggere la paura, possiamo aiutare l’umanità a resistere.
Il compito di ICAN è di essere quella voce. La voce dell’umanità e delle leggi umanitarie; far sentire la propria voce per conto dei civili. Dare voce a quella prospettiva umanitaria è il modo in cui creeremo la fine della paura, la fine della negazione. E in definitiva, la fine delle armi nucleari.
Questo mi porta al secondo punto: la libertà.
Come hanno affermato su questo palco, nel 1985, i Medici Internazionali per la Prevenzione della guerra nucleare, la prima organizzazione in assoluto contro le armi nucleari a vincere questo premio:
“Noi medici dichiariamo l’indignazione del tenere in ostaggio il mondo intero. Protestiamo per l’oscenità morale in base alla quale ognuno di noi è continuamente minacciato dall’estinzione “.
Queste parole suonano ancora vere oggi, nel 2017.
Dobbiamo rivendicare la libertà di non vivere la nostra vita come ostaggi dell’imminente annientamento.
Gli uomini – non le donne! – hanno creato le armi nucleari per controllare altri, ma invece siamo noi ad essere controllati da queste.
Ci hanno fatto false promesse: che rendendo così impensabili le conseguenze dell’uso di queste armi, qualsiasi conflitto sarebbe risultato inattuabile; che ci avrebbe liberati dalla guerra.
Ma, lungi dall’impedire la guerra, queste armi ci hanno portato più volte sull’orlo del conflitto durante tutta la guerra fredda. E in questo secolo, queste armi continuano ad avvicinarci alla guerra e al conflitto.
In Iraq, Iran, Kashmir, Corea del Nord. La loro esistenza spinge altri a unirsi alla corsa nucleare. Non ci tengono al sicuro, causano conflitti.
Come lo stesso premio Nobel per la pace, Martin Luther King Jr, le ha definite da questo palco nel 1964, queste armi sono “sia genocide che suicide”.
Sono la pistola del folle puntata permanentemente alla nostra tempia. Queste armi avrebbero dovuto tenerci liberi, ma ci negano le nostre libertà.
E’ un affronto alla democrazia essere governati da queste armi. Ma sono solo armi. Sono solo strumenti. Così come sono state create dal contesto geopolitico, possono essere distrutte altrettanto facilmente collocandole in un contesto umanitario.
Questo è il compito che ICAN si è prefissata – e il terzo punto di cui vorrei parlare, il futuro.
Oggi ho l’onore di condividere questo palco con Setsuko Thurlow, che ha scelto come proposito della sua vita quello di portare il testimone dell’orrore della guerra nucleare.
Lei e gli hibakusha all’inizio della storia erano lì, e la nostra sfida collettiva è di assicurarci che siano testimoni anche della sua fine.
Loro rivivono quel doloroso passato, ancora e ancora, perché noi possiamo creare un futuro migliore.
Ci sono centinaia di organizzazioni che insieme, come ICAN, stanno compiendo grandi passi avanti verso quel futuro.
Ci sono migliaia di instancabili attivisti che ogni giorno, in tutto il mondo, lavorano per raccogliere questa sfida.
Ci sono milioni di persone in tutto il mondo che si sono alzate in piedi, spalla a spalla con quegli attivisti, per mostrare ad altre centinaia di milioni che un futuro diverso è davvero possibile.
Chi afferma che quel futuro non è possibile deve togliersi dal cammino di coloro che lo rendono una realtà.
Come culmine di questo sforzo popolare, attraverso l’azione della gente comune, quest’anno l’ipotetico è avanzato verso il reale con 122 nazioni che hanno negoziato e concluso un trattato ONU per proibire queste armi di distruzione di massa.
Il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari rappresenta il sentiero da seguire in un momento di grande crisi globale. È una luce in un periodo di buio.
E, più ancora, ci dà una scelta.
Una scelta tra due finali: la fine delle armi nucleari o la nostra fine.
Non è ingenuo credere nella prima possibilità. Non è irrazionale pensare che gli stati nucleari possano disarmarsi. Non è idealistico credere nella vita che supera la paura e la distruzione; è una necessità.
Siamo tutti di fronte a questa scelta. E faccio appello a tutte le nazioni perché aderiscano al Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari.
Stati Uniti, scegliete la libertà piuttosto che la paura.
Russia, scegliete il disarmo piuttosto che la distruzione.
Gran Bretagna, scegliete la regola della legge piuttosto che l’oppressione.
Francia, scegliete i diritti umani piuttosto che il terrore.
Cina, scegliete la ragione piuttosto che l’irrazionalità.
India, scegliete il senso piuttosto che il nonsenso.
Pakistan, scegliete la logica piuttosto che l’Armageddon.
Israele, scegliete il senso comune piuttosto che l’annientamento.
Corea del Nord, scegliete la saggezza piuttosto che la rovina.
Alle nazioni che credono di essere al riparo sotto l’ombrello delle armi nucleari, sarete complici della vostra stessa distruzione e della distruzione di altri in vostro nome?
A tutte le nazioni: scegliete la fine delle armi nucleari piuttosto che la nostra fine!
Questa è la scelta che il Trattato di Proibizione delle armi nucleari rappresenta. Unitevi a questo Trattato.
Noi cittadini viviamo sotto l’ombrello delle menzogne. Queste armi non ci tengono al sicuro, stanno contaminando la nostra terra e la nostra acqua, avvelenando i nostri corpi e tenendo in ostaggio il nostro diritto alla vita.
A tutti i cittadini del mondo: state con noi e chiedete ai vostri governi di schierarsi con l’umanità e di firmare questo trattato. Non ci fermeremo fino a quando tutti gli Stati non avranno aderito, dalla parte della ragione.
Oggi nessuna nazione si vanta di essere uno Stato dotato di armi chimiche.
Nessuna nazione sostiene che sia accettabile, in circostanze estreme, usare il gas nervino Sarin.
Nessuna nazione proclama il diritto di scatenare sul suo nemico la peste o la polio.
Questo perché sono state stabilite norme internazionali, le percezioni sono cambiate.
E ora, alla fine, abbiamo un’inequivocabile norma contro le armi nucleari.
Enormi passi avanti non cominciano mai con un accordo universale.
Con ogni nuovo firmatario e con il passare degli anni, questa nuova realtà prenderà piede.
Questa è la via da seguire. C’è un solo modo per impedire l’uso di armi nucleari: proibirle ed eliminarle.
Le armi nucleari, come le armi chimiche, le armi biologiche, le munizioni a grappolo e le mine antiuomo, ora sono illegali. La loro esistenza è immorale. La loro abolizione è nelle nostre mani.
La fine è inevitabile. Ma questa fine sarà la fine delle armi nucleari o la nostra fine? Dobbiamo sceglierne una.
Siamo un movimento per la razionalità. Per la democrazia. Per la libertà dalla paura.
Siamo attivisti di 468 organizzazioni che lavorano per salvaguardare il futuro, e rappresentiamo la maggioranza morale: i miliardi di persone che scelgono la vita anziché la morte, che insieme vedranno la fine delle armi nucleari.
Beatrice Fihn
(Traduzione dall’inglese di Matilde Mirabella)
Sulle Madri Costituenti
Trascrizione dell’intervento di Luisa Sassu nel Convegno sul 70° della Costituzione, tenutosi lunedì 15 gennaio, promosso dall’Anpi e dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria.
Sulle Madri della Costituzione
di Luisa Sassu
La definizione Madri Costituenti o Madri della Costituzione è diventata, da alcuni anni, di uso comune e affianca quella più consueta di Padri Costituenti.
Entrambe le definizioni esprimono significati molto evocativi, ad alto valore semantico, perché richiamano, attraverso la metafora del padre e della madre, la genesi di quel processo democratico che ha consegnato la Carta Costituzionale al nostro Paese.
Tuttavia, pur nel quadro di questo valore semantico generale, la definizione di Madri Costituenti esprime qualcosa di più, poiché rappresenta l’ambizione di restituire alle donne il ruolo che hanno svolto nella storia democratica del Paese, e, nel contempo, di restituire alla storia democratica del Paese il ruolo svolto dalle donne, in una sorta di restituzione reciproca in cui è stata resa giustizia alle donne e completezza d’analisi (quindi verità) alla storia.
Fin dal 2014 l’ANPI del territorio di Cagliari promuove occasioni di approfondimento dedicate alle donne della Resistenza e alle Madri della Costituzione, in una collana con questo titolo che ci ha permesso di scoprire biografie straordinarie di donne straordinarie anche nella normalità della loro vita quotidiana (abbiamo ricordato Nilde Jotti, Nadia Spano, Teresa Noce, le protagoniste del voto alle donne, e alcune partigiane e antifasciste che non hanno partecipato alla Costituente, ma ne hanno condiviso il percorso, come Lidia Menapace e Bianca Sotgiu).
Queste occasioni di approfondimento tematico ci hanno permesso, inoltre, di cogliere e valorizzare il fatto che l’agire politico di quelle donne presentava delle peculiarità rispetto all’agire politico degli uomini; abbiamo potuto cogliere e valorizzare il modo in cui sono uscite dal contesto delle mura domestiche per contribuire prima alla Liberazione del Paese, poi per esigere ed esercitare il diritto di voto, e, infine , all’alba della Repubblica, per scrivere la Costituzione. Ma anche, negli anni a seguire, per promuovere una legislazione ordinaria che si conformasse ai valori e ai principi costituzionali faticosamente conquistati.
Osservando quel contesto storico, si può dire che le Madri della Costituzione sono state molto più numerose delle Madri Costituenti (se mi si consente una articolazione concettuale), perché nell’ottenimento dei diritti e dei principi costituzionali, quel piccolo gruppo di 21 Madri Costituenti raccoglieva il testimone e la rappresentanza di tutte le donne che, della Costituzione, avevano creato le condizioni e le premesse.
È così approdata, nella Assemblea Costituente, quella dialettica continua, incessante e inesauribile, tra la differenza di genere e la tensione verso la piena espansione del principio di uguaglianza.
L’analisi specifica dell’agire politico delle donne nei contesti storici di cui oggi parliamo, sebbene fossero contesti per molti aspetti eccezionali e irripetibili, ha favorito l’utilizzo di categorie analitiche peculiari, diverse ma ancora attuali, che posano uno sguardo di genere in una materia, quella politica e istituzionale, che manteneva e mantiene una forte connotazione maschile.
Una di queste categorie di analisi è il valore della consapevolezza. [segue]
Oggi martedì 16 gennaio 2018
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Ieri a Cagliari affollata assemblea nel segno della Costituzione
16 Gennaio 2018
[Democraziaoggi] Ieri si è tenuta a Cagliari la celebrazione del 70° della Costituzione organizzata dal Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria e dall’ANPI. Una affollata assemblea ha ascoltato in commosso silenzio il ricordo di Francesco Cocco fatto da Gianna Lai, responsabile ANPI, e, ad opera di Antonio Muscas dell’Assemblea permanente di Villacidro, di Vincenzo Pillai, compagni recentemente scomparsi, cui l’incontro è stato dedicato. Poi, in sequenza, lo storico Gianni Fresu ha tracciato un quadro della nascita, in seno alla Resistenza. dell’idea di Costituente, la costituzionalista Silvia Niccolai ha parlato dei lavori dell’Assemblea costituente, mentre Massimo Villone, presidente nazionale del Comitato per la democrazia costituzionale, ha delineato lo scenario preoccupante dell’oggi, per la compressione in atto dei diritti e delle facoltà democratiche. L’eminente costituzionalista ha indicato nei principi della Carta il programma di sviluppo del Paese. Poi Luisa Sassu e Tonino Dessì hanno, rispettivamente, parlato di due elementi di novità della nostra storia costituzionale: la prima volta delle donne nelle assemblee elettive, le ”madri costituenti”, e l’irrompere nel nostro ordinamento delle autonomie regionali, fattore di crescita democratica, anche se oggi in crisi.
Due ore di alta riflessione sul passato e sul futuro del nostro Paese visto nell’ottica della difesa e dell’attuazione della Costituzione. I grandi problemi del nostro tempo, come il lavoro, la pace, l’equa distribuzione della ricchezza, le migrazioni, trovano nella Costituzione una base di soluzione mite, giusta e fraterna. Un incontro, dunque, non di pura rievocazione storica, ma di richiamo alla lotta nel segno della “rivoluzione promessa” contenuta nella nostra Carta, secondo la efficace espressione di Piero Calamandrei.
Francesco in Cile
di Raniero La Valle
RESISTENZA DI FRONTE ALL’AVANZARE DEL PARADIGMA TECNOCRATICO
Il papa ha presentato il suo biglietto da visita al popolo cileno nel primo discorso tenuto alla Moneda: la Chiesa chiede perdono ed esprime dolore per il danno recato ai bambini da alcuni suoi ministri, e invita a resistere al potere economico che irrompe sugli ecosistemi naturali e sul bene comune dei nostri popoli
Questi i temi principali del discorso tenuto martedì 16 gennaio dal papa nel palazzo della Moneda alla presidente del Cile MIchelle Bachelet e alle autorità del Paese:
«E’ una gioia per me potermi trovare nuovamente sul suolo latino-americano e iniziare la visita a questa amata terra cilena, che mi ha ospitato e formato durante la mia gioventù; vorrei che questo tempo con voi fosse anche un tempo di gratitudine per tanto bene ricevuto». Sono le prime parole pronunciate dal Papa in terra cilena, e riferite all’anno di studio che ha passato da giovane nel Paese, ora prima tappa del suo 22° viaggio apostolico internazionale.
Polifonia culturale del Cile. «Mi torna alla mente quella strofa del vostro inno nazionale», ha proseguito il Papa nel suo primo discorso, rivolto alle autorità, alla società civile e ai membri del Corpo diplomatico: «Puro, o Cile, è il tuo cielo azzurro / e pure brezze ti attraversano / e la tua campagna ricamata di fiori / è la copia felice dell’Eden»: «un vero canto di lode per la terra che abitate, colma di promesse e di sfide, ma specialmente carica di futuro», il commento di Francesco, che ha ringraziato la presidente uscente Bachelet per il suo discorso di benvenuto e attraverso di lei ha salutato e abbracciato il popolo cileno, «dall’estremo nord della regione di Arica e Parinacota fino all’arcipelago sud e al suo dissolversi in penisole e canali». «La vostra diversità e ricchezza geografica ci permette di cogliere la ricchezza della polifonia culturale che vi caratterizza», il tributo del Papa ai cileni, salutando anche il presidente eletto, Sebastián Piñera Echenique, che ha ricevuto recentemente il mandato del popolo cileno di governare il Paese nei prossimi quattro anni. L’incontro con le autorità si è svolto questa mattina alle 8.20 locali (le 12.20 ora di Roma), al Palacio de La Moneda, dove l’11 settembre del 1973 è morto il presidente Salvador Allende. Al termine dell’incontro con l’autorità, la visita di cortesia alla presidente Bachelet, con la presentazione della famiglia e lo scambio di doni.
Far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti. «Il Cile si è distinto negli ultimi decenni per lo sviluppo di una democrazia che gli ha consentito un notevole progresso», ha fatto notare il Papa, che ha definito le recenti elezioni politiche «una manifestazione della solidità e maturità civica raggiunta, e ciò acquista un particolare rilievo quest’anno nel quale si commemorano i 200 anni della dichiarazione di indipendenza». «Momento particolarmente importante – ha sottolineato – poiché segnò il vostro destino come popolo, fondato sulla libertà e sul diritto, chiamato anche ad affrontare diversi periodi turbolenti riuscendo tuttavia – non senza dolore – a superarli». «In questo modo voi avete saputo consolidare e irrobustire il sogno dei vostri padri fondatori», il tributo di Francesco, che ha citato le «emblematiche parole del card. Silva Henríquez quando in un Te Deum affermò: ‘Noi – tutti – siamo costruttori dell’opera più bella: la patria. La patria terrena che prefigura e prepara la patria senza frontiere. Tale patria non comincia oggi, con noi; e tuttavia non può crescere e fruttificare senza di noi. Perciò la riceviamo con rispetto, con gratitudine, come un compito iniziato da molti anni, come un’eredità che ci inorgoglisce e al tempo stesso ci impegna’». «Ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte», la consegna del Papa, secondo il quale «il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno». «Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi a goderlo in modo che tale situazione ci porti a disconoscere che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti», l’appello.
Democrazia luogo d’incontro per tutti. «Avete davanti una sfida grande e appassionante: continuare a lavorare perché la democrazia, il sogno dei vostri padri, ben al di là degli aspetti formali, sia veramente un luogo d’incontro per tutti». È la parte centrale del primo discorso del Papa in Cile. «Che sia un luogo nel quale tutti, senza eccezioni, si sentano chiamati a costruire casa, famiglia e nazione», l’auspicio di Francesco: «Un luogo, una casa, una famiglia, chiamata Cile: generoso, accogliente, che ama la sua storia, che lavora per il presente della sua convivenza e guarda con speranza al futuro». Poi il Papa ha citato San Alberto Hurtado, nel cui omonimo santuario concluderà la giornata di oggi, per la visita privata e l’incontro con 90 sacerdoti cileni della Compagnia di Gesù: «Una nazione, più che per le sue frontiere, più che la sua terra, le sue catene montuose, i suoi mari, più che la sua lingua o le sue tradizioni, è una missione da compiere. È futuro. E quel futuro si gioca, in gran parte, nella capacità di ascolto che hanno il suo popolo e le sue autorità». «Tale capacità di ascolto acquista un grande valore in questa nazione – ha ammonito Francesco – dove la pluralità etnica, culturale e storica esige di essere custodita da ogni tentativo di parzialità o supremazia e che mette in gioco la capacità di lasciar cadere dogmatismi esclusivisti in una sana apertura al bene comune, che se non presenta un carattere comunitario non sarà mai un bene».
«È indispensabile ascoltare». È all’insegna di questo imperativo, che il Papa ha delineato le sfide più urgenti che il Cile deve raccogliere, per assicurare un futuro di diplomazia e di pace. «Ascoltare i disoccupati, che non possono sostenere il presente e ancor meno il futuro delle loro famiglie», ha iniziato Francesco entrando nel dettaglio: «ascoltare i popoli autoctoni, spesso dimenticati, i cui diritti devono ricevere attenzione e la cui cultura protetta, perché non si perda una parte dell’identità e della ricchezza di questa nazione. Ascoltare i migranti, che bussano alle porte di questo Paese in cerca di una vita migliore e, a loro volta, con la forza e la speranza di voler costruire un futuro migliore per tutti. Ascoltare i giovani, nella loro ansia di avere maggiori opportunità, specialmente sul piano educativo e, così, sentirsi protagonisti del Cile che sognano, proteggendoli attivamente dal flagello della droga che si prende il meglio delle loro vite. Ascoltare gli anziani, con la loro saggezza tanto necessaria e il carico della loro fragilità. Non li possiamo abbandonare». «Ascoltare i bambini, che si affacciano al mondo con i loro occhi pieni di meraviglia e innocenza e attendono da noi risposte reali per un futuro di dignità», ha concluso il Papa facendo espresso riferimento alla pedofilia. «Non posso fare a meno di esprimere il dolore e la vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa», le sue parole: «Desidero unirmi ai miei fratelli nell’episcopato, perché è giusto chiedere perdono e appoggiare con tutte le forze le vittime, mentre dobbiamo impegnarci perché ciò non si ripeta».
«Prestare un’attenzione preferenziale alla nostra casa comune». Si è concluso con questo appello il primo discorso del Papa in Cile. «Far crescere una cultura che sappia prendersi cura della terra e a tale scopo non accontentarci solo di offrire risposte specifiche ai gravi problemi ecologici e ambientali che si presentano», l’invito di Francesco, che sulla scorta della Laudato sì ha chiesto ai cileni l’audacia di «uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico» che «privilegia l’irruzione del potere economico nei confronti degli ecosistemi naturali e, di conseguenza, del bene comune dei nostri popoli». «La saggezza dei popoli autoctoni può offrire un grande contributo», ha garantito il Papa, secondo il quale «da loro possiamo imparare che non c’è vero sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra e a tutto quello e tutti quelli che la circondano». «Il Cile possiede nelle proprie radici una saggezza capace di aiutare ad andare oltre la concezione meramente consumistica dell’esistenza per acquisire unatteggiamento sapienziale di fronte al futuro», l’omaggio di Francesco: «L’anima del carattere cileno è vocazione ad essere, quella caparbia volontà di esistere. Vocazione alla quale tutti sono chiamati e rispetto alla quale nessuno può sentirsi escluso o dispensabile. Vocazione che richiede un’opzione radicale per la vita, specialmente in tutte le forme nelle quali essa si vede minacciata».
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