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Rapporto Svimez 2017. Il Meridione e la Sardegna perdono i loro giovani: nell’ultimo quindicennio 30 miliardi regalati al Centro Nord italiano e all’estero
RAPPORTO SVIMEZ 2017: SECONDO LE PREVISIONI, IL MEZZOGIORNO RESTA AGGANCIATO ALLA RIPRESA ECONOMICA DELL’ITALIA ANCHE NEL 2017 E NEL 2018. LA RESILIENZA ALLA CRISI NON E’ STATA OMOGENEA, TRA REGIONI E TRA SETTORI. RIPARTE L’INDUSTRIA MERIDIONALE. I NUOVI VOLTI DEL DUALISMO: DEMOGRAFICO, GENERAZIONALE, NEI SERVIZI PUBBLICI. AUMENTA IL LAVORO MA CON BASSE RETRIBUZIONI, CRESCE IL PART TIME INVOLONTARIO. UN SUD USCITO DALLA RECESSIONE E REATTIVO GIOVA ALL’ITALIA INTERA, MA IL PERSISTERE DELLA GRAVE EMERGENZA SOCIALE E IL DEPAUPERAMENTO DEL CAPITALE UMANO MERIDIONALE MINANO IL CONSOLIDAMENTO DEL PROCESSO DI SVILUPPO.
(a cura di Svimez)
Le proposte SVIMEZ nel Rapporto 2017 sull’economia del Mezzogiorno presentato il 7 novembre a Roma, nella Sala della Lupa, alla Camera dei Deputati.
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(…) Secondo la SVIMEZ, che ha elaborato una stima inedita del depauperamento di capitale umano meridionale, considerando il saldo migratorio dell’ultimo quindicennio, una perdita di circa 200 mila laureati meridionali, e moltiplicata questa cifra per il costo medio che serve a sostenere un percorso di istruzione elevata, la perdita netta in termini finanziari del Sud ammonterebbe a circa 30 miliardi, trasferiti alle regioni del Centro Nord e in piccola parte all’estero.
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Il Mezzogiorno è uscito dalla lunga recessione e nel 2016 ha consolidato la ripresa, registrando una performance per il secondo anno superiore, se pur di poco, rispetto al resto del Paese. L’industria manifatturiera meridionale è cresciuta al Sud nel biennio di oltre il 7%, più del doppio del resto del Paese (3%); influiscono positivamente le politiche di sviluppo territoriale mentre restano le difficoltà delle imprese del Sud ad accedere agli strumenti di politica industriale nazionale. La stretta integrazione e interdipendenza tra Sud e Nord rafforza la necessità di politiche meridionaliste per far crescere l’intero Paese. Ottima la performance soprattutto al Sud delle esportazioni nel biennio 2015-2016
Le previsioni per il 2017 e il 2018 confermano che il Mezzogiorno è in grado di agganciare la ripresa, facendo segnare tassi di crescita di poco inferiori a quelli del Centro-Nord.
Tuttavia la ripresa congiunturale è insufficiente ad affrontare le emergenze sociali. Il tasso di occupazione nel Mezzogiorno è ancora il più basso d’Europa (35% inferiore alla media UE), nonostante nei primi 8 mesi del 2017 siano stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura “Occupazione Sud”. La povertà e le politiche di austerità deprimono i consumi. Il Sud è un’area non più giovane né tantomeno il serbatoio di nascite del Paese. Il Governo nell’ultimo anno ha riavviato le politiche per il Sud; fondamentali due interventi: le ZES e la “clausola del 34%” sugli investimenti ordinari.
Le previsioni per il 2017 e il 2018 – Secondo stime SVIMEZ aggiornate a ottobre, nel 2017 il PIL italiano cresce dell’1,5%, risultato del +1,6% del Centro-Nord e del +1,3% del Sud. Nel 2018 il saggio di crescita del PIL nazionale si attesta al1’,4% con una variazione territoriale dell’1,4% nel Centro-Nord e dell’1,2% al Sud. A trascinare l’evoluzione positiva del PIL nel 2017 e nel 2018 l’andamento della domanda interna, che al Sud registra, rispettivamente, +1,5% e +1,4% (nel Centro-Nord, invece, aumenta quest’anno del +1,6% e il prossimo del +1,3%). Nel 2018 la SVIMEZ prevede un significativo aumento sia delle esportazioni che degli investimenti totali, che cresceranno più nel Mezzogiorno che al Centro-Nord: le esportazioni del +5,4% rispetto a +4,3%, gli investimenti del 3,1% rispetto a +2,7%. Aumento apprezzabile dell’occupazione: +0,7% al Sud sia nel 2017 che nel 2018, e +0,8% in entrambi gli anni al Centro Nord.
Secondo la SVIMEZ, queste previsioni inglobano anche gli effetti della legge di Bilancio 2018, e scontano la mancata attivazione della clausola di salvaguardia relativa all’aumento delle aliquote IVA nel 2018 per circa 15 miliardi. La SVIMEZ ha realizzato una simulazione per valutare quali sarebbero stati gli effetti della manovra sull’IVA nelle due macro aree del Paese, se fosse stata realizzata: in quel caso l’economia meridionale avrebbe subito il maggior impatto, in quanto, nel biennio 2018/2019, il PIL del Sud avrebbe perso quasi mezzo punto percentuale di crescita, -0,47%, mentre quello del Centro-Nord avrebbe avuto un calo dello -0,28%.
I principali dati economici del 2016 – Nel 2016 il PIL è cresciuto nel Mezzogiorno dell’1%, più che nel Centro-Nord dove è stato pari a +0,8%. Nello specifico delle singole Regioni meridionali, il PIL 2016 più performante è quello della Campania +2,4%, seguita da Basilicata +2,1%, Molise +1,6%, Calabria +0,9%, Puglia +0,7%, Sardegna +0,6%, Sicilia +0,3%, Abruzzo -0,2%. Nel 2016 il prodotto per abitante è stato nel Mezzogiorno pari a 56,1% di quello del Centro Nord (66% di quello nazionale). Il PIL per abitante della regione più ricca d’Italia, il Trentino Alto Adige, con i suoi 38.745 euro pro capite, è più che doppio di quello della regione più povera, la Calabria, che è pari a 16.848 euro ad abitante. I consumi delle famiglie meridionali sono aumentati nel 2016 dell’1,2%, contro l’1,3% del Centro Nord: in particolare, la spesa alimentare e quella per abitazioni cresce al Sud meno che nel resto del Paese. Nel 2016 gli investimenti sono cresciuti nel Mezzogiorno del 2,9%, un incremento sostanzialmente in linea con quello del Centro Nord (+3%. Nel 2016 in agricoltura il valore aggiunto, dopo il boom del 2015, è tornato a diminuire, -8,8% rispetto al 2015, che si traduce in -9,5% nel Mezzogiorno e -1,9% nel Centro Nord. Nell’industria il prodotto è cresciuto al Sud (+3%) più che al Centro Nord (+1%). Positivo nel Mezzogiorno anche il valore aggiunto delle costruzioni (+0,5%), rispetto al centro Nord (-0,3%). Infine, nel terziario il valore aggiunto del Mezzogiorno con +0,8% ha superano quello del Centro Nord (+0,5%).
Secondo la SVIMEZ, l’aumento del PIL meridionale mostra primi segni di solidità: il recupero del settore manifatturiero, cresciuto del +2,2%, la ripresa dell’edilizia (+0,5%9, il positivo andamento dei servizi (+0,8%), soprattutto nel turismo, legata alle crisi geopolitiche dell’area del Mediterraneo che hanno dirottato parte dei flussi verso il Mezzogiorno.
Interdipendenza tra Sud e Nord – La domanda interna del Sud, data dalla somma di consumi e investimenti, attiva circa il 14% del PIL del Centro-Nord (nel 2015, un ammontare di circa 177 miliardi di euro). I recenti referendum in Lombardia e Veneto hanno riaperto la discussione sul tema del residuo fiscale. I flussi redistributivi verso le regioni meridionali sono in calo di più del 10%, da oltre 55,5 a circa 50 miliardi. Peraltro le risorse che, sotto diverse forme, affluiscono al Sud, non restano circoscritte al solo Mezzogiorno, ma hanno effetti economici che si propagano all’Italia intera.
Secondo la SVIMEZ, che ha fatto una valutazione quantitativa di tali effetti, su 50 miliardi di residui fiscali di cui beneficia il Mezzogiorno, 20 ritornano direttamente al Centro-Nord, altri contribuiscono a rafforzare un mercato che resta, per l’economia dell’intero Paese, ancora rilevante.
Rilancio degli investimenti pubblici. Nel 2016 hanno toccato il punto più basso della serie storica (la spesa in conto capitale è stata il 2,2% del PIL, nel Mezzogiorno appena lo 0,8%), dopo il modesto incremento del 2015. L’andamento della spesa in conto capitale in questi anni mette il Mezzogiorno su un livello molto più basso rispetto ai livelli pre crisi. Il crollo della spesa per infrastrutture nell’ultimo cinquantennio è stato del -2% medio annuo a livello nazionale, sintesi di un -0,8% nel Centro-Nord e -4,8% nel Sud. In termini pro capite, gli investimenti in opere pubbliche nel 1970 erano pari a livello nazionale a 529,6 euro, con il Centro-Nord a 450,8 e il Mezzogiorno a 673,2 euro. Nel 2016 si è passati a 231 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 296 e il Mezzogiorno a meno di 107 euro pro capite.
Secondo la SVIMEZ, l’attivazione della clausola del 34% potrebbe invertire il trend, ma dovrebbe riguardare non solo le Amministrazioni Centrali ma anche il Settore pubblico allargato. La SVIMEZ chiede inoltre di rafforzare l’efficacia di tale norma prevedendo un monitoraggio al Parlamento e l’istituzione di un Fondo di perequazione delle risorse ordinarie in conto capitale, in cui riversare le eventuali risorse non spese nel Mezzogiorno, per poi finanziare i programmi maggiormente in grado di raggiungere l’obiettivo del riequilibrio territoriale.
Pubblica amministrazione al Sud: -21.500 dipendenti – La qualità dei servizi pubblici nel Mezzogiorno presenta un quadro di luci e ombre. Il Sud è un’area penalizzata nel godimento di alcuni diritti di cittadinanza e nell’offerta dei servizi pubblici. Tra gli aspetti postivi, un deciso calo dei procedimenti di giustizia civile pendenti, più accentuato al Sud, e un forte recupero nella diffusione dell’ICT nella P.A.
Secondo la SVIMEZ, c’è un forte ridimensionamento della P.A. nel Mezzogiorno, in termini di risorse umane e finanziarie, tra il 2011 e il 2015: -21.500 dipendenti pubblici (nel Centro-Nord sono calati di -17.954 unità) e una spesa pro capite corrente consolidata della P.A. (fonte CPT) pari al 71,2% di quella del Centro-Nord. Un divario in valore assoluto di circa 3.700 euro a persona. La sfida di una maggiore efficienza della macchina pubblica al Sud passa per una sua profonda riforma ma anche per un suo rafforzamento attraverso l’inserimento di personale più giovane a più alta qualificazione. Ciò a dispetto dei luoghi comuni che descriverebbero un Sud inondato di risorse e dipendenti pubblici.
La Qualità del Lavoro al Sud: crescono gli occupati al Sud ma a basso reddito – Nelle regioni meridionali nel 2016 gli occupati sono aumentati dell’1,7%, pari a 101 mila unità, ma mentre le regioni centro settentrionali hanno recuperato integralmente la perdita di posti di lavoro avvenuta durante la crisi (+48 mila nel 2016 rispetto al 2008), in quelle meridionali la perdita di occupazione rispetto all’inizio della recessione è ancora pari a 381 mila unità. Nel 2016 l’occupazione giovanile meridionale è aumentata marginalmente, di sole 18 mila unità (+1,3%), la crescita maggiore continua a riguardare gli ultra cinquantenni, con oltre 109 mila unità, pari a +5,6%. Sulla crescita dell’occupazione nel Mezzogiorno incide l’ulteriore aumento del part time involontario (+1,9%), di poco inferiore all’80% del lavoro a tempo parziale. L’unica regione del Sud dove gli occupati calano è la Sardegna e, in misura più contenuta, la Sicilia. I livelli restano comunque generalmente distanti da prima della crisi: -10,5% di occupati in Calabria, – 8,6% in Sicilia, -6,6% in Sardegna e Puglia, -6,3% in Molise, -5% in Abruzzo. Solo in Campania (-2,1%) e Basilicata (-0,8%) siamo su valori vicini a quelli del 2008. L’aumento dei posti di lavoro al Sud riguarda in particolare l’agricoltura (+5,5%), l’industria (+2,4%) e il terziario (+1,8%). Nei primi 8 mesi del 2017 sono stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura “Occupazione Sud”, grazie alla proroga delle misure per la decontribuzione dei nuovi assunti nel Mezzogiorno decise dal Governo.
Secondo la SVIMEZ, la crescita dei posti di lavoro nell’ultimo biennio riguarda innanzitutto gli occupati anziani, nella media del 2016 si registrano ancora oltre 1 milione e 900 mila giovani occupati in meno rispetto al 2008. E poi il lavoro a tempo parziale, che però non deriva dalla libera scelta individuale ma è involontario. Si sta consolidando un drammatico dualismo generazionale, al quale si affianca un deciso incremento dei lavoratori a bassa retribuzione, conseguenza dell’occupazione di minore qualità e della riduzione d’orario, che deprime i redditi complessivi.
Il depauperamento del capitale umano meridionale
Alla fine del 2016 il Mezzogiorno ha perso altri 62 mila abitanti. Il saldo migratorio totale del Sud continua a essere negativo e sfiora le 28 mila unità, mentre nel Centro Nord è in aumento di 93.500. In particolare nel 2016 la Sicilia perde 9.300 residenti, la Campania 9.100, la Puglia 6.900. Il pendolarismo nel Mezzogiorno nel 2016 ha interessato circa 208 mila persone, di cui 54 mila si sono spostate all’interno del Sud, mentre ben 154 mila sono andate al Centro-Nord o all’estero. Questo aumento di pendolari spiega circa un quarto dell’aumento dell’occupazione complessiva del Mezzogiorno di circa 101 mila unità nel 2016.
Secondo la SVIMEZ, che ha elaborato una stima inedita del depauperamento di capitale umano meridionale, considerando il saldo migratorio dell’ultimo quindicennio, una perdita di circa 200 mila laureati meridionali, e moltiplicata questa cifra per il costo medio che serve a sostenere un percorso di istruzione elevata, la perdita netta in termini finanziari del Sud ammonterebbe a circa 30 miliardi, trasferiti alle regioni del Centro Nord e in piccola parte all’estero. Quasi 2 punti di PIL Nazionale. E si tratta di una cifra al ribasso, che non considera altri effetti economici negativi indotti.
La ripresa non migliora il contesto sociale – Nel 2016 10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta, contro poco più di 6 nel Centro Nord. L’incidenza della povertà assoluta nel 2016 nel Mezzogiorno aumenta nelle periferie delle aree metropolitane e nei comuni più grandi. Il rischio di cadere in povertà è triplo al Sud rispetto al resto del Paese, nelle due regioni più grandi, Sicilia e Campania, sfiora il 40%. L’emigrazione sembra essere l’unico canale di miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie meridionali. Secondo la SVIMEZ, l’introduzione del reddito di inclusione avvia un processo per dotare anche l’Italia di una forma universalistica di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Ma per ora l’impegno finanziario è assolutamente insufficiente: del REI beneficerà soltanto il 38% circa degli individui in povertà assoluta per importi che sono generalmente compresi fra il 30 e il 40% della soglia di povertà assoluta per molte tipologie familiari. Vanno fatte scelte redistributive che, senza gravare sul bilancio pubblico, consentano di allargare la platea dei fruitori. Si tratta di una misura che avrebbe un impatto sui consumi senza dubbio notevole.
Credito, il surplus dei depositi al Sud finanzia l’economia del Centro-Nord – Il rapporto tra impieghi – incluse le sofferenze – e i depositi è strutturalmente più elevato nel Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno: nel 2016 esso è pari a 1,14 al Sud contro 1,74 nel resto del Paese. Questo divario evidenzia il trasferimento della raccolta dalle regioni meridionali a quelle centro-settentrionali. Nel 2016 nel Mezzogiorno, a fronte di depositi raccolti dalle banche operanti nell’area per 283 miliardi, ci sono solo 278 miliardi di impieghi. Livelli di impieghi inferiori ai depositi si riscontrano in tutte le regioni del Mezzogiorno, ad eccezione delle Isole. Il rapporto tra impieghi e depositi risulta particolarmente basso in Molise, Basilicata e Calabria. Al contrario, nelle regioni centro-settentrionali, si osserva un fenomeno opposto: a fronte di 959 miliardi di depositi raccolti, ci sono 1.610 miliardi di impieghi.
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*COMUNICATO STAMPA
Roma, 7 novembre 2017
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Rapporto Svimez 2017 Tutti i materiali
Oggi giovedì 9 novembre 2017
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La scuola non è mercato, ma luogo del sapere e della formazione
9 Novembre 2017
Gianna Lai su Democraziaoggi.
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Gli Editoriali di Aladinews. DIBATTITO. Proposta di istituzione di un “servizio civico” che garantisca un reddito minimo alle famiglie in difficoltà.
Il servizio civico. Una proposta per garantire un reddito minimo alle famiglie in difficoltà generando dignità e coesione sociale.
di Vittorio Rinaldi, su LabSus.
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Carla Nespolo è la nuova Presidente Nazionale dell’ANPI
Eletta all’unanimità dal Comitato Nazionale dell’Associazione riunitosi oggi, è il primo Presidente nazionale ANPI donna e non partigiano. Carlo Smuraglia nominato Presidente emerito
Il Comitato Nazionale ANPI, riunitosi oggi, a seguito delle previste dimissioni di Carlo Smuraglia che nel Congresso di Rimini del 2016 accettò il rinnovo dell’incarico seppure a termine, ha proceduto alla elezione del nuovo Presidente Nazionale dell’ANPI. È stata votata all’unanimità Carla Nespolo, prima Presidente dell’ANPI donna e non partigiana. Carlo Smuraglia è stato, sempre all’unanimità, nominato Presidente Emerito affinché continui una proficua collaborazione con particolare riferimento a specifici temi quali l’attuazione della Costituzione, l’impegno antifascista e la realizzazione del Protocollo ANPI-MIUR.
Chianciano Terme 3 novembre 2017
Oggi mercoledì 8 novembre 2017
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Gli Editoriali di Aladinews. Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti. I 150 anni del «Capitale» e l’equilibrio economico generale, di Riccardo Sorrentino, blog Sole24ore
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IL PUNTO DI LABSUS
La chiave di volta? Considerare la scuola come bene comune
Ilaria Vietina – 7 novembre 2017 su LabSus
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DEMOCRAZIA
Meglio conquistare la società
di LUCIANA CASTELLINA
il manifesto, 7 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Ottobre rosso. Abbiamo bisogno di una nuova dialettica movimenti/partito. Una società che non solo protesta ma anche costruisce: c’è bisogno di forme di organizzazione permanenti della democrazia»(c.m.c.)
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Cent’anni dopo la “Rivoluzione contro Il Capitale”.
8 Novembre 2017
Tonino Dessì su Democraziaoggi.
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CAMPAGNA ABBONAMENTI al quindicinale ROCCA promossa da ALADINEWS
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la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
SI IMPEGNA
per la pace, i diritti umani, la democrazia,
la nonviolenza, la giustizia.
Non super partes ma dalla parte degli emarginati
dei poveri e degli oppressi, sempre tenendo ferma
la barra dei valori.
Non con sterili polemiche ma con una critica seria e
motivata, ricercando possibili soluzioni e soprattutto
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Alla base ricerca teologica, biblica, etica, scientifica e un particolare riferimento alla vita ecclesiale.
QUINDICINALMENTE
Rocca propone chiavi di lettura
per mettere ciascuno in grado di interpretare e
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Invitando a compararla con le altre fonti perché Rocca non pretende di avere ragione ma di avere ragioni.
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e competenza, ciascuno nel proprio settore.
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e tantomeno da legami partitici o pubblicitari.
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Elezioni siciliane e dintorni
Pensieri sparsi (qualcuno potrebbe definirli scarsi) sulle elezioni siciliane.
E dintorni: tocca anche a me rimettere i piedi per terra.
di Tonino Dessì, su fb.
Ripensando a un’animata recente discussione sulla legge elettorale sarda, mi è caduto l’occhio sui risultati prodotti dal meccanismo della legge elettorale siciliana, che si basa sul l’elezione diretta del Presidente, sul voto disgiunto e su una premialità maggioritaria sostanzialmente coincidente con l’assegnazione al candidato presidenziale vincitore dei sei seggi di un listino regionale.
Con trentasei seggi assegnati al centrodestra, venti al M5S, tredici alla coalizione a guida PD, uno alla sinistra, balza agli occhi che la maggioranza a Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea Regionale Siciliana, è appesa a due voti di vantaggio, il che, conoscendo le turbolenze della politica italiana anche nelle sedi locali, non è che garantisca grande coesione nè lineare coerenza interna, salva la deterrenza del meccanismo dissolvente, che vige anche da loro. I sostenitori del proporzionale secco potranno obiettare che, anche qualora esiti analoghi si determinassero senza elezione diretta e senza premio di maggioranza, la vitalità del gioco parlamentare sarebbe sempre in grado di produrre coalizioni, maggioranze, intese.
A me viene in mente che se ciò accadesse in Sicilia con la situazione di quelle rappresentanze, non esiteremmo a riesumare polemicamente il fantasma del Milazzismo.
La competizione presidenziale, sembra di capire, è stata determinata dalla facoltà del voto disgiunto. Nonostante le opinioni prevalenti inclinino a difendere questa facoltà come ampliamento della libertà di scelta dell’elettore, io continuo a chiedermi se invece essa non rappresenti piuttosto uno strumento che premia oltre misura il personalismo politico a scapito della coincidenza tra voto presidenziale e voto di coalizione, da cui forse deriverebbero risultati più trasparenti e magari politicamente più stabili.
L’altra cosa che mi ha colpito nel profondo è che il tema dell’autonomia non sembra, da quel che ho potuto leggere e sentire, aver sfiorato nemmeno un po’ la campagna elettorale.
Fa una certa impressione che ciò sia potuto accadere nella Regione speciale italiana dotata costituzionalmente della forma più forte di autonomia.
Anche la più malata, a dir di tutti: sarà per questo, tanto reticente silenzio.
Sicilia ridotta, insomma, al rango politico di una lontana, anche se popolosa provincia, terra di razzia dei partiti italiani, la cui residua specificità sembrerebbe coincidere, semmai, solo nelle contrastanti valutazioni sull’incidenza della criminalità organizzata più nota del mondo. La Mafia (esiste?), la cui esistenza e la cui minaccia anche in termini di democrazia autonomistica non sembra nemmeno esser stata particolarmente neanch’essa al centro del confronto fra le forze politiche, visti tra l’altro i risultati complessivi.
Poi ci si interroga sul perché più della metà degli elettori nemmeno è andata a votare.
Mala tempora currunt quindi, se la specialità più significativa è ridotta così.
Da dove mai attingere a mo’ di esempio?
Da noi stessi?
Non si direbbe.
Mentre si trascina una delle più grigie (prefettizia, l’ha definita qualcuno) esperienze politico-istituzionali della storia sarda contemporanea, confusi movimenti si colgono in vista di elezioni nemmeno troppo lontane, sullo sfondo vago di suggestioni e di abbagli indotti dalla scottante vicenda catalana.
Due mesi fa abbiamo visto l’establishment consociativo istituzionalmente prevalente celebrare la vacuità di se stesso a Siamaggiore, officiante il PSd’Az.
Un’altra iniziativa ha visto concelebranti il massimo ancorché stagionato leader regionale del PD e il leader del PDS.
Un’ulteriore iniziativa del PSd’Az e de La Base ha chiamato a proprio supporto Vittorio Sgarbi.
Ieri, apparentemente a latere, ma non troppo, mi pare che si sia celebrata a Cagliari, con sull’altare il noto politico-imprenditore di Sanluri e alcuni intellettuali della sua corte, una messa funebre in suffragio dell’indipendentismo.
Messa mesta anche per l’autonomia, mi è parso di capire (non poteva essere diversamente, visto il “capitolo” orante).
Per di più in qualche modo si è voluto consumare un rito “corpore praesenti”, con la partecipazione diaconale di alcuni esponenti vecchi e nuovi di un’area che nemmeno saprei più se continuare a etichettare come indipendentista, considerati discorsi a livello di attempati studenti fuori sede di cui apprendo e ragionamenti da grillini di seconda mano che leggo (ma a quel punto, quando sarà il momento, si farà il confronto con gli originali).
Intanto Salvini si fa fotografare con gadget dei Quattro Mori.
Non so più nemmeno se valga più la pena che io continui a sbattermi scrivendo di cose sarde.
DIBATTITO. Proposta di istituzione di un “servizio civico” che garantisca un reddito minimo alle famiglie in difficoltà.
Il servizio civico.
Una proposta per garantire un reddito minimo alle famiglie in difficoltà generando dignità e coesione sociale.
di Vittorio Rinaldi*
È giunta alla fine del mese di agosto la notizia dell’approvazione da parte del governo Gentiloni dell’atteso provvedimento riguardante il reddito di inclusione sociale a favore delle famiglie in difficoltà economica. Dal 1 gennaio 2018 il nuovo provvedimento porterà alle famiglie in stato di povertà un assegno di importo variabile fra i 190 e i 485 euro mensili, a seconda delle situazioni. La nuova misura beneficerà una platea stimata complessivamente in circa 400.000 nuclei familiari, equivalenti grosso modo a 1,8 milioni di persone. Durata massima di 18 mesi rinnovabili dopo un periodo di sospensione. Tutti coloro che a vario titolo sono coinvolti dal problema non possono che plaudire all’approvazione del provvedimento e noi siamo certamente fra questi. Il reddito di inclusione sociale, tuttavia, nasce sulla scorta di due premesse teoriche, spesso implicite e strettamente intrecciate tra loro, che meritano un serio approfondimento in vista degli scenari prossimi venturi.
La prima premessa sottesa alla strategia dell’attuale provvedimento poggia sulla convinzione secondo cui l’attuale stato di crisi industriale del paese potrà essere superato con la crescita derivante dalla ripresa degli investimenti e nell’arco di qualche tempo riportarci in prossimità dei livelli occupazionali di fine Novecento. La seconda premessa, conseguente alla prima ed egualmente discutibile, ritiene che nella misura in cui la ripresa vedrà risalire il numero degli impiegati, il bisogno di interventi di inclusione sociale verrà a calare e quindi la misura odierna risulterà alla fine transitoria. Cercheremo in poche parole di argomentare perché tali premesse siano poco convincenti e quindi perché resti necessario concepire per gli anni a venire una diversa forma di reddito minimo, i cui contorni proveremo a delineare sommariamente unendo la riflessione sulle prospettive della lotta alla povertà con quella altrettanto indispensabile sul problema della dignità dei disoccupati e dei suoi riflessi sulla coesione sociale.
Cominciamo da alcuni dati. Nonostante i segnali di miglioramento della produzione industriale riportati dalle statistiche nel corso del 2017, in Italia continuano ad esservi da diverso tempo quasi 3 milioni persone prive di impiego. Senza contare gli inattivi, che hanno smesso di cercare lavoro, e i sotto-occupati, che lavorano meno di quanto vorrebbero, il tasso di disoccupazione continua ad attestarsi da diversi anni oltre l’11% e la percentuale dei giovani senza lavoro intorno alla soglia del 40%. Il tracollo dei livelli occupazionali a partire dal 2008 è ben noto non solo agli addetti ai lavori e si vede chiaramente rispecchiato nelle fotografie della povertà italiana scattate nel corso degli anni dall’Istituto Nazionale di Statistica e dalla Caritas. Dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008, il numero dei poveri assoluti in Italia è letteralmente raddoppiato e ancor oggi più di 4 milioni di persone, oltre il 6% delle persone residenti nel paese, vive in condizioni di povertà assoluta. Detto in termini piuttosto grossolani, ma non per questo meno efficaci, in Italia 1 persona su 4 continua a non arrivare a fine mese e 1 pensionato su 2 a vivere con meno di 1000 euro al mese. A ciò si possono aggiungere tutti gli altri indicatori empirici che ciascuno di noi può toccare con mano ogni giorno uscendo da casa, o anche restando a casa: crisi aziendali perduranti, mutui inevasi, affitti in arretrato, esaurimento dei risparmi familiari, insolvenze bancarie, sfratti per morosità, bollette non pagate, una clamorosa divaricazione della forbice delle diseguaglianze sociali in un quadro di natalità declinante.
Nell’insieme ci troviamo cioè di fronte a svariati indicatori che a dieci anni dall’inizio della crisi evidenziano ormai il cronicizzarsi delle difficoltà di tante famiglie, inducendo a pensare che non siamo affatto in presenza di un trend di crisi congiunturale e tantomeno destinato a risolversi nel breve periodo. Se guardiamo oltre la patina superficiale della contingenza, molte evidenze lasciano presagire che la disoccupazione e la precarietà continueranno a costituire tratti costitutivi della vita di milioni di italiani anche nel prossimo futuro. Le prorompenti trasformazioni apparse sulla scena internazionale negli ultimi decenni hanno infatti introdotto elementi di mutazione radicale e non facilmente reversibile nelle forme dell’organizzazione del lavoro e nella sua divisione mondiale, con un impatto dirompente sulle condizioni di vita e sulle opportunità di reddito di milioni di italiani. A tale mutazione hanno concorso – come noto – molteplici fattori: la finanziarizzazione sempre più spinta degli investimenti, l’esternalizzazione di segmenti consistenti dei servizi e delle lavorazioni manifatturiere, la drastica precarizzazione dei rapporti di lavoro e la loro polverizzazione in una miriade di tipologie contrattuali, la delocalizzazione dei processi produttivi, con la conseguente rottura del legame antico fra economia e territorio, l’affermarsi di una competizione globale della mano d’opera, con la conseguente spirale al ribasso di salari e tutele sindacali.
Ma alla radicale mutazione degli ultimi anni ha concorso a un livello più profondo, e concorrerà in maniera probabilmente ancor più profonda in futuro, la tumultuosa ondata di innovazioni tecnologiche apparse a fine millennio, che hanno permesso l’introduzione dei sistemi a controllo numerico negli impianti industriali, l’automazione elettronica e più in generale l’informatizzazione e la digitalizzazione di servizi e procedure operative. Al netto delle variabili di natura politico-economica, le innovazioni tecnologiche di fine millennio hanno incrementato in maniera imponente la produttività dei sistemi industriali, comprimendo al contempo in maniera sensibile la quantità di forza lavoro umana necessaria al loro funzionamento; da cui l’effetto paradossale di una crescita economica rilevante, ma strutturalmente incapace di generare lavoro, e quindi un trasferimento di ricchezza a senso unico a favore dei ceti a maggior reddito.
Se ai mutamenti fin qui comparsi si aggiunge la prospettiva dell’imminente irruzione della robotica di ultima generazione, con i suoi rivoluzionari risvolti applicativi nei più disparati settori della vita umana, si capisce perché oggi sia davvero poco realistico prevedere che il numero di persone senza impiego e dei “working poors” vada a diminuire, almeno nel breve e medio periodo, mentre assai più verosimile appare la probabilità che la massa di disoccupati e precari odierni tenda a mantenersi o addirittura ad incrementarsi, dato il numero sempre più elevato di comparti professionali e settori merceologici investiti dai processi di automazione, robotizzazione e digitalizzazione.
Lo scenario che si profila all’orizzonte non può non preoccupare perché non si circoscrive a un problema di natura squisitamente economica. La progressiva esclusione dal lavoro di quote crescenti di giovani e meno giovani si accompagna, e si accompagnerà ancor più negli anni a venire, ad una crescente “individualizzazione dei destini”, intesa nella peggior accezione del termine, ovverosia al diffondersi di vissuti soggettivi di rassegnazione, di solitudine, di depressione, di disperazione, di caduta dell’autostima, di perdita di fiducia nelle proprie capacità e nel significato della vita, di ripudio delle istituzioni e della comunità circostante. Si accompagna e si accompagnerà dunque a processi sempre più estesi di isolamento, esclusione ed auto-esclusione sociale. Alla fine tali processi metteranno a repentaglio non soltanto i livelli d’impiego e i tenori di vita materiale delle persone e delle famiglie, ma anche la reale consistenza della loro cittadinanza politica e la tenuta dei loro equilibri interiori e dei loro legami sociali; metteranno a repentaglio la qualità della convivenza civica e il potenziale di sviluppo del capitale umano del nostro paese.
A fronte di tali prospettive è evidente quanto urgente sia un piano di rilancio dell’economia nazionale che persegua la riduzione della disoccupazione e della precarietà facendo leva sugli elementi di forza del sistema paese – turismo, patrimonio culturale, manifatture di qualità, industria 4.0, green economy, agro-alimentare, e via discorrendo. Ma altrettanto evidente è che i tempi di maturazione di siffatto rilancio non saranno probabilmente tanto rapidi e tanto pervasivi da consentire un veloce e completo riassorbimento della mano d’opera, e i loro frutti sotto il profilo occupazionale alla fin fine nemmeno così certi, proprio in ragione degli imprevedibili esiti dei processi di automazione tecnologica in corso.
Anche alla luce di tali incertezze, dobbiamo dunque prevedere per gli anni a venire una misura nazionale di sostegno al reddito che vada incontro strutturalmente ai bisogni delle persone e delle famiglie in difficoltà; una misura che ci metta cioè in grado di fronteggiare strutturalmente gli scenari prossimi venturi agendo sia sui risvolti materiali che su quelli immateriali dei vissuti di precarietà e carenza di lavoro. E per incidere strutturalmente sia sugli aspetti materiali che su quelli immateriali della sofferenza sociale, tale misura dovrà essere disegnata guardando non solo al nodo del reddito, ma anche al tema spesso nascosto della valorizzazione sociale delle persone in condizione di disoccupazione e precarietà; dovrà cioè porre estrema attenzione anche alle sue implicazioni sotto il profilo dell’identità, della dignità professionale e della possibilità per l’individuo disoccupato di avere una comunità di appartenenza e un riconoscimento sociale al proprio esistere. Se si tengono nel dovuto conto anche questi aspetti immateriali, spesso lasciati in secondo ordine dagli studi economici sulla disoccupazione, si capisce perché la questione non potrà più risolversi in futuro con una mera erogazione di denaro, essendo il sussidio monetario certamente vitale per alleviare le ristrettezze, ma niente affatto risolutivo rispetto ai temi dell’identità, della dignità professionale e del ruolo sociale dei soggetti esclusi dal mondo del lavoro, o in esso inclusi in modo saltuario e intermittente.
Sino alla fine del Novecento questi risvolti cruciali delle biografie personali – identità, dignità professionale e ruolo sociale – erano usualmente connaturati alla condizione di lavoratori dei cittadini. Poiché in futuro non saranno in pochi a vedere sempre meno associate tali dimensioni identitarie a una stabile posizione di lavoratori, allora noi non possiamo esimerci dal dovere di immaginare per disoccupati e precari una nuova funzione pubblica, che sia in grado di offrire loro quell’identità, quella dignità professionale e quel ruolo sociale che il solo contributo monetario non può fornire e che rischia anzi di deteriorare con l’instaurarsi di meccanismi progressivi di dipendenza passiva dall’assistenza pubblica. Con l’occhio rivolto al futuro dobbiamo cioè prefigurare un nuovo “ruolo pubblico” che sappia coniugare in sé i benefici dell’intervento statale a favore delle persone disagiate con la contestuale necessità di valorizzarle socialmente e professionalmente, evitando di ridurle alla sgradevole condizione di casi umani cronicamente assistiti e pietosamente dipendenti dall’elemosina collettiva. Onde scongiurare tale eventualità, ciò che qui proponiamo è l’istituzione di una figura che invece di occuparsi della produzione di beni e servizi a cambio di un salario, come avviene normalmente nel caso dei lavoratori, riceva dall’Ente pubblico un reddito civico a cambio di prestazioni continuative erogate in tutti quegli spazi interstiziali della cura delle persone e dei territori che la produzione remunerata di beni e servizi lascia scoperti; e che dunque può in tal modo inserirsi come attore protagonista di un sistema di welfare generativo e da tale posizionamento ricavare quell’identità, quella dignità e quel ruolo sociale che il solo status di percettore di sussidio non gli garantiscono.
A differenza dell’attuale norma di reddito di inclusione sociale, la proposta che qui prefiguriamo inverte quindi sul piano concettuale gli ordini della formula: mette lo svolgimento di un ruolo di pubblico servizio a monte del diritto di percezione di una sovvenzione pubblica, e non subordina obbligatoriamente la partecipazione a tale ruolo alla previsione di un successivo inserimento nel mondo del lavoro salariato. In un certo senso sposta i termini del problema dal capitolo “spesa per il sostegno al reddito” a quello di “investimento per la coesione sociale della comunità”. E lo fa immaginando un servizio civico istituzionalmente riconosciuto e specificamente preposto alla cura dei legami umani, alla lotta contro l’abbandono delle persone e in generale al servizio delle comunità locali, dei loro territori e dei loro beni comuni.
Onde evitare che l’addetto a questo servizio civico scivoli fin dal principio nella categoria del lavoratore di serie B, è essenziale che fin dal principio esso sia sotto ogni effetto distinto nel suo posizionamento giuridico e contrattuale da quella del lavoratore salariato. Egli dovrà quindi differenziarsi in maniera inequivocabile da quest’ultimo per quadro di riferimento normativo, per ambiti di intervento e per statuto professionale; così come non dovrà confondersi con la figura del volontario, che in varie forme e vari modi continuerà ad offrire le sue prestazioni gratuite nell’ambito del libero associazionismo, mentre al contrario l’addetto al servizio civico percepirà un reddito mensile fisso dall’Ente pubblico – il reddito civico per l’appunto – a fronte delle azioni di cura svolte nel quartiere o nel paese di residenza. Detto in altre parole, l’addetto al servizio civico dovrà dedicarsi allo svolgimento di attività utili alle persone e all’ambiente che non siano contestualmente svolte da lavoratori salariati -pubblici o privati-, evitando attentamente la sovrapposizione o la competizione con le prestazioni fornite da personale di amministrazioni locali, società pubbliche e private o cooperative sociali.
Nello spettro dei possibili impieghi dell’addetto al servizio civico potrebbero allora rientrare le tante forme di assistenza a disabili, anziani, minori o ammalati, che mettono a valore pubblico il lavoro di cura e le competenze informali che abitualmente vivificano i nostri circuiti domestici. Tra i compiti del servizio civico potrebbero quindi ricadere attività come il fare le spese per conto di anziani e malati, recarsi presso sportelli pubblici e disbrigare pratiche burocratiche in loro vece, portare a passeggio invalidi, accompagnare i malati a fare gli esami, visitare i lungodegenti in ospedale, prendersi cura dei loro animali, promuovere momenti di animazione e ricreazione nei quartieri, organizzare spettacoli ed eventi per giovani e bambini, collaborare alla realizzazione di iniziative umanitarie in caso di emergenze. Parimenti potrebbero rientrare tra le incombenze dell’addetto al servizio civico opere ausiliarie di protezione civile e di salvaguardia del territorio, quali ad esempio ripristinare terreni dissestati, dare manutenzione a greti di fiumi e sentieri di campagna, riqualificare aree urbane abbandonate, riordinare spazi comuni, tinteggiare edifici pubblici dismessi, presidiare beni artistici e culturali, collaborare alla gestione di sportelli informativi, promuovere iniziative di sensibilizzazione ecologica.
L’addetto al servizio civico, almeno nella presente visione, dovrebbe prestare servizio mediante un contratto appositamente regolato che lo impegni per un massimo di 20 ore alla settimana, esercitabili orizzontalmente o verticalmente a seconda dei casi, ma in ogni caso cumulabili con un altro eventuale lavoro remunerato di durata equivalente. Il carattere part- time del servizio civico consentirebbe all’addetto di avere tempo a sufficienza per cercare un impiego a tempo completo, per seguire percorsi di aggiornamento e riqualificazione professionale, oppure semplicemente per studiare. Il contratto di servizio civico potrebbe avere come corrispettivo un reddito mensile standard ipotizzabile intorno ai 400/500 euro mensili, percepibili da tutti i cittadini maggiorenni con un reddito familiare annuo inferiore a un valore Isee precisamente definito dal legislatore e quindi condizionato periodicamente alla prova dei mezzi.
Il reddito civico impostato in questi termini verrebbe così a distinguersi, per alcuni aspetti, e a coincidere, per altri, tanto rispetto alla misura del reddito di inclusione sociale quanto con quella del reddito di cittadinanza, anch’esso oggetto di accese discussioni negli ultimi tempi per via della sua impraticabilità finanziaria. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che a differenza del provvedimento recentemente approvato dal governo, il reddito di cittadinanza è un reddito di base universale; è cioè un versamento che dovrebbe essere concesso dallo Stato incondizionatamente a ogni individuo per il solo fatto di essere cittadino del paese, a prescindere dalla sua situazione economico-professionale e dalla sua disponibilità a cercare o meno un lavoro, nel caso non ce l’abbia. Viceversa il reddito di inclusione sociale è una forma di reddito minimo; costituisce cioè una prestazione specificamente finalizzata al contrasto alla povertà ed è quindi riservata solo a chi vive in situazioni di disagio a fronte del suo impegno a sottoscrivere coi servizi sociali un percorso personalizzato di reinserimento lavorativo caratterizzato da programmi di riqualificazione e aggiornamento professionale in vista di un (presunto e raramente raggiunto) rientro nel mondo del lavoro.
La presente proposta si colloca, per così dire, a metà strada. Analogamente a entrambe, ritiene che l’entrata in vigore di un reddito garantito sia una priorità dell’agenda politica nazionale e debba essere sostenuta attraverso la fiscalità generale senza prevedere tassazioni e prelievi fiscali di sorta. E analogamente a entrambe, ha probabilmente tra i suoi presupposti la convinzione che le risorse pubbliche destinate allo scopo avrebbero una ricaduta economica benefica sul lato della domanda, trattandosi di denari destinati ad essere pressoché interamente spesi in consumi dai fruitori. Analogamente al solo reddito di cittadinanza, invece, il nostro reddito civico prevede che le erogazioni siano versate senza limiti di tempo. Ma diversamente da quest’ultimo, non è pensato come un diritto accessibile indistintamente a tutti in virtù dell’unico requisito della cittadinanza, bensì come un diritto riservato alla sola fascia dei cittadini economicamente in difficoltà. Il redito civico potrebbe quindi essere cumulabile con altri redditi da lavoro solo entro una precisa percentuale oraria ed entro limiti quantitativi ben definiti. Sotto questo profilo le sue premesse si avvicinano maggiormente a quelle del reddito d’inclusione sociale, con cui condivide anche l’opzione del computo dei redditi dell’intero nucleo familiare nel calcolo dei parametri di idoneità e la sostituzione di altre forme di indennità. Ma a differenza del reddito d’inclusione sociale, il reddito civico non sarebbe concepito come una misura temporanea di carattere assistenziale in vista di un successivo (e di solito improbabile) reinserimento nel mondo del lavoro. E ciò per la semplice ragione che il reddito civico, così come qui è formulato, costituisce esso stesso la contropartita di un’attività generatrice di valore, per quanto distinta nelle sue premesse e nelle sue finalità dal lavoro salariato così come noi lo esperiamo abitualmente.
Il reddito civico, come qui lo concepiamo, è la ricompensa della collettività all’individuo per l’esercizio di un’opera civica, non il viatico della sua presa in carico da parte dei servizi sociali. Presuppone quindi che si acquisisca concettualmente, e poi si istituisca anche formalmente, l’idea di servizio civico inteso come qualcosa di giuridicamente distinto sia dal lavoro salariato e sia dall’attività di volontariato. Presuppone che il legislatore faccia propria la convinzione che il percettore di un reddito civico é un soggetto dotato di una propria rispettabilità socio-professionale proprio in quanto incaricato del servizio civico, in quanto addetto per mandato istituzionale alla generazione di coesione sociale e alla cura dei beni comuni. E che come tale dovrebbe quindi essere rappresentato e pubblicamente riconosciuto. Di riflesso nella nostra visione l’addetto al servizio civico è un cittadino a pieno titolo che non abbisogna per forza di un progetto di reinserimento personalizzato, dal momento che il ruolo di addetto civico lo rende già, ipso facto, una figura socialmente inserita, professionalmente attiva e pubblicamente riconosciuta. È per questo che ipotizziamo una retribuzione mensile indifferenziata, uguale per tutti i soggetti che assumono quel ruolo.
Se vogliamo, l’addetto civico così come qui lo prefiguriamo è un soggetto impegnato in una sorta di servizio civile permanente, che invece di riguardare una fascia generazionale, viene riservato a una fascia sociale, quella appunto dei soggetti più penalizzati economicamente. Come il giovane del servizio civile, così anche l’addetto al servizio civico potrebbe trovare ordinamento istituzionale mediante un apposito albo istituito a livello comunale, provinciale e regionale. A partire dall’iscrizione all’albo, egli potrebbe essere attivato nel quartiere o nel Comune di residenza sulla base di una chiara progettazione e di meccanismi di controllo costruiti dai servizi sociali comunali insieme alle realtà del terzo settore locali. Onde non ripetere la fallimentare esperienza dei lavori socialmente utili degli anni scorsi, è infatti cruciale che l’intero processo preveda un sistema di governance adeguatamente strutturato a livello locale, ma anche integrato e interagente a livello sovra- locale. Entro questo sistema l’Inps potrebbe erogare gli assegni e monitorare la correttezza delle procedure, i patronati e i centri per l’impiego potrebbero provvedere alla raccolta delle domande, alla selezione degli aventi diritto e alla composizione degli albi, mentre i servizi sociali comunali in stretta relazione con le realtà del terzo settore territoriali potrebbero farsi carico della programmazione, della gestione e del monitoraggio ordinario del servizio erogato dalla persona sul campo.
Dall’introduzione del reddito civico guadagnerebbero tutti: ne guadagnerebbero i disoccupati di lungo periodo, che potrebbero recuperare una propria comunità di appartenenza e dignità sociale; ne guadagnerebbero i giovani inoccupati, che verrebbero a trovarsi inseriti in network di contatti e relazioni utili per scoprire altre e successive possibilità d’impiego; ne guadagnerebbero gli anziani, i malati, gli svantaggiati, gli invalidi, i bambini ospedalizzati, così come le loro famiglie provate dalla fatica e le associazioni di volontariato o le cooperative sociali che li seguono. Ne guadagnerebbe la ripresa economica e ne guadagnerebbe la tutela dei beni comuni. Ne guadagnerebbero la serenità delle famiglie e la nostra speranza collettiva nel futuro del paese.
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* Vittorio Rinaldi. Antropologo, docente universitario e Presidente del Consorzio Altromercato.
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Fonte pubblicazione: LabSus
Gigi Riva Auguri!
Oggi è il compleanno di Gigi Riva. Sono 73.
Infatti è nato a Leggiuno, provincia di Varese, il 7 novembre 1944.
Arrivato a Cagliari quando aveva 18 anni, è uno di noi.
Lombardo, ha voluto e saputo farsi sardo, un’impresa che a molti sardi non riesce. Auguri Giggirriva.
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Oggi martedì 7 novembre 2017
Oggi comincia il Festival della Scienza
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La Rivoluzione contro il Capitale
7 Novembre 2017 su Democraziaoggi.
(Democraziaoggi) 100 anni or sono il partito bolscevico prendeva il Palazzo d’inverno e instaurava la Repubblica dei Soviet. Il giovane Gramsci scrisse allora il celebre articolo “La Rivoluzione contro il Capitale”. Lo ripubblichiamo in ricordo dell’evento che ha segnato il XX secolo e che segnerà, nel bene e nel male, i secoli futuri finché gli uomini e le donne aspireranno ad una società di liberi e uguali.
Oggi alle 18 a Cagliari nel Circolo di Rifondazione Comunista in via S. Domenico 10 ci sarà un “Brindisi per la Rivoluzione”.
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SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2017
“Chi ci guida non deve essere calato dall’alto”
di TOMMASO RODANO
il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Tommaso Rodano intervista Anna Falcone, l’avvocato animatrice, con Tomaso Montanari, dell’Assemblea popolare per la democrazia e l’eguaglianza.
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Anche Livorno adotta il Regolamento per la gestione dei beni comuni urbani: le opinioni dei cittadini
Su LabSus
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Fiera della Sardegna
Forse si svegliano!
(RAS) Fiera Internazionale della Sardegna, protocollo preliminare in vista dell’accordo di programma per la riqualificazione del compendio.
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Venerdì 3 novembre a Villa Devoto il presidente Francesco Pigliaru, il sindaco di Cagliari Massimo Zedda (in rappresentanza anche della Città metropolitana), il presidente dell’Autorità portuale Massimo Deiana e il presidente della Camera di commercio di Cagliari Maurizio De Pascale hanno sottoscritto il Protocollo d’intesa finalizzato alla stipula dell’Accordo di programma per la riqualificazione del compendio della Fiera Internazionale della Sardegna.
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Aladinews in argomento.
Impegnati per il Lavoro e per il Reddito dignitosi per tutti
Su segnalazione del prof. Gianfranco Sabattini pubblichiamo un articolo di Riccardo Sorrentino, giornalista esperto di economia del Sole24ore – traendolo dal suo blog - e ascrivendolo alla documentazione utile per il nostro lavoro preparatorio al Convegno su Lavoro e Reddito di Cittadinanza, programmato (seppur non ancora definito) dal Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria. L’articolo di Sorrentino non è certo di facile lettura per quanti non appartengono alla categoria degli economisti o comunque di quanti praticano/studiano la scienza economica, tuttavia dà conto anche per i non esperti del quadro teorico generale in cui si situa il dibattito sull’argomento di nostro specifico interesse, quello del Lavoro/Reddito di Cittadinanza. Al riguardo citiamo un passo dello stesso articolo: ” …La rivoluzione di Marx non si è però verificata, neanche nei paesi che al marxismo hanno voluto richiamarsi, e la profezia di Keynes non si è verificata; mentre la disoccupazione tecnologica è un problema serio e non risolvibile in tempi rapidi. Oggi si punta piuttosto al reddito di cittadinanza“. Buona lettura!
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I 150 anni del «Capitale» e l’equilibrio economico generale
di Riccardo Sorrentino, blog Sole24ore
(nella foto, dedica di Karl Marx a Johann Eccarius, segretario generale della prima Internazionale: da una copia del 1867 del Capitale attualmente in vendita a Vienna, presso Antiquariat Inlibris Gilhofer Nfg, a 1.500.000 euro)
Quell’odore di zolfo
Era il 14 settembre 1867. Un editore di Amburgo, in Germania, pubblica un ponderoso testo di economia: Das Kapital, il Capitale, scritto da Karl Marx. Era il primo volume, l’unico completato dall’autore: gli altri due – o tre se si comprende anche la parte storica, le Teorie del plusvalore – sono l’elaborazione dei manoscritti postumi compiuta da diversi curatori: Friedrich Engels, Karl Kautsky alla fine dell’800 e, più recentemente, Maximilien Rubel. Non fu un successo editoriale, con gran delusione dell’autore; ma il libro è notissimo, a volte famigerato. Da esso emana ancora un diabolico odor di zolfo. È paradossale, ma a differenza del Manifesto del partito comunista – che davvero agitò le masse ma che con il suo elogio del capitalismo permette un suo recupero culturale selettivo – un articolato apprezzamento del Capitale fa correre il rischio ancora oggi di apparire come un rivoluzionario sostenitore di alcuni tra i peggiori regimi politici degli ultimi 100 anni.
Marx è morto e neanche il socialismo si sente troppo bene…
Sono passati 150 anni dal giorno della pubblicazione. Da allora la scienza economica ha compiuto enormi passi avanti (e ha cambiato paradigma). Così la statistica, e quindi l’econometria, che si occupano della verifica empirica delle teorie e dei modelli. Il socialismo centralizzato auspicato dai seguaci di Marx conosce inoltre proprio in questi giorni l’ultima grande sconfitta, e la peggiore: il Venezuela, con le più grandi riserve petrolifere al mondo, perde tragicamente il confronto economico – superficiale quanto si vuole, ma non del tutto peregrino – con l’autocratica e teocratica Arabia Saudita, che ha una popolazione di analoghe dimensioni.
Un testo da leggere
Eppure, come avvertiva l’economista austriaco Joseph Schumpeter – non certo sospettabile di simpatie per il comunismo – il Capitale non va dimenticato. A maggior ragione oggi che non è più la Bibbia per nessuno: se si legge ancora Platone e la sua Repubblica non si vede perché non si possa studiare Marx. Il Capitale è infatti un testo filosofico, prima che economico: ha come sottotitolo “Critica dell’economia politica” e ‘critica’, in questo caso, ha un significato kantiano ed hegeliano. Come la Critica della ragion pura è una critica interna della ragione, di cui vengono individuati i limiti, come la filosofia hegeliana procede attraverso una critica interna, che ne individui le contraddizioni, di ogni forma dello spirito, così quella di Marx è una critica interna all’economia politica del suo tempo. L’idea di fondo è quella di mostrare che l’economia politica è contraddittoria, e lo è perché contraddittoria – e non semplicemente conflittuale – è l’economia capitalista: un modo decisamente hegeliano di procedere. Quella del Capitale è allora una critica diversa quindi da quella proposta da Piero Sraffa nel suo Produzione di merci a mezzo di merci: un’introduzione alla critica dell’economia politica, che è invece una critica esterna, non è filosofica ma economica, e punta a stabilire un paradigma diverso da quello marginalista e marshalliano.
Filosofia e capitalismo
Il testo di Marx è stato uno dei primi – ma non si dimentichi il precedente di Hegel – ad affrontare filosoficamente il tema dell’economia. Alcuni tra gli economisti classici – Adam Smith, ma anche John Stuart Mill – erano anche filosofi; da altri – compresi John Maynard Keynes o Amartya Sen – è possibile “estrarre” un pensiero che vada oltre il discorso scientifico; tanti altri filosofi (e scienziati sociali) si sono occupati in qualche modo di economia, ma è stato Marx per primo che ha posto al centro del suo pensiero il capitalismo come l’orizzonte nel quale agivano e pensavano gli uomini e le donne del suo tempo (e quelle di oggi). Adottando peraltro un’idea conflittuale – ma anch’essa filosofica, hegeliana: è la dialettica del padrone e dello schiavo (salariato, in questo caso…) – della società: l’idea dello scontro tra proletari e borghesi che non è solo decisamente superata – la borghesia non esiste più, e i proletari sono quantomeno cambiati – ma ha anche creato molti danni al movimento socialista, proprio perché interpretata sociologicamente e non filosoficamente. Un approccio basato sul conflitto sociale – in un contesto sociologico e non certo filosofico – è stato peraltro adottato da studiosi liberali di alto livello, si pensi a Raymond Aron e a Ralf Dahrendorf.
I fraintendimenti sul Capitale
Da una lettura oggi, superato il gergo hegeliano – ma Marx era in fondo un hegeliano, molto più vicino all’idealismo di quanto si voglia immaginare – emergeranno così, tra l’altro, i mille fraintendimenti che le opposte ideologie in guerra hanno diffuso sul Capitale. Per esempio, a Marx non interessa l’eguaglianza dei redditi o delle ricchezze (non ne parla, infatti). Per Marx non è vero che i beni sono scambiati in base al valore-lavoro: anche per lui, come per tutti gli economisti, i prezzi sono definiti da domanda e offerta. Né è presente nell’opera una previsione del crollo del capitalismo. La logica interna del trattato è, piuttosto, quello di mostrare che anche un’economia in cui i prezzi sono per così dire “giusti” – cioè corrispondenti al valore-lavoro – è destinata a cadere periodicamente in crisi. Nulla di particolarmente rivoluzionario: per capire che il capitalismo è soggetto alle crisi, in fondo basta leggere il Sole 24 Ore. O guardare fuori dalla finestra…
Marx e la disoccupazione tecnologica
Quella che è rivoluzionaria è la spiegazione della crisi offerta dal Capitale che, a prescindere dalle opinioni politiche di ciascuno di noi, non può che suonare attuale, anche dopo aver fatto i conti con il progresso della scienza economica (che occorrerebbe peraltro conoscere bene…). Secondo Marx – semplificando, e molto – ciascun imprenditore, in un sistema economico decentrato, ha l’incentivo ad adottare tecnologie che riducano l’apporto del lavoro. Così facendo, però, la disoccupazione aumenta e la domanda si riduce: i prodotti offerti non sono venduti, il tasso di profitto crolla, e l’economia va in crisi. Esistono, secondo il filosofo di Treviri, molte forze che si oppongono a questa tendenza, che però non scompare perché legata al desiderio di massimizzare il profitto. Anche in questo caso, al di là dell’effettiva validità della teoria marxiana nella sua totalità, non c’è nulla che sia troppo lontano dall’attualità: l’idea che la tecnologia – intesa però come variabile esogena – sia la causa delle recessioni è ancora oggi discussa (è la teoria dei real business cycles), mentre i timori che la tecnologia crei disoccupati cronici e irrecuperabili sono oggi molto forti.
Lavorare meno…
La soluzione, per Marx, è la creazione consapevole di un sistema – da lui chiamato comunista perché privo dell’incentivo del profitto e quindi della proprietà privata, e al tempo stesso coordinato politicamente e non più decentrato e ‘anarchico’ come il mercato – che usi la tecnologia e gli aumenti di produttività per ridurre il tempo destinato al lavoro, rendendo uomini e donne liberi di… pescare, cacciare o fare i critici. Un’idea, quella della liberazione dal lavoro, non diversa dalla profezia – una previsione, in questo caso – di John Maynard Keynes (le Possibilità economiche per i nostri nipoti) che il capitalismo, invece, apprezzava molto e voleva salvare (si veda Capitalist Revolutionary: John Maynard Keynes, di Roger E. Backhouse e Bradley W. Bateman). La rivoluzione di Marx non si è però verificata, neanche nei paesi che al marxismo hanno voluto richiamarsi, e la profezia di Keynes non si è verificata; mentre la disoccupazione tecnologica è un problema serio e non risolvibile in tempi rapidi. Oggi si punta piuttosto al reddito di cittadinanza.
Il Capitale come testo di economia
Il Capitale è stato a lungo letto anche come un testo di scienza economica. Dai socialisti come dai critici del marxismo. In un’ottica hegeliana non è del tutto sbagliato che una critica all’economia politica sia direttamente anche una critica e quindi un’analisi critica dell’economia, anche se questo approccio ha creato qualche perversione: di fronte a un fenomeno economico – notava Joan Robinson – un economista valuta dati e teorie, un marxista la loro interpretazione alla luce del “sacro testo”. Marx si muove inoltre all’interno dell’economia classica – Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill – al punto da poter essere considerato un esponente di quella scuola, ormai totalmente superata: la scienza economica non si è semplicemente evoluta, ma ha cambiato paradigma, e i suoi strumenti teorici sono completamente cambiati. Alla fine dell’Ottocento non sono però mancati economisti marxiani non comunisti né socialisti.
Marxisti contro Marx
La storia della recezione del Capitale da parte degli economisti è curiosa: dopo le critiche di Ladislaus von Bortkiewicz, e successivamente in base al teorema di Okishio, tutti i marxisti hanno abbandonato la “legge tendenziale” – un concetto che Marx ha mutuato da John Stuart Mill e che lui stesso riteneva frenata da mille altre forze e iniziative politiche – della caduta del tasso di profitto, che era il vero cuore del trattato. Al punto da rifiutare in toto il recente lavoro di alcuni economisti americani che, nel tentativo di rendere il Capitale un testo coerente, sono in grando di salvare proprio questa legge. Tra questi c’è Andrew Kliman (Reclaiming Marx’s ‘Capital’: A Refutation of the Myth of Inconsistency, e The Failure of Capitalist Production: Underlying Causes of the Great Recession) pronto peraltro ad ammettere, correttamente, che la coerenza interna dell’opera non ci dice nulla sulla verità e della validità delle teorie che presenta.
Alla ricerca di un’alternativa
Marx criticava la moderna teoria economica per superarla. Le moderne scuole eterodosse puntano così a creare un paradigma diverso. Una scelta del tutto legittima, ovviamente, i cui esiti non sono scontati. Marxisti – ormai da più di un secolo – neo-ricardiani, postkeynesiani (che spesso sono in realtà seguaci dell’economista marxiano Michał Kalecki) cercano di aprirsi un’altra strada rispetto all’economia mainstream. Al di là di ogni valutazione della validità dei loro risultati, questi studiosi si muovono però spesso in polemica anche aspra tra loro e con una limitata capacità – come aveva notato Luigi Pasinetti (Keynes and the Cambridge Keynesians: A ‘Revolution in Economics’ to be Accomplished, tradotto in italiano come Keynes e i keynesiani di Cambridge) – di collaborare e fare crescere un approccio organico e scientifico all’economia. Un nuovo paradigma, del resto, non viene creato e non si impone con un atto di volontà, ma deve rispondere a serie considerazioni scientifiche e, soprattutto, essere un lavoro in un certo senso collettivo, come avviene in qualunque settore scientifico.
La lezione di Marx
Cosa farebbe invece un Marx di oggi? Ammesso che la domanda abbia davvero senso, lavorerebbe all’interno del paradigma dominante e quindi, inevitabilmente, della teoria dell’equilibrio economico generale. La teoria è uno dei massimi risultati della scienza economica moderna – sono stati necessari 70 anni per completarla, e continua a essere sviluppata – e si può tranquillamente affermare che non è possibile comprendere davvero l’economia senza capire quella teoria, nella sua formulazione a n mercati (e non in quella, semplificata, a due mercati dei testi introduttivi di microeconomia). Nella sua formulazione più “pura”, la teoria mostra che, in presenza di alcune condizioni, esiste davvero un sistema unico dei prezzi che faccia coincidere domanda e offerta, e che questo sistema – indipendente dalla distribuzione iniziale del reddito – è anche il più efficiente. Non è questo però il punto – le condizioni sono piuttosto astratte – ma la potenzialità che offre di capire come si muove l’intero sistema economico.
La teoria dell’equilibrio economico generale
Per molti economisti radicali, questa teoria è il cavallo di Troia del liberismo, un risultato di pura ideologia, ma non è così: non si fraintenda il concetto di “equilibrio”. Kenneth Arrow, che con Gérard Debreu – e, in via indipendente, Lionel McKenzie – ha completato la dimostrazione della teoria nel 1954, ha ben spiegato che è piuttosto il paradosso di Condorcet – sulla possibile incoerenza delle decisioni politiche democratiche – l’argomento a favore del liberismo. Lui stesso, del resto, in uno studio ancora fondamentale, ha mostrato che non è opportuno affidare la sanità al libero mercato per la particolare struttura della domanda e dell’offerta in quel settore.
Marx prima di Walras
Marx è molto lontano da questo approccio? Non nel tutto. In General Competitive Analysis, scritto con Frank Hahn, lo stesso Arrow richiama l’attenzione sull’opera del rivoluzionario tedesco: “in un certo senso – scrive – Marx si è avvicinato più di ogni altro economista classico alla moderna teoria nel suo schema di riproduzione semplice (Il capitale, vol. II) studiato in combinazione con il suo sviluppo della teoria dei prezzi relativi (vol. I e III)”; anche se poi – aggiunge – “confonde tutto” perché vuole conservare insieme la teoria del valore lavoro e la tendenza al livellamento del profitto.
Una teoria ‘di sinistra’
La teoria dell’equilibrio economico generale, del resto, fu introdotta da Léon Walras, che era un socialista – non marxista – favorevole per esempio alla completa nazionalizzazione della terra. Il completamento della teoria dell’equilibrio economico generale fu invece il frutto di uno sforzo congiunto di economisti attivi sui due versanti della cortina di ferro. L’obiettivo comune era quello di trovare un sistema che permettesse – gli uni a favore delle forze armate, gli altri a favore dell’intera economia socialista – di simulare amministrativamente i vantaggi del mercato, senza i suoi difetti. La teoria dell’equilibrio economico generale, spiega Johanna Bockman nel suo Markets in the Name of Socialism: The Left-Wing Origins of Neoliberalism, ha quindi un’origine anche “a sinistra”.
Un obiettivo possibile?
È immaginabile un approccio “radicale” sulla base della teoria dell’equilibrio economico generale? In astratto sì. Nulla impedisce, in quell’approccio, di utilizzare come moneta (numerario) il salario medio di un lavoro semplice, come fece Marx: hanno seguito questa strada anche Keynes negli anni 30, o Roger Farmer dell’Università della California, in un contesto del tutto ortodosso, oggi. Non va dimenticato che l’obiettivo di Walras, nell’elaborare la sua teoria, era quello di mostrare che un mercato perfetto realizza la giustizia commutativa preservando la giustizia distributiva realizzata con altri mezzi. Dal momento che nessun mercato è perfetto – le stesse aziende possono essere considerate come un fallimento del mercato, e ancor di più le società a responsabilità limitata – c’è ampio spazio per criticare l’attuale sistema economico o almeno alcuni suoi aspetti (ed è questo l’uso che ne fanno gli economisti più seri).
Serve davvero un nuovo Marx?
Che senso ha, però, invocare un nuovo Marx oggi? Ce n’è bisogno? La domanda è mal posta: un nuovo Marx non arriverà. La vera questione è che molti economisti e commentatori nel mondo – per esempio gli anti-euro, alcuni “anti-austerità”, gli anti-globalizzazione, ma non solo – leggono l’economia con le lenti di teorie economiche eterodosse, radicali, che al momento appaiono di dubbia validità, di scarso rigore, con limitate verifiche empiriche. I risultati sono disastrosi, soprattutto perché queste analisi sono molto ascoltate: il capitalismo non ha certo conquistato i cuori delle persone – a maggior ragione dopo la crisi, tutta finanziaria – e la cultura frettolosamente definita “neoliberista”, per quanto applicata in modo piuttosto limitato e distorto, ha ulteriormente alimentato un humus elitario, già ben nutrito – tra l’altro – dal socialismo autoritario e tendenzialmente sfavorevole alla dimensione democratica dei nostri sistemi politici “misti”, al quale reagiscono in modo scomposto e irrazionale i vari populismi nel mondo. In una situazione come questa, una sfida culturale e scientifica di alto livello sarebbe invece un motore di progresso…
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Segnalazione Convegni di interesse
9-10 novembre 2017, Milano
Convegno “Per un nuovo welfare: da costo a risorsa per lo sviluppo”
Confartigianato Imprese – INAPA – ANAP http://www.secondowelfare.it/edt/file/Per%20un%20Nuovo%20Welfare%20-%20Programma.pdf