Monthly Archives: novembre 2017

Tra il dire e il fare…

costat-logo-stef-p-c_2 Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria – Cagliari

Nota stampa sulla legge elettorale

C’era da aspettarselo. I maschietti del Consiglio regionale sull’emendamento riguardante la parità di genere fanno melina in Commissione. Non volendo chiedere il voto segreto in Aula per bocciarla come nel 2013. Hanno individuato una nuova tattica: assumono l’esistenza di un dissenso sui collegi con l’intento di scansare il voto. E così il rinvio del il voto sullo stralcio, al 21 novembre alle 16, rischia di diventare una premessa d’insabbiamento. Il motivo? Un emendamento all’articolo 1 che prevede la parità di genere nella compilazione delle liste, sul quale in Aula non è stato raggiunto un accordo. Si poteva votare subito – come ha proposto il presidente del Consiglio, Gianfranco Ganau – ma evidentemente nessuno dei consiglieri vuole rischiare il proprio seggio in favore delle donne. Anche perché le sostenitrici dell’emendamento sono componenti degli stessi partiti degli attuali consiglieri e dunque concorrenti dirette. Insomma una lotta all’ultimo sangue per il seggio, senza una riflessione generale sulla elettorale, che costituisce un grave vulnus all’uguaglianza del voto e alla rappresentanza dei sardi col suo iperpremio di maggioranza e il dopppio sbarramento al 10% per le coalizioni e al 5% per le singole liste. 
Ecco perché il Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria di Cagliari (già Comitato per il NO al referendum costituzionale) ritiene indispensabile che, in vista della prossime elezioni del 2019, il Consiglio regionale voti una nuova legge elettorale di tipo proporzionale che modifichi sostanzialmente l’impianto della legge elettorale regionale oggi vigente.
 Ogni piccola correzione, quale la possibilità della doppia preferenza di genere in discussione in questi giorni nell’Assemblea regionale, senza una modifica sostanziale del suo impianto, non cambia la natura antidemocratica della legge attuale, pensata ai danni di qualche partito e non a vantaggio di tutto il corpo elettorale. 
Anche le donne a ben vedere hanno da guadagnare da una riforma vera della legge, anziché affidarsi ad un emendamento, che non la correggono nei suoi punti critici, e che per di più rischia di non essere votata.
Per il Comitato Andrea Pubusa – Franco Meloni
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Oggi venerdì 17 novembre 2017

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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. ed-rocca-21-1-nov-18
LAVORO E NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
per chi cosa come produrre
Laura Pennacchi su Rocca
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CITTÀ E TERRITORIO » CITTÀ QUALE FUTURO » PER COMPRENDERE
Città storiche: espropriazione, espulsione e monocoltura turistica
di ILARIA AGOSTINI

La città invisibile, 13 novembre 2016, ripreso da eddyburg e da aladinews. Analisi, a partire di Firenze, del turismo d’oggi come nuova forma di economia di saccheggio delle risorse operato dalle aziende globalizate nei deserti creaati dallo “sviluppo”
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“Chi non ha visto la mucca in corridoio”? Ovvero chi non si accorge che la destra cresce sulle divisioni della sinistra?
17 Novembre 2017
Carlo Dore jr., sul sito www.articolo1mdp.it ripreso da Democraziaoggi
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Oggi

sp-ven-17-nov-2017- La pagina fb dell’evento.

​CAMPAGNA ABBONAMENTI al quindicinale ROCCA promossa da ALADINEWS

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la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
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PATRIMONIO CULTURALE: COMUNITÀ DI STORIE. Modelli, esperienze e strumenti. Punta de billete per sabato 25 novembre 2017

convegnoimagosito
- Approfondimenti.

Dibattito. E’ il federalismo la carta vincente per la Sardegna. E non solo

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Separatismo: tra ragioni economiche e “invenzioni”
15 Novembre 2017

Gianfranco Sabattini*

In questo periodo l’indipendentismo ha ripreso vigore e slancio; ciò non deve meravigliare perché l’ultima “parola d’ordine” del neoliberismo e della globalizzazione, della quale esso è l’ispiratore, afferma che “il piccolo è bello”; questa volta, però, lo slogan, tanto in voga nei decenni passati, non è riferito alla dimensione d’impresa, ma alle dimensioni degli Stati. Al riguardo, di recente è giunto in libreria il libro del politologo indiano Parag Khanna, dal titolo che più eloquente non potrebbe essere: “La rinascita delle città-Stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”.
Nel suo libro, Khanna non si limita ad auspicare una trasformazione “ab imis” della forma di governo democratico, ma estende l’auspicio anche alle dimensioni prevalenti degli Stati. Secondo lui, la ricerca della “forma ideale dello Stato più adatta ai tempi non è un astratto esercizio filosofico, ma una necessità ricorrente”, imposta dal fatto che le dimensioni degli Stati e i regimi democratici non sarebbero più strumenti idonei a consentire ai governi nazionali di risolvere i problemi del mondo attuale, essendo caratterizzati più dall’incapacità di governare l’emergenza che di reagire al manifestarsi degli effetti negativi del ciclo economico.
Considerando più attentamente il fenomeno dell’indipendentismo, inclusa la sua manifestazione più recente, culminata con la dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Catalogna dello Stato nazionale spagnolo, si coglie come gli indipendentisti siano soliti giustificare le loro pretese sulla base di ragioni storiche, con cui vengono rese latenti quelle effettive, ovvero le ragioni economiche. Facendo appello alle ragioni storiche, gli indipendentisti di solito “coagulano” il consenso intorno al loro movimento avvalendosi di un decentramento istituzionale che, pur senza configurarsi come una effettiva realtà federale, non è molto distante da essa. Nell’esperienza di alcuni Paesi europei, dove il fenomeno dell’indipendentismo è presente, le comunità autonome dispongono, infatti, di ampie facoltà di autogoverno, a volte rinforzate da condizioni di “specialità”, delle quali si avvalgono dal punto di vista economico-finanziario, ma anche da quello culturale; in tal modo, l’autogoverno consente agli indipendentisti di sostenere di voler “fare i conti” distaccandosi dallo Stato per i torti subiti sul piano strettamente storico.
Cosicché, alcune regioni, come ora la Catalogna o, in prospettiva, la Sardegna, ricorrono alle facoltà autonomistiche, non già in favore del resto dei loro Paesi di appartenenza, o per migliorare il funzionamento del loro Stato nazionale, ma per staccarsi dall’unità nazionale.
Commentando la situazione catalana dopo la dichiarazione d’indipendenza, in “L’indipendentismo è un’invenzione” (Limes 10/2017), il noto filosofo democratico Fernando Savater, in un’intervista concessa a Fabrizio Maronta, afferma che la responsabilità del conservarsi delle propensioni separatiste ricade certamente sugli Stati nazionali, i quali hanno sempre trascurato ciò che sul piano politologico viene da tempo evidenziato, cioè che “l’indipendentismo è figlio del nazionalismo”. Di fronte a queste propensioni, però, anziché pensare di ricercare una più adeguata forma di organizzazione istituzionale su basi federali, secondo Savater, si è fatta dell’”ironia, parodiando l’indipendentismo trattandolo come mero folklore”, senza considerarlo come problema destinato a creare crisi istituzionali, se lasciato irrisolto, come è accaduto nel caso della Spagna o potrebbe accadere nel caso dell’Italia.
In mancanza di risposta istituzionale all’espandersi delle “pulsioni nazionalistiche”, il manifestarsi di situazioni di crisi come quella della Catalogna potrebbe configurare una responsabilità degli Stati nazionali, i quali, trascurando di soddisfare le istanze nazionalistiche per ragioni strettamente ideologiche, mancano di valutarne il tratto umano, che induce le singole comunità regionali di uno Stato a identificarsi, in modo convinto e irrinunciabile, in un determinato ed esclusivo “sistema valoriale.
Con ciò, i singoli Stati nazionali trascurano il fatto che – afferma Savater – si può essere “nazionalisti politicamente e culturalmente”, senza che si neghi necessariamente “un’unità superiore”, nel senso che i nazionalisti-indipendentisti potrebbero “vivere dialetticamente con essa, confrontandosi con lo Stato centrale” e con gli altri nazionalisti-indipendentisti, quando fossero messi nella condizione di potersi avvalere di una libertà appropriata conferitagli dall’esistenza di un ordinamento democratico.
Questo, a parere di Savater, è un punto dirimente, che fa cadere la responsabilità delle crisi istituzionali sugli indipendentisti, allorché essi, sulla base di decisioni unilaterali e nel mancato rispetto delle procedure democraticamente condivise e costituzionalmente sancite, causano un crisi che investe, non solo l’unità nazionale, ma anche quella del “contesto democratico e della pacifica convivenza su cui questa si fonda”.
Posto il diverso grado di responsabilità del “centro” e delle “periferie”, riguardo al manifestarsi delle crisi istituzionali che investono o possono investire l’unità degli Stati nazionali, e assodato che le ragioni storiche sono solo un pretesto, viene spontaneo chiedersi quali siano allora le ragioni economiche che stanno a monte delle “spinte indipendentiste”. In “Regionalismi e austerità: la posta tedesca nella crisi catalana” (Limes, 19/2017), Heribert Dieter, ricercatore presso il “German Institute for International Political and Security Affairs” di Berlino, sostiene che le ragioni economiche più immediate sono almeno due, strettamente legate tra loro.
La prima ragione consisterebbe nel fatto che la globalizzazione, riducendo i “costi di transazione ha aumentato la redditività delle piccole economie nazionali”; mentre nel XIX secolo, l’esistenza di molti Stati comportava normalmente un ostacolo alla crescita economica, nel XXI secolo questo vincolo, cessando di sussistere, consentirebbe a numerose piccole economie nazionali di affrancarsi dai costi burocratici dovuti all’esistenza delle numerose barriere doganali, potendo così raggiungere alti tassi di crescita economica e di benessere. Oggi, secondo Dieter, sarebbero le grandi economie nazionali a dover affrontare i “gravi problemi di sviluppo”, in quanto il loro mercato interno rappresenterebbe “più uno svantaggio che un vantaggio”, per via del fatto che molti loro settori tradizionali si trovano in gravi condizioni di stagnazione, il cui rilancio richiede costose politiche economiche per reinserirli positivamente nel mercato, allo scopo di contrastare principalmente il fenomeno della disoccupazione persistente.
La seconda ragione che giustificherebbe il fenomeno dell’indipendentismo, strettamente connessa almeno in parte alla prima, sarebbe riconducibile al fatto che le grandi economie nazionali richiedono il finanziamento di politiche sociali, con una distribuzione del carico fiscale che le regioni più ricche rispetto alla media nazionale non sarebbero più propense a tollerare, in quanto non più disponibili a sopportare gli esiti di “trasferimenti fiscali dettati da principi di perequazione e solidarietà nei confronti delle regioni più deboli”.
Se così stanno le cose, la propensione all’indipendentismo appare come un riflesso dell’incerto e spesso differenziato rapporto esistente tra le regioni e lo Stato centrale, come nel caso della Spagna e dell’Italia. L’incertezza del rapporto potrebbe essere superata attraverso una organizzazione istituzionale in senso federato degli Stati che maggiormente risentono del fenomeno indipendentista; solo su queste basi possono essere stabilite “norme estremamente dettagliate e valide per tutti”, per definire con precisione gli ambiti di competenza delle singoli comunità regionali federate.
Dal punto di vista di alcuni Stati unitari europei, tra i quali l’Italia, la eventuale separazione della Catalogna dalla Spagna rappresenterebbe un rischio, in quanto altre regioni potrebbero seguirne l’esempio e mettere così in crisi non solo i singoli Paesi che “soffrono” del fenomeno dell’indipendentismo, ma anche la prospettiva di una prossima ripresa del processo d’integrazione politica dell’Europa. A livello europeo, però, questo pericolo sembra preoccupare, più per la possibile perdita della stabilità economica, che non per i processi democratici necessari per migliorare l’organizzazione istituzionale dei singoli Stati membri dell’Unione Europea.
Se la Catalogna riuscisse a staccarsi dalla Spagna – afferma Dieter – “anche in altri Paesi europei si farebbe più concreto il rischio di una disgregazione nazionale”. Lo Stato francese sarebbe quello meno esposto a questo pericolo (fatta eccezione per il problema corso); i più a rischio di possibili scissioni sarebbero sicuramente la Germania e l’Italia. Anche in Germania sono le regioni economicamente più ricche ad avere interesse a separarsi dallo Stato nazionale; a differenza della Catalogna, nel caso della Germania, se l’indipendentismo dovesse diffondersi e approfondirsi, si assisterebbe alla creazione di una nuova unità statuale, che segnerebbe un ritorno – sottolinea Dieter – alla condizione di indipendenza di regioni ora federate, come la Baviera prima del 1871.
A differenza di quanto può accadere in Germania, in Italia, stranamente, quasi a smentire che siano le condizioni economiche a causare la separazione delle comunità regionali dallo Stato nazionale, l’obiettivo dell’indipendenza trova numerosi sostenitori in Sardegna, una delle regioni meno dotate economicamente rispetto alla media nazionale; a parere di Franciscu Sedda, segretario nazionale del Partito dei Sardi, in “La Sardegna può diventare indipendente anche grazie alla Catalogna” (intervista concessa ad Alessandro Aresu, in Limes 10/2017) mostra di non avere dubbi e incertezze sul perché il suo partito persegue l’indipendenza dell’Isola dal resto dell’Italia.
Le sue argomentazioni, però, non hanno fondamento credibile, in quanto prive del supporto di un progetto politico, economico e sociale che possa plausibilmente giustificare le aspirazioni del suo partito; Sedda considera solo importante il fatto che il Partito dei Sardi, il governo e il parlamento della Regione Sardegna abbiano dato, sin da subito, ”una solidarietà praticamente unanime alle istituzioni catalane”; a sua parere, si è trattato di una “caso unico in Europa”, che, però, non vale a giustificare l’azione del suo movimento.
L’unica argomentazione avanzata da Sedda, a supporto dell’indipendenza della Sardegna, è che il pensarsi “attraverso gli altri è sempre fruttuoso”, in considerazione del fatto che l’indipendentismo catalano esercita sicuramente un grande fascino su quello sardo, “per la dimensione popolare e nonviolenta, per il modello di società al tempo stesso accogliente della diversità e capace di dare dignità alla propria storia, cultura lingua; per il progressismo diffuso e la capacità di generare prosperità attraverso la piccola e media impresa”. Sedda dimentica che la prosperità della Catalogna è garantita, non solo dalla presenza operosa ed efficiente di un sistema di piccole e medie imprese, ma anche da attività produttive di ben altra dimensione e capacità di creare nuove ricchezza; piccole, medie e grandi imprese, che in Sardegna non abbondano, per cui le condizioni di vita della comunità regionale sarda dipendono ancora in modo consistente dalla solidarietà nazionale.
Di tutto questo Sedda sembra non preoccuparsi, avvalendosi solo della certezza che “grazie agli stimoli che arrivano dalla Catalogna si può aprire una breccia che condurrà un giorno al nostro referendum” e consolandosi del fatto che il Partito dei Sardi, pur essendo nato nel 2013, aggregando esperienze personali e politiche diverse, ha eletto cinque rappresentanti in seno al Consiglio regionale, diventando la terza forza dietro il Partito Democratico e Forza Italia. Peccato che Sedda dimentichi le condizioni rese favorevoli al suo partito dalla particolare legge elettorale in base alla quale si sono svolte le ultime consultazioni politiche regionali; condizioni, che molto probabilmente sono destinate presto a cambiare.
Ad ogni buon conto, per Sedda, il Partito dei Sardi, in considerazione della sua “forza” attuale, “vuole costruire uno Stato sardo indipendente in Europa. Una Repubblica di Sardegna politicamente libera, economicamente prospera, socialmente giusta”. Dunque, una Sardegna indipendente senza se e senza ma; tuttavia, a differenza di altri partiti regionali, quello dei sardi, “non esclude la gradualità e la possibilità di allearsi anche con chi non è (ancora) indipendentista”.
Se così, c’è solo da augurare a Sedda di riuscire ad intessere rapporti con chi è ancora portatore dello spirito del tradizionale azionismo sardo di origine risorgimentale, per accedere all’idea di contribuire, con il suo partito, a dare forza politica a quanti in Sardegna e nell’intero Paese auspicano, per prevenire crisi istituzionali e “fughe in avanti”, per ragioni egoistiche, delle regioni economicamente più dotate, una riorganizzazione istituzionale dell’Italia su basi federaliste. In questo caso, l’indipendentismo sardo non avrebbe motivo di trarre ispirazione da quello catalano, ma di porsi semmai come esempio nei confronti della Catalogna del come, all’interno degli Stati nazionali, possono essere democraticamente corretti i rapporti insoddisfacenti esistenti tra lo Stato centrale e le comunità regionali periferiche.
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*Anche su Democraziaoggi
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Principi guida per una nuova legge elettorale regionale
Il Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria di Cagliari ritiene indispensabile che, in vista della prossime elezioni del 2019, il Consiglio regionale voti una nuova legge elettorale di tipo proporzionale che modifichi sostanzialmente l’impianto della legge elettorale regionale oggi vigente.
Ogni piccola modifica quale la possibilità della doppia preferenza di genere di cui si parla insistentemente in questo ultimo periodo, senza una modifica sostanziale del suo impianto, non cambia la natura truffaldina della legge attuale, pensata ai danni di qualche partito e non a vantaggio di tutto il corpo elettorale.
Chiediamo una legge elettorale che riparta dalla Costituzione, nel pieno rispetto dell’articolo 1 che assegna al popolo la sovranità e dell’articolo 48 che considera elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età e allo stesso tempo precisa che il voto è personale ed eguale, libero e segreto.
In questi semplici riferimenti si possono trovare tutti gli elementi necessari per scrivere una buona legge elettorale, una legge che sia in grado di garantire la “sovranità del popolo”, che è tanto più reale quanto più si ha una larga partecipazione popolare al voto.
Questi sono i capisaldi che consentono agli elettori di fare le loro scelte e, a nostro avviso, permetteranno anche un riavvicinamento alle urne di gran parte di quella metà dell’elettorato sardo che nella precedente consultazione del 2014 non ha votato.
Vogliamo una legge che garantisca “uguaglianza” nel voto, sia che si voti per la maggioranza che per un partito o movimento di opposizione, senza gli stravolgimenti generati dal sistema maggioritario nel corso del tempo perché qualunque premio di maggioranza, che di fatto attribuisce una maggior peso relativo ad un voto dato a chi governa piuttosto che a chi sta all’opposizione, è sempre elemento di “distorsione” del principio di uguaglianza del voto sancita dalla Costituzione.
Una legge che garantisca la “rappresentanza” perché ad una supposta governabilità che non può mai essere garantita da una legge elettorale, si preferisce la rappresentanza, questa sì possibile attraverso una buona legge, anche di partiti e movimenti minori perché la democrazia è fatta di pluralità di opinioni che devono trovare sintesi nel parlamento come nei consigli regionali, ovvero negli organi elettivi di governo.
Su questo specifico punto, pur essendo convinti dell’esigenza di una proporzionalità senza soglie di ingresso, si potrebbe comunque considerare una soglia molto bassa in modo da consentire anche a quelle forze e movimenti politici che non intendono far parte di coalizioni di avere una propria rappresentanza proporzionale ai voti conseguiti, per evitare definitivamente il grave vulnus di democrazia presente nella vigente legge elettorale che ha negato la rappresentanza a ben 130.000 elettori sardi.
Una legge che garantisca la parità di rappresentanza di uomini e donne, perché la società è composta di uomini e donne, e non vi può essere discriminazione di genere nell’accesso agli organi elettivi, sarà l’elettorato a scegliere chi eleggere senza discriminazioni in partenza.
A questo riguardo giova ricordare che anche nell’ambito delle materie concorrenti disciplinate dalla modifica dell’art 117 della Costituzione viene riportato che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
A noi pare che sul punto non siano gli ancoraggi costituzionali e normativi a non essere presenti o non sufficientemente chiari, quanto una proterva, acclarata e reiterata mancanza di volontà politica da parte delle consorterie dei partiti.
Per la nostra isola è particolarmente significativa anche la rappresentanza territoriale che va garantita, ma non sacrificata a piccole e spesso meschine oligarchie o capi bastone locali.
Al riguardo si ritiene che debbano essere individuati dei collegi elettorali che siano sufficientemente grandi da rappresentare ampie zone del territorio regionale e allo stesso tempo simili quanto a numero di elettori, superando i limiti territoriali imposti dai confini amministrativi delle vecchie provincie.
La scelta di collegi uniformi o almeno tendenti all’uniformità dal punto di vista del numero degli elettori potrà evitare la formazione di un Consiglio regionale totalmente egemonizzato dai due poli demografici di Cagliari e Sassari. Allo stesso tempo, una scelta oculata dei collegi e un corretto meccanismo di attribuzione proporzionale dei seggi che, per esempio, comprenda la possibilità di ripartizione dei resti, potrà evitare la distorsione verificata anche nelle recenti elezioni in Sicilia, dove un movimento politico che ha avuto centomila voti ha avuto il riconoscimento di un solo seggio in Consiglio, a fronte di 11 seggi attribuiti ad un partito che ha avuto appena 250.000 voti.
Anche questo è un caso di grave violazione della democrazia e del principio di uguaglianza del voto, infatti non vi è alcuna proporzionalità tra numero di seggi attribuiti e voti conseguiti.
Questi principi sono validi per ogni espressione del voto sia di tipo nazionale che regionale e locale.
Un altro riferimento per noi imprescindibile è il nostro Statuto che con la legge costituzionale n. 2 del 31/01/2001, all’art. 15 riporta “ …In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con l’osservanza di quanto disposto dal presente Titolo, la legge regionale, approvata dal Consiglio regionale con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, determina la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei principi di rappresentatività e di stabilità, del Consiglio regionale, del Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale, i rapporti tra gli organi della Regione, la presentazione e l’approvazione della mozione motivata di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, …, nonché l’esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e la disciplina del referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo. Al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”.
Ancora una volta se ci riferiamo alla costituzione del popolo sardo troviamo i principi ispiratori di una buona legge: rappresentatività e stabilità, esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e referendum propositivo, abrogativo e consultivo, condizioni di parità di accesso per uomini e donne.
Per quanto attiene alla rappresentatività è evidente che il sistema proporzionale è l’unico che la può garantire anche per i partiti e movimenti minori, mentre per la stabilità, se è vero che non può essere garantita da nessuna legge, è altrettanto evidente che l’ipotesi di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente eletto può positivamente concorrervi quale elemento di equilibrio sistemico.
La possibilità del referendum propositivo è un altro grande diritto da far valere, specialmente in un periodo caratterizzato da partiti impegnati esclusivamente nella gestione del potere mirata alla propria sopravvivenza e conservazione di privilegi personali.
E’ ispirandosi a questi principi che può essere scritta una Legge elettorale statutaria per la Regione Sardegna che potrà permettere al popolo sardo di tornare massicciamente alle urne e scegliere consapevolmente i propri rappresentanti.

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    CoStat – Via Roma 72 Cagliari

Oggi giovedì 16 novembre 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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democraziaoggiLa legge truffa regionale in discussione per coinvolgere nel furto di democrazia le donne. Il Comitato d’iniziativa costituzionale e illustra a Ganau le linee di una vera riforma
16 Novembre 2017
Su Democraziaoggi.
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- Il Comitato CoStat ricevuto dal presidente Ganau (foto Addetto Stampa Presidenza)
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eddyburgCITTÀ E TERRITORIO » CITTÀ QUALE FUTURO » PER COMPRENDERE
Khanna: il futuro ci riporta alle Città-Stato
di EUGENIO PENDOLINI

la Nuova Venezia, 28 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Al centro della discussione, la crisi degli Stati democratici occidentali e la sempre maggiore richiesta di amministrazione a scapito della rappresentanza». (m.p.r.)
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E’ online il manifesto sardo 249

pintor il manifesto sardoIl numero 249
Il sommario
Aggressioni, astensioni massicce, ma per loro “Lo Stato c’è” (Ottavio Olita), Il verde nelle nostre città: ecco che cosa non ha fatto Cagliari (Stefano Deliperi), L’imbroglio del referendum sull’insularità (Omar Chessa), A proposito di Mesina (Graziano Pintori), Contro l’ideologia neoliberale l’impegno diretto dei popoli (Gianfranco Sabattini), Tossilo SpA: le preoccupazioni dei cittadini sono fondate (Red), Turchia e dintorni. Una donna sfida l’egemonia di Erdoğan (Emanuela Locci), La medicalizzazione della vita e la filosofia (Amedeo Spagnuolo), La lezione del Maestro Salis nella lotta all’analfabetismo (Ottavio Olita), Su le maniche: il riscatto fai-da-te del popolo greco (Michele Revelli), Perché la lingua e la storia sarda non possono entrare a scuola? (Ninni Tedesco, Cristiano Sabino, Ioesella Grussu, Simona Meronome, Alessandro Cauli).
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Domani

sp-ven-17-nov-2017- La pagina fb dell’evento.

Il CoStat ricevuto da Ganau

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“Principi guida per una nuova legge elettorale regionale”. Ecco il documento che il Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria ha presentato oggi al presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau.
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logo-castedduonlineRegione, CoStat: “Subito nuova legge elettorale”
Una legge che rispetti la Costituzione, giusta rappresentanza di partiti e movimenti e parità di rappresentanza di uomini e donne. Sono alcuni dei principi guida contenuti nel documento per la nuova legge elettorale che il Comitato d’iniziativa costituzionale ha consegnato al presidente Ganau
Di Redazione Cagliari Online 15 novembre 2017
Il servizio su Casteddu online
logo_big-geos-newsAnche su GeosNews
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logo-tg24Cagliari. Sulla doppia preferenza di genere il Consiglio regionale ha deciso di rinviare il voto sullo stralcio al 21 novembre alle 16.
Servizio su Tg24 Le tentazioni della penna
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SardiniaPost logoLegge elettorale, Comitato a Ganau: “Nel 2019 voto col proporzionale”
L’articolo su SardiniaPost.
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“Principi guida per una nuova legge elettorale regionale”. Ecco il documento che il Comitato d’Iniziativa Costituzionale e Statutaria presenterà oggi al presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau

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Principi guida per una nuova legge elettorale regionale
Il Comitato di Iniziativa Costituzionale e Statutaria di Cagliari ritiene indispensabile che, in vista della prossime elezioni del 2019, il Consiglio regionale voti una nuova legge elettorale di tipo proporzionale che modifichi sostanzialmente l’impianto della legge elettorale regionale oggi vigente.
Ogni piccola modifica quale la possibilità della doppia preferenza di genere di cui si parla insistentemente in questo ultimo periodo, senza una modifica sostanziale del suo impianto, non cambia la natura truffaldina della legge attuale, pensata ai danni di qualche partito e non a vantaggio di tutto il corpo elettorale.
Chiediamo una legge elettorale che riparta dalla Costituzione, nel pieno rispetto dell’articolo 1 che assegna al popolo la sovranità e dell’articolo 48 che considera elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età e allo stesso tempo precisa che il voto è personale ed eguale, libero e segreto.
In questi semplici riferimenti si possono trovare tutti gli elementi necessari per scrivere una buona legge elettorale, una legge che sia in grado di garantire la “sovranità del popolo”, che è tanto più reale quanto più si ha una larga partecipazione popolare al voto.
Questi sono i capisaldi che consentono agli elettori di fare le loro scelte e, a nostro avviso, permetteranno anche un riavvicinamento alle urne di gran parte di quella metà dell’elettorato sardo che nella precedente consultazione del 2014 non ha votato.
Vogliamo una legge che garantisca “uguaglianza” nel voto, sia che si voti per la maggioranza che per un partito o movimento di opposizione, senza gli stravolgimenti generati dal sistema maggioritario nel corso del tempo perché qualunque premio di maggioranza, che di fatto attribuisce una maggior peso relativo ad un voto dato a chi governa piuttosto che a chi sta all’opposizione, è sempre elemento di “distorsione” del principio di uguaglianza del voto sancita dalla Costituzione.
Una legge che garantisca la “rappresentanza” perché ad una supposta governabilità che non può mai essere garantita da una legge elettorale, si preferisce la rappresentanza, questa sì possibile attraverso una buona legge, anche di partiti e movimenti minori perché la democrazia è fatta di pluralità di opinioni che devono trovare sintesi nel parlamento come nei consigli regionali, ovvero negli organi elettivi di governo.
Su questo specifico punto, pur essendo convinti dell’esigenza di una proporzionalità senza soglie di ingresso, si potrebbe comunque considerare una soglia molto bassa in modo da consentire anche a quelle forze e movimenti politici che non intendono far parte di coalizioni di avere una propria rappresentanza proporzionale ai voti conseguiti, per evitare definitivamente il grave vulnus di democrazia presente nella vigente legge elettorale che ha negato la rappresentanza a ben 130.000 elettori sardi.
Una legge che garantisca la parità di rappresentanza di uomini e donne, perché la società è composta di uomini e donne, e non vi può essere discriminazione di genere nell’accesso agli organi elettivi, sarà l’elettorato a scegliere chi eleggere senza discriminazioni in partenza.
A questo riguardo giova ricordare che anche nell’ambito delle materie concorrenti disciplinate dalla modifica dell’art 117 della Costituzione viene riportato che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.
A noi pare che sul punto non siano gli ancoraggi costituzionali e normativi a non essere presenti o non sufficientemente chiari, quanto una proterva, acclarata e reiterata mancanza di volontà politica da parte delle consorterie dei partiti.
Per la nostra isola è particolarmente significativa anche la rappresentanza territoriale che va garantita, ma non sacrificata a piccole e spesso meschine oligarchie o capi bastone locali.
Al riguardo si ritiene che debbano essere individuati dei collegi elettorali che siano sufficientemente grandi da rappresentare ampie zone del territorio regionale e allo stesso tempo simili quanto a numero di elettori, superando i limiti territoriali imposti dai confini amministrativi delle vecchie provincie.
La scelta di collegi uniformi o almeno tendenti all’uniformità dal punto di vista del numero degli elettori potrà evitare la formazione di un Consiglio regionale totalmente egemonizzato dai due poli demografici di Cagliari e Sassari. Allo stesso tempo, una scelta oculata dei collegi e un corretto meccanismo di attribuzione proporzionale dei seggi che, per esempio, comprenda la possibilità di ripartizione dei resti, potrà evitare la distorsione verificata anche nelle recenti elezioni in Sicilia, dove un movimento politico che ha avuto centomila voti ha avuto il riconoscimento di un solo seggio in Consiglio, a fronte di 11 seggi attribuiti ad un partito che ha avuto appena 250.000 voti.
Anche questo è un caso di grave violazione della democrazia e del principio di uguaglianza del voto, infatti non vi è alcuna proporzionalità tra numero di seggi attribuiti e voti conseguiti.
Questi principi sono validi per ogni espressione del voto sia di tipo nazionale che regionale e locale.
Un altro riferimento per noi imprescindibile è il nostro Statuto che con la legge costituzionale n. 2 del 31/01/2001, all’art. 15 riporta “ …In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con l’osservanza di quanto disposto dal presente Titolo, la legge regionale, approvata dal Consiglio regionale con la maggioranza assoluta dei suoi componenti, determina la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei principi di rappresentatività e di stabilità, del Consiglio regionale, del Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale, i rapporti tra gli organi della Regione, la presentazione e l’approvazione della mozione motivata di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, …, nonché l’esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e la disciplina del referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo. Al fine di conseguire l’equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove condizioni di parità per l’accesso alle consultazioni elettorali”.
Ancora una volta se ci riferiamo alla costituzione del popolo sardo troviamo i principi ispiratori di una buona legge: rappresentatività e stabilità, esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e referendum propositivo, abrogativo e consultivo, condizioni di parità di accesso per uomini e donne.
Per quanto attiene alla rappresentatività è evidente che il sistema proporzionale è l’unico che la può garantire anche per i partiti e movimenti minori, mentre per la stabilità, se è vero che non può essere garantita da nessuna legge, è altrettanto evidente che l’ipotesi di una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente eletto può positivamente concorrervi quale elemento di equilibrio sistemico.
La possibilità del referendum propositivo è un altro grande diritto da far valere, specialmente in un periodo caratterizzato da partiti impegnati esclusivamente nella gestione del potere mirata alla propria sopravvivenza e conservazione di privilegi personali.
E’ ispirandosi a questi principi che può essere scritta una Legge elettorale statutaria per la Regione Sardegna che potrà permettere al popolo sardo di tornare massicciamente alle urne e scegliere consapevolmente i propri rappresentanti.

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Oggi mercoledì 15 novembre 2017

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sedia di VannitolaLa sedia
di Vanni Tola su Aladinews
Lavori usuranti e gravosi, ma di che stiamo parlando?
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Separatismo: tra ragioni economiche e “invenzioni”
15 Novembre 2017
democraziaoggi
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI
Due articoli e una postilla, a proposito di democrazia e uguaglianza
di TOMASO MONTANARI
il manifesto, 14 novembre 2017. Anna e Tom hanno disdetto l’assemblea convocata il 18 maggio (vedi su eddyburg: la loro lettera). Civati (“Possibile”) casca dal pero. Con postilla. Su eddyburg, ripreso da aladinews.
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Riflessioni. La globalizzazione che ci ingabbia

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la gabbia come metafora e come realtà

di Claudio Cagnazzo, su Rocca

Chissà cosa pensa un animale. Chissà cosa pensavano quei cani che latravano appoggiati con il muso alla rete del vecchio canile a pochi chilometri da casa mia. Chissà se è vero, come dicono alcuni, che il loro pensiero è collegato solo all’istinto, ovvero ne è una prosecuzione. Chissà se invece producono nel loro cervello immagini come le nostre. Chissà se sognano, se concatenano piccole idee sotto qualche forma sconosciuta. Il fatto è che, in ogni caso, mentre li guardavo appoggiarsi col muso alla cintura metallica che circondava il canile, loro stavano anelando alla libertà. Esattamente come noi, cercavano spazio per le loro gambe, aria per i loro polmoni, campi aperti dove correre, come noi cerchiamo strade dove camminare e vivere la nostra storia. Eppure, a differenza nostra, che li guardavamo e dei loro simili che, comunque, seppure vigilati dai padroni e controllati dai guinzagli, possono regalarsi un po’ di canina felicità, per loro c’era e c’è solo la negazione totale della libertà. Sono sfortunati quei cani ricoverati nel canile. Sono gli ultimi della loro razza, ho pensato, perché in nome di un ricovero cedono del tutto la propria dignità. E magari, come mi ha fatto notare un inserviente del posto, sono ben tenuti e probabilmente sfuggono a vite randagie e di solitudine, ma pagano il prezzo di colpe non commesse e sopravvivono da carcerati. I cani, rinchiusi nel canile, vorrebbero la libertà e l’affetto incondizionato di un padrone e trovano solo la sussistenza pubblica, portata avanti, oltretutto, in condizioni disagevoli ed economicamente precarie, da persone straordinarie, sotto il segno dell’abnegazione. Un’esperienza unica, almeno per me, quella della visita a un canile. Un’esperienza che, tornando a casa, ho capito potersi rappresentare come condizione e metafora dei contraddittori tempi della grande, incontrollabile globalizzazione.
(segue)

DIBATTITO sul LAVORO. Lavoro di Cittadinanza o Reddito di Cittadinanza?

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LAVORO E NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
per chi cosa come produrre

di Laura Pennacchi su Rocca*

La natura delle intense trasformazioni tecnologiche e innovative in atto non è chiara e non aiuta a chiarirla il confronto tra «pessimisti» e «ottimisti», tra quanti, cioè, ritengono che le implicazioni sul lavoro saranno molto più negative di quelle manifestatesi con le passate rivoluzioni tecnologiche – e che siamo irrimediabilmente destinati alla jobless society – e quanti, invece, credono che si genereranno ancora una volta dalle attività innovatrici significativi effetti compensativi della «distruzione» di lavoro nelle attività tradizionali. Di fronte allo scenario del lavoro 4.0, quando il «padrone è un algoritmo e i colleghi sono robot» sorge perfino la domanda se sia meglio parlare, piuttosto che di «fine del lavoro», di «ritorno della schiavitù» (1). In questo quadro ha perfino ripreso piede il dibattito sulla secular stagnation, un’espressione ripresa da Alvin Hansen il quale, già alla fine degli anni Trenta del Novecento, aveva argomentato come la «grande depressione» non fosse un episodio ciclico ma fosse, in realtà, il sintomo dell’esaurimento di una dinamica di lungo periodo, un altro modo di definire l’equilibrio di sottoccupazione individuato da Keynes. Oggi Romano Prodi (2) riconosce che gli studiosi che parlano di «stagnazione secolare» non sono più «voci isolate, ma descrivono in modo scientifico le conseguenze più probabili del crescente squilibrio che si verifica nelle no- stre economie», di cui l’intensificazione delle diseguaglianze a seguito della svalu- tazione del lavoro è una componente rile- vanissima.

riforma del capitalismo

Se gli investimenti appaiono destinati inesorabilmente a cadere, Larry Summers e Paul Krugman vedono in grado di sopperire a tale drammatica prospettiva soltanto un operatore pubblico animato dalla volontà di procedere a massicci investimenti propri, a partire dalle infrastrutture, tanto più che i capitali necessari, dati i bassi tassi di interessi, possono essere presi a prestito a costi assai poco elevati. Si tratta di una drastica svalutazione di tutte le soluzioni supply-side, come benefici fiscali, elevamento dell’occupabilità dei lavoratori, indistinto stimolo all’innovazione (quali sono anche i bonus monetari e gli incentivi indiretti a cui ha fatto abbondante ricorso il governo Renzi). Summers arriva a invocare, in queste condizioni, la necessità di una «politicizzazione» dell’investimento, apertamente riecheggiando la «socializzazione dell’investimento» di cui parlarono Keynes e Minsky. Così i postumi della crisi del 2007/2008 e le tendenze alla secular stagnation si saldano nello spingere a sollevare interrogativi basilari sul capitalismo in quanto tale, in particolare sulla problematicità del suo motore fondamentale di crescita e di sviluppo, il processo di investimento. E proprio qui si colloca la vera sfida odierna: puntare o meno su una «riforma» in grande del capitalismo, una riforma profonda, come quella che si delineò ai tempi di Keynes, quando una radicalità inusitata di progettazione teorica e di critica ideologica congiunse il pensiero innovativo keynesiano alle rivoluzionarie iniziative di Roosevelt e al riformismo radicale europeo – il laborismo inglese ispirato da Beveridge e la socialdemocrazia scandinava – che si opponevano, anche idealmente, ai totalitarismi. Non a caso un gruppo di intellettuali italiani legato alla Cgil, al Libro Bianco Tra crisi e grande trasformazione di accompagnamento al Piano del Lavoro presentato nel 2013, ha fatto seguire il Libro Rosso Riforma del capitalismo e democrazia economica.
In questa prospettiva gli interrogativi fondamentali diventano i seguenti: quali sono le politiche veramente adeguate a rilanciare le economie globali e nazionali? Possiamo tornare a ragionare dei «fini» per un nuovo umanesimo? Di quali beni abbiamo bisogno per realizzarli? Attraverso quali strade possiamo uscire dall’incertezza che grava sul nostro futuro? Quali sono gli equivalenti del New Deal, degli accordi di Bretton Woods, del pensiero di Keynes, del welfare state, idonei a provocare uno slittamento del potere dalla finanza alla produzione, a trasferire il focus dagli indici azionari all’espansione dell’economia reale, ad accrescere il benessere sociale? Ritorna martellante il tema degli investimenti e, con esso, quello del «nuovo modello di sviluppo»: mentre è importante investire nelle infrastrutture fisiche tradizionali (benché rinnovate e modernizzate), è vitale espandere i settori nuovi, perché investimenti in beni sociali, beni ambientali e altro hanno anche lo straordinario vantaggio di essere creatori di lavoro e proiettati verso il futuro. Al centro debbono tornare le domande sul ruolo del «lavoro» e sui «fini» di un «nuovo modello di sviluppo», gli interrogativi sui meccanismi di acquisizione dei guadagni di produttività, sui modelli contrattuali, sulla regolazione del mercato del lavoro, sulla possibilità di fare ricorso a «minimi» e «massimi» retributivi.

una nuova concezione del lavoro

Per avanzare lungo questa strada, occorre una nuova riflessione sulla stessa concezione del lavoro. C’è un’esagerazione pessimistica e infondata in autori prestigiosi che, titolando le loro tesi sul presente La grande regressione (3), hanno voluto rovesciare in negativo il messaggio positivo di Karl Polanyi contenuto ne La grande trasformazione. E tuttavia non possiamo non chiederci cosa direbbe Karl Polanyi oggi di fronte alla dequalificazione, la segmentazione e l’individualizzazione del lavoro, la riduzione del ricorso all’azione collettiva, la delegittimazione dei corpi intermedi, il diffondersi di una sorta di «pornografia emotiva» nell’estensione della logica prestazionale, l’affermarsi dell’autocontrollo e dell’auto-profilazione inconsapevole e pertanto della partecipazione gratuita all’accumulazione di profitti e di potere altrui (4).
Con le nuove tecnologie e il lavoro 4.0, la connessione perenne e l’accessibilità estesa non significano automaticamente maggiore libertà, possono anzi generare una rarefazione della sfera pubblica a sua volta incrementante la desoggettivazione e la depoliticizzazione (5) già in atto. Se l’individualizzazione passa attraverso una «esposizione costante del sé» e una «gamificazione» in cui l’offerta ininterrotta di stimoli si traduce in «forme di gioco» (espresse dal clic «mi piace») che alla fine si risolvono in esasperazione della prestazione e della competizione, vediamo all’opera da una parte la trasformazione di ogni elemento di conoscenza in informazione alla rincorsa della singolarità, dall’altra l’ambizione a modificare gli stessi comportamenti manipolando e suggerendo desideri che non si sa di avere e alimentando il delirio di onnipotenza.

il trinomio innovazione lavoro persona

Stupisce, piuttosto, che, di fronte a questo scenario che presenta tante criticità ma anche tante opportunità, oggi solo soggetti religiosi – come Papa Francesco, il papa che ha definito il neoliberismo «l’economia che uccide» e che grida «non reddito ma lavoro per tutti» – mostrino una persistente forte sensibilità al trinomio innovazione/lavoro/persona, tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’«essere» del lavoratore, chiedendo di «non ridurre la persona umana a puro elemento dei fenomeni economici» e riaffermando la natura di relazione tra soggetti del rapporto lavorativo, «titolari di una ‘dignità’ e non solo di un ‘prezzo’» (come è, invece, nella concezione mercificata del lavoro).
C’è veramente da chiedersi perché la stessa riscoperta di Marx e della sua critica al capitalismo, indotta dalla crisi economico-finanziaria, non si sia spinta – nemmeno a sinistra – fino al recupero del Marx che, con Hegel, vede nel lavoro il processo attraverso il quale l’uomo non si limita a metabolizzare ma media anche simbolicamente il rapporto fra se stesso e la natura, cambia se stesso dandosi una funzione autotrasformativa, esplora sistematicamente dimensioni intellettuali di consapevolezza e di progettualità. Si sottace così l’enorme significato, anche antropologico, della vitale «inquietudine creatrice» sempre soggettivamente racchiusa nel lavoro. Si trascura che il lavoro è fattore vitale dell’identità del soggetto e attribuzione di significato all’esperienza esistenziale, esprime un’intrinseca dimensione di apertura verso il mondo e verso gli altri, contiene relazioni plurime (con il contesto in cui l’attività lavorativa si svolge, con il sapere e l’esperire di chi ha operato precedentemente, con gli altri che lavorano), il suo senso è impregnato di desiderio, quel desiderio che è un moto verso una destinazione mancante, un orizzonte nel quale non si è e al quale si aspira. Per tutto questo, per disinnescare una mina che rischia di compromettere le fondamenta sulle quali costruire il futuro della nostra società, bisogna mettere al primo posto dell’azione politica la lotta alla disoccupazione giovanile.

reddito o lavoro di cittadinanza?

Quelle che precedono sono, peraltro, le ragioni per cui è bene preferire, a mio parere, la proposta del «lavoro di cittadinanza» a quella del «reddito di cittadinanza». Non si tratta ovviamente di negare né che alcuni trasferimenti monetari – per esempio per il contrasto alla povertà o per gli ammortizzatori sociali universalizzati – siano necessari, né che politiche di riduzione dell’orario di lavoro possano essere opportune. Ma la proposta del «reddito di cittadinanza» si configura come compensazione e risarcimento di un lavoro che non c’è, per costruire un «welfare per la non piena occupazione», accettando e sanzionando le tendenze spontanee del capitalismo che naturalmente va verso l’opposto della piena occupazione e cioè la disoccupazione di massa. I rischi del «reddito di cittadinanza» sono seri: – che i veri problemi odierni (in particolare l’incapacità del sistema economico di generare «piena e buona occupazione») rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto ad essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; – che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato e sanzionato; – che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto, perché per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato, ma questa deresponsabilizzazione equivale all’eutanasia della politica.

razionalità politica e scientifica dell’innovazione

Dunque, ciò che ci si ripropone come cruciale è la profondità della trasformazione a cui dobbiamo aspirare e, di conseguenza, la possibilità di una direzione dell’innovazione verso una simile trasformazione e la qualità delle istituzioni pubbliche in grado di operare in tal senso. Abbiamo bisogno, infatti, di sottoporre a critica sia la «razionalità politica» dell’innovazione, sia la sua «razionalità scientifica», in particolare la «razionalità dell’algoritmo» con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa. Queste problematiche non sono nuove. Oggi la retorica dell’esogenità e della naturalità dei fenomeni è utilizzata per sostenere la causa della neutralità degli stessi e anche il piano Industria 4.0 dell’italiano ministro Calenda si apre con una dichiarazione di «neutralità» del governo rispetto all’andamento e ai fini dell’innovazione, da cui consegue la volontà di non praticare cosiddette «velleità dirigistiche».

proposte radicali

Nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, Tony Atkinson, invocando «proposte più radicali» (more radical proposals) e denunciando l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), suggeriva che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte delle istituzioni collettive, finalizzato ad aumentare l’occupazione. Qui peraltro – sosteneva Atkinson – si colloca la possibilità di smascherare l’inganno che si cela dietro le fantasmagoriche proposte (istituire privatamente e localmente forme di «reddito di cittadinanza») di alcuni imprenditori della Silycon Valley, interessati a ribadire che l’innovazione è guidata dall’offerta (cioè, traduceva Atkinson, dalle corporations) e non dalla domanda e dai bisogni dei cittadini, ai quali bisogna dare solo capacità di spesa e potere d’acquisto, cioè reddito magari sotto forma di «reddito di cittadinanza».
L’attualizzazione delle immagini di Blade Runner evoca un nuovo Medioevo in cui il potere privato spadroneggia. E in effetti la diffusione delle nuove tecnologie – specie di quelle digitali – coincide con una polarizzazione del potere senza precedenti. Senza una forte mobilitazione alternativa da parte dei poteri pubblici, dell’azione collettiva, dei corpi intermedi, nell’arena globale in cui Google, Uber, Amazon, e i loro contraltari finanziari, trascinano le decisioni di accumulazione e pertanto le traiettorie tecnologiche, l’individuo rischia di trovarsi solo e inerme di fronte ai nuovi poteri che lo sovrastano. Per questo Atkinson escogita tutta una serie di proposte «radicali», tra cui tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito» agendo come employer of last resort. E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.

innovazioni più socialmente utili

L’innovazione può e deve essere guidata, nei suoi indirizzi di fondo, dalla collettività. Se lo Stato sa nutrire obiettivi e motivazioni strategiche, si pone alla base del- l’emergenza di interi nuovi settori, come è avvenuto con internet, le biotecnologie, le nanotecnologie, l’economia «verde». C’è un’aperta intenzionalità pubblica che sottostà a molte innovazioni, come nel caso del premio da un milione di dollari offerto dalla americana Darpa per un’automobile senza guidatore. Una «direzione» intenzionale dell’innovazione, dunque, è possibile e pertanto si può immaginare per la generazione di altre innovazioni, più socialmente utili, volte al soddisfacimento di grandi bisogni insoddisfatti. Le alternative sono strette: o si rilancia come se niente fosse accaduto la crescita neoliberistica, drogata dall’invenzione ininterrotta di esigenze fittizie, o si dà vita a un nuovo modello di sviluppo, in cui gli interrogativi sul «per chi», «cosa», «come» produrre trovano risposte anche in un’innovazione piegata a soddisfare «domande sociali». Ed è qui che lo Stato «strategico» entra in gioco in modo decisivo.

iniziative innovative sui diritti di proprietà

Tutto ciò spiega perché bisogna collocare molto in alto le ambizioni riformatrici, al livello appunto della «riforma del capitalismo», e perché l’urgenza maggiore, per le forze progressiste, risieda nella necessità di uscire da un silenzio, un’inerzia, una cura di spiccioli affari di bottega che durano ormai da troppo tempo e le condannano alla scomparsa, attivando, al contrario, un cantiere culturale alternativo di vastissima portata, in grado di generare pensiero, analisi, linguaggi di altissimo profilo. Si tratta, infatti, anche di cogliere le straordinarie opportunità che, tra tante difficoltà, la fase presenta, ma che, lasciate a se stesse, non potranno manifestarsi. In questo ambito ricadono le problematiche del- la democrazia economica e di iniziative innovative sui «diritti di proprietà».
Le nuove tecnologie racchiudono forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, aprenti eccezionali «finestre di opportunità» che, anziché lasciate al solo capitalismo animato dalla volontà di consolidare i tradizionali rapporti di potere, possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla «coprogettazione» in disegni alternativi. La dose massiccia di «interconnettività» dell’innovazione odierna è intrecciata a una dose maggiore di «cognitività» e tale intreccio, poiché dà un ruolo potente al lavoro mentre genera una maggiore diffusione e circolazione delle informazioni, entra in contraddizione con una gestione accentrata delle aziende.
La prima cosa da fare è comprendere che la creazione di valore è il frutto di processi assai più complessi della sola competizione economica, ragion per cui «abbiamo bisogno di una forma più sofistificata di capitalismo, impregnata di finalità più sociali» (6).
La seconda cosa da fare è prendere atto che le dinamiche di finanziarizzazione sono strettamente intrecciate con lo shift dell’ottica imprenditoriale verso profitti di breve periodo e verso l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo, trasformando il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco – quale è nello stakeholder value approach – in agente di se stesso e del capitale finanziario. In questo ambito dovrebbero anche essere recuperate le ispirazioni «non proprietarie» del piano Meidner del 1975-76 (che aveva al proprio cuore la preoccupazione per la caduta dell’interesse dei capitalisti agli investimenti, quando ancora sarebbe stato possibile uscire dalla crisi innescata dal primo shock petrolifero in modo diverso dalla sola compressione dei salari).

verso una piena e buona occupazione

Per «chi», «cosa» e «come» produrre: ecco i crinali che, come per il grande riformismo del New Deal, tornano a rivelarsi decisivi in questa fase di grandi trasformazioni tecnologiche, se vogliamo coglierne tutte le potenzialità anche in termini di neoumanesimo. Un «nuovo modello di sviluppo» deve privilegiare la domanda interna sulle esportazioni, intervenire tanto sulle questioni di domanda che su quelle di offerta, premiare i consumi collettivi su quelli individuali cambiando profondamente gli stili di vita, puntare sulla «piena e buona occupazione». Questo obiettivo va rilanciato proprio quando così tanta incertezza grava sulle conseguenze di una rivoluzione tecnologica in atto. Un «nuovo modello di sviluppo» deve «piegare» l’innovazione verso la «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – si potrebbe dire la sua «rivoluzionarietà» – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, lasciare libero spazio alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe, anche e soprattutto in termini disegualitari.
Laura Pennacchi
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Note
(1) D. Guarascio, M. E. Virgillito, Se il padrone è un algoritmo e i colleghi sono robot: fine del lavoro o ritorno della schavitù?, Relazione al seminario del Forum Economia della Cgil nazionale, Roma, 14 dicembre 2016.
(2) R. Prodi, Il piano inclinato, Il Mulino, Bologna 2017.
(3) H. Geiselberger, La Grande Regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2017. (4) E. Morozov, Silicon Valley: i Signori del silicio, Codice Edizioni, Torino 2016.
(5) Per maggiori dettagli si veda L. Pennacchi, Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015.
(6) M. E. Porter, M. R. Kramer, Creating Shared Value in «Harvard Business Review», january-february 2011.
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* Laura Pennacchi, economista, su Rocca

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Lavoro

sedia di VannitolaLa Sedia
di Vanni Tola

Lavori usuranti e gravosi, ma di che stiamo parlando?

Una notizia che dovrebbe servire per mitigare l’effetto devastante dell’aumento dell’età pensionabile, in realtà sta diventando un boomerang per chi la propone e una presa in giro per chi la dovrà subire. “Stop dell’aumento a 67 anni dell’età di pensione dal 2019 per 15 categorie di lavori gravosi: le 11 già fissate dall’Ape social (tra cui maestre, infermieri turnisti, macchinisti e edili) e altre 4 (agricoli, siderurgici, marittimi e pescatori). Questa la proposta messa dal governo sul tavolo tecnico a Palazzo Chigi, secondo quanto riferiscono i sindacati”. Non prendiamoci in giro, che significa lavori gravosi? Si può valutare la “gravosità” di un lavoro secondo parametri risalenti agli anni della Rivoluzione Industriale? Tutti i lavori sono gravosi se svolti con impegno e competenza soprattutto quando protratti per periodi molto lunghi. Lo sono per almeno due motivi, l’esasperante ripetitività nel tempo e la riduzione delle capacità mentali e fisiche del lavoratore conseguenti all’invecchiamento fisiologico. Come si fa a decidere che il lavoro del minatore è usurante e quello del panettiere no? Spesso entrambi muoiono per problemi respiratori conseguenti all’ingerimento di polveri nei polmoni. Come si può decidere che è usurante il lavoro delle maestre e non quello degli insegnanti della scuola media e delle scuole superiori? Davvero si può pensate che l’infermiere, l’operaio siderurgico, il lavoratore marittimo subiscano, per conseguenza del loro lavoro, una usura mentale e fisica maggiore di quelle di una cassiera di un supermarket o di un impiegato che opera in uno sportello aperto al pubblico, di un operatore di aziende di vendita e spedizione pacchi? Cerchiamo di seguire la logica e lasciare da parte i luoghi comuni spesso originati da convinzioni errate e conoscenza superficiale delle differenti mansioni lavorative. Il lavoro, attività indispensabile per l’uomo, provoca inevitabilmente livelli elevati di usura dello stato psico-fisico di chi lo pratica anche e soprattutto con lo scorrere degli anni e per il decadimento fisiologico che l’invecchiamento comporta. Allora, se tutto ciò è fondato, (segue)