Monthly Archives: novembre 2017

Oggi domenica 26 novembre 2017

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Zapatos rojos contro la violenza sulle donne
26 Novembre 2017
Su Democraziaoggi.
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eddyburg 26 Novembre 2017
Poche storie, all’Italia servono più migranti
di MARCO SANTI
Poche storie, all’Italia servono più migranti. LINK/IESTA 25 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Non è certamente la ragione essenziale perché un paese civile rispetti il diritto del migrante a essere accolto, ma anche le ragioni dell’economia posso avere importanza per convincere i sordi, gli avari e gli egoisti.
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Beni comuni

Oss beni comuni 4
logo-comuneLe forme della proprietà si arricchiscono di una nuova fattispecie, non sono più due, ma tre: privata, pubblica e collettiva. Una vera rivoluzione nella cultura giuridica e anche politica, spiega Paolo Cacciari. La proposta che dieci anni fa la Commissione Rodotà fece di considerare “comuni” alcune categorie di “beni” da inserire nel Codice Civile, trova oggi una parziale, ma significativa attuazione di fatto. Nei commenti in coda, un intervento anche di Paolo Maddalena, già Vicepresidente della Corte costituzionale, che, tra l’altro, scrive: “Plaudo a questa legge che conferma la funzione di conservazione dell’ambiente delle proprietà collettive. Non condivido invece la facoltà data alle regioni del cambio di destinazione… Auspicherei una legge che ampliasse l’elenco delle proprietà pubbliche… e abrogasse il decreto legislativo del 2010 che rende alienabili anche i beni demaniali…”
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Domini collettivi. Terre d’uso comune
| 22 novembre 2017 | su COMUNEinfo
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di Paolo Cacciari

Udite, udite! Aggiornate i manuali di diritto, le forme della proprietà si arricchiscono di una nuova fattispecie, non sono più due, ma tre: privata, pubblica e collettiva. Una vera rivoluzione nella cultura giuridica e anche politica. «In attuazione degli articoli 2, 9, 42 e 43 della Costituzione, la Repubblica riconosce i domini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie». Così recita l’articolo 1 della nuova legge Norme in materia di domini collettivi, approvata definitivamente il 26 ottobre alla Camera dei deputati (A.C. n. 4522) e ancora in attesa di essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale.

La proposta che dieci anni fa la Commissione Rodotà fece di considerare “comuni” alcune categorie di “beni” da inserire nel Codice Civile, trova oggi una parziale, ma significativa attuazione di fatto.

Certo, gli Assetti fondiari collettivi sono una fattispecie giuridica ben determinata e delimitata dal lavoro svolto in novant’anni dai Commissari speciali creati in epoca fascista allo scopo di liquidarli, ma ora, per una buffa eterogenesi dei fini, la nuova legge ne sancisce l’esistenza come titolari di beni collettivi indisponibili, inalienabili, indivisibili, inusucupibili, persino inespropriabili e di perpetua destinazione d’uso agro-silvo-pastorale, soggetti a vincolo paesaggistico nazionale (secondo il disposto del Codice dei beni paesaggistici e culturali). Costituiscono i “domini collettivi” quei boschi, pascoli, terreni seminativi, malghe, corsi d’acqua e relative pertinenze e diritti d’uso che siano amministrati da istituzioni comunitarie consuetudinarie, spesso plurisecolari, sicuramente pre-capitaliste, pre Codici napoleonici, pre-unitarie. Nelle regioni italiane prendono nomi diversi: Consorterie (Val d’Aosta), Società di Antichi Originari (Lombardia), Regole (Veneto), Comunelle, Viciníe, Interessenze (Friuli), Comunanze (Umbria), Comunioni familiari montane (Toscana), Università agrarie (Emilia e Lazio), Partecipanze ed altro ancora. In Svizzera si chiamano Patriziati; Baldios in Portogallo; Montes Viciñais in Spagna.

Secondo il censimento Istat del 2010, gli ettari di “terre di collettivo godimento” appartenenti alle proprietà collettive sono più di un milione e mezzo, quasi il 10 per cento della Superficie Agraria Utile in Italia. Il 3 per cento dell’intero territorio nazionale. La loro gestione è affidata agli enti esponenziali storici della collettività-comunità locale che assumono personalità giuridica di diritto privato con autonomia statutaria. Il patrimonio è fondativo dei sistemi territoriali eco-paesaggistici e deve essere utilizzato a favore della collettività degli aventi “diritto reale”, cioè delle persone residenti discendenti dalle famiglie originarie del luogo e – secondo le norme dei vari statuti – dei proprietari di immobili residenti. Una sorta di ius soli civico, con obbligo di custodia del bene. La legge prevede che le Regioni debbano controllare gli statuti degli enti per garantire la partecipazione alla gestione comune dei rappresentanti liberamente scelti dalle famiglie originarie stabilmente stanziate sul territorio. È accaduto, infatti, che alcune “regole chiuse” del Cadore discriminassero le discendenze femminili.

La nuova legge supera un regime provvisorio che si prolungava dal 1927, quando lo stato tentò di sciogliere gli usi civici e di sfaldare i loro patrimoni. La lunga resistenza è ora risultata vincente per merito della testardaggine di alcune popolazioni direttamente interessate (specie dei territori montani) e dell’opera della Consulta nazionale della proprietà collettiva. Decisivo anche il contributo di insigni giuristi, tra cui Pietro Nervi del Centro studi sui demani civici e le proprietà collettive dell’Università di Trento (www.usicivici.unitn.it) e Paolo Grossi, ora presidente della Corte Costituzionale, che quarant’anni fa scrisse un fondamentale tomo: Un altro modo di possedere (ora ristampato e ampliato da Giuffré). Ma la nuova legge di iniziativa parlamentare, proposta dal senatore del Partito democratico Giorgio Pagliari, docente di diritto amministrativo di Parma, è stata possibile anche grazie alla riscoperta dei commons avvenuta tramite i lavori della premio Nobel Elinor Ostrom e la nascita di un vasto movimento sociale che rivendica la gestione comunitaria e partecipata dei beni indispensabili al benessere “di tutti e di ciascuno”.

Come afferma Grossi, la proprietà privata non è solo quella individuale, venerata e mitizzata dalla civiltà borghese, tassello fondamentale dell’antropologia individualista e fondamento del sistema di mercato liberale, ma esiste un altro modo di intendere il “possesso” in forma collettiva, condivisa, solidale, partecipata. Più in radice ancora, nel caso dei “domini collettivi” viene superata la sovranità antropocentrica sul bene naturale (il diritto divino di disporne a piacimento dei beni del creato), ma, al contrario, si delinea un primato del bene sui soggetti che lo usano. Il possesso, quindi, non solo è collettivo, ma è anche finalizzato e vincolato alla custodia e alla preservazione del bene. Il diritto di proprietà si allarga anche al “popolo dei non proprietari”, ma ne viene limitato. Le terre d’uso comune smettono così di essere “cose”, oggetti di scambio, strumenti per fini ad esse estranee, e diventano realtà viventi portatrici di un sistema di valori intrinseco. Metavalori ambientali, storici, culturali, identitari, ecologici oltre che economici in senso pieno. I territori sono considerati nel loro potenziale di sostentamento e produzione permanente, nel rispetto delle capacità di carico antropico e nel rispetto dei tempi di rigenerazione delle risorse rinnovabili. Vi è qui l’idea che non vi possa essere discrepanza di interesse tra le «formazioni sociali» ove si realizza la personalità di ogni essere umano (ecco il rimando all’art.2 della Costituzione) e la buona qualità dell’ambiente naturale (rimando all’art. 9 reinterpretato dalla Corte costituzionale) in cui le popolazioni sono insediate. Da qui la necessità di vincolare la proprietà dei beni territoriali ad una «funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (articoli 42 e 43 che riconosce le «comunità di lavoratori e di utenti» quali soggetti abilitati a realizzare un «preminente interesse generale»).

Nella nota dei Servizi studi legislativi della Camera si legge che: «Le difficoltà di inquadramento sistematico dei domini collettivi, appartenenti originariamente ad una comunità, derivano anche dall’irriducibilità dell’istituto all’attuale concezione privatistica, di derivazione romanistica, basata sulla proprietà privata. Si consideri, a tal proposito, anche il contenuto dell’art. 42, primo comma, Cost. secondo il quale “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”». Con questa nuova legge si viene quindi a prefigurare un terzo tipo di proprietà ricco di possibili sviluppi nella prospettiva dell’autogoverno delle comunità che rompe un antico recinto giuridico dottrinale; una vera eresia rispetto al dogma proprietario del paradigma classico pubblico/privato, dicotomico nella teoria, concorrente nei fatti. Ambedue, infatti, nei comportamenti pratici dello stato liberale sono funzionali al buon funzionamento del mercato, all’appropriazione privata delle risorse, all’accumulazione dei profitti.

Non nascondiamoci comunque i pericoli nascosti tra le pieghe della legge. Si tratta pur sempre di proprietà collettive inserite in un regime di diritto privato e bisogna dare molta fiducia agli “aventi diritto”, alle popolazioni locali insediate, affinché facciano buon uso di questo antico/nuovo potere e non si facciano catturare dalle logiche della “valorizzazione” dei loro meravigliosi beni. Ad esempio, la legge prevede che le Regioni possano autorizzare cambi di destinazione d’uso dei terreni. Le esperienze in atto in tante parti d’Italia sono di straordinario interesse e positività. Vi sono Regole che hanno fermato impianti sciistici distruttivi e cave; Comunalie che hanno realizzato filiere integrate del legno e dei cereali; Partecipanze che hanno fermano la captazione di acque minerali; Viciníe che ripopolano paesi abbandonati (leggi anche Un antico mulino rivive con la Regola). Molti altri buoni esempi che possono diventare modelli economici e sociali. Si è quindi aperto un varco ed è interessante notare che le delibere (l’ultima è la n.446 del 2016) attraverso cui il Comune di Napoli hanno avviato la «ricognizione degli spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero dei beni pubblici (…) percepiti dalla comunità come “beni comuni” e suscettibili di fruizione collettiva», si ispirano proprio all’idea degli usi civici collettivi.

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Un commento di
Paolo Maddalena

24 novembre 2017 at 09:27 #
Carissimo Paolo, plaudo a questa legge che conferma la funzione di conservazione dell’ambiente delle proprietà collettive. Non condivido la facoltà data alle regioni del cambio di destinazione.

Desidero sottolineare che il diritto romano ha affermato la “proprietà privata” solo agli albori del 1° secolo a. C. parlando di dominium ex iure Quiritium, mentre ha sempre considerato il territorio “proprietà collettiva” del Popolo. Tanto è vero che, per dare in uso ai veterani parte delle terre conquistate, occorreva una specifica legge (lex centuriata o plebiscitum) e una cerimonia detta della “divisio et adsignatio agrorum”. L’idea che la proprietà romana coincidesse con la proprietà privata è un falso dottrinario che si trascina da tempo ed è effetto della cultura giuridica borghese.

Inoltre, desidero sottolineare che “proprietà pubblica”, in Costituzione, come rilevò il Giannini, significa “proprietà collettiva demaniale”, cioè proprietà del Popolo, e come tale inalienabile, inusucapibile e in espropriabile, a titolo di sovranità, mentre lo Stato persona, cioè la pubblica amministrazione, può essere proprietaria anche di beni che sono in commercio. Infatti il primo comma dell’articolo 42 della Costituzione recita: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato a enti o a privati”. In sostanza ci sono beni demaniali, che offrono utilità godibili nello stesso tempo da tutti, in proprietà del Popolo e “gestiti” dalla pubblica amministrazione (si tratta di beni “fuori commercio), mentre ci sono beni che offrono utilità individuali o familiari, che possono essere in proprietà privata di tutti, Stato compreso, e che costituiscono i “beni in commercio”. L’errore di non concepire lo Stato previsto dalla Costituzione come Stato comunità (quello che attribuisce la sovranità al Popolo), e il prolungarsi dell’idea borghese dello Stato persona, ha confuso le idee anche a proposito della proprietà pubblica.

Auspicherei una legge che ampliasse l’elenco delle proprietà pubbliche (la giurisprudenza della Corte di cassazione – sentenza sulle Valli di pesca della Laguna Veneta del 2011 – ha inserito nei beni demaniali anche il “paesaggio”) e abrogasse il decreto legislativo n. 85 del 2010 (il cosiddetto “Federalismo demaniale”), che rende alienabili anche i beni demaniali.

Se poi, invece di parlare di “proprietà pubblica”, nel senso di “proprietà collettiva del Popolo”, si volesse parlare di “domini collettivi” del Popolo, si faccia pure. Un caro abbraccio.
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Oggi sabato 25 novembre 2017

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Oggi Cagliari manifesta contro la violenza sulle donne
25 Novembre 2017

Oggi a Cagliari, a partire dalle 16, in Piazza Garibaldi, Manifestazione contro la violenza alle donne.
“Mai Piu’ una”
Su Democraziaoggi.
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Aborto e violenza, le donne sono per strada
25 Novembre 2017, su il manifesto, ripreso da Democraziaoggi.
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Oggi 25 novembre 2017: ricordando Antonio Romagnino a 100 anni dalla sua nascita
antonio-romagnino

Oggi

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pazza-idea-profilo-futuro
- Il Programma Pazza Idea 2017.
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Convegno sul Lavoro. Economia Sociale e Solidale, anticipazione degli Atti del Convegno

gasgiuliano-angotzi-100x100GIULIANO ANGOTZI.
Il gruppo di acquisto solidale (GAS)

“I gruppi d’acquisto solidale (Gas) sono gruppi informali di cittadini che si incontrano e si organizzano per acquistare insieme prodotti alimentari o di uso comune. L’acquisto avviene secondo il principio della solidarietà, che li porta a preferire produttori piccoli e locali, rispettosi dell’ambiente e delle persone, con i quali stabiliscono una relazione diretta” (http://www.economiasolidale.net/content/cose-un-gas ).
I GAS non sono isolati. Dopo anni di attività è stata organizzata una rete di mutuo aiuto, la Rete di economia solidale. Nel sito web http://www.economiasolidale.net/ sono riportati i principi generali (pagina http://www.economiasolidale.net/content/cose-un-gas ) e indicazioni per l’organizzazione e l’attività (http://www.economiasolidale.net/content/risorse-e-strumenti-i-gas ) dei GAS.
Della rete di economia solidale, a livello distrettuale e regionale, fanno parte oltre ai GAS anche produttori e fornitori legati ai GAS ( http://www.economiasolidale.net/content/rete-di-economia-solidale-res ).
Il documento fondativo e programmatico della rete di economia solidale è la Carta per la rete italiana di economia solidale (http://www.solidariusitalia.it/2012/04/carta-per-la-rete-italiana-di-economia-solidale-res/ ).
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( segue)

Oggi venerdì 24 novembre 2017

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migrazioni-24-nov-17- Migrazioni.

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pazza-idea-profilo-futuro
- Il Programma Pazza Idea 2017.
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eddyburg23 Novembre 2017
Il vestito buono della politica
di GUSTAVO ZAGREBELSKY
Il vestito buono della politica. La Repubblica, 23 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti»
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democrazia-4A nome dei tanti elettori che non sanno per chi votare
di TANA DE ZULUETA
A nome dei tanti elettori che non sanno per chi votare. Su il manifesto, 23 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Parole molto sagge. Speriamo che le comprendano, e ne tengano conto, quei reduci da altre stagioni che rischiano il 2 dicembre non solo di affogare, ma di farci affogare tutti in un mondo senza democrazia e senza uguaglianza.
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democraziaoggi-loghettoTocca a noi fermare il fascistellum
24 Novembre 2017

Alfiero Grandi – Comitato naz. per la democrazia costituzionale
da Il fatto quotidiano 22.11.2017, ripreso da Democraziaoggi
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Sabato

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Emilio Lussu, riferimento fondamentale della Scuola Popolare dei Lavoratori del Quartiere di Is Mirrionis

emilio-lussu-comizioQUARTIERE DI IS MIRRIONIS. ASSEMBLEA DELLA SCUOLA POPOLARE. 11.05.1975

lampadadialadmicromicro13L’11 maggio 1975, a due mesi dalla morte di Emilio Lussu (Roma 5 marzo 1975) la Scuola Popolare e il Circolo culturale di quartiere di Is Mirrionis organizzarono un’assemblea popolare per onorare il Grande Sardo. La relazione introduttiva venne tenuta da Giuseppe Caboni, uno dei massimi studiosi della vita e dell’opera di Emilio Lussu, nonché personale amico, sia pure considerando la grande differenza di età tra i due. Ringraziamo il nostro amico Giuseppe per averci ricordato quell’importante iniziativa, trasmettendoci il testo della sua relazione, che, come abbiamo riconosciuto, mantiene una straordinaria inalterata validità, oggi come allora. Tutto ciò anche a testimonianza della preziosa presenza politico-culturale della Scuola Popolare e del Centro Culturale nel quartiere di Is Mirrionis, nella città ed oltre.
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Ricordando Emilio Lussu, il suo esempio e i suoi attualissimi insegnamenti
di Giuseppe Caboni

Chi lavora comanda. È questa una delle indicazioni morali fondamentali che Emilio Lussu trasse dalla sua vita col padre. Era attorno ai 10 anni quando la prepotenza con un mezzadro gli costò, per l’intervento del padre appunto, una settimana al suo servizio, a lavorare la terra.
Da questa e da altri simili esperienze sosteneva di aver acquisito la prima apertura alla democrazia sostanziale, al senso dell’uguaglianza (in un breve saggio del 1952, “Nascita di uomini democratici”).
Lo spirito d’indipendenza, l’apprezzamento del coraggio come dote primaria, la lealtà e la socialità: anche queste sono state qualità di Lussu che lui stesso riportava ai valori propri della società pastorale di Armungia, il paese dove era nato nel 1890. L’ha definita – nel racconto “il cinghiale del diavolo”- una società senza classi e senza stato, all’interno della quale la distinzione tra patrizi e plebei, fra pastori da una parte e commercianti o scribacchini dall’altra, era “morale”, e non sociale. A questo modo di sentire, assorbito intensamente sin dall’infanzia, Lussu riportava sempre il suo radicale, irriducibile antifascismo, la sua avversione profonda alla ripartizione in classi della società capitalista, in cui quelli che lavoravano più duramente e produttivamente – contadini, pastori, operai – non esercitano affatto il potere, ma subiscono quello di strati privilegiati, autoritari e parassitari, e sono – in modo sempre più violento – vittime dello sfruttamento e del bisogno materiale.
Il primo grande scontro con la logica della società classista Lussu lo ebbe nelle trincee della prima guerra mondiale, a cui partecipava come interventista, ma di cui imparò presto a comprendere le contraddizioni. Le pagine di “Un anno sull’altopiano” descrivono con sobrietà il processo psicologico che portò il tenente sardo a capire come i veri “nemici” fossero i generali e i profittatori di guerra – e dietro l’intera struttura di potere della grande borghesia italiana ed europea – e a fraternizzare con i formidabili soldati della brigata Sassari, per il 95% pastori e contadini, e per il resto, operai, minatori ed artigiani.
Sul fronte Lussu divenne un capo leggendario. Al rientro in Sardegna le intuizioni che riuscì progressivamente a inserire nelle rivendicazioni degli ex combattenti, sino al 1920, e poi nel Partito Sardo d’Azione, muovevano in direzione del socialismo, di un socialismo originale, basato – allora – sull’autogestione, sull’antiburocratismo, sullo spirito di iniziativa e d’indipendenza. (segue)

Emilio Lussu, riferimento fondamentale della Scuola Popolare dei Lavoratori del Quartiere di Is Mirrionis

foisofois-emiliolussuQUARTIERE DI IS MIRRIONIS. ASSEMBLEA DELLA SCUOLA POPOLARE. 11.05.1975

lampadadialadmicromicro13 L’11 maggio 1975, a due mesi dalla morte di Emilio Lussu (Roma 5 marzo 1975) la Scuola Popolare e il Circolo culturale di quartiere di Is Mirrionis organizzarono un’assemblea popolare per onorare il Grande Sardo. La relazione introduttiva venne tenuta da Giuseppe Caboni, uno dei massimi studiosi della vita e dell’opera di Emilio Lussu, nonché personale amico, sia pure considerando la grande differenza di età tra i due. Ricordando quella circostanza ringraziamo il nostro amico Giuseppe per averla puntualmente documentata, trasmettendoci il testo della sua relazione, che, come abbiamo riconosciuto, mantiene inalterata validità oggi come allora. Tutto ciò anche a testimonianza della preziosa presenza politico-culturale della Scuola Popolare e del Centro Culturale nel quartiere di Is Mirrionis, nella città ed oltre.
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Ricordando Emilio Lussu, il suo esempio e i suoi attualissimi insegnamenti
di Giuseppe Caboni

Chi lavora comanda. È questa una delle indicazioni morali fondamentali che Emilio Lussu trasse dalla sua vita col padre. Era attorno ai 10 anni quando la prepotenza con un mezzadro gli costò, per l’intervento del padre appunto, una settimana al suo servizio, a lavorare la terra.
Da questa e da altri simili esperienze sosteneva di aver acquisito la prima apertura alla democrazia sostanziale, al senso dell’uguaglianza (in un breve saggio del 1952, “Nascita di uomini democratici”).
Lo spirito d’indipendenza, l’apprezzamento del coraggio come dote primaria, la lealtà e la socialità: anche queste sono state qualità di Lussu che lui stesso riportava ai valori propri della società pastorale di Armungia, il paese dove era nato nel 1890. L’ha definita – nel racconto “il cinghiale del diavolo”- una società senza classi e senza stato, all’interno della quale la distinzione tra patrizi e plebei, fra pastori da una parte e commercianti o scribacchini dall’altra, era “morale”, e non sociale. A questo modo di sentire, assorbito intensamente sin dall’infanzia, Lussu riportava sempre il suo radicale, irriducibile antifascismo, la sua avversione profonda alla ripartizione in classi della società capitalista, in cui quelli che lavoravano più duramente e produttivamente – contadini, pastori, operai – non esercitano affatto il potere, ma subiscono quello di strati privilegiati, autoritari e parassitari, e sono – in modo sempre più violento – vittime dello sfruttamento e del bisogno materiale.
Il primo grande scontro con la logica della società classista Lussu lo ebbe nelle trincee della prima guerra mondiale, a cui partecipava come interventista, ma di cui imparò presto a comprendere le contraddizioni. Le pagine di “Un anno sull’altopiano” descrivono con sobrietà il processo psicologico che portò il tenente sardo a capire come i veri “nemici” fossero i generali e i profittatori di guerra – e dietro l’intera struttura di potere della grande borghesia italiana ed europea – e a fraternizzare con i formidabili soldati della brigata Sassari, per il 95% pastori e contadini, e per il resto, operai, minatori ed artigiani.
Sul fronte Lussu divenne un capo leggendario. Al rientro in Sardegna le intuizioni che riuscì progressivamente a inserire nelle rivendicazioni degli ex combattenti, sino al 1920, e poi nel Partito Sardo d’Azione, muovevano in direzione del socialismo, di un socialismo originale, basato – allora – sull’autogestione, sull’antiburocratismo, sullo spirito di iniziativa e d’indipendenza. (segue)

Appello ai Presidenti: un’azione congiunta straordinaria per una vera riforma della legge elettorale sarda. E’ una condizione necessaria perché i sardi riacquistino fiducia nell’Istituzione regionale e tornino a votare in massa

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Cari Pigliaru e Ganau, dalla doppia preferenza andiamo spediti ad una nuova legge elettorale

di Andrea Pubusa*

Cari Francesco e Gianfranco,

Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria, di cui mi onoro di far parte, ha deciso di inviarvi una lettera, per così dire, ufficiale per chiedervi una radicale riforma della nostra legge elettorale, io invece voglio dialogare con voi amichevolmente in ragione della nostra antica conoscenza.
La doppia preferenza è legge. Voi avete dichiarato che la parità uomo/donna è sempre e in ogni campo una conquista di diviltà. Ed è vero perché l’uguaglianza sancita dall’art. 3 della Costituzione è il più rivoluzionario dei principi proclamati dalla nosta bella Carta, e forse, proprio per questo, quello più violato nella pratica. Ed è esattamente su questo che voglio richiamare la vostra attenzione. La doppia preferenza di genere s’inserisce in un corpo legislativo che viola gravemente e manifestamente quel principio, con l’iper premio di maggioranza e i due iper sbarramenti. Con la conseguenza che, nelle scorse elezioni anche chi ha riportato 75 o 42 mila voti non ha avuto diritto di tribuna nella nostra Assemblea regionale. Un grave vulnus ai diritti elettorali di una grande parte dei sardi. Il risvolto di questa disciplina che stravolge la rappresentanza è l’altissimo astensionismo: la metà degli elettori sardi non si reca alle urne, in parte per l’usuale astensionismo, in altra parte perché non vota chi ritiene di non poter eleggere una persona che rappresenti le sue idee politiche.
Vi chiedo allora di trarre spunto dal voto di avantieri, dal vostro dichiarato plauso per l’uguaglianza per assumere un’iniziativa congiunta straordinaria che porti ad una riforma vera della legge elettorale in vista della prossma scadenza del 2019. Con una spinta forte di voi due che rappresentate le massime cariche regionali, ogni resistenza può essere travolta. I punti da assumere a riferimento sono la sovranità popolare, la rappresentanza e l’equilibrio territoriale per fare una nuova legge elettorale, in sintonia con la Costituzione e lo Statuto. Non siete soli esistono molte forze in campo che si muovono in questa direzione, a partire dal Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria e dagli altri Comitati (già Comitati per il NO), mobilitati in iniziative pubbliche e impegnati nella elaborazione di linee guida per una totale revisione della attuale disciplina..
Cari Francesco e Gianfranco, non camminiamo nel deserto, esistono modelli nel panorama regionale che possono essere assunti, anche se criticamente, a riferimento. Per esempio, alcuni spunti vengono dalle recenti elezioni siciliane, svoltesi con una nuova legge elettorale
Quali le novità? Dei 70 parlamentari regionali, 62 sono stati eletti con il sistema proporzionale, mentre nel cosiddetto “listino del presidente” sono sette gli eletti, presidente compreso. L’ultimo seggio viene assegnato di diritto al candidato presidente secondo classificato. C’è, dunque, un premio di maggioranza, pari a circa l’8%, senza però iperpremi come in Sardegna, dove Pigliaru col 40% dei voti ha il 60% dei seggi. L’attribuzione dei seggi – come detto – avviene su base provinciale con il metodo proporzionale e l’attribuzione dei più alti resti (con recupero sempre a livello provinciale) alle liste che abbiano superato lo sbarramento del 5% a livello regionale. E qui vengono le dolenti note perché le circoscrizioni sono molto disomogenee: si passa da Palermo, che ha eletto 16 deputati, a Enna con 2 seggi.
Questa, in sintesi, la nuova disciplina elettorale siciliana. L’elemento che colpisce è che il sistema siciliano è proporzionale con scelta diretta del presidente da parte degli elettori. In Sardegna e non solo, molti proporzionalisti ritengono le due cose incompatibili. La Sicilia prova il contrario, il problema è la c.d. governabilità perché il presidente eletto deve poi trovare in consiglio la sua maggioranza, ma c’è un temperamento costituito dallo sciolgimento dell’Assemblea un caso di impossibilità di formare una maggioranza. D’altra parte, anche l’esperienza sarda, insegna che la governabilità, più che dei premi, è conseguenza delle convergenze programmatiche, della capacità di mobilitare le energie democratiche della società.
Vediamo i punti principali della legge sicula, da valutare criticamente ai fini di una nostra riforma.
Anzitutto. lo sbarramento del 5% su base regionale per partito/coalizione con sistema proporzionale per l’elezione dei consiglieri su base provinciale. Il 5% è troppo alto? Può bastare il 3%? O soltanto l’avere un quoziente pieno almeno in un collegio? Secondariamente, è molto penalizzante l’elezione dei consiglieri su base provinciale. La lista Fava, ad esempio, ha avuto un solo seggio con circa 100 mila voti, mentre il PD ne ha avuto 11 con circa 250 mila voti. C’è sproporzione, il principio di rappresentatività è palesemente violato. In un sistema correttamente rappresentativo Fava avrebbe dovuto avere almeno 3 seggi, se non 4. Quali i rimedi? Raccogliere i resti su base regionale? O disegnare circoscrizioni provinciali più omogenee per popolazione e seggi?
Infine, non c’è premio ufficiale, ma ce n’è uno camuffato. Il listino del presidente, molto ampio (7 consiglieri). Con maggioranza a 36 (50%+1) la quota del listino rappresenta circa 1/5 della maggioranza teorica, l’8% circa. E’ troppo alta? Va ridotta? O completamente abolita?
Cari Francesco e Gianfranco, dovete ammettere che la nuova legge siciliana è più equilibrata di quella truffaldina vigente in Sardegna (che rimane tale anche con più donne). Si può lavorare ad eliminare le criticità, sopratutto in relazione al principio di rappresentatività. Comunque, senza vagare alla ricerca di chissà quale trovata, offre interessanti spunti di riflessione e sopratutto di convergenza per il movimento isolano che si batte per una nuova legge elettorale regionale, anche perché coniuga l’elezione diretta del presidente ad un sistema proporzionale corretto nella distribuzione dei seggi, che spesso sono stati ritenuti incompatibili. Con qualche miglioramento il testo siciliano può costituire una base utile per la Sardegna.
Cari Francesco e Gianfranco, un’altra volta, nonostante le chiare parole di Emilio Lussu, abbiamo voltato le spalle alle novità che venivano dalla nostra Isola sorella, ma oggi tutti ammettiamo che aveva ragione lui, il Capitano dei Rossomori. Evitiamo ora di commettere lo stesso errore. Insomma estistono le condizioni per prendere slancio dal voto sulla doppia preferenza e mettiamoci subito al lavoro!

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* anche su Democraziaoggi.
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Da oggi Pazza Idea

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- Il Programma Pazza Idea 2017.

Oggi

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Oggi giovedì 23 novembre 2017

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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » LAVORO
Contro la disuguaglianza non basta la leva fiscale
di LAURA PENNACCHI
il manifesto, 22 novembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Economia. La prima grande questione è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva ma quella della produzione»
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Economia Sociale e Solidale

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DIBATTITO. Contro la disuguaglianza non basta la leva fiscale

unique-forms-of-continuity-in-space-umberto-boccioni«Economia. La prima grande questione è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva ma quella della produzione»

di Laura Pennacchi*

Il dilagare dei populismi e il diffondersi del disorientamento non si contrastano con la mimetizzazione che accentua la spoliticizzazione – la ripetizione ossessiva del mantra «meno tasse (per i ricchi)» o il ricorso ad un argomento tipico dell’antipolitica quale la polemica sui vitalizi -, ma con il rilancio della dimensione programmatica del «progetto».

Ce n’è bisogno anche per problematiche che, dopo un lungo oblio, hanno riconquistato le luci della ribalta, come la diseguaglianza. Se non vogliamo, infatti, che su di esse si dia vita ad una sorta di nuova retorica inconcludente, dobbiamo andare più a fondo.

La prima grande questione aperta è trattare l’eguaglianza come fenomeno che riguarda non solo la sfera redistributiva – su cui invece si concentra, con la fondamentale eccezione di Atkinson, la letteratura prevalente in materia, compreso Piketty –, ma primariamente la sfera produttiva, l’allocazione, le strutture in cui si articolano i vari modelli di sviluppo, ponendo in evidenza la profonda connessione tra i trend della diseguaglianza e le dinamiche della finanziarizzazione e del deterioramento dell’economia reale esplose con la crisi del 2007/2008.

Le recenti analisi di Lazonick mettono in luce da una parte come l’odierno incremento delle diseguaglianze sia dovuto all’incredibile capacità dello 0,1% al top della distribuzione del reddito di appropriarsi delle risorse generate e di tutti i guadagni di produttività – una capacità «estrattiva» predatoria, acutizzante il vecchio potere monopolistico della rendita, consentita non da autentici contributi propri ma dalla posizione che si occupa nel processo di produzione -, dall’altra come esso sia veicolato da specifici meccanismi connessi alle nuove tecnologie.

Il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire il valore, così da remunerare al rialzo i propri manager – e gli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options – che alimentano lo shortermismo e deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione – sono tutti interni al processo di finanziarizzazione neoliberistica in atto da molti anni, a sua volta strettamente legato all’avanzare del ciclo innovativo odierno.

D’altro canto, anche dal lato redistributivo l’analisi viene molto complicandosi, dando più concretezza al dibattito sulla scomparsa del ceto medio (the disappearing middle class): Richard Reeves, per esempio, insiste che il problema non è solo l’1% più ricco (che certo dei 7 mila miliardi dollari di ricchezza nazionale creata negli Usa dal 1979 al 2013 è riuscito ad accaparrarsene ben 1300), ma anche la upper middle class (il 19% che è riuscito ad accaparrarsene 2.700 miliardi, mentre al rimanente 80% sono andati solo 3.000 miliardi), facendo sì che la vera frattura sociale, perpetuata attraverso una drammatica confisca del sistema educativo dalle scuole elementari alle Università, corra lungo quel confine di reddito (pari a 112 mila dollari l’anno), al di sotto del quale stanno la middle class e la bottom class.

Sono queste, peraltro, le ragioni che inducono a ritenere inefficaci per contrastare i meccanismi innovativi profondi alla base dell’acuirsi odierno delle diseguaglianze, così come delle tensioni occupazionali e dell’elevata disoccupazione, semplici misure di trasferimento monetario – quale la riduzione delle tasse, ma anche il reddito di cittadinanza – e a considerare preferibili misure di taglio più strutturale, quale la proposta di Lazonick di vietare gli stock buybacks e di rivedere radicalmente la struttura degli incentivi ai manager (tra l’altro non consentendo la vendita a breve delle stock options).

La stessa Bce da una parte riconosce esplicitamente che i programmi di quantitative easing (che iniettano massicciamente liquidità mediante l’acquisto di titoli dei debiti pubblici generante guadagni di capitale per i suoi possessori) hanno accresciuto la ricchezza dei già ricchi producendo effetti redistributivi perversi non voluti, dall’altra ancora alza il velo sull’inadeguatezza dei salari e ne denunzia la mancanza di corrispondenza con i fondamentali dell’economia.

La seconda grande questione aperta, se vogliamo andare più in profondità nel trattare la problematica «eguaglianza/diseguaglianza», è quella della democrazia economica, prendendo atto che le dinamiche di finanziarizzazione sono strettamente intrecciate con lo shift dell’ottica imprenditoriale verso profitti di breve periodo e verso l’enfasi sulla teoria della shareholder value e lo schortermismo, trasformando il ruolo del manager da attore contemperante i vari interessi in gioco in agente di se stesso e del capitale finanziario.

Significitavamente tra i lavori prodotti dalla Commission on Economic Justice istituita dallo Ippr londinese nel 2016 (in esplicito rinvio/distacco dalla Commission on Social Justice creata dal Labour di Tony Blair nel 1994) ve ne sono alcuni che mettono in evidenza la correlazione tra il primato, nella corporate governance inglese, degli interessi degli azionisti – all’origine dell’innalzamento della quota dei profitti distribuiti e non reinvestiti – e il declino degli investimenti, argomentando come tale modello di corporate governance (basato sull’esclusività della rappresentanza degli azionisti e privo della partecipazione degli altri stakeholder, in particolare dei lavoratori) sia una delle ragioni delle debolezze e delle fragilità dell’economia britannica (specie per quanto riguarda la stagnazione della produttività).

In questo ambito non si dovrebbe dimenticare che Roosevelt, iniziando la sua straordinaria opera riformatrice dalla denunzia delle molte cose che andavano male nell’economia americana (la distribuzione del reddito, la bilancia dei pagamenti, la struttura bancaria, ecc.), non mancò di sottolineare la «cattiva struttura societaria», rea di aver dato vita, con le parole di John Galbraith, a «una specie di alta marea del furto societario».

Così come dovrebbero essere recuperate le ispirazioni «non proprietarie» del piano Meidner del 1975-76 (che aveva al proprio cuore la preoccupazione per la caduta dell’interesse dei capitalisti agli investimenti, quando ancora sarebbe stato possibile uscire dalla crisi innescata dal primo shock petrolifero in modo diverso dalla sola compressione dei salari).

Per tutte queste ragioni Atkinson collega all’idea di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito» agendo come employer of last resort, altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un «codice etico», un «codice retributivo» con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quelle della creazione di un Fondo pubblico sovrano che faccia investimenti, per aumentare il patrimonio dello Stato, e di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito. Inoltre Atkinson infrange il tabù secondo il quale è la globalizzazione a impedire di mantenere strutture fiscali progressive e ad imporre che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%, proponendo che il ripristino della progressività preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.
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*su il manifesto, 22 novembre 2017.