Monthly Archives: ottobre 2017
ScuolaCheFare?
Alternanza scuola-lavoro La protesta degli studenti
di Fiorella Farinelli su Rocca
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«Questa alternanza non la vogliamo, il tempo è nostro e ce lo riprendiamo». Il 13 ottobre sono scesi in piazza migliaia di studenti della scuola superiore e dell’università. Settanta, secondo gli organizzatori, le città coinvolte. In testa, un po’ ovunque, i ragazzi dei licei. Sugli striscioni le tante cose che non vanno, i tetti che crollano, le borse di studio che mancano, il numero chiuso in un paese in cui i laureati sono solo il 18%.
Ma il centro della protesta è un altro. È nelle provocatorie tute da operaio che tingono di blu i cortei, e negli slogan contro un lavoro che mangerebbe tempo ed energie senza alcuna utilità. Nel mirino, l’alternanza studio-lavoro che la legge 107 sulla «Buona Scuola» ha esteso obbligatoriamente a tutti gli indirizzi della scuola superiore, 400 ore nel triennio dei tecnici e professionali, 200 nei licei. Una buona idea, o meglio un’idea quasi universalmente apprezzata – imprese e sindacati, pedagogisti e economisti, opinion maker e politici – per ridurre lo scollamento tra formazione scolastica e mondo del lavoro, ma anche un piglio decisionale, nel parlamento e nel governo, troppo ambizioso e forse spericolato. Troppo poca la preparazione e troppo scarso il tempo per passare da un’esperienza che prima della legge era per lo più limitata al comparto tecnico-professionale all’intera scuola superiore. Dai 273mila studenti allora coinvolti a 1 milione e mezzo nell’arco di tre anni. Ma vediamo meglio.
apprendere facendo
Cos’è successo nel primo anno di attuazione, cosa si è stati capaci di mettere in piedi nelle scuole che non avevano esperienze pregresse né rapporti consolidati con i contesti produttivi, è su questo che bisogna ragionare. Oltre che, è ovvio, sulle caratteristiche dimensionali, organizzative e culturali delle strutture di accoglienza, imprese ed enti. La denuncia dell’alternanza come «sfruttamento» da parte delle imprese, e come tempo rubato agli studi, allo sport, al divertimento, agli amici è solo un riflesso delle paure di una generazione che nel suo futuro vede anni di stages, tirocini, precariarietà prima di trovare un’occupazione? Che ha l’incubo di un lavoro, se ci sarà, probabilmente incoerente con gli studi, le vocazioni e gli interessi? C’è di sicuro anche questo nella protesta del 13 ottobre, e perfino inquietanti sfumature di ignoranza e di disprezzo sociale in slogan piuttosto infelici come il «Siamo studenti, non siamo operai», ma è anche possibile che a far scattare la protesta sia anche, o principalmente, la delusione per un’alternanza attuata male. Forse improvvisata per inesperienza e impreparazione. Forse compromessa da errori, limiti, incapacità sia delle scuole che delle strutture ospitanti. Forse, in qualche caso, colpevolmente permeabile a convenienze e interessi impropri dell’uno o dell’altro dei protagonisti. Bisogna vederci chiaro. Monitorare, analizzare, valutare. E soprattutto ascoltare. Le scuole, le imprese, e anche gli studenti, le loro opinioni, le loro proposte. Quello che si vede a occhio nudo non basta. Da un lato ci sono studenti che apprezzano il contatto diretto col lavoro, sono soddisfatti di poter imparare quello di cui nelle aule scolastiche non c’è traccia, il mettersi alla prova, l’apprendere a lavorare in gruppo, capire le proprie attitudini, saper risolvere insieme i problemi. Responsabilizzazione, competenze trasversali, orientamento, occupabilità. Dall’altro ci sono casi sconcertanti, nel settore privato e in quello pubblico, di superficialità, approssimazione, disorganizzazione. Casi, persino, di studenti che devono pagarsi in proprio i mezzi di trasporto per raggiungere il luogo dell’alternanza. E poi, al di là dell’apprendimento di singole prestazioni, non siamo affatto sicuri che ci sia sempre chi insegna ai ragazzi come queste si collochino nell’organizzazione complessiva del lavoro in quei determinati contesti, che curi con metodi appropriati l’«apprendere facendo», che costruisca i ponti necessari tra tutto ciò e la didattica in aula. Ci sono sempre, o solo in alcune realtà, tutor scolastici e aziendali preparati, capaci di progettare l’esperienza, di condurla a buon fine? E la didattica in aula, gli insegnanti, tengono davvero conto di quello che si impara lavorando, lo integrano nel curricolo e nelle modalità di insegnamento/apprendimento?
Non serve, come qua e là succede, interpretare la protesta degli studenti (una parte soltanto, certo, ma non per questo irrilevante) come uno dei tanti effetti delle contraddizioni all’interno della sinistra politica, e di un antirenzismo multicolore pronto ad utilizzare ogni occasione, anche impropria come in questo caso, per schiaffeggiare il governo Renzi e la «Buona Scuola». Non perché la politica non c’entri o non debba entrarci, con i cortei del 13 ottobre, ma perché se l’alternanza non convince gli studenti perché la sua attuazione ne tradisce talora le finalità, sarà bene capirne i dove e i perché per poterla reindirizzare e migliorare. Prima che anche questa innovazione, come è avvenuto per altre, tracolli sotto il peso delle sue criticità. E di sempre probabili strumentalizzazioni politiche.
che ne pensano gli studenti È interessante, a questo proposito, la ricerca sulla percezione dell’alternanza da parte degli studenti svolta da un sindacato studentesco affiliato alla Cgil e presentata qualche giorno fa alla Camera (1). Intanto perché è la Cgil stessa, che pure ha dato un giudizio positivo sull’innovazione, a manifestare atteggiamenti e opinioni difformi, offrendosi talora come struttura ospitante e contemporaneamente sostenendo la protesta del 13 ottobre (e c’è da augurarsi, quindi, che le indagini e le riflessioni del suo sindacato studentesco la aiutino a venirne fuori). Ma l’interesse sta soprattutto nel metodo usato – prima un’indagine sulle caratteristiche dei modelli di alternanza attuati, poi i questionari somministrati a 4.000 studenti –, nella ricerca accurata e scientificamente sostenuta delle correlazioni tra giudizi e modelli, nelle riflessioni e nelle indicazioni che se ne possono trarre. Un esempio positivo, insomma, di un approccio laico, pragmatico, costruttivo.
È questo che serve, e il quadro offerto è di quelli che aiutano a capire. Tra gli studenti intervistati, intanto – un campione significativo di tecnici, professionali e licei di tutte le aree territoriali – ce n’è un buon terzo che l’alternanza non la boccia ma la rimanda «a settembre» con giudizi severissimi. Un dato che, assommandosi alla reazione degli istituti scolastici (un’attivazione che supera il 96%), dice che «il sistema non ha rifiutato l’innovazione», e che tuttavia le criticità sono davvero tante. Forse – ammettono i ricercatori – meno di quante si sarebbero potute rilevare se il Sud non risultasse un po’ sottorappresentato perché è qui, notoriamente, che ci sono più problemi di accoglienza degli studenti per la minore presenza di strutture produttive e, di conseguenza, più rischi per le scuole di dover accettare qualsiasi proposta pur di adempiere alla legge.
Ma anche così non è certo da sottovalutare che più del 33% degli studenti interpellati abbia dato voti negativi all’esperienza fatta. Informazioni importanti vengono inoltre da alcune correlazioni. La prima è che ad essere nettamente più scontenti sono gli studenti dei licei rispetto a quelli dei professionali e dei tecnici, forse perché il comparto tecnico-professionale ha avuto meno difficoltà a transitare da un’alternanza per pochi a un’alternanza per tutti, e forse anche – ma qui le evidenze sono meno certe – perché nei licei le aspettative degli stessi studenti rispetto al lavoro sono diverse, più generiche e remote, forse anche più inquinate da pregiudizi culturali, rispetto a quelle dei colleghi dei tecnici e professionali che il lavoro lo vedono più vicino, e capiscono meglio la differenza tra occupazione e occupabilità, tra le competenze tecnico-professionali di un lavoro che al momento si può solo in parte prevedere e le competenze trasversali, importanti per ogni lavoro, che ne rendono più facile l’accesso. L’analisi evidenzia comunque dei dati oggettivi. La maggiore insoddisfazione, per lo più nei licei, si ha dove il modello attuativo dell’alternanza ha privilegiato il lavoro fuori dell’orario e del calendario scolastico (week-end, pomeriggi, estate), dove i tutor scolastici sono stati nominati casualmente e senza preparazione specifica (69% nei licei, 22% nei tecnici e professionali) o non ci sono affatto (5% dei casi, per il 66% nei licei). Tutti segni di un’alternanza in troppi casi relegata ai margini per non disturbare la didattica ordinaria, o per convinta contrarietà alla possibilità di apprendere anche fuori dall’aula scolastica. Ma se non ci credono le scuole, se l’alternanza è per molti insegnanti solo uno dei soliti «adempimenti» più formali che sostanziali, perché dovrebbero crederci gli studenti?
la questione tutor/insegnanti
Ancora più problematica – e anche qui sono i liceali a denunciarla di più – è la situazione dei tutor di azienda, spesso coincidenti con i datori di lavoro (nelle microimprese) o con dipendenti non distaccati dalle loro ordinarie prestazioni, quindi poco disponibili e solitamente non preparati ai nuovi compiti. Ma qui la questione è anche un’altra, e ampiamente nota. Si tratta dell’assenza, in gran parte delle imprese italiane, delle condizioni organizzative e professionali necessarie alla formazione dei propri lavoratori, una situazione tanto più problematica, quindi, quando a dover essere formati sono soggetti altri come gli studenti. Tutt’altra realtà, quindi, da quella delle grandi imprese, le magnifiche 26 cui il Miur ha affidato il ruolo di testimonials della nuova alternanza studio-lavoro.
in attesa degli «Stati generali»
Il ministro Fedeli ha annunciato che entro l’anno si terranno gli «Stati generali» dell’alternanza, uno approfondimento pubblico e a più voci dell’esperienza in corso. C’è da sperare che non prevalgano, come succede spesso, le voci del trionfalismo, le resistenze ad ammettere le forzature dall’alto e le approssimazioni dal basso, e che ne vengano invece fuori analisi puntuali e indicazioni utili a proseguire il cammino in modo più accurato e intelligente. C’è parecchio da correggere, in effetti, nell’attuazione dell’alternanza. E ci sarebbe anche molto da fare, per chi il lavoro lo rappresenta, perché i più giovani imparino, nell’occasione, a conoscere il valore, la responsabilità, l’intelligenza, il rapporto con le tecnologie che c’è anche in quello manuale, anche in quello di chi fa le fotocopie, cura i parchi, sorveglia i musei, aggiorna i cataloghi, produce in fabbrica e nei campi. Quello apparentemente non creativo e di scarsa qualità. All’occupabilità ci si prepara anche così. Il lavoro, si sa, se non lo conosci ti evita.
Fiorella Farinelli
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Nota
(1) www.fondazionedivittorio.it
ALTERNANZA SCUOLA – LAVORO? RIMANDATA A SETTEMBRE.
12 Ottobre 2017
Inchiesta sullo stato e la percezione dell’Alternanza scuola – lavoro in Italia è stata svolta durante l’A.S. 2016/2017 e pubblicata nell’ottobre 2017.
I dati emersi dal monitoraggio sull’alternanza scuola – lavoro sono stati presentati alla Camera dei deputati nel corso di una conferenza stampa. Il monitoraggio è stato svolto congiuntamente dalla Fondazione Di Vittorio, dalla Rete degli Studenti Medi, con il supporto di CGIL e FLC.
Sono stati coinvolti circa 4000 studenti da nord a sud del paese per vedere quale è la reale situazione nel paese dopo un anno di obbligatorietà. Quello che è emerso è uno strumento che va a due velocità e necessità di interventi e programmazione da parte del MIUR, cosa che non è stata certamente fatta finora. Necessita anche di maggior controllo e formazione a partire dai luoghi dove viene svolta, ma anche all’interno delle nostre scuole.
Oggi martedì 31 ottobre 2017
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Pastori: a una situazione speciale, risposta speciale
31 Ottobre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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CITTÀ E TERRITORIO » TEMI E PROBLEMI » ABITARE È DIFFICILE
Sulla questione abitativa
di GAETANO LAMANNA
officinadeisaperi.it, 30 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Negli anni del pensiero unico liberista (sia dei governi di centro-destra che di centro-sinistra) l’impetuosa avanzata della rendita fondiaria è andata di pari passo con la definitiva chiusura del welfare abitativo. Un’analisi e una proposta. Eddyburg, riferimenti in calce (p.d.)
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La partecipazione per uscire dalla crisi. Per uscire dalla crisi occorre uscire dal capitalismo in crisi (si diceva un tempo).
Racconti, Augias: “C’è modo di uscire dalla crisi”
Perse le cornici storiche di riferimento, caduta l’ultima ideologia – il mercato motore unico dell’economia – , la politica vede ridursi le sue capacità di intervenire nelle crisi. Questo lo scenario in cui il sociologo Mauro Magatti in “Cambio di paradigma” (Feltrinelli) propone la sua soluzione: mettere tra mercato e Stato la “partecipazione dei cittadini”, nel “nuovo regime sostenibile contributivo entrerà solo chi è capace di produrre valore sociale ambientale e istituzionale”. Sarà realizzabile questo modello in Italia?
- Altri riferimenti di Mauro Magatti in Aladinews
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Impegnati per il Lavoro. Dibattito
LAVORO E NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
Industry 4.0 la sfida del lavoro ad umanità aumentata
di Marco Bentivogli su Rocca
Industry 4.0 è ormai molto più che un logo, è la formula, di paternità tedesca, che evoca l’avvento della quarta rivoluzione industriale, successiva alle tre precedenti (avvento della macchina a vapore, del motore elettrico, dell’automazione). Protagonista di Industry 4.0 è la diffusione sempre più accelerata di Internet, infrastruttura portante di una profonda riorganizzazione delle attività sociali ed economiche. Non si tratta di introdurre nel tessuto produttivo robot e automazione, che sono tra di noi da 30 anni; si tratta piuttosto di 9 tecnologie abilitanti che cambieranno tutto, dentro la fabbrica e soprattutto attorno ad essa, in quello che speriamo sia un ecosistema intelligente e sostenibile. In questo contesto anche la manifattura si trasforma radicalmente: cambiano l’organizzazione, le modalità, i tempi e l’idea stessa di lavoro. Tutto ciò provoca spesso reazioni polarizzate nei confronti della tecnologia: da un lato gli iperpessimisti, ossessionati soprattutto dagli effetti distruttivi sull’occupazione; dall’altro gli iper-ottimisti acritici. Entrambi affrontano una questione così complessa attraverso semplificazioni arbitrarie, che trovano facile eco nei media, con l’effetto di traghettare il dibattito pubblico su sponde ideologiche.
La guerra di cifre tra chi pensa che finirà il lavoro e chi pensa che con la tecnologia finirà il lavoro è veramente assurda. Se analizziamo senza preconcetti ciò che è avvenuto negli ultimi anni in Italia, ci accorgiamo che non sono stati i troppi investimenti in tecnologia a distruggere lavoro e occupazione, ma i troppo pochi. Molte delocalizzazioni e chiusure sono avvenute per questo, certo non a causa della «globalizzazione».
un sindacato nuovo per il lavoro che cambia
La sfida che abbiamo di fronte ci interpella nel profondo e richiede una seria elaborazione etica e culturale, volta a governare tali processi in una prospettiva di sostenibilità. Se davvero ci preme «umanizzare» il lavoro nella rivoluzione digitale, l’ultima cosa da fare è mettersi ideologicamente sulla difensiva. La tecnologia contiene i valori di chi la progetta, pertanto non ci resta che entrare in gioco con proposte. Molti lavori non consentono lo sviluppo, la fioritura dell’umano, come la Laudato si’ ci insegna; ma la tecnologia può aiutarci ad estendere le attività in cui l’uomo non solo cresce ma è imbattibile. Certo, è una grande sfida.
Ciò chiama in causa innanzitutto il sindacato, chiamato a svolgere una forte azione educativa, culturale e contrattuale. Serve allora un «sindacato nuovo», sintonizzato con la realtà in mutamento e rappresentativo del lavoro che cambia, in grado di valorizzare le dimensioni umane e professionali che rendono il lavoro un’esperienza significativa e di senso. Temi contrattuali come la formazione continua, la conciliazione vita-lavoro, il welfare integrativo acquistano un valore sempre più importante per dare cen- tralità alla persona nell’economia, fattore determinante peraltro per la crescita della produttività delle imprese. Nella quarta rivoluzione industriale, il capitale più importante per l’impresa è la persona!
La Fim Cisl ha scelto di misurarsi su questo terreno, essendo abituata fin dall’origine a confrontarsi positivamente con l’innovazione per aprire varchi nuovi nella contrattazione. L’immobilismo di fronte alle innovazioni è atteggiamento perdente, tipico di sindacalisti conservatori e fatalisti. Ad esempio, quando negli anni ’90 nacque lo stabilimento Fiat a Melfi, di fronte all’applicazione di una nuova organizzazione del lavoro – la lean production – il ritardo nello studiarla, nel comprenderne pregi e limiti, relegò il sindacato ad un ruolo marginale in azienda.
Ma dagli errori bisogna imparare. Per questo la Fim, quando recentemente la Fca (Fiat-Chrysler) ha introdotto un nuovo modello organizzativo, il Wcm (World Class Manufacturing), ha aperto, in collaborazione con i Politecnici di Milano e di Torino e con il coinvolgimento di oltre 5.000 persone, un «cantiere» di studio e di ricerca da cui trarre analisi e proposte utili a comprendere i bisogni delle persone, anticipando e governando i cambiamenti del lavoro. Siamo convinti che questo sia l’approccio giusto.
Il medesimo metodo l’abbiamo utilizzato quando è cominciata ad emergere la questione Industry 4.0, su cui la Fim è stata tra i primi in Italia ad aprire il dibattito, nel 2015, con un’iniziativa tenutasi presso l’Expo di Milano dal titolo «#SindacatoFuturo in Industry 4.0».
In quell’occasione i sindacalisti dei metalmeccanici si sono confrontati con i massimi esperti in materia, in uno scambio assai fruttuoso. Successivamente è nata una collaborazione con Adapt, con cui la Fim ha aperto un cantiere permanente di ricerca e monitoraggio nel settore metalmeccanico, che ha generato il Libro verde sui cosiddetti Competence Center, ossia quei centri di eccellenza nella ricerca applicata che, secondo quanto previsto dal piano Calenda, dovrebbero accompagnare le imprese nello sviluppo di Industry 4.0.
Una delle conseguenze più rilevanti di Industria 4.0 è senza dubbio l’aver richiamato il ruolo fondamentale della formazione. Che, dopo la salute, è il diritto più importante per i lavoratori: dà maggiori opportunità di salari alti, occupazione stabile e migliore qualità del lavoro; inoltre rappresenta il fattore abilitante di questa nuova rivoluzione dell’industria, che non potrà avere come obiettivo solo quello di ridurre lo skill gap tra le professioni attuali (compito cui peraltro intende rispondere l’introduzione del diritto soggettivo alla formazione nel contratto nazionale dei metalmeccanici) e arricchire le competenze dei giovani in uscita dalla scuola, ma dovrà anche fornire le competenze necessarie per affrontare la complessità del lavoro del futuro, facendo propri i paradigmi dell’economia digitale.
Con molta probabilità, anche l’idea di settore industriale non sarà più indicativa di singole filiere produttive. In questo senso, la nuova manifattura 4.0 richiede un ripensamento completo della nostra idea di produrre e del rapporto tra uomo e tecnologia e, ancor più, una valorizzazione degli elementi che insieme alla tecnologia contribuiscono a rendere rivoluzionaria Industry 4.0: la sostenibilità sociale, economica e ambientale dell’impresa, la valorizzazione della partecipazione e del talento, nonché delle relazioni.
In questa nuova realtà manifatturiera l’uomo sarà ancor più centrale, smentendo le ricorrenti profezie – da Jeremy Rifkin all’ultimo arrivato, il sociologo Domenico De Masi – su un’epoca di «fine del lavoro», nella quale l’operosità umana verrebbe sostituita dal lavoro dei robot e «indennizzata» dal reddito di cittadinanza.
il nuovo mondo di Industry 4.0
Industry 4.0 coinvolge nove tecnologie fondamentali, dette anche tecnologie abilitanti: robot autonomi, realtà aumentata, cloud computing, big data e analitica, sicurezza informatica, internet delle cose industriali, integrazione dei sistemi orizzontali e verticali, simulazione e produzione additiva. Queste tecnologie sono state già implementate singolarmente da tempo; ora però Industry 4.0 le riunisce in una sorta di ecosistema 4.0.
L’Italia è forte nella maggior parte di esse, ma molto debole nella loro integrazione industriale, in particolare nelle piccole e medie imprese. Quando operano nell’ambito di un sistema coeso, queste tecnologie hanno il potere di trasformare la produzione e modificare la natura dei rapporti tra fornitori, produttori e clienti. Al tempo stesso mutano i rapporti tra uomo e macchina, che saranno sempre più integrati attraverso la bioingegneria. Grazie all’Internet delle cose (Iot), le macchine sono in grado di comunicare tra loro mentre apprendono lavorando assieme agli esseri umani. Non basta installare qualche robot per dire che abbiamo realizzato Industry 4.0. I robot fecero il loro ingresso in fabbrica, almeno in Italia, già nella seconda metà degli anni Ottanta (ricordiamo i robot della Comau installati dalla Fiat). Non si tratta della semplice digitalizzazione, né della pura applicazione dell’informatica alla produzione e neppure dell’Iot, ovvero di internet applicato alla manifattura. Industry 4.0 cambia integralmente l’idea, la struttura e l’organizzazione dell’impresa, ma – cosa più importante – induce un contestuale cambiamento di ciò che è dentro e ciò che è fuori le mura dell’impianto: la fabbrica diventa cyber physical system, un sistema interattivo che integra e connette elementi computazionali, esseri umani ed entità fisiche.
Senza un ecosistema 4.0 e senza la persona, la fabbrica intelligente non funziona. Il sindacato non può rassegnarsi a un atteggiamento passivo. Deve perciò avviare progetti di ricerca per produrre analisi e proposte che anticipino il cambiamento anziché subirlo. Non c’è alternativa al giocare d’anticipo.
avanguardie e innovatori «moderati» nella sfida di Industry 4.0
Il piano di rilancio dell’industria promosso dall’Europa da qui al 2020 prevede 100 miliardi di euro per portare al 20% il Pil prodotto dalla manifattura. Uno dei principi alla base della strategia proposta dalla Commis- sione Europea riguarda proprio l’impegno che i paesi devono garantire a favore dell’in- novazione della base industriale.
Come in altri campi, anche in Industry 4.0 all’avanguardia c’è la Germania. Il governo tedesco sta investendo milioni di euro in questo settore, anche per la formazione dei rappresentanti sindacali di fabbrica: l’obiettivo è prepararli al cambiamento. La Germania si candida così non solo a produrre con il metodo smart factory, ma anche a vendere le tecnologie con cui realizzarlo altrove. Anche la Cina sta investendo miliardi di dollari su questo versante. E la Germania, tutt’altro che chiusa in se stessa, sta cooperando con i cinesi nell’ambito di un programma specifico, che si chiama «Made in China 2025».
Il rischio per l’Italia è di rimanere tagliata fuori, specie se non si lavora a fare poche cose ma fatte bene e insieme. In una recente classifica l’Italia, malgrado resti la seconda manifattura del continente e tra le prime 10 al mondo, è collocata tra gli innovatori «moderati». I dati dell’Ocse ci dicono inoltre che nel 2014 la spesa totale del nostro Paese per ricerca e sviluppo è stata dell’1.3% del Pil, contro quella della Germania (2.8%), la media dei paesi Ocse (2.3%) e la media Ue (1.9 %). La partita di Industry 4.0 si gioca anche e soprattutto sul terreno della politica industriale. Ciò richiede una classe politica lungimirante, in grado di varare politiche sociali, formative e industriali tra loro coordinate. Quella che si dice capacità di «fare sistema».
Il piano Calenda, con cui il governo sta provando ad accompagnare le nostre imprese verso Industry 4.0, va nella giusta direzione, operando in una logica di neutralità tecnologica, grazie alla scelta di fiscalizzare gli incentivi. Sarebbe necessario anche riorganizzare il sistema di incentivi già disponibili, per evitare che vengano dispersi, ed effettuare una selezione per assicurarsi che quelle risorse vadano effettivamente ad innovare
la manifattura 4.0.
Nel guidare il sistema verso l’approdo alla fabbrica digitale la contrattazione può fare molto, specie per le piccole e medie imprese. Il nuovo contratto dei metalmeccanici, da questo punto di vista, ha aperto la strada superando la sovrapposizione tra i due li- velli della contrattazione, nazionale e azien- dale, e avvicinandola così all’impresa, vale a dire al luogo in cui si produce la ricchezza e si distribuiscono ai salari gli incrementi di produttività. Ma perché questa svolta possa definirsi completa c’è bisogno che sia accompagnata da una contrattazione territoriale in grado di coinvolgere le piccole e medie imprese.
Competence Center
Il rapporto redatto a dicembre 2016 da un gruppo di lavoro della «Digitising European Industry» all’interno della Commissione europea, indica chiaramente che i Digital Innovation Hub non sono solamente un luo- go fisico, ma un network di attori regionali che – offrendo a piccole e medie imprese i servizi di orientamento, formazione e nuo- ve strategie di business – concorrono alla realizzazione di un ecosistema volto a favorire l’innovazione connessa al digitale.
I Competence Center sono invece il «cervello» di questi hub, cioè il soggetto tecnico-organizzativo con il quale le Pmi devono interfacciarsi per essere supportate nella ricerca applicata, nella sperimentazione pra- tica di tecnologie 4.0 e nello sviluppo di progetti in termini di nuova competitività. I Competence Center non si dovrebbero dunque occupare solamente di attività di trasferimento tecnologico, ma operare con le aziende offrendo loro una gamma di servizi più ampia, anche nell’ambito dei nuovi modelli di implementazione delle tecnologie, di sviluppo organizzativo, business e marketing.
A confronto con tutto ciò, in Italia la situazione presenta margini di ambiguità. Il decreto ministeriale sui Competence Center parla infatti della costituzione di «centri di competenza ad alta specializzazione aventi lo scopo di promuovere e realizzare progetti di ricerca applicata, di trasferimento tecnologico e di formazione su tecnologie avanzate». Il principale limite del Piano Nazionale Industria 4.0 è dunque quello di non chiarire la natura complementare e la continuità funzionale tra Competence Center e Digital Innovation Hub. Il testo pare piuttosto evocare l’esperienza dei Research Cam- pus tedeschi, esperienza di per sé positiva ma circoscritta all’attività di ricerca che, da sola, non collegata con la realtà delle im- prese, rischia di rivelarsi insufficiente a portare il nostro Paese su buoni livelli di com- petitività industriale. Ancora, non si capisce se e come verranno coinvolti nel piano i parchi scientifici, i poli tecnologici, i distretti e i cluster. Non possiamo continuare a ripe- tere, magari con nomi suggestivi, esperien- ze del passato su cui sono state investite generose somme di denaro pubblico, spesso per finanziare attività i cui risultati hanno però tradito le aspettative.
Ecosistema 4.0: l’ultima occasione per riportare la manifattura al centro
Il vero anello debole è rappresentato dal sistema delle piccole e medie imprese italiane dell’industria, ancora lontane, salvo qualche eccezione, dal sintonizzarsi sulle frequenze della fabbrica intelligente. Questo per la Fim è un terreno di nuovo protagoni- smo, perché può aprire spazi alla crescita alle capacità innovative delle PMI attraver- so un forte impulso alla partecipazione, de- clinato anche nella nuova contrattazione aziendale. Occorre inoltre un sistema formativo, un sistema duale che renda davvero operativa ed efficace l’alternanza scuola-lavoro.
Un altro aspetto importante è la possibilità – concretizzata, ad esempio, con gli accordi con Fca a Pomigliano e con Whirlpool – di creare le condizioni per il back-reshoring (rimpatrio di attività produttive). La crescita di produttività consentita da Industry 4.0 può cioè permettere il rientro di produzioni che sono state delocalizzate negli anni scorsi.
È per questo che all’Europa servirebbe soprattutto un Industrial Compact, oltre al Fiscal Compact. Ma per raggiungere gli ambiziosi obiettivi del Piano Juncker non sono state stanziate le risorse necessarie. Entro il 2020, si dice, il settore manifatturiero do- vrebbe rappresentare il 20% delle economie dei Paesi europei (l’Italia è posizionata ab- bastanza bene, con un 18%, mentre la media europea è del 15%). Ma ciò che conta non è soltanto il dato quantitativo: sarà de- terminante capire se le quote di manifattu- riero conquistate entro il 2020 saranno ad alto tasso di innovazione, se cioè saranno ottenute attraverso un processo di selezio- ne. Se l’Italia non saprà inserirsi in questo filone di innovazione rischierà di perdere molto velocemente posizioni in classifica. Urgono perciò scelte e impegni di politica industriale all’altezza della sfida.
Molte sono le cose da fare a livello politico ed economico per difendere il lavoro. Occorre liberarsi dal dogma del pareggio di bilancio, che non ha nulla a che fare con l’equilibrio di bilancio, e superare la grande crisi di investimenti (pubblici e privati) nel nostro Paese, puntando anche su banche etiche e di territorio che abbiano la mission di sostenere gli investimenti produttivi e ad alto impatto socio-ambientale.
Servono poi riforme istituzionali che sostengano innovazioni dal basso, nate sul territorio, attraverso Competence Center, definendo però a livello centrale le linee guida, i tempi e l’obbligatorietà della convergenza dei territori in ritardo, per innescare circoli virtuosi.
Serve, infine, un sindacato smart, retto da personale competente e preparato ad ogni livello, a partire dai temi dell’organizzazione del lavoro e della formazione continua. Il paradigma 4.0, tra l’altro, offre una grande occasione per riqualificare il lavoro sindacale e rilanciare una forte politica dei quadri da trasformare in veri e propri «fattori abilitanti» per la costruzione di un nuovo sindacalismo confederale. Ancor più importante è che il sindacato riparta da dove è nato, dai luoghi di lavoro, recuperando la capacità di analizzarli, descriverli e cambiarli, per radicarsi con forza nel territorio.
Marco Bentivogli
Bibliografia
Adapt, Fim 2016 – Libro verde, Industria 4.0 Ruolo e funzioni Competence Center, Adapt University Press 2016.
Adapt, Fim 2017 – Libro Bianco su lavoro e competenze in impresa 4.0, Adapt University Press 2017. Barbetta 2007 – G.P. Barbetta, G. Turati, Organizzazione industriale dei sistemi di welfare. Terorie e verifiche empiriche dell’efficienza compara- ta di imprese con diverse strutture proprietarie, Vita e Pensiero 2007.
Baldoni 2015 – R. Baldoni, R. De Nicola, Il Futu- ro della Cyber Security in Italia. Un libro bianco per raccontare le principali sfide che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi cinque anni, CINI 2015.
Bentivogli 2015 – M. Bentivogli, D. Di Vico, L. Pero, G. Viscardi, G. Barba navaretti, F. Mosconi, #SindacatoFuturo in Industry 4.0, ADAPT University Press 2015.
Bentivogli 2016 – M. Bentivogli, Abbiamo rovinato l’Italia L’Italia? Perché non si può fare a meno del sindacato, Castelvecchi 2016.
Pero 2012 – L. Pero, Processi di riaggiustamento industriale in Italia, Eddiesse 2012
Simone 2012 – R. Simone, Presi nella Rete, Garzanti 2012.
Seghezzi 2016 – F. Seghezzi, Lavoro e relazioni industriali in Industry 4.0, Adapt University Press 2016 – Bollettino n. 1/2016.
Oggi lunedì 30 ottobre 2017
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Soru di nuovo in campo? Torna nel luogo del delitto?
30 Ottobre 2017
Amsicora su Democraziaoggi.
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SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-ESODOXXI
Questa terra è la loro terra
di SUKETU MEHTA
Internazionale, 27 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Un articolo di Suketa Mehta, già ripreso da eddyburg e ora qui tradotto interamente. E’ un esortazione a superare la fobia per i migranti perchè “renderanno più ricchi i loro nuovi paesi, in tutti i sensi”.(i.b.)
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Oggi 30 ottobre San Saturnino patrono della città di Cagliari
Oggi SAN SATURNINO. E’ il patrono di Cagliari, oggi celebrato. Nato a Cagliari in data imprecisata, a Cagliari muore il 23 novembre del 304 (o del 303, anno di martirio di altri santi), decapitato perchè rifiuta di adorare gli dei pagani. In sardo è detto Sadurru (Saturno), ma anche Saturninu (vedi il dizionario del Porru). Le sue spoglie furono ritrovate nell’ottobre del 1621, dopo imponenti scavi archeologici ordinati da Francisco d’Esquivel, arcivescovo di Cagliari dal 1604 al 1624. L’arcivescovo fece trasferire i resti del santo nell’apposita cripta della cattedrale di Cagliari: il santuario dei Martiri, dove oltre a quelli di Saturnino, si trovano i resti di altri martiri. In tale occasione si stabilì la data del 30 ottobre per celebrare il santo. La venerazione per Saturnino dei cagliaritani data da allora. Significativo che i patrioti di Palabanda nel 1812 scelsero questa data per la loro mancata rivolta, quasi a metterla sotto la protezione del santo. (Nella foto: Cattedrale di Cagliari, statua lignea del santo, del 1759, attribuita allo scultore sardo Giuseppe Antonio Lonis di Senorbì).
La politica come partecipazione. Verso la presentazione di un libro sulla figura di Pier Giuseppe Sozzi. Un’occasione per ricordarne il pensiero, di grande utilità per affrontare i problemi dell’attualità
Pier Giuseppe Sozzi (1947-2014) ha vissuto – in una dimensione di movimento e di organizzazione – i fermenti della stagione post-conciliare, la contestazione studentesca, le lotte e le conquiste operaie dell’“autunno caldo”, ma anche le involuzioni autoritarie, le stragi e le mancate riforme. Alla guida dell’organizzazione giovanile delle Acli nel periodo 1970-1973, ha analizzato temi centrali producendo originali proposte di impegno politico militante, volte a rafforzare la strategia unitaria del Movimento Operaio. Lo spessore e la coerenza della sua ricerca sono rilevati anche attraverso interviste ad amici ed esperti: Pierpaolo Benedetti, Lauro Seriacopi, Fausto Maria Tortora, Dolores Deidda, Angelo Gennari e Aldo Bondi. Le straordinarie qualità umane, politiche e culturali di quel giovane leader sono infine confermate da diciotto testimonianze, tutte concordanti sulla sua capacità di interrogarci, ancora oggi, su questioni che non possiamo relegare solo a un passato “glorioso”. Approfondimenti1 – Approfondimenti 2 – Approfondimenti 3.
Catalogna e Unione Europea
SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2017
La Catalunya indipendente
di PAOLO LEPRI
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il manifesto
L’AZZARDO DELL’INDIPENDENZA.
SCATTA IL COMMISSARIAMENTO
di Giuseppe Grosso
Catalogna. Il Parlament dichiara la República catalana: 70 Sì, 10 No, 2 voti in bianco e 53 deputati assenti su 135. E a Madrid il senato mette in moto l’articolo 155. Rajoy destituisce Puigdemont e il suo governo e convoca elezioni regionali il 21 dicembre.
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il manifesto e Corriere della Sera 28 ottobre 2017. Articoli di Giuseppe Grosso e Paolo Lepri, ripresi da eddyburg e da aladinews (m.p.r.)
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Grande solidarietà ai Catalani. Il problema dell’indipendenza in Europa è però molto più vasto. Occorre, a mio avviso, lottare perché trovi spazio in Europa l’idea che la UE deve essere federale e deve federare non solo stati ma anche comunità che per tradizione, cultura, lingua, vicende storiche e quant’altro vivono una condizione identitaria specifica e particolare. A prescindere dalla dimensione quantitativa delle popolazioni interessate, dalla superficie geografica del territorio che occupano. L’obiettivo deve essere la ricostruzione dell’Europa intorno agli obiettivi fondanti che ne hanno favorito la nascita e restano ancora, per la gran parte inattuati. L’arroccamento intorno al concetto di Stato come entità monolitica e immodificabile è pura follia. Molti Stati, e l’Italia fra questi, non sono diventati tali per scelte condivise tra individui di tradizioni, cultura e lingua comune ma, molto più semplicemente, come risultante degli scontri tra eserciti delle monarchie europee e come opera di Trattati che, fino a prova contraria, possono e devono essere messi in discussione. Si tratta di una questione di non poco conto per l’Europa, per il superamento della crisi che l’Unione vive. La scommessa è quella di realizzare una Unione europea pacifica, solidale e federata, un’unione di popoli che, nel rispetto delle specificità, si danno obiettivi di sviluppo comuni. L’Europa della conservazione degli Stati immutabili non ha futuro. (Vanni Tola)
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Oggi domenica 29 ottobre 2017
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DEMOCRAZIA
Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa
di JŪRGEN HABERMAS
la Repubblica, 28 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «L’Unione non è sinonimo di noia né di burocrazia. Ma per salvarla va riformata». Un appello che il grande filosofo tedesco rilancia, auspicando che anche negli altri stati europei si affermino leader di statura analoga a quella del francese Macron
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A S. Basilio l’inaugurazione delle sede dell’ANPI Trexenta è una festa con canti, balli e interviene anche il parroco
29 Ottobre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Nei paesi è tutta un’altra cosa! A S. Basilio ieri abbiamo inaugurato la sede dell’ANPI della Trexenta ed è stata una festa. Non che siano mancati gli interventi del caso. C’è stato quello del responsabile Marco Lostia, che ha ricordato il lungo impegno dell’ANPI della zona anche senza sede fino alla battaglia referendaria del […]
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Nuxis al Parlamento di Pietro d’Aragona del 1355
29 Ottobre 2017
a cura di Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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“Raccontando Is Mirrionis: ieri, oggi… e domani?”
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Domenica 29 ottobre 2017 ore 17.30-21.30 presso il Teatro TSE Sant’Eusebio, via Quintino Sella Cagliari, il Comitato Casa del Quartiere Is Mirrionis presenta la manifestazione “Raccontando Is Mirrionis Ieri, oggi… e domani?” il Comitato in collaborazione con il Circolo ACLI “A. Lattuca-Is Mirrionis, il Teatro del Segno, la Parrocchia Sant’Eusebio, Co-Mete società cooperativa sociale. (segue)
Contributi e riflessioni dalla Settimana cattolica per il Lavoro
“Dopo l’inverno viene la primavera. Lavoro degno e futuro dell’Italia”
di Mauro Magatti
Cagliari, 28 ottobre 2017
Oggi è il giorno dell’ascolto e della proposta.
Già ieri nei tavoli si è cominciato a discutere. E più tardi incontreremo le forze sociali e poi il governo e l’Europa.
In questo percorso, il mio compito è quello di provare a raccogliere in un orizzonte comune i tanti spunti e rinvigorire, se possibile, il passo di tutti così da procedere nel cammino.
1. È solo il racconto della vicenda delle ultime tre generazioni vissute nel nostro paese che ci permette di inquadrare adeguatamente la situazione nella quale ci troviamo.
La generazione del dopoguerra, quella di mio padre, ha lavorato con speranza e passione, creando una grande ricchezza diffusa per sè e i propri figli.
Poi è arrivata la generazione del baby boom, quella di cui io faccio parte: nata insieme all’individualismo e al consumerismo, è cresciuta col benessere, venendo poi investita dal vento forte della globalizzazione neoliberista. A conti fatti, questa generazione lascia in eredità molti debiti e pochi figli.
E così si arriva alla terza generazione, quella dei miei figli – i Millennials – che oggi hanno l’età per affacciarsi alla vita adulta, ma che sono spesso costretti alla scelta tra emigrare o stare in panchina.
È nel quadro di questo percorso storico – nel quale è cambiato anche il modo di essere presenti nella società e nella politica dei Cattolici – che la questione del lavoro in Italia oggi deve essere posta.
2. Una tale situazione non si è creata per caso. Nella storia recente del nostro paese, c’è infatti un punto di svolta: sono gli anni 80, quando il debito pubblico raddoppiò – passando dal 60 al 120% del Pil – e come una idrovora si divorò la ricchezza accumulata nei decenni passati, compromettendo il futuro delle generazioni successive. In quel decennio, esaurita la spinta creativa del dopoguerra, invece di aprire una nuova stagione di sviluppo, l’Italia si è ripiegata su se stessa, adottando un modello antigenerativo – tutto schiacciato sull’io, il breve termine, il binomio consumo-rendita (sostenuto dal debito) – vera causa delle difficoltà di oggi. Un’idea sbagliata – che ha prodotto una cultura – da cui derivano molti dei mali che ben conosciamo: disuguaglianze e povertà; blocco della natalità e del ricambio generazionale; elites estrattive e corruzione endemica; perdita di peso del lavoro sulla ricchezza prodotta.
Se vogliamo essere onesti, dobbiamo ammettere che da lì il paese non si è più ripreso. Come ha confermato la mostra che ha aperto le Settimane: l’Italia viene da una lunga stagione di declino (su cui ha poi inciso la grave crisi internazionale del 2008) il cui costo ricade soprattutto sulle spalle dei giovani, delle famiglie e delle donne.
In una parola, potremmo dire che l’Italia è invecchiata. Ed è invecchiata male.
3. 4. Da qualche tempo, finalmente, i dati parlano di ripresa. E questo è un bene perché respiriamo un pochino meglio
Ma è bene non fraintendere: i benefici della ripresa raggiungono troppo lentamente e parzialmente la quotidianità di molte persone. Nel frattempo sono passati 10anni!
La ragione è che la relazione tra aumento del PIL e condizioni di vita (mediata proprio dal lavoro) è oggi più labile che in passato: crescono i profitti, la produttività, le quotazioni di borsa, ma solo in misura modesta l’occupazione. La ricchezza rimane troppo concentrata e la crescita geograficamente troppo difforme: i salari sono stagnanti e buona parte del lavoro è precarizzata e sottopagata.
Per molte famiglie, le cose non sono migliorate e le aspettative per il futuro rimangono fiacche.
La verità è che la crisi del 2008 ha cambiato le condizioni dello sviluppo: che ce ne rendiamo conto o no, siamo entrati in una nuova fase storica, con la quale dobbiamo ancora imparare a fare i conti.
5. Siamo sulla soglia di una trasformazione profonda. Negli ultimi vent’anni sono state poste solo le premesse della “società digitale”. Sappiamo già che una buona parte del ‘lavoro umano’ sarà sostituito dal ‘lavoro delle macchine”.
Senza cedere al pessimismo, si può ragionevolmente ritenere che, mentre si distruggeranno, nasceranno nuovi lavori. Ma non dimentichiamo che, per le persone in carne e ossa, a contare saranno i modi e i tempi del processo di aggiustamento.
Il rapporto tra vita e lavoro è destinato a essere rimodulato. Il lavoro del futuro, infatti, sarà meno vincolato a luoghi e tempi specifici: in un mondo in cui saremo connessi sempre e ovunque, cosa vorrà dire “lavorare”? Che cosa ne limiterà il tempo? E come si determinerà il salario”? Cosa vorranno dire libertà e creatività?
Già oggi, col cosiddetto lavoro agile, si vanno diffondendo contratti che contemplano la possibilità di lavorare a casa. Una soluzione che può permettere una migliore compatibilità con la vita personale e famigliare, ma che – senza adeguate tutele – può al contrario favorire nuove forme di controllo e sfruttamento.
Sinteticamente, il compito che ci aspetta è di navigare tra la Scilla della società senza lavoro (jobless society) e la Cariddi di una società del tutto lavoro (total job society) – quella in cui ogni nostra attività – di produzione, consumo, cura – potrà venire assoggettata a controllo e misurazione.
Per evitare entrambi questi scogli è necessario impegnarsi per rendere la digitalizzazione una benedizione e non una maledizione.
Ma non sarà un compito facile.
6. Per muoversi nella giusta direzione senza dimenticare chi soffre la prima cosa da fare è mettersi in ascolto per scorgere i germogli di una nuova primavera.
Lo abbiamo fatto in questi mesi con Cercatori di lavoro e dobbiamo continuare a farlo, tornando a casa, nei mesi che verranno.
Ma quali sono questi germogli?
Che il tema della sostenibilità – nella sua accezione ampia: cioè ambientale e sociale – sia oggi imprescindibile lo hanno capito prima di tutto alcune imprese, quelle più dinamiche. La sostenibilità promuo-ve un modello di sviluppo in cui valore economico e sociale sono ricongiunti in un’ottica di medio-lungo periodo. Numerose ricerche dicono che le imprese di successo sono quelle che adottano una strategia centrata su qualità integrale della produzione; relazioni basate sulla fiducia e il reciproco riconoscimento con i dipendenti e la filiera dei fornitori; attenzione al territorio e all’ambiente. La logica dello sfruttamento invece (del lavoro, dei fornitori, dell’ambiente e del territorio, in una eterna lotta quotidiana su quantità e prezzo) non porta molto lontano.
Considerazioni analoghe valgono per i territori. A fiorire sono quelli capaci di mettersi insieme per fare squadra e creare sinergia, superando divisioni e lotte intestine. Le infrastrutture, la formazione, l’integrazione sociale, l’identità locale non sono costi ma investimenti. La stessa BCE ha di recente ammesso che le spese per sanità, educazione e infrastrutture “hanno effetti positivi sulla crescita a lungo termine, riducendo al tempo stesso la spesa improduttiva”.
In terzo luogo, oggi si riconosce che la motivazione è decisiva per armonizzare soddisfazione personale e successo d’impresa. Non solo, tra artigiani, professionisti, tecnici, manager, imprenditori – specie se donne – cresce la domanda di un lavoro associato a un senso. C’è voglia di qualche cosa di più: non solamente far funzionare macchine, servire un sistema efficiente, ma dare il proprio contributo, essere artefici del cambiamento di sè e della società, rispondere ai bisogni e risolvere i problemi mettendo in campo la propria intelligenza.
Una domanda da ascoltare e sostenere. Perché questo è il desiderio umano che è mediato dal lavoro: poter esprimere la propria creatività personale prendendo parte al movimento generativo della vita.
Anche tra i consumatori cresce la consapevolezza del voto col portafoglio. Come un sasso nello stagno, ogni atto di acquisto produce conseguenze che arrivano molto lontano all’interno del sistema economico. Una consapevolezza che cresce orientando nuovi stili di vita e nuovi modi di produzione.
Tutto ciò è particolarmente vero per i giovani. Le ricerche dicono che le nuove generazioni giudicano positivamente l’economia di mercato ma chiedono che sia regolata e messa al riparo dai suoi eccessi. Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sanno che sarà la loro generazione a sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, le nuove generazioni ambiscono a costruire un equilibrio migliore tra vita e lavoro, dove la remunerazione economica non costituisce l’unico criterio di scelta. Per lo più aperti e tolleranti verso i migranti, i giovani pensano che l’affermazione personale non debba andare a discapito delle relazioni. Il loro sogno è che il riconoscimento delle loro capacita dal desiderio non sia dissociato dal vantaggio per la comunità circostante.
Che in mezzo a tante difficoltà, a tanto dolore, ci sia ragione di sperare lo mostrerà efficacemente il docufilm che vedremo nel pomeriggio. Un documento prezioso che ci permetterà di intuire quale può essere il nostro futuro.
Prima di tutto rinnoviamo dunque i nostri occhi e il nostro cuore: di fronte ai guasti lasciati dallo sviluppo disordinato degli ultimi decenni, sono tanti coloro che stanno già cercando un nuovo modo di pensare e di vivere il legame con l’altro (visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà) e la realtà che li circonda (da rispettare, non semplicemente da sfruttare e manipolare).
Secondo la cornice di uno sviluppo umano integrale tracciato dalla Laudato si’.
Si tratta di non disperdere questo fermento, ma di convogliarlo in una visione unitaria che un po’ per volta occorre far emergere.
Forzando un po’ (ma non troppo!) i termini della questione, si può dire che l’Italia si trova davanti a un bivio: o cadere ancora di più nella spirale di sfruttamento e disuguaglianza resa possibile da una digita-lizzazione che pretenda di organizzare l’intera società come una grande fabbrica; oppure incamminarsi verso un nuovo sentiero di sviluppo che, rilegando economia e società, metta al centro la creatività umana arrivando a delineare una transizione migliore tra vita e lavoro.
7. La primavera, però, non è l’estate – tempo del caldo e dell’attesa – e tanto meno l’autunno – tempo del raccolto. È piuttosto il tempo della semina, cioè della speranza, dell’audacia, dell’impegno. Di chi sa credere senza vedere ancora i frutti.
È questa la stagione che stiamo vivendo!
Ma che cosa possiamo o dobbiamo seminare?
8. Il tempo che viviamo ci sollecita a mettere in discussione l’idea semplice secondo la quale attraverso il consumo – sostenuto dalla finanza – sia possibile sostenere la crescita.
L’ordine dei fattori va invertito: solo quelle imprese, quelle organizzazioni, quei territori, quelle comuni-tà che sapranno mettersi insieme per “produrre valore” potranno prosperare.
Prima occorre produrre valore e poi, solo poi, si può consumare. Non più viceversa.
Si tratta di un vero e proprio Cambio di paradigma. Abbandonata la strada fasulla dell’illusionismo finanziario, siamo chiamati a tornare a “lavorare tutti insieme nella creazione di un valore comune”, in-sieme economico e sociale, materiale e spirituale, secondo un nuovo mix di efficienza e senso, imprenditività e solidarietà, immanenza e trascendenza.
9. Lo provo a dire con una metafora: nel nuovo “mare della tecnica” che avvolge l’intero pianeta, si ripropone la questione della terra.
Etimologicamente, il termine “terra” significa secco, non umido, in contrapposizione al mare, ambiente liquido e infido e come tale impossibile da dominare. Dante usa l’espressione “gran secca” per dire che, per esistere, la terra deve emergere dal mare.
La terra dà dunque il senso di una solidità, di una permanenza, cioè di una storia, di una cultura, di un futuro. Di un servizio.
In una parola, di un nomos, una legge. Parola che ha una triplice valenza etimologica: Nehmen significa presa, conquista; Teilen divisione, sparti-zione; Weiden coltivazione, valorizzazione.
Che la “terra” (cioè la politica) rischi di ripresentarsi oggi come conquista (guerra) o divisione (muri) è evidente.
Ma la verità è che, al di là di ogni pretesa di autosufficienza, la terra umana oggi si può costituire solo in rapporto al mare della tecnica e alle altre terre emerse.
Certo, la terra presuppone un limite, una cultura (cioè una coltivazione). Ma questo non implica né muri né contrapposizioni.
La via ce la suggeriscono piuttosto i biologi quando, a proposito delle cellule, distinguono tra parete e membrana: la prima trattiene tutto per quanto può e da via quanto meno possibile; la seconda, porosa e resistente, permette il fluire delle diverse sostanze senza per questo perdere la propria struttura.
In effetti, se è vero che nessuna terra può fiorire oggi indipendentemente dal mare tecnico planetario (con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard) è altrettanto vero che la terra – e il suo nomos – oggi può “emergere” più che mediante il richiamo alla separatezza e, con essa, al sangue, attraverso l’azione del custodire e del coltivare – che mette la tecnica al servizio della vita dei suoi abitanti.
10. Ecco dunque il “nomos della terra” nell’era del mare tecnico: per diventare umana, la terra va lavo-rata, insieme, con impegno e generosità. Perché così solo così può fruttare.
In tale contesto, il lavoro non solo può, ma deve tornare a essere al centro del nostro modello di sviluppo.
E non a parole ma nei fatti. Nelle scelte concrete delle imprese, della pubblica amministrazione, delle famiglie. Il che significa nelle forme contrattuali, nella imposizione fiscale, nelle regole degli appalti, nella organizzazione scolastica e educativa.
11. Invero, non c’è nulla di scontato nel dire che occorre rimettere al centro del nostro modello di sviluppo il lavoro nella sua accezione antropologicamente più ampia.
Semplicemente perché veniamo da una lunga stagione in cui ciò non è stato vero.
Ma cosa vuol dire mettere al centro il lavoro?
12. Primo: prendersi cura dell’umano in tutte le sue dimensioni. Si discute di formazione e competenze. Ma una cosa va riaffermata con forza: occorre for-mare, cioè capacitare, la persona, superando le false dicotomie che separano invece di tenere insieme. Non va bene un’idea di cultura astratta, distaccata, rispetto alla quale la realtà non pare mai all’altezza; ma nemmeno un tecnicismo asfittico, schiacciato sul fare per il fare. Occorre ribadire che la persona intera è fatta di tante dimensioni (cognitiva, emotiva, manuale, sociale) che vanno tutte stimolate e curate, coltivando il sapere teorico che quello pratico, la conoscenza formale e quella informale. La possibilità di realizzarsi anche lavorativamente (senza produrre scarti) dipende dalla crescita armoniosa di tante dimensioni diverse.
Un processo delicato che deve vedere tanti soggetti e istituzioni agire di concerto. Perché una formazione integrale non è mai solo un affare privato. Dice bene un proverbio africano: per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio. Tradotto nel linguaggio contemporaneo: L’educazione è un bene comune.
Il che significa anche che, alla lunga, non c’è nemmeno crescita se la comunità non si cura dei propri giovani, soprattutto di quelli più fragili. In una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico.
13. Secondo: Mettere al centro il lavoro significa creare un ecosistema favorevole a chi lo crea e a chi lo pratica.
Obiettivo che in Italia appare rimane lontano.
Andare in questa direzione significa:
detassare quanto più possibile il lavoro e poi in generale le attività che lo creano;
fare arrivare a chi crea lavoro (non a chi specula o vive di rendita) le risorse disponibili.
Combattere il castello kafkiano della burocrazia.
Gli avversari dunque sono chiari: finanza predatrice, stato distruttore, speculazione edilizia, sovranità del consumatore.
Ma non si tratta solo di “liberare” il lavoro.
Si tratta anche di creare nuovo valore. Cioè nuova economia. Obiettivo che richiede una rinnovata capacità di stipulare “alleanze” per creare quel “valore condiviso” tra le cui pieghe è nascosta buona parte dell’economia del futuro.
Gli esempi sono tanti. Dal welfare all’edilizia, dall’ambiente ai beni culturali, dall’educazione alla ricerca, dall’energia alle infrastrutture: il lavoro può nascere solo la dove si saprà mettersi insieme per produrre nuovi tipi di beni.
Quello che viviamo è un tempo di innovazione non di conservazione.
14. Terzo: Non basta parlare del lavoro purchessia. Il lavoro va sempre e di nuovo Umanizzato. Nell’epoca dei robot e della intelligenza artificiale, il lavoro si salverà solo capendo meglio e valoriz-zando la specificità del lavoro umano.
Per reggere l’impatto della digitalizzazione c’è bisogno di una conversione culturale: passare da un’economia della sussistenza a un’economia dell’esistenza; produttrice, cioè, di saper-vivere e di saper-fare, dove il lavoro non sia mera fabbricazione, ma contribuzione. Come ha detto Papa Francesco, “Oggi la creazione di nuovo lavoro ha bisogno di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e investimenti per risolvere le sfide del cambiamento climatico”.
Per umanizzare occorre avere ben chiara la distinzione tra estrazione e creazione di valore. Nel primo caso si tratta di spremere il limone dell’efficienza andando a scovare tutti i frammenti di realtà a cui si può applicare un prezzo. Nel secondo caso, si tratta di cogliere i bisogni che non hanno ancora risposta, di mettere insieme ciò che è frammentato o disperso, di favorire la collaborazione tra le parti, di scommettere sulla capacità di iniziativa delle persone e delle comunità.
Due strade in apparenza sovrapposte, ma che portano a esiti molto diversi.
15. Sono questi i 3 temi delle tre sessioni parallele dove proseguiremo il lavoro dei tavoli di ieri.
16. Di fronte alle gravissime difficoltà in cui si dibatte la generazione dei nostri figli non basta perciò evocare una generica ripresa, dubbia nella consistenza e ancora di più nei suoi effetti.
Né tanto meno si tratta di sollecitarli a correre non si sa verso dove né per fare che cosa.
Si tratta, piuttosto, di autorizzarli a diventare autori – col nostro pieno e convinto sostegno – della costruzione di un modello di sviluppo meno ossessionato dalla crescita quantitativa, dalle performatività, dall’efficienza e più interessato a una nuova sintesi tra materiale e spirituale, strumentalità e senso, efficienza e creatività.
È questo l’invito di Papa Francesco: “adoperatevi per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente. Dobbiamo chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fonda-mentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a “civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente”
Questa dunque deve essere l’ambizione: lavorare con e per le nuove generazioni allo scopo di promuovere il lavoro degno, non sfruttato e degradato, ragionevolmente retribuito e stabile. Come pilastro di un nuovo modello di sviluppo.
Prima di tutto per ragioni di senso. Perché vogliamo la felicità delle persone. Di tutte le persone. E poi per ragioni di merito: perché nel tempo che viviamo solo la qualità del lavoro sarà capace di fare anche la sua quantità.
17. E tuttavia, nel caso Italiano, indicare la direzione non basta. Perché i nostri giovani ce la facciano, c’è bisogno di uno sforzo straordinario per trasformare in un’occasione l’allungamento della vita media.
Giovedì il card. Bassetti ha parlato di un grande patto per il lavoro. Un patto che deve essere prima di tutto intergenerazionale.
Se si vuole invertire il declino generazionale occorre realizzare un patto intergenerazionale che miri a sciogliere una contraddizione che rischia di essere micidiale: chi ha il patrimonio non investe perché vuole proteggersi (gli anziani) e chi vuole investire non può farlo perché non dispone delle risorse necessarie e anzi è gravato dal debito accumulato (i giovani).
In condizioni differenti, ci troviamo in un passaggio di fase paragonabile al 1945 (con la Costituzione) e al 1970 (con lo statuto dei lavoratori). Oggi si tratta di proporre all’Italia di stipulare un grande patto intergenerazionale basato sulla rinnovata centralità del lavoro degno così da far emergere il “bene comune” (vero e proprio Interesse) che lega anziani e giovani: l’avvio di una stagione qualitativamente diversa di sviluppo (basata sulla centralità del lavoro) a vantaggio delle giovani generazioni come condizione per la sostenibilità della protezione degli anziani (che vivono più a lungo).
Una opportunità che richiede la creazione di nuovi strumenti (finanziari, fiscali, contrattuali, etc.) per mettere in gioco Il patrimonio (cioè il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare accumulato in favore della ripartenza delle giovani generazioni.
Una questione che deve riguardare le famiglie, ma anche le imprese, le associazioni, lo stato, la chiesa.
17bis. Ecco dunque cosa ci chiede l’arrivo di una nuova primavera: tornare a seminare con speranza e larghezza così da poter sperare di raccogliere, a suo tempo, frutti buoni.
18. Ci sostiene una convinzione profonda: l’Italia ha tutte le qualità per essere il luogo dove aprire il cantiere di questo nuovo paradigma.
La tradizione italiana si distingue infatti per non avere mai ridotto il lavoro alla astrazione, alla serialitá, alla banalizzazione, mantenendo piuttosto la capacità di incarnarlo nella concretezza della vita. Quando è stata fedele a questa sua vocazione, il lavoro italiano ha saputo tenere assieme ciò che altrove si è separato: il bello con la funzione, la mano con la testa, il singolo con la comunità, l’utilità con il dono, e soprattutto, il particolare con l’universale e l’immanenza con la trascendenza.
In tale modello, il lavoro – inteso come esperienza viva in cui la persona conosce se stessa e si forma nel suo rapporto con la realtà (come dice Guardini, “l’uomo diventa se stesso quando abbandona se stesso, non però nella forma della leggerezza del vuoto ma in direzione di qualcosa che giustifica il rischio di sacrificare se stessi” – è stato fondamento del ben vivere e del ben essere, fattore di incivilimento, mediatore tra politica, economia e cultura.
Ciò spiega perché il lavoro è sempre stato uno dei modi – forse il modo – mediante cui l’Italia ha saputo esprimere la propria anima.
Da questo genius loci, che valorizza l’unicità di ogni esistenza, talento, vocazione, terra origina anche quella creatività che tanto peso ha sulla prosperità economica.
Una originalità profondamente intrisa di quella matrice Cristiana che, secondo Guardini, fonda l’umanesimo della concretezza.
Al di là delle difficoltà, la transizione in corso è l’occasione per recuperare e valorizzare questa nostra matrice culturale e spirituale che nel secoli ha prodotto esperienze straordinarie, ancora oggi ammirate in tutto il mondo.
L’ultima in ordine di tempo è quella di Adriano Olivetti che già 50anni fa aveva intuito, e provato a mettere in pratica, l’opportunità di uno sviluppo sostenibile basato sulla valorizzazione del territorio e delle comunità di persone che lo abitano.
È ripartendo da qui, dalla riscoperta della sua più intima matrice cattolica, che oggi l’Italia può risollevarsi, cogliendo le opportunità del cambio di paradigma in corso.
Dobbiamo chiudere una pagina e aprirne una nuova.
La primavera si annuncia, come suggeriscono i segni dei tempi. Ma, come altre volte in passato, senza il contributo coraggioso della radice Cattolica il paese non ce la farà.
È questa la responsabilità da assumere: L’umanesimo della concretezza è, oggi come ieri, il codice più appropriato per ricomporre fede e storia.
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- Fonte articolo
- Il docufilm Il Lavoro che vogliamo.
- Per correlazione: intervento del direttore di Aladinews.
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28 ottobre 2017 – Le quattro proposte della Chiesa italiana al governo
Settimane Sociali Le quattro proposte della Chiesa al governo
Oggi sabato 28 ottobre 2017
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Oggi a S. Basilio apre la sede ANPI “Bella Ciao”, un presidio di lotta democratica in Trexenta
28 Ottobre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Domenica 29 ottobre 2017 ore 17.30-21.30 presso il Teatro TSE Sant’Eusebio, via Quintino Sella Cagliari, il Comitato Casa del Quartiere Is Mirrionis presenta la manifestazione “Raccontando Is Mirrionis Ieri, oggi… e domani?” il Comitato in collaborazione con il Circolo ACLI “A. Lattuca-Is Mirrionis, il Teatro del Segno, la Parrocchia Sant’Eusebio, Co-Mete società cooperativa sociale. (segue)
Contributi e riflessioni dalla Settimana cattolica per il Lavoro
Intervento di Flavio Felice, membro del Comitato Scientifico
Cagliari, 26 ottobre 2017
Introduzione
Circa l’importanza del nostro convenire qui a Cagliari da laici cattolici, consentitemi di leggere un passo del paragrafo 13 dell’Apostolicam actuositatem, il decreto del Concilio Vaticano II sull’apostolato dei laici: «L’apostolato dell’ambiente sociale, cioè l’impegno nel permeare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive, è un compito e un obbligo talmente proprio dei laici, che nessun altro può mai debitamente compierlo al loro posto. In questo campo i laici possono esercitare l’apostolato del simile verso il simile. Qui completano la testi- monianza della vita con la testimonianza della parola. Qui nel campo del lavoro, della professione, del- lo studio, dell’abitazione, del tempo libero o delle associazioni sono i più adatti ad aiutare i propri fra- telli». È con l’orgoglio e con la responsabilità del laico che mi appresto, dunque, a introdurre il tema della “denuncia” che fa da sfondo alla Mostra: “Il lavoro che non vogliamo”, i cui contenuti, da qui a pochi minuti, il prof. Mario Mezzanzanica andrà ad illustrarci.
“Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”, è questo, dunque, il titolo della 48° edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, parafrasando un passo del paragrafo 192 dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco.
In questa luce, dunque, nell’orizzonte pastorale della Dottrina sociale della Chiesa, abbiamo ri- tenuto utile articolare i quattro giorni di lavoro che ci attendono secondo i registri della denuncia, della narrazione, delle buone pratiche e delle proposte. In breve, tenterò di esprimere una rappresentazione della “denuncia” che non appaia una stanca “lamentazione” ovvero una retorica “rivendicazione corpo- rativa”. Non che la “lamentazione” e la “rivendicazione” non abbiano una ragion d’essere nell’attuale situazione civile del Paese; dove per civile intendo culturale, politica ed economica. Vorremmo tutta- via sottrarci dal registro della lamentazione e della mera rivendicazione – e speriamo di riuscirci – per- ché riteniamo, per il bene del Paese, di poterci giocare meglio le opportunità che questa occasione ci offre: incontri, dibattiti, tavoli di lavoro che ci auguriamo vedano voi protagonisti: il mondo delle as- sociazioni, del volontariato, della chiesa diffusa capillarmente sul territorio, per discutere le problema- tiche del lavoro con chi il lavoro lo crea: gli imprenditori, e avanzare proposte alle figure istituzionali alle quali spetta il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono all’impresa di svolgere il proprio compito e così contribuire, per quanto le compete, al bene comune.
Dal nostro punto di vista, la “denuncia”, quando non scade nel lamento, assume i caratteri della “situazione problematica” che attende di essere risolta. Tutti sappiamo che la conoscenza procede per
“tentativi ed errori”: si inciampa in un problema, si inferiscono ipotesi per la sua soluzione e si confu- tano quelle non adatte, in un processo che non avrà mai fine; è questo il metodo del “bene comune” in un mondo popolato da esseri imperfetti, ma perfettibili e dove nessuna istituzione può avanzare la pre- tesa di detenere il monopolio sul bene comune. Nel nostro caso, la situazione problematica che delinea i contorni della “denuncia” è data dalla “criticità del mondo lavoro”, declinabile, a nostro parere, nei sei punti che rappresentano i sei capitoli della mostra: snodi critici, frutto di un’analisi delle trasformazioni del mondo del lavoro. In particolare, tali snodi sono: 1. I giovani e il lavoro; 2. Il precariato; 3. Lavoro e caporalato; 4. Il lavoro femminile; 5. Lavoro e formazione; 6. Lavoro e ambiente. Dal momento che il prof. Mezzanzanica interverrà sui contenuti specifici della mostra, vorrei soffermarmi brevemente sulla “situazione problematica” come atto di “denuncia” dal quale sperare che nel prosieguo delle giornate possa discendere una cascata di ipotesi che, con metodo critico: “problema, congettura, confutazione”, ci aiuti a formulare le proposte.
Le trasformazioni strutturali del mondo del lavoro
In primo luogo, credo convenga registrare che la “denuncia” delle criticità del mondo del lavoro scaturisce dalle preoccupazioni per le trasformazioni del mercato del lavoro che, nelle ultime due set- timane, si sono affacciate anche nel panorama degli organismi finanziari internazionali. È forse solo una coincidenza, ma a pochi giorni di distanza, sia il Fondo Monetario Internazionale sia la britannica Social Mobility Commission si sono focalizzati in larga misura sulla fine di quella che sembrava una connessione indiscussa: la relazione diretta tra aumento della produttività e aumento dei salari. In al- tre parole, il lavoro beneficerebbe oggi sempre meno della complessiva crescita della produttività e del reddito nei paesi industrializzati, mostrando invece una costante precarizzazione. Tali cambiamenti possono diventare a tal punto strutturali che prevediamo giovani sempre più sprovvisti di un contenuto semantico certo da attribuire alla parola “lavoro”.
A questo punto, il momento della “denuncia critica” può focalizzarsi su questioni solo apparen- temente extra-economici, ma che in realtà fanno da sfondo al problema economico, come evidenziato anche dal neo premio Nobel per l’economia Richard H. Thaler. È possibile affermare che le ragioni con cui le persone agiscono fanno la differenza rispetto al funzionamento dell’istituzione chiamata mercato. Dai comportamenti economici non si possono espellere i fattori extra economici, tralasciando i quali, come ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate, non solo le analisi, ma anche le soluzio- ni, perdono di consistenza. La tesi che sosteniamo e che presentiamo come “denuncia” è che per modi- ficare il sistema, bisognerebbe in primis educare gli agenti che sono “persone-agenti” e non automi- agenti, elementi di un gregge che attende un “pastore” che lo governi e lo conduca come un corpo omogeneo e una massa indistinta di individui ridotti alla stregua di pecore. Il soggetto dell’agire civile è la persona creata a immagine e somiglianza del Creatore, dunque chiamato a vivere in modo libero e
responsabile, di qui la sua dignità che si esplica nel partecipare all’opera creatrice del Padre; una parte- cipazione che vede nel lavoro un aspetto fondamentale.
Il fattore motivazionale: le buone ragioni dell’agire personale, spiega ad esempio alcuni mismat- ches – disequilibri – sul mercato lavorativo italiano: la domanda di lavoro delle imprese in certi settori è largamente insoddisfatta a causa della carenza di figure professionali non solo sufficientemente spe- cializzate, ma anche adeguatamente motivate a compiere quel tipo di lavoro. D’altro canto, persone estremamente formate che emigrano, a volte, si mescolano ad un’ampia quota di giovani che hanno in- corporato un profilo di preferenze lavorative squilibrato rispetto alla domanda (ad esempio gli aspiranti al test di ingresso 2017 per la facoltà di medicina erano sette volte tanto i posti disponibili). In entram- bi i casi il modello educativo complessivo, non solo quello economico, fallisce, perché i giovani non trovano riscontro per le loro aspirazioni e le risorse migliori di ciascuno non vengono rimesse in circo- lazione sul territorio nazionale. Si tratta di una perdita netta in termini civili, ossia culturali, politici ed economici.
I giovani classificati come NEET (Not in Education, Employment or Training), sono due volte vittime: una prima volta, vittime dell’incapacità individuale a collocarsi in relazioni (umane ed econo- miche) troppo fluide e perciò challenging (onerose emotivamente prima che materialmente); e una se- conda volta, vittime dell’incapacità delle istituzioni a coordinare le scelte degli attori economici, in modo che il mercato non diventi il luogo di sfruttamento delle debolezze, bensì occasione per mettere in gioco i talenti e creare “il lavoro che davvero vogliamo”.
In tal senso, nell’ordine della sussidiarietà, associazioni e corpi intermedi sono chiamati ad un lavoro educativo per ogni soggetto economico (lavoratori, imprenditori, professionisti) che vada oltre le skills professionali e che nessuna politica economica o regola giuridica possono dare: educare le persone a vivere il commercium come un processo in virtù del quale offrire il meglio di sé al partner economico. Fuori da questo prerequisito culturale il mercato in generale, e il mercato del lavoro in par- ticolare, non potrà offrire che quello che ha, arrestando i processi d’inclusione sociale e impedendo l’esercizio della sovranità, essendo evaporata quella dimensione fondamentale dell’identità umana che si chiama lavoro.
Lavoro come via dello sviluppo integrale
In secondo luogo, come indirizzare la nostra “denuncia” rispetto ad una qualità del lavoro che ri- teniamo non degna della trascendente dignità della persona umana, senza perdere di vista il monito di qualche giorno fa del Card Bagnasco: “non è il lavoro a dar valore all’uomo, ma l’uomo a dar valore al lavoro”? A tal proposito, constatiamo che siamo davanti ad una grande questione sociale che interessa questo Paese e le giovani generazioni in particolare. Per alcuni questa si risolve nelle grandi trasforma- zioni tecnologiche e sul modo in cui esse cambieranno inesorabilmente le nostre vite. Da qui il dibatti-

to che ferve intorno a quel fascio di politiche dall’alto e innovazioni dal basso che convenzionalmente chiamiamo Industria 4.0.
Altri ritengono invece che basti parlare di etica e di bene comune perché i processi economici possano come per magia essere giustificati e giustificabili da un qualcosa che loro chiamano fede, ma che non è diversa dall’ennesima ideologia, se non più sbiadita. Non è e non può essere questa la strada delle Settimane Sociali. Iniziative come questa Mostra indicano proprio la peculiarità del nostro ap- proccio: istantanee su snodi critici, frutto di un’analisi delle trasformazioni del mondo del lavoro e una sua visione integrale del destino dell’uomo e della donna lavoratori, non una visione integralista dell’economia o della politica.
A questo proposito, val la pena di sottolineare come il lavoro non sia una mera opportunità da of- frire o da cogliere o una meta da raggiungere, magari con gli strumenti dell’assistenzialismo statale. Il lavoro è la vocazione altissima della donna e dell’uomo, e dunque la sua dignità non è men che la di- gnità dell’essere umano nel suo intero, ecco perché non vorremmo ridurre la Settimana Sociale a ca- hiers de doléances, un elenco di lamentazioni e di rivendicazioni, per quanto legittime ed urgenti, che tuttavia potremmo avanzare sempre ed ovunque. Speriamo invece di fare di questi quattro giorni un la- boratorio critico per il bene comune del Paese, avendo come cifra ideale la trascendente dignità della persona umana. Prendersi cura del lavoro è dunque servire lo sviluppo umano integrale, qualcosa che è dovuto da noi ai nostri simili, e viceversa (“sussidiarietà orizzontale”); qualcosa che è un diritto per me e per gli altri, nella misura in cui tutti diventiamo coscienti della nostra e altrui dignità dei figli di Dio, nella sequela di Cristo.
È un compito molto articolato quello che attende noi tutti che partecipiamo alla Settimana Socia- le: “denunciare” significa dare voce ad una cultura della vita umana in cui il lavoro non sia appendice di una esistenza ai margini, ma fattore di inclusione progressiva di ogni singolo attore nella propria comunità di riferimento, locale o globale che sia. Per questa ragione, è vero che il momento della “de- nuncia”, della riflessione sulla giustizia sociale e sulle sue rivendicazioni, può certo servire a mettere a fuoco il problema, ma non è sufficiente a risolverlo. Il passo in più che è necessario ai nostri giorni è la riscoperta dell’impegno personale, del quotidiano esercizio della sovranità che ci spetta in quanto cit- tadini, al di fuori di qualunque lobby o corporazione, perché il prossimo, concittadino o straniero che sia, possa condividere l’appassionante avventura di trasformare la sua porzione di mondo con l’impegno, anche con la fatica, del lavoro delle sue mani.
Per questo motivo, la riflessione sui principi della Dottrina sociale della Chiesa, allorché appro- fondisce il momento della “denuncia” dei gravi squilibri che attanagliano il mondo del lavoro, non si attarda in una lamentazione ideologica sulle strutture o sull’ambiente sociale, ma – direi sturzianamen- te e wojtylianamente – guarda alle persone e alle loro relazioni nella società complessa, e a volte di- sperata, del nostro tempo.

Conclusioni
In conclusione, direi che le criticità del lavoro impresse nelle immagine e nei dati della Mostra: “Il lavoro che non vogliamo”, rappresentano una delle cause dell’esclusione delle persone dalle reti di produttività e di scambio. Esse, da un lato, ledono la dignità umana e, dall’altro, creano occasioni di sfruttamento delle persone ed impediscono un autentico sviluppo umano, con grave danno per la ric- chezza della nazione.
A questo punto, ribalterei il titolo generale della Settimana Sociale e direi che “Il lavoro che non vogliamo è il lavoro servile, sterile, alienante e conflittuale. Sul piano della “denuncia critica” ciò si- gnifica innanzitutto denunciare per erodere le fondamenta della “società servile”, uno spettro che non si dissolverà mai definitivamente e, per l’appunto, nei confronti del quale non dovremmo mai abbassa- re la guardia; una specie di “neofeudalesimo” che garantisce sempre nuove rendite di posizione, attra- verso lo sfruttamento della maggioranza da parte di oligarchie sempre più agguerrite e rapaci.
A questo punto, tornano alle mente le parole del giurista cattolico francese Etienne de La Boétie che nel 1549 scriveva, appena diciannovenne, il Discorso sulla servitù volontaria, con le quali conclu- do, individuando proprio nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale una leva di emancipazione civile dalla condizione di “servi”, per il corretto esercizio del gioco democratico: “il discorso critico su un problema comune”, come appunto recita l’artico 1 della nostra carta costituzionale: «Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha puto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!»1.
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1 Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria; in G. Sharp, Politica dell’azione nonviolenta – Potere e Lotta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1985, pp. 28-29.
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Intervento di Mario Mezzanzanica, Fondazione Sussidiarietà
Cagliari, 26 ottobre 2017
Le criticità del mondo del lavoro
(…) La situazione del nostro paese è di grande difficoltà e i dati mostrano con evidenza indiscutibile queste difficoltà: Il tasso di occupazione, che definisce il numero di persone in età lavorativa che partecipano al mercato del lavoro attivamente (di seguito il dato tra 15 e 64 anni – fonte Eurostat) pur con qualche breve picco in su o in giù, è rimasto sostanzialmente costante negli ultimi 13 anni. Era pari al 57,8% nel 2004, e si è assestato al 57,3% nel 2016.
La situazione, è ancor più grave per quanto concerne la disoccupazione. Infatti, il nostro paese è tra i primi in Europa per l’alto tasso di disoccupazione: siamo il 5° paese con il tasso di disoccupazione più elevato dopo Grecia Spagna, Croazia e Cipro. Il nostro tasso di disoccupazione nel 2016 era pari all’11,9% rispetto alla media EU-28 dell’8,7%.
Sia per quanto riguarda la bassa partecipazione al mercato del lavoro sia per l’alta disoccupazione le persone che hanno maggiori difficoltà sono i giovani e le donne e a livello territoriale il sud.
Abbiamo voluto con la mostra IL LAVORO CHE NON VOGLIAMO evidenziare in particolare 6 specifiche criticità, sei istantanee, affrontate da due punti di vista: attraverso i dati e le storie delle perso- ne.
E come ha detto il prof Flavio Felice [vedasi contributo precedente], la “denuncia delle criticità evidenziate”, quando non scade nel lamento, assume i caratteri della “situazione problematica” che attende di essere risolta.
Il lavoro femminile
Il lavoro e la famiglia rappresentano dimensioni fondamentali della società contemporanea e stanno entrambi vivendo profonde trasformazioni. Nell’ambito di questi complessi mutamenti, alle questioni dell’occupazione femminile e della conciliazione tra lavoro e famiglia viene riconosciuta una partico- lare importanza. Uno degli obiettivi fissati dal Consiglio europeo nella cosiddetta “Strategia di Lisbo- na”, da raggiungere entro il 2010, stabiliva di portare l’occupazione femminile al 60%: mentre l’Europa a 28 stati è riuscita a raggiungere questo obiettivo solo nel 2015, l’Italia nel 2016 è ancora lontana da questo traguardo (48%).
In Italia, le difficoltà nella conciliazione famiglia-lavoro hanno un peso determinante nella decisione di molte donne di rinunciare all’impegno nella sfera lavorativa.
Il 22% delle madri di nati nel 2009/2010 che lavoravano prima della gravidanza in seguito alla nascita dei loro figli hanno lasciato o perso il lavoro. Questo accade principalmente per le madri residenti nel Mezzogiorno (30%), le più giovani (47% per le madri di meno di 24 anni, 32% per le 25-29enni) e quelle con basso livello di istruzione (31%).
Lavoro e caporalato
Con il termine “caporalato” ci si riferisce ad una forma di intermediazione illecita, presente soprattutto in agricoltura, che utilizza forme illegali di reclutamento e sfruttamento economico dei lavoratori. I fenomeni di caporalato introducono una forte distorsione del mercato del lavoro, creando gravi ingiustizie perlopiù a persone che si trovano in condizione di grave difficoltà: ad esempio chi vive in condizione di povertà estrema o immigrati irregolari senza permesso di soggiorno.
Trovandosi in una posizione molto debole, le vittime dei “caporali”, ossia dalle persone che gestiscono il traffico dei lavoratori, subiscono spesso maltrattamenti, violenze e intimidazioni.
I numeri legati al fenomeno del caporalato sono rilevanti:
a) oltre 400.000 potenziali lavoratori impiegati nel settore agricolo che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato. L’80% di loro sono stranieri;
b) circa 100.000 vittime del caporalato sono in condizione di grave sfruttamento lavorativo e/o di disa- gio abitativo e ambientale;
c) più di 80 epicentri (distretti agricoli a rischio) in cui si pratica il caporalato, distribuiti su tutto il ter- ritorio nazionale;
e) tra i 25 euro e i 30 euro: salario medio giornaliero percepito dai lavoratori per circa di 10–12 ore di lavoro; f) almeno 10 lavoratori morti nelle campagne a causa del caporalato nell’estate 2015. Nell’ottobre del 2016 è stato approvato il disegno di legge per il contrasto al caporalato che contiene specifiche misure per i lavoratori stagionali in agricoltura ed estende responsabilità e sanzioni per i “caporali” e gli imprenditori che fanno ricorso alla loro intermediazione.
Giovani e lavoro
Il rapporto tra giovani e lavoro è “la” priorità da affrontare per rilanciare le prospettive socio- economiche del Paese. Se, in Europa, il tasso di occupazione dei giovani è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi 15 anni (56% nel 2016), in Italia i dati esprimono una realtà differente: il forte calo dell’occupazione giovanile registrato fin dal 2006 si è infatti arrestato solo negli ultimi due anni asse- standosi nel 2016 al 40% (51% nel 2006). Sfavoriti soprattutto i giovani che vivono al sud, con un tas- so di disoccupazione superiore al 50%.
Un tema di forte attualità riguarda i giovani “Not in Education, Employment or Training” (NEET). Nel 2016, in Italia, sono 2,2 milioni gli individui che non risultano iscritti a scuola o all’università, e che non lavorano e neppure seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale. Nel complesso dei paesi EU28, i NEET sono 12,3milioni: il nostro paese esprime la situazione di maggiore criticità in ambito europeo.
La situazione è particolarmente complessa anche perché, pur se l’entrata nel mondo del lavoro per i giovani italiani non è agevole nemmeno con il completamento di un percorso di studi, che acquisisce un diploma o una laurea, ha maggiori chance nella partecipazione al mercato del lavoro.
Lavoro e ambiente
Nel periodo gennaio-novembre 2016 il totale degli infortuni denunciati è stato di 587.599, di cui 935 mortali (82% nell’industria, 13% in agricoltura); nello stesso periodo, le malattie professionali denun- ciate sono state 55.922 (contro 58.917 nel corso di tutto il 2015) e si è trattato, in ordine decrescente di frequenza, di malattie muscolo-scheletriche, dell’apparato uditivo, di malattie respiratorie, di tumori e di malattie della pelle.
Ma si tratta di un quadro parziale. Infatti, se tradizionalmente i lavoratori sono stati affetti da malattie specifiche, oggi bisogna pensare al lavoro, con i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, come a un potenziale fattore di rischio per una gamma amplissima di patologie somatiche, psicosomatiche e psichiche.
Non sono, però, soltanto i lavoratori ad essere colpiti dai molti potenziali fattori nocivi legati al lavoro, ma lo sono anche il territorio e la comunità che vive in prossimità di impianti produttivi.
Serve per i nuovi o rinnovati insediamenti una responsabile, indipendente e, nel contempo, partecipata valutazione dell’impatto sull’ambiente e sulla salute della popolazione.
Non solo lavoro e salute non sono incompatibili, ma l’uno può favorire l’altra: tra i possibili vantaggi di un lavoro che abbia al centro la persona, la comunità e l’ambiente in cui essa vive, figurerebbe – ac- canto al guadagno di salute – anche il contenimento dei costi sanitari. Sfortunatamente, però, la pre- venzione è molto predicata ma poco praticata.
Lavoro e formazione
Le traiettorie evolutive del mondo del lavoro impongono, sempre più spesso, ai lavoratori, di cambiare mansione o professione diverse volte nel corso della vita. Alla richiesta, da parte delle imprese, di competenze tecniche e specialistiche, tende dunque ad affiancarsi la richiesta di “competenze trasver- sali”, ossia competenze di carattere più generale che possano essere sfruttate in una molteplicità di si- tuazioni professionali.
Aggiornare le competenze individuali durante tutto l’arco della vita viene considerato dalle imprese, e non solo, come un valore aggiunto fondamentale per i lavoratori e le loro competenze.
Il cosi detto “Lifelong Learning” viene tuttavia scarsamente incentivato e favorito dalle imprese italia- ne. La percentuale di dipendenti che hanno effettuato corsi di formazione in azienda è fortemente cor- relata alla dimensione delle imprese dove essi lavorano. La probabilità di ricevere formazione in un’impresa con più di 500 dipendenti (53%) è quasi 4 volte superiore all’analoga probabilità in una con meno di 10 dipendenti (14%). A livello territoriale, nel Nord le percentuali di dipendenti formati in impresa sono superiori alla media nazionale (32% al Nord-Ovest e 29% al Nord-Est), mentre il Centro si ferma al 27% e il Sud al 24%. Lo scopo principale delle aziende formatrici è, comunque, nella mag- gior parte dei casi, quello di aggiornare il personale con riferimento alle mansioni già svolte (84%). Solo in piccola parte le attività formative sono indirizzate all’acquisizione di competenze per nuovi compiti e funzioni (11%) o per formare persone da poco assunte in azienda (5%).
Il precariato
L’aumento dell’incidenza del lavoro a termine registrato negli ultimi anni è una tendenza comune ai principali paesi europei, in Italia il tema del “rischio di precarietà” lavorativa cresce tuttavia con ritmo maggiore: se nel 2002 i lavoratori temporanei costituivano il 9,9% dei dipendenti contro il 12,4% del complesso dei paesi EU28, nel 2016 sia per l’Italia che per i paesi EU28 questa quota è di circa il 14%. Ma se questo “fa parte” dei cambiamenti strutturali del mercato del lavoro, è importante osservare che molti lavoratori sono costretti ad accettare un impego temporaneo non per scelta volontaria: si tratta dei cosiddetti “lavoratori temporanei involontari”.
I due problemi procedono in parallelo nel nostro Paese: similmente all’aumento del numero di lavora- tori temporanei (+59% dal 2000), sta crescendo anche la quota di lavoratori temporanei involontari (+39%).
Anche la durata dei contratti a termine influenza il rischio di precarizzazione dei lavoratori. Nel 2016, per 1.837mila lavoratori a termine il contratto ha avuto una durata di meno di un anno. Inoltre, per cir- ca 543mila persone la durata del contratto è stata inferiore ai 3 mesi.
Conclusione
Queste criticità, queste istantanee su snodi critici (come diceva pocanzi il prof Fabio Felice) non vo- gliono farci scadere nel lamento ma bensì aiutarci ad aumentare la consapevolezza che un tentativo di risposta, nella prospettiva del bene comune, può arrivare da una visione che si prende cura integral- mente della dignità e del destino della persona.
C’è una frase di Antoine Marie Roger de Saint Exupéry che penso possa aiutare a cogliere le caratteri- stiche primarie di una concezione che sta alla base della costruzione di un mercato del lavoro che valo- rizzi la dignità della persona:
“Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”.
E mi permetto di chiudere il mio intervento con una frase di Papa Francesco tratta dal discorso dello scorso 27 maggio all’ILVA di Genova, che riassume in se la drammaticità e la contemporanea amicizia del lavoro per la persona.
Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che si sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. (Discorso di Papa Francesco Stabilimento Ilva – Genova, Sabato, 27 maggio 2017)
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Oggi venerdì 27 ottobre 2017
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Gli Editoriali di Aladinews.
Si è aperta ieri (26 ottobre) e proseguirà fino a domenica (29 ottobre) la Settimana sociale dei Cattolici italiani, giunta alla 48ª edizione, sul tema Il LAVORO che VOGLIAMO: LIBERO, CREATIVO, PARTECIPATIVO e SOLIDALE (…).
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Rosatellum: la legge degli strappi alla Costituzione
27 Ottobre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Il Rosatellum bis è stato approvato in tempi record, 35 giorni – domeniche comprese – da quando il Pd ha depositato in commissione Affari costituzionali della Camera il testo base. Era il 21 settembre. Da allora, un vero e proprio tour de force tra Camera e Senato per approvare la legge prima del […]
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SOCIETÀ E POLITICA » CAPITALISMO OGGI » CRITICA
Come cresce il potere delle multinazionali
di FRANCESCO GESUALDI
comune-info.net, 25 ottobre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Il comando del popolo sta cedendo terreno al comando del denaro. L’unico modo per ripristinare la democrazia è il ritorno della partecipazione». (p.d.)
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