Monthly Archives: settembre 2017
Verso il Convegno per il Lavoro.
Il lavoro e l’impresa nella Costituzione
L’art. 1 della costituzione repubblicana recita “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Come primo elemento si precisa che la natura della repubblica è quella di essere democratica, ma non solo, essa è anche fondata sul lavoro e non su altri elementi: democrazia e lavoro, quindi, come elementi costitutivi indissolubili. Giustamente il lavoro era visto dai costituenti come elemento fondante dell’intera comunità perché con il lavoro ciascun uomo si realizza, sviluppa e tutela la propria dignità e contribuisce al benessere di tutta la comunità. Sono diversi gli articoli dedicati dalla Carta al tema del lavoro, alla sua tutela, alle sue forme organizzative e ai diritti-doveri connessi e qui intendiamo discuterne qualcuno per meglio inquadrare i ragionamenti che saranno fatti successivamente.
Con gli articoli 35 e 36, ne vengono affermati la tutela, la cura della formazione ed elevazione professionale, la promozione di accordi che affermino e regolino i diritti del lavoro, il diritto ad una retribuzione commisurata alla quantità e qualità del lavoro svolto, purché sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Nella costituzione è evidente lo stretto legame tra la dignità dell’uomo e il lavoro, anzi l’accento posto sulla giusta retribuzione che consenta un’esistenza dignitosa anche per la famiglia costituisce l’elemento qualificante dell’esistenza umana attraverso il lavoro. Tra gli altri articoli che qui si intende evidenziare vi è il 41 che recita “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Se si esce dai principi e dagli articoli della carta costituzionale, il tema del lavoro viene trattato quasi sempre con lo sguardo miope o presbite. E’ miope lo sguardo di chi vede se stesso come l’ombelico del mondo, tipicamente è lo sguardo del sindacato economicista e di una certa imprenditoria italiana: non vi è mai una visione e un interesse generale, conta il tempo breve e la difesa ad oltranza delle proprie posizioni. E’ presbite lo sguardo di chi si preoccupa di fare analisi teoriche, che possono essere corrette e lungimiranti, ma le cui ricette non risolvono i problemi del presente, indipendentemente dal tempo storico a cui il presente si riferisce.
In mezzo, a nostro avviso, vi è la necessità di uno sguardo corretto con lenti progressive in modo da contemperare la visione strategica con un’applicazione coerente con i bisogni del presente.
Innanzitutto c’è bisogno di lavoro, ma bisogna essere consapevoli che la politica non crea né può creare lavoro, ne crea però le condizioni: è vero, il lavoro viene creato dalle imprese, anche se non bisogna negare la necessità dell’intervento pubblico diretto.
Non è vero che privato significa efficienza e produttività e pubblico significhi inefficienza e mancanza di produttività. Vi sono settori produttivi e dei servizi, nonché determinati periodi economici, nei quali non solo è auspicabile l’intervento pubblico diretto, ma solo l’intervento pubblico può garantire la ripresa economica, lo sviluppo della collettività e il benessere sociale.
In ogni caso, non c’è lavoro senza impresa per cui parlare dell’uno significa necessariamente parlare anche dell’altra. Alla politica, ora più che in passato, spetta un intervento sistematico, continuo ed organico innanzitutto sul fronte dell’attività di regolazione delle relazioni tra lavoro e impresa e, a valle, sul fronte della redistribuzione della ricchezza. Un tempo tale attività poteva essere compiutamente affrontata dallo Stato regolatore, oggi tale compito può essere risolto sì dallo Stato regolatore pur di averne la volontà politica corroborata da adeguate maggioranze parlamentari, ma solo all’interno di politiche sovranazionali coordinate.
Si tratta della necessità di declinare il ruolo del Governo, della parte pubblica a diversi livelli di responsabilità e di capacità decisionali (Regioni e Comuni, per esempio) e della politica come attore fondamentale innanzitutto a monte del mercato decidendo le regole del gioco per tutti i giocatori e con un ruolo più diretto, a valle, che potrà essere rivolto agli interventi su asset economici e produttivi strategici, così come a tutti quei casi nei quali è l’assunzione di responsabilità pubblica della politica che può garantire i territori e i comparti particolarmente soggetti a stati di crisi e/o di marginalità.
Da qui l’interrogativo se e come il diritto al lavoro può essere garantito per tutti, considerati i vari aspetti della questione sul piano locale, nazionale, ed europeo.
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Anche su Democraziaoggi.
Pregi e difetti del Codice del Terzo Settore, di recente emanazione
Commenti al Codice del Terzo Settore: su LabSus.
Le elezioni tedesche. Otto per cento
Le elezioni tedesche
OTTO PER CENTO 26 SETTEMBRE 2017 / EDITORE / DICONO LA LORO /
Si può governare facendo una politica giusta, ma se il liberismo è regime la sinistra non può vincere
di Raniero La Valle
C’è stato molto bla-bla-bla sulle elezioni tedesche i cui risultati hanno preso di sorpresa la maggior parte dei commentatori. Da un po’ di tempo i commentatori che vanno per la maggiore sui giornali e in TV non fanno che sorprendersi per risultati elettorali che essi stessi provocano pascendo l’opinione pubblica con le loro belle idee.
In realtà non c’era molto da sorprendersi, mentre le elezioni tedesche hanno rivelato due semplici verità.
La prima è che Angela Merkel ha vinto e per la quarta volta governerà la Germania, anche se ha perso l’8 per cento dei voti. Tutti dicono – anche se la diagnosi è piuttosto sommaria – che li ha persi perché contro venti e maree ha coraggiosamente deciso che la Germania accogliesse un milione di profughi. Questo vuol dire che si possono vincere le elezioni e si può governare anche facendo una politica giusta, che a molti non piace. Ciò costa solo l’8 per cento dei voti, ma forse giova alla democrazia aumentando il pluralismo e le degasperiane virtù volte a non governare da soli; in ogni caso con quell’8 per cento che ha perso per evitare ai tedeschi il ritorno al razzismo delle leggi di Norimberga, Angela Merkel ha salvato la Germania e quanto resta dell’ “idea dell’Europa”. Di ciò bisogna esserle molto grati. Intanto da noi il sindaco di Ventotene ci spiega che se non arrivano bambini “stranieri” le scuole elementari di una gran quantità di piccoli comuni, e anche le medie, dovranno chiudere, per mancanza di alunni, almeno finché gli italiani non saranno rimessi in condizioni di far figli, come vorrebbero le politiche di eguaglianza e sussidiarietà stabilite dalla Costituzione.
La seconda semplice verità rivelata dalle elezioni tedesche è che in Europa “la” o “le” sinistre non possono vincere più per una ragione strutturale. In Germania la socialdemocrazia ha perduto senza che nemmeno ci fosse un Renzi sufficiente da solo a spiegare la catastrofe. La sinistra non può più prevalere in Europa restando sinistra, perché il capitalismo liberista di destra ha cessato di essere una opzione politica tra le altre, sensibile al voto popolare, ed è diventato invece un ordinamento e un regime, reso obbligatorio dai trattati e dalle norme su cui è stata “costituita” la forma europea del potere. Se le politiche di piena occupazione, di tutela del lavoro, di intervento statale nell’economia, di eguaglianza dei diritti, di rimozione delle cause che di fatto impediscono lo sviluppo delle persone sono proibite per legge nell’Unione Europea, il potere non può che essere conteso tra le destre di diversa denominazione e natura, mentre la sinistra non può che perdere “il suo popolo”, come si lamenta Bersani.
Questo vero problema, e non per caso, è occultato nel dibattito politico dietro il falso problema dell’entrata o dell’uscita dall’euro, come se si trattasse di una porta girevole; le elezioni tedesche lo hanno bruscamente riportato alla luce abbacinante del sole. Perciò ora dovremmo sapere che cosa fare.
Raniero La Valle
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INFORMAZIONI CONNESSE e PERTINENTI. Nel sito Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri un articolo di Alberto Melloni (da Repubblica) dice che il decreto istitutivo di papa Giovanni come patrono dell’esercito italiano è nullo, e che si è trattato di una “vendetta” curiale contro la canonizzazione che Francesco ha fatto di Giovanni XXIII come papa del Concilio. Ma anche i vescovi scrivono per protestare.
Pubblichiamo anche la prima prolusione “stilnovo” del cardinale Bassetti al Consiglio Permanente della CEI, e i commenti alla prima strage nel Mediterraneo dopo l’accordo con la Libia.
Arrigo Miglio confermato per due anni Arcivescovo di Cagliari
Papa Francesco ha confermato, in prorogatio per due anni, Mons. Arrigo Miglio Arcivescovo di Cagliari.
Fonte Il Portico.
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Felicitazioni e Buon lavoro dalla Redazione di Aladinews.
Il 1 ottobre 2017 apre al pubblico a Cagliari l’Ex 68’mo Deposito Carburanti dell’Aeronautica militare. Giovedì 28 settembre Conferenza Stampa
Il 1 ottobre 2017 i volontari delle associazioni Sardegna Sotterranea e AgriCulture, apriranno al pubblico a Cagliari – per la prima volta in esclusiva – l’Ex 68’mo Deposito Carburanti dell’Aeronautica militare.
L’INIZIATIVA, frutto dell’impegno di varie associazioni culturali, ha trovato accoglimento presso il competente assessorato regionale agli Enti Locali e offrirà la possibilità di VISITARE CON LE GUIDE TURISTICHE e gli SPELEOLOGI, in modo del tutto gratuito, luoghi della memoria e di grande valore dal punto di vista dell’architettura militare.
- segue –
Oggi martedì 26 settembre 2017
Verso il Convegno sul lavoro a Cagliari
Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
Su Democraziaoggi.
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- La pagina fb dell’evento.
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Prendere sul serio i beni comuni: la sostenibilità è una pratica di condivisione
Francesca Santaniello – Elena Taverna – 24 settembre 2017, su LabSus, ripreso da aladinews.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DEMOCRAZIA
L’entrata in vigore del CETA è uno scandalo per la democrazia
di JACQUES SAPIR E MARGHERITA RUSSO
voci dall’estero, 23 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. Jacques Sapir fa il punto su ciò che adesso ci aspetta: oltre ai rischi per la salute e per l’ambiente, il CETA rappresenta un grave vulnus alla sovranità nazionale e ai principi democratici. (c.m.c.)
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SISTEMI DI VOTO
Una nuova legge elettorale che non sia fatta per i partiti
di Stefano Passigli
La proposta che ha presentato il Pd non risolve né il problema della governabilità, né tantomeno quello della rappresentatività del Parlamento. Sul Corriere della Sera online, ripreso da aladinews.
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In GERMANIA
Tonino Dessì su fb.
Salvo sorprese, in Germania un Governo stabile ci sarà, composto pragmaticamente da CDS\CDU, Liberali e Verdi.
Sarà espresso da una coalizione moderata, ma non condizionata dai populisti di destra, nonostante il loro inquietante risultato.
Il dato dell’afflusso al voto, 76,5 per cento, è alto, almeno ventiquattro punti in più della media delle ultime affluenze italiane.
Poiché la SPD perde 5 punti secchi, ma Die Linke e Grünen avanzano di pochissimo, mentre i Liberali guadagnano 5,6 punti, non è tanto al travaso di voti, -8 per cento, persi dal partito della Kanzlerin, che guarderei. Mi chiederei piuttosto dove stanno andando e perchè, in tutta Europa, milioni di elettori che fino almeno a un decennio addietro votavano o avrebbero votato a sinistra.
Forse anche l’album di famiglia andrebbe rivisitato.
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Pensiero fuori sacco (lo so, avevo già chiuso la giornata FB, ma questa non riesco a tenermela).
Si possono fare molti confronti tra la politica tedesca e quella italiana e temo che li perderemmo tutti.
Tuttavia una cosa cava gli occhi: non dico la Cancelliera Merkel, ma neppure alcuno dei suoi ministri, democratico-cristiani o socialdemocratici, si è manco sognato di andare, come un Minniti qualsiasi, a cercare e a ottenere applausi a una festa di neofascisti.
Se hanno perso voti per questa ragione, li hanno persi con onore.
I neo-nazi in Germania non governeranno, comunque.
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Di Maio? Una scelta accettabile
26 Settembre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Gli Editoriali di Aladinews.
Lettere sull’innovazione. Il numero chiuso all’università
23 settembre 2017, a cura di Luca De Biase
di Tomaso Patarnello, Prorettore Università di Padova.
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Ero straniero
Continua la raccolta firme di “Ero straniero”: una legge di iniziativa popolare per superare la Bossi-Fini e vincere la sfida dell’immigrazione, puntando su accoglienza, lavoro e inclusione. Occorrono 50.000 firme e l’obiettivo è vicino. Eddyburg e Aladinews invitano chi non l’abbia ancora fatto a dare la propria adesione. Dal 25 settembre all’1 ottobre si firma in tutta Italia: scopri il tavolo più vicino! https://it-it.facebook.com/lumanitachefabene/ .
Rivisitare il saggio di Benedetto Croce. PERCHÉ NON POSSIAMO DIRCI CRISTIANI SENZA IL CRISTIANESIMO
Rivisitare il saggio di Croce
PERCHÉ NON POSSIAMO DIRCI CRISTIANI SENZA IL CRISTIANESIMO
L’operazione crociana, infondata ieri, non è riproponibile oggi. Comincia invece un tempo in cui le Chiese e le fedi, liberate dall’abbraccio col potere, possono ripartire dai poveri e curare le ferite di un’umanità dolente
di Raniero La Valle
Pubblichiamo il discorso tenuto da Raniero La Valle il 9 giugno scorso alla Facoltà teologica di Cagliari, nel quadro di una iniziativa promossa dal MEIC volta a una rivisitazione del saggio di Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani” (ripreso da chiesadituttichiesadeipoveri).
“Perché non possiamo non dirci cristiani” è il titolo di un famoso saggio di Benedetto Croce, che è una specie di patriarca della cultura italiana del Novecento. Il saggio uscì per la prima volta su “La Critica” del 20 novembre 1942, e poi fu ripubblicato più volte.
Il titolo, più ancora del saggio, ha fatto storia, perché si presenta come il biglietto da visita di una civiltà intera: è la civiltà europea di cui Croce si sente espressione e interprete che rivendica per sé il nome di cristiana. Ma è un biglietto da visita fuorviante, che esprime piuttosto una vanteria che un’identità; ed è una vanteria altamente mistificatoria e profondamente non vera; essa però è stata tanto ripetuta come se fosse ovvia, da diventare un luogo comune. Con la secolarizzazione questo luogo comune è caduto in disuso, però non manca chi ancora vi fa ricorso per certe battaglie politiche identitarie come quelle oggi in voga contro immigrati, stranieri e musulmani.
L’equivoco della formula crociana consiste nel travisamento del suo oggetto: ciò di cui parla è infatti un cristianesimo senza Vangelo, una cristianità senza cristianesimo e, si può aggiungere, un cristianesimo nonostante la Chiesa. Il Dio di questo cristianesimo, dice Croce, non è Zeus, né Jahvè, né il Wodan del paganesimo germanico (che Croce cita perché nel ’42 aveva a che fare con Hitler); ma con ogni evidenza non è nemmeno il Dio di Gesù. Perciò un cristianesimo senza Cristo. Croce parla quindi di ciò che non conosce. Lo coglie nella storia degli effetti, ma non ne riconosce l’essenza, non ne capisce le cause. Negli effetti il cristianesimo gli appare straordinario. È stato, egli dice, la più grande rivoluzione nella storia dell’umanità, tale che di un’altra religione o rivelazione come questa non si sa se mai potrà essercene un’altra pari o maggiore; in ogni caso non se ne vede ora il minimo barlume. È stata una rivoluzione senza eguali perché ha operato nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e consiste in sostanza nella scoperta della congiunzione dell’umano e del divino nell’uomo. Ed è vero: senonché di questo Croce nega la causa e l’origine; sì, all’origine ci sono Gesù, Paolo, Giovanni, ma Dio non c’è, se non come un nuovo concetto pensato dall’uomo. È un Dio nuovo, non più immobile e inerte, che però non è altro dal mondo, non si dà come miracolo, bensì è un parto della storia, dice Croce; e non è mistero ma è visibile; non visibile all’occhio della logica astratta e intellettualistica, ma all’occhio della “logica concreta”.
Questo cristianesimo al netto del Dio di Gesù Cristo ha prodotto eventi storici straordinari. Ma Croce distingue un prima e un dopo. C’è una prima fase – dopo quella della Chiesa nascente – che è il periodo trionfante della Chiesa, che foggia se stessa fissando il suo impianto dogmatico e organizzativo; questa Chiesa, ben piantata dopo le leggi di Costantino e di Teodosio, fino al Medio Evo e agli inizi dell’età moderna passa di successo in successo. Quello che Croce descrive non è però il cammino della Chiesa, è piuttosto l’ascesa della cristianità. La cristianità, come la definiamo oggi, è quel mondo dominato dalla Chiesa che a partire da Costantino si costruisce come un sistema totale che unisce religione, cultura, politica e istituzioni in una identità storica che si contrappone alle altre identità storiche. E qui l’entusiasmo crociano mette all’attivo della Chiesa cristiana cattolica molte cose: ci mette la lotta alle eresie, la ripresa dei fasti dell’impero romano, il “cristianizzamento e romanizzamento e incivilimento dei germani e di altri barbari”, la “difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea”; ma ancora di più, Croce giunge a riconoscere che ”a giusto titolo la Chiesa affermò il suo diritto di dominio sul mondo intero, quali che nel fatto fossero sovente le perversioni o le inversioni di questo diritto”. Più di questo non si potrebbe concedere. Né a togliere merito a questa Chiesa valgono, secondo Croce, le accuse che le furono fatte per “la corruttela dei suoi papi, del suo clero e dei suoi frati”, perché corruttela c’è in ogni organismo; del resto quelli che Croce chiama “i suoi errori accidentali e superficiali” non impedirono alla Chiesa – egli dice – di riportare “i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo Mondo”.
E questa è la prima fase come descritta dal filosofo. Ma a partire da lì c’è un dopo, c’è l’era della modernità con cui la Chiesa di Roma entra in conflitto e che nell’Ottocento condannerà in blocco nel Sillabo. E qui Croce opera un transfert della rappresentatività cristiana che dalla Chiesa, rimasta irretita nell’assetto dogmatico fissato dal Concilio di Trento, sarebbe passata “ai continuatori effettivi dell’opera religiosa del cristianesimo”, che ne sarebbero stati i veri interpreti, anche se affetti da “talune parvenze anticristiane” o addirittura fuori del cristianesimo e della Chiesa, ma “tanto più intensamente cristiani perché liberi”. E l’elenco è lungo. Ci sono gli uomini dell’Umanesimo e del Rinascimento, della Riforma e dell’Illuminismo, della rivoluzione francese, del diritto naturale, della scienza moderna, della filosofia dello Spirito (fino a Hegel) e del liberalismo. Per la Chiesa era blasfemo chiamarli cristiani, e invece sono proprio loro, rivendica Benedetto Croce, che non possono non dirsi cristiani.
E qui si pone un problema di discernimento anche per noi. Perché è vero che nei confronti degli uomini e delle donne dell’ illuminismo e della modernità c’è una riparazione da fare e una vulgata da correggere; infatti moltissimi di loro che la Chiesa di Roma ha disconosciuto come cristiani, cristiani lo erano, molti addirittura teologi o pastori. In questo senso il rinominarli come cristiani da parte di Croce è storicamente fondato.
Tuttavia Croce, avendo staccato l’albero dalle sue radici, la cristianità dal cristianesimo, e la religione dal mistero, ha perso la capacità di vedere dove sta o cade il potersi dire cristiani, ha perso la capacità di vedere il punto in cui il cristianesimo si rovescia nel suo contrario, e ciò che si dice cristiano, perfino nella Chiesa, non lo è più o non lo è mai stato. E, solo per fare un esempio, è Croce stesso che ci fa vedere come Hegel non possa dirsi cristiano, e come lui stesso non possa dirsi cristiano, quando ambedue parlano degli indiani “scoperti” in America in termini seccamente razzisti ed opposti al Vangelo, come di non uomini, quasi animali, ripugnanti allo spirito europeo.
È un’osservazione questa più volte fatta dal filosofo del diritto Luigi Ferrajoli a proposito della conquista dell’America. Egli cita Hegel, che in Lezioni sulla filosofia della storia, (1837, La Nuova Italia, Firenze 1975), «fornisce di questi popoli una rappresentazione apertamente razzista: “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gl’indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea” (p. 222). Ciò dipende, dice Hegel, dall’”inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, persino quanto a statura” (ivi, p.224), analoga del resto a quella della “fauna americana”, i cui “leoni, tigri, coccodrilli… hanno bensì una somiglianza con le specie corrispondenti del Vecchio Mondo, ma sono sotto ogni aspetto più piccoli, deboli, meno potenti” (ivi, pp.222‑223). Per questo, conclude Hegel, “gli abitanti delle isole delle Indie occidentali sono estinti” e “le stirpi dell’America del Nord in parte sono scomparse, in parte si sono ritirate, al contatto con gli Europei” (ivi, p.223): per la loro “costituzione debole, tendono a scomparire al contatto di popoli più civilizzati, di cultura più intensa” (ivi, p.223)». Così scriveva Hegel. Ma poi arriva Croce: «Purtroppo – dice Ferrajoli – questa immagine delle stirpi dell’America del Nord che “scompaiono” e “si ritirano al contatto con gli Europei” piacque al nostro Benedetto Croce, che la riprese con accenti altrettanto razzisti: gli uomini, egli dice, si distinguono “tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura (Naturvölker), uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini, vietandosi la crudeltà che è colpa contro ogni forma di vita, ma lasciando altresì che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà, da loro insopportabile. Si tenta certamente dapprima, e ci si sforza, di svegliarli ad uomini, mercé delle conversioni religiose, della dura disciplina, della paziente educazione ed istruzione, e di stimoli e castighi politici, che è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi. Ma se questo, e finché questo, non vien fatto, in qual modo si può avere comuni ricordi e sentimenti con loro, che si ostinano a non entrare nella storia, la quale è lotta di libertà? E purtroppo questi repugnanti, questi inconvertibili, s’incontrano anche frammezzo alle nostre società civili, né aveva tutti i torti Cesare Lombroso quando formava la classe dei ‘delinquenti nati’ o ‘di natura’, incarcerati o messi a morte per la necessaria difesa sociale” (Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949, pp. 247‑248)».
Queste non sono certo parole cristiane. Ora questa operazione crociana di una cristianità senza il mistero di Dio e senza il vangelo era sbagliata ieri e sarebbe improponibile oggi; perché quando con la perdita del potere temporale e con la secolarizzazione questa cristianità è finita, non sarebbe rimasto più niente del cristianesimo se nella sua tradizione non si fosse conservata la traccia delle origini e se Dio non avesse continuato ad essere evocato nella sua parola e presente nel suo popolo. Invece è proprio questo miracolo, ignorato da Croce, del Cristo vissuto come Risorto e dello Spirito inviato da lui che ha permesso il rinnovamento della Chiesa del Novecento, dal Concilio Vaticano II a papa Francesco, portandoci alla soglia di un’epoca nuova.
È finito il regime di cristianità
E veniamo così al tempo di oggi. Abbandonata la presunzione del “non possiamo non dirci cristiani”, che oggi sarebbe l’alibi di un conservatorismo tradizionalista e di un settarismo identitario, dobbiamo interrogarci più a fondo sulla fase critica che stiamo vivendo.
Credo che bisogna partire dal chiedersi qual è il significato del pontificato di papa Francesco, che è la vera grande novità del terzo millennio appena iniziato, e che è la vera risposta e la vera alternativa alla via senza uscita teorizzata da Croce.
Che cosa sta succedendo con papa Francesco?
Succede che il papato romano riconosce e proclama lui stesso che è finito il regime di cristianità, cioè appunto quel modo di essere del cristianesimo nella storia che Benedetto Croce aveva esaltato come una ideologia e come un potere terreno. Già col Concilio Vaticano II questa ideologia era stata considerata decaduta, ma ancora non ne erano state tratte tutte le conseguenze, e questa è una delle cause non ultime per cui per cinquant’anni è stata così difficile la ricezione e l’attuazione del Concilio nella Chiesa. Ma col pontificato di papa Francesco questo passaggio avviene nel modo più esplicito; e la data in cui si può simbolicamente fissare questa svolta è il 6 maggio dell’anno scorso (2016) quando il papa incontrò a Roma i leaders europei per ricevere il premio Carlo Magno, il premio cioè intitolato al re che è il simbolo supremo dell’impero cristiano.
Secondo l’interpretazione che autorevolmente ne ha dato la Civiltà Cattolica, in quella occasione papa Francesco ha celebrato e sancito la fine del regime di cristianità, cioè di quel processo che supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra, e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena. Simbolicamente quel giorno Francesco ha ritirato la corona che nella notte di Natale dell’anno 800 in San Pietro il papa Leone III aveva messo sulla testa dell’imperatore, non per riprendere in mano il potere, ma per rimetterlo al suo posto, là dove il potere nasce, nel popolo, per restituirlo a Cesare, per sottoporlo al diritto, per affidarlo all’autonomia ma anche alla suprema responsabilità della politica.
Con questo gesto la Chiesa rinunziava a porsi come erede di un’Europa o di un Occidente la cui pretesa fosse di non poter non dirsi cristiani. Del resto in un severo discorso al Parlamento di Strasburgo il 25 novembre 2014 il papa aveva messo in discussione l’identità cristiana dell’Europa. Aveva detto come in un mondo sempre più globale e perciò meno eurocentrico l’Europa apparisse sempre più invecchiata e compressa; aveva osservato come neppure in Europa fossero mancate nel corso dei secoli molteplici violenze e discriminazioni contro la dignità umana, e come anche oggi persistano fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti che possono essere buttati via quando non servono più perché diventati deboli, malati o vecchi; aveva rivendicato la concezione dell’uomo come essere sociale, ben fondata nel pensiero europeo, ma oggi a rischio di perdersi nell’individualismo, sicché una delle malattie più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami, come si vede particolarmente negli anziani spesso abbandonati, nei giovani senza futuro, nei poveri che numerosi popolano le nostre città, negli occhi smarriti dei migranti venuti qui a cercare un migliore futuro; aveva aggiunto come da più parti si avvertisse un’impressione generale di stanchezza e di invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vitale, per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembravano aver perso forza attrattiva.
Nel discorso per il premio Carlo Magno il papa riprendeva poi questi concetti parlando di un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice, un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società, generando processi piuttosto che proteggere spazi (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 223); ed esclamava: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”. E quanto alla Chiesa diceva che il suo compito era l’annuncio del Vangelo, “che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo” (dunque non un regno, ma un ospedale da campo!). “Dio – aggiungeva – desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che siano toccati da Lui e vivano il Vangelo senza cercare altro”: senza cercare altro. E pochi giorni dopo, il 9 maggio, il papa stesso in un’intervista al quotidiano francese La Croix, dava l’interpretazione autentica di quanto stava avvenendo. Egli spiegava che Chiesa ed Europa sono due entità diverse; per questo lui non parla di radici cristiane dell’Europa, perché teme il tono con cui se ne parla, che può essere trionfalista o vendicativo. Il rapporto della Chiesa con l’Europa consiste nella lavanda dei piedi, cioè nel servizio. “Il dovere del cristianesimo per l’Europa – ha detto il papa – è il servizio”. E qui ha fatto una citazione che è un po’ la chiave di volta per mettere in chiaro il suo pensiero, ha citato il gesuita Erich Przyvara, “grande maestro di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar”, il quale ha scritto che “l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita”. Tradotto, vuol dire che l’Europa cammina nella storia e la Chiesa le lava i piedi e le dona la vita.
Dunque, nella visione di papa Francesco, non c’è più una cristianità da rivendicare, né un’Europa di cui esaltare la continuità con le radici. Si riparte invece dalla situazione originaria del Vangelo. Questa è la novità. Ed è in forza di ciò che, parlando all’ONU, per la prima volta il papa ha proclamato “il dominio incontrastato del diritto”, e ha rivendicato, d’accordo con le Costituzioni moderne, la divisione e la limitazione dei poteri, E questa è una liberazione anche per la Chiesa che, non più compromessa col potere, può tornare dai poveri, sempre dominati dal potere; e pertanto è una Chiesa che non si identifica più con la società tutta, ma si riconosce solo come una parte di essa, e per questo le può fare da ospedale e, come distinta da lei, le può offrire misericordia. E può anche riconoscerla nelle sue diversità: perché le radici sono tante e la gloria dell’Europa è proprio quella di averle accolte, integrate e fatte crescere e fortificare insieme, sia che fossero cattoliche, o di altre Chiese cristiane, o non cristiane
Non si deve pensare però che l’uscita dal sistema di cristianità sia un processo facile e comporti solo una rinuncia al potere temporale della Chiesa. Uscire dal regime di cristianità vuol dire anche correggere le dottrine dipendenti da quella teologia. Per questo il papa è oggi duramente attaccato, anche in casa sua. È chiaro ad esempio che la dottrina del Grande Inquisitore, immortalata da Dostoewskij (i miracoli in cambio della libertà), deve essere abbandonata. Ma non solo. Lo stesso papa Benedetto XVI ha dato a suo tempo nelle sue omelie una lettura diversa da quella tradizionale sul peccato originale, e più di recente, già papa emerito, ha definito “in sé del tutto errata” la teoria anselmiana del sacrificio del Figlio inteso come riparazione pretesa dal Padre per l’offesa ricevuta a causa del peccato dell’uomo. Una teologia durata per secoli che si dichiara oggi del tutto errata. E una nuova immagine di Dio è stata affermata dalla Commissione Teologica Internazionale quando ha detto che il cristianesimo ha preso definitivo congedo da ogni idea di un Dio violento e vendicatore. Tuttavia l’aggiornamento dottrinale è un processo difficile. Si è visto come sia stato difficile nel caso del matrimonio e come è difficile correggere le dottrine che contrastano con la misericordia, parola pressoché assente in tutto il magistero pontificio dell’800 e del primo ‘900, fino a quando è stata assunta come nuova opzione della Chiesa nel discorso di inaugurazione del Concilio di Giovanni XXIII.
Il significato del pontificato di Francesco
E allora si può capire la portata della svolta che consiste nell’uscire dalla cristianità per far vivere il cristianesimo. Essa significa riconoscere fino in fondo che la Chiesa non è il cristianesimo realizzato, come il socialismo reale, ne è solo il segno e lo strumento, come dice il Concilio; non è la società umana trasformata in regno di Dio, è invece quella che, spoglia del potere, con forza profetica dice al potere che il re è nudo, che l’economia uccide, che il denaro domina e che l’umanità per nessuna ragione, né politica, né economica, né religiosa può essere divisa in eletti e scartati.
Uscire dal regime di cristianità comporta perciò una comprensione più avanzata di che cosa significhi la signoria di Dio e il regno di Dio annunciato come vicino.
Ed ecco allora che il complesso di queste circostanze ci porta a chiederci che cosa sta succedendo nella storia della salvezza, e se oggi sulla scia della novità intervenuta col pontificato di Francesco, non si possa presagire l’avvento di un’epoca nuova, a partire da un nuovo annunzio di Dio. È questa l’ipotesi che è stata messa a tema dai gruppi ecclesiali che si riconoscono nel movimento e nel sito che in occasione dei cinquant’anni dal Concilio ha preso il nome di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. A tal fine essi hanno promosso un’Assemblea nazionale a Roma per Il prossimo 2 dicembre che avrà come tema: “Ma viene un tempo ed è questo”
L’idea che ispira questa iniziativa è che il tempo non si è fermato, che il progresso storico non è ricacciato indietro dalla tempesta della crisi e che, nonostante tutto, viene un tempo nuovo ed è questo (sempre se gli lasciamo aperto anche un piccolo varco per il quale possa entrare).
“Ma viene un tempo ed è questo” è una citazione delle parole di Gesù alla Samaritana nel vangelo di Giovanni, quando accanto al pozzo di Giacobbe, a Sicar, Gesù dice alla donna straniera (e perciò lo dice a tutte le genti): “verrà un tempo ed è questo, in cui né a Gerusalemme nè su un altro monte adorerete Dio, ma adorerete il Padre in spirito e verità”. Era quello l’annunzio messianico di un nuovo tempo della storia della salvezza. Non a caso ciò avveniva a Sicar, proprio lì dove Giosuè aveva proposto al popolo uscito dall’Egitto di servire non altri dii o idoli, ma il Dio di Israele, stabilendo così l’alleanza di Sichem. Gesù, molti secoli dopo nello stesso luogo propone una nuova alleanza di tutte le genti, e forse di tutte le religioni, per adorare il Padre in spirito e verità.
È proprio il pontificato di papa Francesco che fa pensare a questo nuovo tempo che viene. Egli ha rimesso nel cuore della Chiesa il tema messianico. Aprendo ogni giorno il vangelo al popolo, egli ha ristabilito un continuo rimando, che si era perduto, dal Messia al Padre, ha scrostato dal volto di Dio la patina di errate dottrine onde si credeva di rendergli onore, ha annunciato un Dio non violento ed è arrivato a proporre la non violenza come stile radicale di vita agli uomini e agli ordinamenti. In tal modo egli si è ricongiunto al grande tema messianico di Isaia e di Michea delle lanci trasformate in falci, oltrepassando i confini della Chiesa istituita e mettendo la misericordia, contro i falsi messianismi, al centro della storia del mondo e della salvaguardia del creato.
Sicché noi oggi possiamo di nuovo idealmente andare a Sicar, per incontrarci e dare effettività alla seconda alleanza promossa da Gesù al pozzo di Giacobbe. E possiamo sognare ed avere visioni.
E prima di tutto possiamo sperare (e operare perché accada) che a partire da Sicar si ristabilisca la comunione tra ebrei e samaritani, che oggi si chiamano palestinesi, e quindi la pace tra Israele e Palestina; e poi che a partire dal Padre adorato in spirito e verità, si realizzi l’incontro e la comunione tra cristianesimo e Islam, e tra le religioni abramitiche e tutte le religioni i popoli le lingue e le culture della terra.
E ciò è necessario oggi, quando tutto è diventato globale, ma ciò che non è globale, ciò che non è stato messo in comune è lo spirito di cui vive il mondo; non sono patrimonio comune la giustizia e il diritto, la condiscendenza e l’accoglienza, i saperi e gli aneliti, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
In questa contraddizione c’è l’alternativa tra l’epoca nuova e la catastrofe.
Perché questa alternativa possa risolversi per il bene, occorre che le religioni si convertano. Non basta che la conversione sia del cristianesimo (dove pure recalcitra), occorre che sia di tutte le religioni. Non si tratta solo di dialogo, ma di una nuova creazione. Il Dio nonviolento non è solo il Dio inedito ora annunciato dalla Chiesa, è il Dio nascosto da portare alla luce in ogni religione o fede teista; la lettura storico-critica e sapienziale delle Scritture non deve essere solo della Bibbia, ma deve esserlo del Corano e di ogni testo sacro; il discernimento tra il Dio dell’ira e della vendetta e il Dio della misericordia e del perdono deve essere non solo dei battezzati, ma dei confessanti di ogni fede, pur ciascuno restando un tassello del poliedro.
Questo sembra il tempo nuovo che non solo la Chiesa ripartita dal Concilio e fatta scendere in strada da Francesco, ma tutti noi abbiamo oggi il compito di annunciare e di far accadere.
Raniero La Valle
Cagliari, 9 giugno 2017, Facoltà Teologica
Oggi lunedì 25 settembre 2017
Verso il Convegno sul lavoro a Cagliari
Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
Su Democraziaoggi.
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- La pagina fb dell’evento.
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La Catalogna si proietta in una dimensione statuale nel momento di massima crisi degli stati nazionali
di Franco Mannoni
By sardegnasoprattutto/ 23 settembre 2017/ Società & Politica/
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Contro la violenza sulle donne più scuola, più cultura
25 Settembre 2017
Gianna Lai su Democraziaoggi.
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“Il capitale naturale ci renderebbe ricchi. Ma lo ignoriamo”
di ANTONELLO CAPORALE
“Il capitale naturale ci renderebbe ricchi. Ma lo ignoriamo” il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2017. «Quanto vale un bosco, un ruscello, l’aria pulita? “Il nostro benessere: lo insegna la contabilità ambientale”». (p.d.), ripreso da eddyburg e da aladinews.
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25 Settembre 2017
Alle origini dell’esodo mediterraneo
di LORENZO GIARELLI
Alle origini dell’esodo mediterraneo. il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Da cosa scappano le migliaia di migranti che da anni rischiano la vita per raggiungere l’Italia». E non sono nemmeno considerate le cause economiche e quelle ambientali. (p.d.)
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SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2017-ACCOGLIENZA ITALIA
“I migranti non si fermano, accoglierli è inevitabile”
di ROBERTA ZUNINI
il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Manlio Graziano: “Aiutarli a casa loro non è la soluzione, anzi: favorisce l’espulsione dei contadini dalle campagne, che è causa degli spostamenti”». (p.d.)
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SISTEMI DI VOTO
Una nuova legge elettorale che non sia fatta per i partiti
di Stefano Passigli
La proposta che ha presentato il Pd non risolve né il problema della governabilità, né tantomeno quello della rappresentatività del Parlamento. Sul Corriere della Sera online, ripreso da aladinews.
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Università: contro il numero chiuso
Lettere sull’innovazione. Il numero chiuso all’università
23 settembre 2017
a cura di Luca De Biase
di Tomaso Patarnello
Prorettore Università di Padova
Qualche giorno fa il Tar del Lazio ha bocciato il numero chiuso che l’Università statale di Milano aveva introdotto per le facoltà umanistiche. Questa battaglia vinta dagli studenti mette in evidenza un sostanziale corto circuito, un conflitto tra diritto allo studio e qualità della didattica. Tutto nasce dall’introduzione, nel 2013, dei così detti “requisiti minimi”, requisiti che un corso di laurea deve avere per poter essere “accreditato” dal Ministero, per poter cioè essere approvato. Tra i requisiti minimi per le lauree triennali viene stabilito un rapporto di almeno 9 docenti ogni 50 studenti se si tratta di lauree sanitarie, 75 per le lauree tecnico-scientifiche e 100 per le lauree umanistiche-sociali. Se gli studenti sono al di sopra della soglia sono necessari proporzionalmente più docenti. I docenti “validi” possono essere solo quelli di ruolo e, cosa molto importante, ogni docente può essere conteggiato in un solo corso di laurea anche se insegna in due (o più) corsi di laurea. Se queste condizioni (ed altre) non vengono rispettate i corsi vengono chiusi. Tutto ciò secondo il principio per cui in classi troppo numerose non può essere garantita la qualità della didattica. Condivisibile, ma il risultato di questa scelta è che il numero di corsi di laurea ed il numero di studenti che vi possono accedere è limitato dalla disponibilità di docenti. Ed è la ragione per la quale l’Università di Milano (e molte altre) hanno dovuto imporre il numero chiuso a quasi tutte le lauree, soprattutto triennali, dovendo escludere attraverso i test di ingresso migliaia di ragazzi a cui di fatto viene negato il diritto allo studio. La soluzione sarebbe semplice. Aumentare il numero di docenti. Peccato che, a partire dalla famigerata Legge Gelmini (legge del 30 dicembre 2010, n. 240) è cominciato un deliberato programma di tagli ai fondi di finanziamento ordinario (FFO) delle università che ha portato ad una riduzione, in 7 anni, di oltre il 30% dei professori universitari e, complessivamente, al taglio dell’FFO di più di 3 miliardi di euro.
L’Italia è tra i paesi europei con il minor numero di laureati e non è difficile capire che se rimane anche tra gli ultimi nella classifica europea per il finanziamento alle università e alla ricerca questo paese è destinato ad un inesorabile declino. Non possiamo e non dobbiamo competere con i paesi emergenti sul basso costo della manodopera. Saremo sempre perdenti ed è un gioco al ribasso, al massacro delle fasce più deboli. Dobbiamo puntare sul “valore aggiunto” della conoscenza e dell’innovazione. Dobbiamo, cioè, fare l’esatto opposto di quello che abbiamo fatto finora, dobbiamo investire sulle università e sulla formazione qualificata. I paesi più avanzati come Stati Uniti e Germania lo hanno già fatto raddoppiando il finanziamento alla ricerca e alle Università e lo hanno fatto nel momento più difficile, all’inizio della crisi del 2007/2008. Una scelta del genere è obbligata, vitale per un paese come il nostro che non ha materie prime ed è fondamentalmente un paese trasformatore. In queste condizioni il capitale umano è l’unica vera ricchezza. Non ci mancano certamente creatività e idee, quello che ci manca sono i mezzi per svilupparle con finanziamenti adeguati.
Qualcuno potrebbe pensare che didattica e diritto allo studio c’entrano poco o niente con gli investimenti in ricerca e innovazione. Niente di più sbagliato. Ricerca e formazione sono indissolubilmente legate. Non si può fare buona didattica se non si fa buona ricerca. Potenziare l’una significa potenziare anche l’altra. Bisognerebbe avviare un piano di reclutamento per recuperare (almeno) i docenti che l’Università ha perso negli ultimi anni. Un piano basato sul merito che valorizzi i nostri tantissimi giovani brillanti ai quali offrire l’opportunità di contribuire alla rinascita dell’Italia. Sono ragazzi che abbiamo formato con risorse pubbliche (un laureato, magari anche con il dottorato, costa allo Stato tra i 100 e i 300 mila euro) e che “regaliamo” ai nostri concorrenti, in primis, USA, UK e Germania. Aumentare il corpo docente delle università non significa solo potenziare la ricerca per essere più competitivi nel marcato globale della conoscenza, ma significa anche essere in grado di trasferire più efficacemente questa conoscenza ai più giovani. A tutti e non solo ad alcuni.
Se anche il numero di docenti non fosse un fattore limitante, una delle principali preoccupazioni legate alla rimozione dei numeri chiusi è quella di creare schiere di laureati disoccupati. Questo è una preoccupazione legittima ma il problema non è limitare il numero di laureati, il problema è aumentare il numero di occupati con la laurea. Il mercato del lavoro, quel poco che c’è oggi in Italia, è orientato a figure poco qualificate sulle quali poter fare politiche di basso salario. I nostri piccoli e medi imprenditori che rappresentato più del 90% del tessuto produttivo italiano vedono un laureato come un costo non come una risorsa. Bisogna ribaltare questa logica, cambiare la mentalità soprattutto delle piccole imprese – la gran parte a carattere familiare – in cui il “paron” è spesso un ex operaio che si è messo in proprio ma facendo esattamente quello che faceva prima con poca o nessuna innovazione. Questo poteva funzionare quando il marcato “tirava”. Oggi non funziona più. Oggi l’innovazione è l’arma vincente. L’innovazione si può avere solo con una università viva, con una ricerca all’avanguardia e con una formazione universitaria qualificata e accessibile ai più. Altrimenti il destino del nostro paese è segnato come lo è quello dei nostri giovani che, per dirla con Dutch Nazari giovane e brillante cantautore rapper, rischiano di diventare “una generazione cresciuta con la mentalità da ricchi ed il futuro già scritto da straccioni”.
Tomaso Patarnello
Prorettore Università di Padova
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Caro Patarnello
Non è possibile non vedere l’importanza di quanto scrive. Nell’epoca della conoscenza l’investimento fondamentale è quello che una società dedica al suo “capitale umano”, con la ricerca e la formazione. Se questo non lo capisce, la società declina. Ma se poi quella società introduce leggi il cui effetto principale è impedire un aumento della popolazione universitaria per motivi essenzialmente demagogici e per pregiudizi anti-accademici, allora quella società si dimostra non solo declinante ma anche autolesionista.
Luca De Biase
Rubrica pubblicata sul Sole 24 Ore il 23 settembre 2017
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Per correlazione
- Università in declino?
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- Un po’ di creatività, signori professori!
Oggi domenica 24 settembre 2017
Verso il Convegno sul lavoro a Cagliari
Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
Su Democraziaoggi.
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- La pagina fb dell’evento.
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Catalogna, il rischio balcanico
24 Settembre 2017
Tommaso Di Francesco, su Il Manifesto del 22.9.2017, ripreso da Democraziaoggi.
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Gli Editoriali di Aladinews. Nicolò Migheli e Massimo Dadea sulla Catalogna.
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domenica 24 settembre 2017
SOCIETÀ E POLITICA » LIBRI SEGNALATI
Ora ridateci la verità
di WLODEK GOLDKORN
la Repubblica, 24 settembre 2017, ripreso da eddyburg e da aladinews. «Noam Chomsky parla del suo ultimo libro e dei disastri causati dal neo-liberalismo e dal postmoderno “Gli intellettuali devono resistere contro le false realtà create dal potere”» (c.m.c)
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La condizione della Sardegna è molto simile a quella della Catalogna. Ed allora, senza aspettare l’indizione di un referendum che chiami i cittadini a pronunciarsi sul diritto alla autodeterminazione della Sardegna, sarebbe opportuno che a Cagliari come a Roma, e a Bruxelles, si iniziasse a pensare a come dare concretamente voce ai bisogni di autodeterminazione e di autogoverno dei sardi.
Ora dar voce al diritto di autodeterminazione dei sardi
di Massimo Dadea
Quanto sta accadendo a Barcellona dovrebbe far riflettere. A Cagliari come a Roma, e a Bruxelles.
Al di là di una solidarietà a poco prezzo dispensata a piene mani al popolo catalano. E’ innegabile che la società sarda sia percorsa da un bisogno, sia pure generico ed indistinto, di autodeterminazione.
L’idea che i sardi possano prendere nelle proprie mani le sorti del loro destino è più diffusa di quanto si creda. Già qualche anno fa, una ricerca condotta dall’Università di Cagliari, in collaborazione con quella di Edimburgo, aveva evidenziato dei risultati sorprendenti: i sardi si sentono più sardi che italiani, nove cittadini su dieci vorrebbero un governo locale con maggiori poteri, ma soprattutto il 40 per cento degli intervistati si spingeva a sognare l’indipendenza.
A distanza di qualche anno quella percentuale era già cresciuta di cinque punti. Infatti un sondaggio Demos- La Repubblica aveva attribuito alla Sardegna un “indice di indipendentismo” del 45 per cento.
Per decenni, la parola autodeterminazione è stata considerata un tabù intoccabile, frutto di una paura ancestrale che, nell’immaginario di molti, si materializzava nella amputazione del cordone ombelicale che lega la Sardegna alla “madre patria”.
Quasi che dietro questa parola si nascondesse la volontà di cingere l’isola di filo spinato. Un ripiegarsi inconcludente su se stessi, uno scudo che potesse metterci al riparo da una modernità aggressiva ed omologante: una separatezza non dialogante, boriosa ed arrogante.
Oggi il diritto all’autodeterminazione, in Sardegna come in Catalogna, è concepito come uno strumento per poter decidere in piena libertà, nel solo interesse dei sardi e dei catalani. Così come non fa più scalpore appellarsi al “popolo sardo”. Infatti i sardi, come i catalani, sono un popolo. Un popolo è tale se si riconosce ad esso una identità peculiare, distinta.
L’identità di un popolo è la sua storia, le sue tradizioni, la sua arte, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo essere un’isola “distante”.
Tutto questo fa di quel popolo una comunità distinta, portatrice di diritti particolari. In tutti questi anni è cresciuta la consapevolezza della inadeguatezza del patto costituzionale che lega la Sardegna all’Italia. Cosa rimane dell’Autonomia speciale? Poco o niente: una scatola vuota, priva di poteri.
L’autonomia è finita, tuona da qualche anno, inascoltato, Pietrino Soddu. Quel patto è stato disatteso e disconosciuto per primo da uno dei contraenti, lo Stato italiano. Sarebbe però sbagliato se attribuissimo tutte le colpe ad uno Stato patrigno. Molte e gravi sono le nostre responsabilità. Non solo perché la classe politica dirigente sarda non è stata capace di utilizzare a pieno tutte le potenzialità dello Statuto di Autonomia.
Ma, sopratutto, perché l’Autonomia è stata intesa, sin dall’inizio, come una rivendicazione economico-sociale. Quella che lo storico Giangiacomo Ortu definisce “Autonomia illusoria”: l’illusione di un riscatto concepito solo in termini economici. Niente a che vedere con una Autonomia che giustificava la sua specialità sulla identità e soggettività di un popolo che prima di essere italiano è sardo.
Per tutti questi motivi, la condizione della Sardegna è molto simile a quella della Catalogna. Ed allora, senza aspettare l’indizione di un referendum che chiami i cittadini a pronunciarsi sul diritto alla autodeterminazione della Sardegna, sarebbe opportuno che a Cagliari come a Roma, e a Bruxelles, si iniziasse a pensare a come dare concretamente voce ai bisogni di autodeterminazione e di autogoverno dei sardi.
Altrimenti, come è giusto, saranno essi stessi a deciderlo.
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Per correlazione.
L’Europa che vogliamo!
In Catalogna nasce una nuova Europa, per la sinistra è sempre il 1946.
di Nicolò Migheli, su SardegnaSoprattutto, ripreso da Aladinews.
Oggi sabato 23 settembre 2017
Verso il Convegno sul lavoro a Cagliari
Il lavoro come fondamento della Repubblica
Questo il titolo del Convegno dibattito, promosso dal Comitato d’iniziativa costituzionale e Statutaria e da Europe direct Regione Sardegna, che si terrà a Cagliari il 4-5- ottobre Hotel Regina Margherita.
Su Democraziaoggi.
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- La pagina fb dell’evento.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
Fra tavoli e piazze, dove nasce la nuova Sinistra?
di TOMASO MONTANARI
Huffington post, 20 settembre 2017, ripreso eddyburg e da aladinews. Il nodo difficile di un percorso iniziato felicemente che prosegue in moltissime piazze d’Italia. Come affrontare il momento più delicato in democrazia, la conta di chi governerà?
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Sardegna-Catalogna.
- Pigliaru, l’antiautonomismo di Rajoy è diverso da quello di Renzi?
23 Settembre 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Meno limiti al cemento sulla costa? Sardegna, scontro per la nuova legge
di GIAN ANTONIO STELLA
Meno limiti al cemento sulla costa? Sardegna, scontro per la nuova legge. Avevamo sostenuto che il presidente Pigliaru promuove scempi delle coste della sardegna che neppure il suo predecessore berlusconiano si sarebbe permesso di proporre. Chissè se la denuncia che proviene dalla grande stampa riuscirà a far ritornare Pigliaru sui suoi sciagurati passi?. Su Corriere della Sera online, ripreso da eddyburg e da aladinews.
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Gli Editoriali di Anladinews.
In Catalogna nasce una nuova Europa, per la sinistra è sempre il 1946
di Nicolò Migheli, su SardegnaSoprattutto, ripreso da Aladinews.
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