Monthly Archives: luglio 2017

Galantino (Segretario generale CEI) a Cagliari per la Summer school di dottrina sociale della Chiesa: «Una speranza per l’Europa. Un bene possibile per la città».

speranzaeuropa-cattoliciDiocesi di Cagliari
Ufficio stampa
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(COMUNICATO STAMPA) Parteciperà anche il vescovo Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana, all’annuale «Summer school» di dottrina sociale della Chiesa che si terrà a Cagliari da sabato 22 a lunedì 24 luglio p.v.
glatino-cei- segue -

Oggi lunedì 10 luglio 2017

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unknownLa nostra news non prende ferie. Tuttavia vi accompagnerà fino a metà settembre con ritmi più lenti, senza obblighi di scadenze quotidiane. Godetevi e godiamoci un periodo di rallentamento, di tempi lenti, per quanto ci è possibile. Buona estate a tutti noi e non perdiamoci di vista!
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Sardegna. Sale la febbre elettorale, tutti pensano alla legge elettorale più bella del mondo: quella della propria elezione
democraziaoggi10 Luglio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Ha ragione Antonio Padellaro, quando sul Fatto di ieri dice che ormai nell’arcipelago della sinistra (e non solo) tutti sono alla ricerca del modo per trovare un posto in lista, con possibilità di elezione. Ogni proposta e ogni sforzo vanno letti in questa chiave. La Sardegna non fa eccezione, e così tutti i movimenti […]
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eddyburgSOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-ESODOXXI
L’inviata Onu: «Sì ai flussi legali. Dare soldi ai libici non serve a nulla»

di LOUISE ARBOUR
Intervista di Fiorenza Sarzanini a Louise Arbour. Corriere della Sera, ripresa da eddyburg, 9 Luglio, 2017 (m.p.r.)
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinpensiero. Roboetica, di Pietro Greco su Rocca.

Elogio del dubbio

unknown2di Vito Mancuso, teologo.

LA SITUAZIONE DI PERPLESSITÀ DELL’UOMO DI OGGI
Nella sua lunga vita Norberto Bobbio si definì sempre lontano dalla fede, talora esplicitamente non-credente: «Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi [...]. Non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio [...]. Io non credo». In un testo particolarmente delicato però, denominato “Ultime volontà” e pubblicato sulla «Stampa» il 10 gennaio 2004 all’indomani della morte, il grande filosofo torinese giunse a scrivere: «Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi». Penso sia inevitabile avvertire un senso di incertezza, se non di confusione: come definire un uomo che dice esplicitamente di non credere, ma che al contempo rifiuta di definirsi ateo o anche solo agnostico?
La condizione di uno dei più importanti pensatori del nostro tempo sul suo rapporto con il divino è sintomatica, direbbe un medico. E cioè il sintomo di qualcosa di inconsueto rispetto alla comune fisiologia della mente: non di un errore logico, non di un’imperfezione morale, ma certamente di un’anomalia. Segnala una condizione nella quale regna la perplessità. Così veniva già descritta dai celebri versi del Faust: «Chi può confessare: io credo in lui? Chi, se appena sente, può osar di dire: in lui non credo?». La differenza è che mentre Goethe ai suoi tempi costituiva un’eccezione, la situazione di Bobbio oggi rispecchia quella di molti. La gran parte degli uomini infatti sente di non poter più credere come le generazioni precedenti hanno fatto e come ancora oggi propongono le dottrine ufficiali delle religioni istituite, ma sente al contempo di non poter rinunciare allo slancio vitale e al gusto positivo del mondo che sottostà alla dimensione religiosa che da sempre accompagna il cammino dell’umanità. La dogmatica ecclesiastica non rappresenta più la tensione spirituale dell’anima contemporanea, ma non per questo tale anima intende perdere la fiducia complessiva nella vita che la fede in un Dio custodisce e incrementa. E quindi oggi ci si sente «laici», ma allo stesso tempo non ci si sente «né atei né agnostici», se essere tali significa spegnere il sentimento di vivere «immersi nel mistero».
Il risultato qual è? Quello di ritrovarsi in una sorta di terra di nessuno, nella scomoda condizione di essere «a Dio spiacenti ed a’ nemici sui» (Inferno 111,63), come disse di me un signore al termine di una conferenza, non ricordo se con tono elogiativo o denigratorio. Ma la situazione è questa, inutile girarci attorno, bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia. «Perplessità» indicherebbe un ipotetico termometro della temperatura spirituale, paragonabile a quei fastidiosi 37 gradi che non sono ancora febbre ma nemmeno più salute. Una condizione, io penso, che non può essere vinta da nessuna predica o enciclica o grande evento mediatico, né da nessuna conferenza o esperimento o equazione; una condizione con cui imparare a convivere, da accettare quale «segno dei tempi» e da cui partire per trovare la strada giusta per procedere nella vita. Non è del resto la prima volta che l’umanità affronta una situazione del genere. (da Vito Mancuso, “Io e Dio”).

Domenica 9 luglio 2017

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democraziaoggiScuola: presidi sceriffi e inutili progettifici anzichè luogo della formazione degli allievi
9 Luglio 2017
Lucio Garofalo su Democraziaoggi
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Le scuole, da quando sono gestite da sedicenti “presidi-manager”, ovvero “presidi-sceriffi” o come si preferisce apostrofarli, che mirano ad esercitare un certo tipo di “politica”, intesa nell’accezione più ignobile e deteriore del termine, ossia nel senso di un’operazione di squallido proselitismo clientelare ad esclusivo vantaggio di sé e di […]

Tanti gli emigrati italiani quanti nell’immediato dopoguerra: oltre 250.000 l’anno

idos-colonnaconfronti news logoAnticipazioni del Dossier Statistico Immigrazione 2017 di Idos e Confronti

L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e, secondo stime, hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.
Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.
A emigrare sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati. Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.
Questi dati meritano già di per sè un’attenta considerazione anche perché ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.
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Oggi sabato 8 luglio 2017

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democraziaoggiL’immigrazione è un diritto, l’integrazione un dovere
8 Luglio 2017, su Democraziaoggi.
Angely Poullette Stefano
Paulette fa parte di Cittadinanza senza limiti un gruppo costituitosi a Maggio in occasione di Monumenti aperti con l’intento di migliorare la nostra città attraverso attività come il Bus tour e il walking tour, momento di condivisione con rifugiati di diversi centri.
Ecco cosa dice del proprio impegno. Solo attraverso una tenace […]
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la-lampada-di-aladinGli Editoriali di Aladinews. Tornano i pastori, di Francesco Casula.
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SABATO 8 LUGLIO 2017
Non è un’invasione, servono altri toni”

«Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio: “Dibattito indegno”». il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2017 (p.d.)

Lavoro. Giovani e welfare, ciò che manca al sindacato

LE RAPPRESENTANZE. IL FUTURO
Il sindacato conta meno. Dovrebbe essere un attore del welfare, presente nelle periferie e tra la gente, che chiede di avere una condizione generale di vita migliore.
37291 Intervista a BRUNO MANGHI sociologo / già direttore del Centro studi della Cisl, su Coscienza rivista del Meic, a cura di Andrea Michieli.
Giovani e welfare, ciò che manca al sindacato
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A vent’anni dalla riforma Treu, il lavoro è cambiato. La fabbrica, simbolo del lavoro nel Novecento, sembra essere sostituita dal computer, dal lavoro da casa, dalla tecnologia. Come sono cambiati il lavoro e il suo mercato con la “quarta rivoluzione industriale”?

«Abbiamo due tendenze contradditorie. La prima, massiccia, è quella secondo la quale i lavori si sono frammentati: specialmente nelle aree più sviluppate c’è stata una crescita straordinaria dei lavori autonomi di seconda generazione, legati al terziario ma anche all’industria. Questo ovviamente pone dei problemi notevoli di rappresentanza, nel senso che le esperienze associative – anche se all’inizio del sindacalismo tra Ottocento e Novecento avevano affrontato problemi simili – non erano più abituate a rappresentare lavoratori che popolavano densamente dei luoghi in maniera stabile: questo spiega come mai in Occidente il sindacalismo che tiene di più sotto il profilo numerico è il sindacalismo pubblico, perché nel comparto pubblico resta molto forte la densità del lavoro per categorie, per luoghi, per ministeri, per comuni, ecc. Invece, nel privato – sia quello terziario sia quello industriale – questo accorpamento del lavoro è più scarso. Tutto ciò pone ovunque problemi enormi sia di giustizia sia di rappresentanza: recentemente il governo polacco, pur non essendo noto per essere un governo particolarmente progressista, ha insediato una commissione per studiare come associare il lavoro autonomo e precario, perché in Polonia un terzo dei lavoratori sono autonomi o precari.
D’altra parte, in ciò che resta e si rinnova, nella manifattura e in alcuni settori del terziario, la tecnologia e la riorganizzazione del lavoro hanno consentito delle tappe forzate di “umanizzazione” del lavoro. L’industria 4.0, attraverso l’uso dei robot, delle tecnologie, dell’informatica e del lavoro in team, sta coinvolgendo i lavoratori in maniera molto più attiva che in passato. Questo nuovo lavoro ha superato o sta superando il paradigma taylorista: perciò noi abbiamo centinaia di aziende in Italia – per non parlare della Germania e della Francia – dove il lavoro in team, quello che si combina con l’utilizzo dei robot o con l’utilizzo dell’informatica, dà degli spazi di crescita professionale diffusi che erano impensabili quarant’anni fa. Ricapitolando, come dicevo, abbiamo due tendenze: una riguarda la zona del lavoro tradizionalmente rappresentabile, che si è ridotta e che il sindacalismo non sa come intercettare; l’altra non si è ridotta e in essa è in corso un miglioramento della qualità lavorativa».
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ROBOETICA. Uomo e robot una questione di responsabilità

rocca-14-2017di Pietro Greco, su Rocca

Le Forze armate della Corea del Sud, già tre anni fa, hanno dislocato uno squadrone di robot automatici in grado di individuare un nemico e colpirlo a due chilometri di distanza. Prima di sparare, per ora, i robot devono ricevere il permesso dagli uomini. Ma sarebbero già in grado di farlo da soli.
Il 5 maggio di un anno fa, l’agenzia Ansa annuncia che Smart, il primo robot chirurgo autonomo, ha debuttato con successo e ha operato sui tessuti molli senza rispondere ai comandi di un uomo.
Quello che viene vuoi dalla inquieta penisola coreana vuoi dal Children’s National Medical Centre di Washington rivela che i robot costituiscono una grande sfida per la scienza e per l’umanità. Forse la più grande. Perché ci obbligano a immaginare il futuro remoto, partendo dal presente tangibile. Perché ci invitano a pensare l’altro da noi. Perché, di conseguenza, ci impongono di guardarci allo specchio: per osservare noi stessi con più attenzione e capire come siamo fatti, fuori e, soprattutto, dentro. Perché ci costringono, semplicemente, a riflettere. Ma cosa sono, i robot?

l’era dei robot
Non è affatto semplice rispondere a questa domanda. Non a caso abbiamo chiamato a farlo, in questo libro, diverse persone, di riconosciuta competenza, di diversa estrazione culturale e con diversi interessi scientifici. Ingegneri, fisici, chimici, matematici, storici, filosofi, sociologi, antropologi, comunicatori. Tutti chiamati a descriverci le mille facce del robot. E i mille specchi in cui possiamo rifletterci. Tutti chiamati a costruire, insieme, l’era dei robot.
Un’era che è già iniziata.
E che già ci propone, a sua volta, mille domande concrete sul rapporto tra l’uomo e i robot.
E già questa voluta asimmetria (la parola uomo declinata al singolare; la parola robot declinata al plurale) è contenuta un’informazione o, almeno, una visione del mondo dei robot: qualsiasi cosa siano, i robot non sono una cosa sola. Ma una pluralità di cose. Che trova una prima espressione in una pluralità di forme.
C’è Asimo, il robot androide. E ci sono i robot industriali.
C’è il robot marziano. E il robot sottomarino.
C’è la macchina molecolare, il nanorobot. E ci sono i robot giganti.
C’è il robot chirurgo. Il robot giornalista. E c’è, anche, il robot soldato.

al posto dell’uomo
Ma procediamo con ordine. Iniziando col definire, in prima approssimazione, cosa possiamo intendere per robot. La parola deriva da robota, che in lingua ceca significa lavoro duro, pesante, forzato. L’attuale significato gli è stato attribuito da un giornalista e scrittore ceco, appunto: Karel Èapek. Nella sua opera più famosa, R.U.R (Rossum’s Universal Robots), scritta nel 1920, il giornalista e scrittore narra di un gran filosofo, il vecchio Rossum, che vuole ricostruire l’uomo, tal quale. Impiega dieci anni, usa materiale biologico e infine ci riesce. L’uomo, ricopiato tal quale dal vecchio Rossum vive solo tre giorni.
Giunge infine sulla scena il giovane Rossum, un geniale ingegnere. E chiede al vecchio zio: a che serve un uomo tal quale ricostruito in dieci anni, quando la natura ci riesce in nove mesi? A noi non serve l’uomo. A noi serve qualcuno, da costruire in tempi rapidi e a basso costo, che svolge le funzioni indesiderabili al posto dell’uomo. Uno schiavo che libera definitivamente l’uomo dalla fatica.
Ma lasciamo la parola a Karel Èapek: «Il giovane Rossum inventò l’operaio con il minor numero di bisogni. Dovette semplificarlo. Eliminò tutto quello che non serviva direttamente al lavoro. Insomma, eliminò l’uomo e fabbricò il Robot».
La parola robot, dunque, nasce nel 1920 per indicare una macchina che, come un nuovo schiavo, compie i lavori più duri e pesanti al posto dell’uomo.

la macchina evolve in robot
Già, ma qual è la differenza tra i robot del giovane Rossum e una qualsiasi macchina? Banalizzando, possiamo dire che una macchina qualsiasi aiuta l’uomo a compiere un lavoro. Un coltello aiuta l’uomo a tagliare il pane. Un’automobile aiuta l’uomo a muoversi velocemente. Un coltello se ne sta lì fermo se un uomo non lo utilizza. Un’automobile se ne sta lì ferma senza un uomo che la guida e si fa trasportare? Né il coltello né la macchina hanno senso se non c’è l’uomo. Né il coltello né la macchina agiscono «al posto dell’uomo».
Sia pure semplificato e ridotto all’essenziale, secondo la ricetta del giovane Rossum, il robot è una macchina che opera «al posto» dell’uomo e, dunque, si muove nell’ambiente con molta flessibilità e soprattutto in autonomia. Il robot è, almeno tendenzialmente, una macchina autonoma, capace di agire in maniera intelligente nell’ambiente nel quale opera.
Riassumendo. Il tagliaerba che abbiamo in giardino è una macchina che assolve la sua funzione, tagliare l’erba, se noi l’azioniamo e la guidiamo. Il robot tagliaerba è una macchina che assolve la sua funzione, tagliare l’erba del giardino, in maniera autonoma, senza che noi l’azioniamo e senza che noi la guidiamo.

Le macchine possono evolvere in robot. Basta che un coltello tagli il pane da solo, al momento giusto. O che un’automobile si muova nel traffico da sola, senza andare a sbattere e portando il passeggero (o la merce) a destinazione. Ed ecco che una macchina o comunque un artefatto è diventato un «operaio di Rossum», un robot.

da una libertà condizionata a una libertà totale
Naturalmente i gradi di libertà concessi all’operaio di Rossum possono essere molto diversi. Da una libertà molto condizionata a una libertà totale. Diciamo subito che, al momento, scienziati e ingegneri – talvolta con l’aiuto dei logici e dei filosofi – sono riusciti a costruire macchine dotate di diversi gradi di libertà. Ma non sono riusciti ancora a costruire robot con una «libertà totale». Di più: ancora non sappiamo – la possibilità, in linea di principio, è prevista da alcuni, ma negata da altri – se mai esisterà un robot dotato di «libertà totale».
Saltiamo tutti gli intermedi – peraltro già operativi – e veniamo ai robot di fine corsa: i sistemi completamente autonomi. Si tratta di macchine capaci di imparare dall’ambiente, adattarsi, evolvere e assumere decisioni. Diciamo subito che questi tipi di robot ancora non sono tra noi. Non a livello commerciale, almeno. Ma è molto probabile che lo saranno tra poco. Qualcuno avrà una forma umana (i robot androidi), altri no (per esempio i sistemi intelligenti per la gestione della casa). Molti ci aiuteranno nella nostra vita quotidiana: come camerieri tutto fare, come infermieri o anche medici, come manager della casa. Altri avranno una funzione sociale: come i sistemi di gestione del traffico o come i robot per così dire destinati alla protezione civile, in grado di intervenire in condizioni pericolose: l’incendio di una casa; la ricerca di persone sotto le rovine di un terremoto; l’intervento in un ambiente saturo di gas nocivi e così via lasciando briglia sciolta alla fantasia. Altri, occorre ricordarlo, potranno trovare impiego in guerra: diventando veri e propri soldati (e generali) dotati di autonomia di decisione. Alcuni già immaginano che la sicurezza nucleare del futuro sarà completamente in mano a questi robot, gli unici in grado di prendere decisioni in frazioni di secondo.
Questi robot del futuro ci pongono già due tipologie di domande cui bisogna rispondere. La prima riguarda la capacità tecnica di mettere a punto robot dotati di autonomia. La scienza sarà davvero in grado di crearle? Non abbiamo spazio per analizzare il problema. Ammettiamo che la risposta sia positiva. E che presto li avremo davvero i robot completamente autonomi.

domande di natura sociale ed etica
Eccoci, dunque, alla seconda tipologia di domande, che hanno una natura sociale ed etica. Possiamo lasciare che i robot ci rubino il lavoro? È consigliabile produrre macchine autonome il cui comportamento non può essere controllato e, all’occorrenza, interrotto dall’intervento dell’uomo? Potremo credere a queste macchine come o addirittura più di quanto crediamo a noi stessi? Chi ci assicura, per esempio, che in guerra un soldato robot si comporti in maniera eticamente più accettabile di un soldato in carne e ossa? Chi è responsabile per il loro comportamento? Se un robot ucciderà un uomo, chi metteremo in prigione: la macchina o il suo progettista? Chi ci assicura che riusciremo a impedire che l’evoluzione di robot in possesso di quella particolare autonomia che è l’autonomia di evolvere non si risolva in una minaccia per l’uomo? Vi sentireste sicuri se la gestione dell’enorme arsenale nucleare degli Stati Uniti o della Russia fosse affidato alle decisioni completamente autonome di un robot? Quando e come dovremo intervenire per limitare l’autonomia di questi robot autonomi?

etica del robot
Sono domande per ora premature. Ma è bene cercare una risposta, perché è bene non farci trovare impreparati quando e se il giorno dei robot completamente autonomi verrà. Può aiutarci nelle scelte che dovremo affrontare la riaffermazione di un valore fondante della scienza, compresa la scienza robotica: i robot autonomi non dovranno essere a vantaggio di questo o di quello, ma – come voleva Francis Bacon a proposito, appunto, dell’intera scienza – dovranno essere a vantaggio dell’intera umanità.
È in questa prospettiva che Isaac Asimov, il grande scrittore di fantascienza, ha elaborato le tre famose «leggi» cui immagina risponderanno i robot nel 2058:
1) un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno;
2) un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge;
3) un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge. La concertata applicazione di queste leggi generali ha già portato a elaborare una vera e propria «etica dei robot» o «roboetica»: un pensiero di «filosofia applicata» piuttosto complesso, solido, ben argomentato. Un pensiero che, tuttavia, è ancora in fase di forte evoluzione, perché il suo oggetto, i robot e il rapporto dei robot con l’uomo, è in fase di rapida evoluzione anch’esso. E ancor più lo sarà in prospettiva, se e quando i robot raggiungeranno il massimo grado di libertà possibile: la coscienza. E il libero arbitrio (ammesso che esista qualcosa che possiamo chiamare libero arbitrio).
Alcuni punti fermi esistono. Un vasto movimento di scienziati esperti, per esempio, chiede che vengano messe al bando le armi (robotiche) completamente autonome. O che almeno ci sia una moratoria sul loro sviluppo.
Il discorso sui robot soldati (e generali) è una chiara indicazione che possiamo (dobbiamo) iniziare a immaginare tutti gli scenari di possibilità. E simulare quali effetti ciascu- no di essi avrà sull’uomo e sulla sua società. L’esercizio ci aiuterà a costruire un futuro desiderabile.

chi siamo noi?
Intanto ci aiuta a capire noi stessi. Se, infatti, vogliamo costruire un robot simile a noi, dobbiamo capire in dettaglio chi siamo noi: come sono fatti il nostro corpo, il nostro cervello, la nostra mente. Come sono fatte le società dei nostri corpi, dei nostri cervelli, delle nostre menti.
E poi ci aiuta a interrogarci su chi è l’altro. In un mondo in cui esisteranno nuovi esseri, artificiali, con capacità cognitive analoghe o omologhe alle nostre, esseri dotati di intelligenza, di coscienza, di capacità etiche, di emozionarsi e quindi di gioire e di soffrire, ebbene non potremo limitarci a dare corpo alle «leggi di Asimov» perché tutelino la nostra sicurezza e il nostro benessere; dovremo elaborare leggi simmetriche che tutelino la sicurezza e il benessere anche dei robot senzienti. Dovremo imparare a riconoscere e a rispettare l’«altro» da noi. E questo, a ben vedere, è un esercizio necessario non solo per il futuro remoto, ma anche per quello più prossimo. Per il presente.

Pietro Greco, su Rocca
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rocca-14-2017
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Per correlazione: http://www.repubblica.it/tecnologia/2017/07/05/news/_salvo_i_miei_passeggeri_o_i_pedoni_un_codice_etico_per_i_robot_al_volante-169994736/

Oggi venerdì 7 luglio 2017

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eddyburgSOCIETÀ E POLITICA » PADRI E FRATELLI » ALTRI PADRI E FRATELLI
oliviero-toscani-ph-5-rl3s4nnj7jybblae8adf6kl-568x320lastampa-it128x72Dell’obbedienza e della servitù: sull’attualità di don Milani
di ROBERTA DE MONTICELLI
I grandi temi dell’obbedienza e disobbedienza attraverso alcuni capisaldi della nostra cultura, libertàegiustizia, ripreso da eddyburg, 4 luglio 2017 (c.m.c.)
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democraziaoggi loghettoSardegna: dal basso continua la riflessione sulla legge elettorale regionale
7 Luglio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.

Man mano che si avvicinano le elezioni regionali si intensificano gli appelli per la formazione di nuoi raggruppamenti e si intensifica la riflessione sulla legge elettorale regionale. Per la settimana prossima è annunciata la presentazione del testo della “Petizione popolare per una nuova legge elettorale statutaria” approvata dal Coordinamento Regionale dei Comitati sardi per […]

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Barca: “Renzi ha fallito. Il cambiamento passa per la società civile”
di GIACOMO RUSSO SPENA E FABRIZIO BARCA
«Bisogna recuperare spazi di confronto e di democrazia nella società. Reclamarli, al limite occuparli perché è necessario l’antagonismo anche duro. Solo dal basso può rinascere qualcosa ma i tempi saranno lunghi. Pisapia? Un progetto perdente». MicroMega online, ripreso da eddyburg, 5 luglio 2017 (c.m.c.)
http://www.eddyburg.it/2017/07/barca-renzi-ha-fallito-il-cambiamento.html?m=1

C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico… a Is Mirrionis

is-mirrionis-ai-tempi-della-sp-71-76Riflessioni
di Terenzio Calledda*
casa-q-is-mirr…mentre perdura un’immagine negativa del quartiere a causa del disagio sociale ed economico di molti dei suoi abitanti, contemporaneamente a Is Mirrionis si respira un nuovo clima e c’è voglia di incontrarsi e di fare progetti e iniziative, un nuovo dinamismo vede partecipi anche alcune attività economiche, anche giovani e studenti restano in quartiere a fare le ore piccole al pari di altri quartieri, vogliamo partecipare e condividere questo risveglio con tutti i cittadini giovani, artisti, pensionati, lavoratori, ma anche disoccupati e tutti quelli che soffrono disagi, esclusioni e povertà.
A questo fermento culturale il nostro Comitato per la Casa del Quartiere di Is Mirrionis sta cercando di contribuire, accanto all’attività giornaliera delle Parrocchie e alle iniziative delle tante associazioni che animano la vita del quartiere, ed è bene ricordare le Associazioni storiche che con continuità in questi anni passati, hanno svolto attività culturali sociali e sportive, e non va dimenticato anche il lavoro svolto nel passato dalla Circoscrizione e dai Consiglieri.
Certamente possiamo dire che il ns Comitato, con le associazioni e le singole persone aderenti, sta dando un buon contributo anche ad animare il dibattito che coinvolge il passato, il presente ed il futuro del quartiere ma probabilmente anche quello dell’intera città.
Senza dimenticare le Scuole, l’Università, ecc. ci rivolgiamo alle Istituzioni tutte per chiedere attenzione e un impegno concreto in termini di risorse e strutture, idee e progettualità, ma soprattutto vogliamo partecipare e condividere le scelte future per il nostro Quartiere: “Vogliamo trasformare il Quartiere di Is Mirrionis e la Città con la partecipazione dei Cittadini”.
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Oggi giovedì 6 luglio 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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scioperosanita-6-7-17Difendiamo il sistema sanitario sardo
Massimo Dadea, su il manifesto sardo

http://www.manifestosardo.org/difendiamo-il-sistema-sanitario-sardo/

rete-sarda-ospd-pub
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vitobiolchini blog occhialini1POLITICA / SARDEGNA
Doddore Meloni, ecco tutti gli appelli inascoltati dalla magistratura. E ora il caso è veramente politico (e l’indipendentismo non c’entra nulla)
Vito Biolchini su vitobiolchini.it
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Doddore, un simpatico e generoso visionario
6 Luglio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Doddore è una di quelle persone che mi è stata da subito istintivamente simpatica. Non so perchè, ma quella sua idea indipendentista perseguita con ingenuità e confusione mi è sempre parsa nobile e generosa. E questo mi è bastato, a fronte di tanta meschinità nella politica tutto intorno, a indurmi a seguirne le gesta […]

La morte di Doddore Meloni è una sconfitta senza attenuanti per la magistratura sarda.

doddore-2Vito-Biolchin-occhialiniiPOLITICA / SARDEGNA
La morte di Doddore Meloni è una sconfitta senza attenuanti per la magistratura sarda. Il commento di Vito Biolchini.
di Vito Biolchini, su vitobiolchini.it
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La-Stampa-it_logoDoddore che ha seguito il cuore, e noi che pensavamo a uno scherzo
La morte di Salvatore Meloni: l’ultimo, irriducibile, indipendentista sardo ucciso dallo sciopero della fame
Nicola Pinna su La Stampa.
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patto- Quello che nessuno avrebbe voluto è successo. Il commento di Claudia Zuncheddu.
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- Una riflessione di Emanuele Pes.

E’ morto Doddore Meloni, sardo indipendentista

nastroluttoE’ morto Doddore Meloni. Ci associamo al lutto e al dolore della famiglia e di quanti hanno insieme a lui combattuto con passione per rispettabili idee politiche e anche a quanti sebbene distanti politicamente hanno avuto comunque rispetto per la sua persona e comprensione umana per la sua vicenda, che certo si devono a tutti, ma particolarmente a lui per la sua qualità di convinto combattente per la Sardegna. Condividiamo, tra i tanti commenti a caldo, quello di Michele Piras, deputato, sulla sua pagina fb.lampadadialadmicromicro133

Sardegna in luttoUna rabbia immensa, nei confronti di quegli organi dello Stato che lo hanno lasciato morire in carcere.
Una rabbia immensa, perché si sono colpevolmente sottovalutate le condizioni di salute di un uomo di 74 anni, perché si sono ignorati gli appelli di amici, familiari, avvocati e perché è morta la pietà.
Umanità e vendetta, civiltà e barbarie, si sono affrontate – ancora una volta – in questa bruttissima vicenda. E hanno lasciato un cadavere per terra. E solo il silenzio di una clamorosa ingiustizia.
È morto un uomo, maledizione. Non mi importa quali errori aveva commesso, non doveva morire.
Adiosu Doddore, mi dispiaghede meda pro su chi t’han fattu, mi dispiaghede chi non seo risultau a ti azzudare.
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d-meloniLa notizia su L’Unione Sarda
- Il lapidario severo commento di Francesco Casula, sulla sua pag. fb.
- Su L’eco di Barbagia, pagina fb.
democraziaoggi- Su Democraziaoggi.
- Su SardiniaPost.

Tutti in piazza per difendere la sanità pubblica!

rete-sarda-ospd-pubLa Rete Sarda Difesa Sanità Pubblica di fronte alle imminenti e preoccupanti decisioni del Consiglio Regionale in materia di Riordino della rete ospedaliera sarda, in occasione della manifestazione del 6 luglio, organizzata da sindacati italiani, ritiene indispensabile che uno spazio di lotta autonomo e indipendente, venga occupato dai nostri comitati, dal Sindacato sardo, dal mondo indipendentista, identitario, sardista e da quell’ampia realtà di ribellione nei confronti dei partiti al governo della Sardegna, responsabili del disastro nella Sanità pubblica.
- Le scelte politiche in corso in Consiglio Regionale prevedono che i nostri ospedali vengano svuotati delle loro funzioni e dei servizi, per favorire la privatizzazione come unica soluzione.
- La privatizzazione attraverso le lobby delle Assicurazioni annienterà la solidarietà dell’universalismo della Riforma Sanitaria Pubblica (Legge 388 del 1978) tra le più grandi conquiste di diritti e di civiltà del 900.
- L’assistenza non sarà più uguale per tutti.
- Il diritto alla Salute sarà un privilegio di censo e di possibilità economica.

Al Bilancio Sanitario Pubblico, con l’alibi di non farcela, va affiancandosi un Bilancio Privato rappresentato e gestito dalle Assicurazioni.
- I pacchetti assicurativi sanitari, che già iniziano a proporre i colossi delle Assicurazioni, a partire dalla Emilia Romagna con la UniSalute, organizzato ad hoc dal colosso Unipol, sono la “modernizzazione” che negli USA ha creato grandi disuguaglianze e il non accesso al diritto alla salute per tutti.
- La ministra della Salute Lorenzin dopo le sue recenti interlocuzioni con i referenti statunitensi, in previsione del semestre europeo a guida italiana, ha annunciato riforme in materia sanitaria che seguiranno il famigerato modello americano. Parla di crescita di Pil e di investimenti come se la salute fosse merce da introdurre nei mercati finanziari.
- Noi sardi non ce la faremo.
- Noi non possiamo perdere questa battaglia prioritaria per la nostra sopravvivenza.
OCCUPIAMO TUTTI GLI SPAZI DI LOTTA POSSIBILI
Per far sentire con forza la nostra voce anche
CONTRO il disagio dei lavoratori della Sanità
CONTRO il blocco dei contratti
CONTRO il blocco del turn over che vede la forte riduzione numerica e lo svilimento della professionalità e competenza del personale sanitario medico e paramedico nella Sanità pubblica
CONTRO l’ingresso del precariato più controllabile e più ricattabile dalle lobby della Sanità e dai loro sponsor politici.

Rete Sarda Difesa Sanità Pubblica
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CSS loghettoLa Confederazione Sindacale Sarda-CSS ha aderito alla Manifestazione
contro la Riforma Regionale della Sanità che pone al centro i tagli e
non più la persona e l’ammalato, a cui sottrae strumenti e servizi
per la prevenzione e le cure, chiudendo Ospedali e strutture nei vari
Territori della Sardegna. Vengono messi in crisi le strutture
ospedaliere esistenti, depauperandole e privandole dei Reparti più
importanti ed essenziali, favorendo la mega-struttura del Mater Olbia in
mano agli emiri del Qatar che ne sono i veri padroni.
ATTENZIONE I SARDI SONO IN PERICOLO
DOBBIAMO ESSERCI TUTTE E TUTTI GIOVEDI’ 6 LUGLIO ALLA MANIFESTAZIONE
CON INIZIO ALLE ORE 9.30 IN PIAZZA DEL CARMINE INSIEME AI MOVIMENTI
DELLA RETE A DIFESA DEGLI OSPEDALI DEI NOSTRI TERRITORI E DELLA
NOSTRA SALUTE.

LA CSS sarà presente con le proprie bandiere all’angolo della Piazza
fronte via La Maddalena.
ADERIAMO NUMEROSI CON CONVINZIONE.
IL SEGRETARIO NAZ.LE CSS GIACOMO MELONI

RITORNANO I PASTORI

mps-1_2di Francesco Casula
Ritornano i pastori. Con gli attivisti del combattivo Movimento Pastori Sardi. Protestano contro la politica agricola della Regione sarda. “In due anni abbiamo perso più del 50% del nostro reddito – spiega Roberto Congia, uno dei dirigenti del MPS –, stiamo pagando errori fatti da altri, che hanno generato una crisi del mercato lattiero caseario che viene scaricato interamente sulle nostre spalle. A questo si aggiunge anche il dramma della siccità. Oltre ai danni subiti non abbiamo ancora certezza sugli indennizzi”.
Difficile non essere d’accordo. E ancor più difficile non solidarizzare con loro. Sposando in toto la loro lotta e la loro causa. Che è e deve essere di tutti i Sardi.
Il pastore infatti non è solo una delle una delle tante figure sociali e la pastorizia non è solo un comparto economico: le sue produzioni certo costituiscono ancora un nucleo fondamentale del nostro prodotto interno lordo, ma il mondo pastorale in Sardegna ha prodotto ben altro che latte, formaggi, carne e lana: ha dato luogo al pastoralismo e ai codici e valori che esso sottende e che in buona sostanza costituiscono il nerbo della civiltà e dell’intera cultura sarda.
Per intanto però occorre sottolineare che la pastorizia, come comparto economico, nonostante crisi e difficoltà, nella storia ha sempre retto e i pastori, ancora oggi, non sono una sorta di tribù sopravvissuta alla storia (Ignazio Delogu). Nonostante i reiterati tentativi storici di interrarli, liquidandoli insieme alla loro cultura etnica resistenziale.
“Uno dei tentativi più brutali fu rappresentato dagli Editti delle Chiudende che – scrive il compianto Eliseo Spiga, in La Sardità come utopia-Note di un cospiratore – irruppero sulle comunità, implacabili come un castigo di dio. In un ciclonico turbinio di inaudite illegalità, sopraffazioni e violenze, di persecuzioni, assassini, carcerazioni e torture… furono chiusi migliaia di ettari dei migliori terreni privati e comunali, pascoli e seminativi, case, ovili e orti familiari, strade e ponti, abbeveratoi e fonti pubbliche”.
I più danneggiati furono i pastori, abituati a pascolare le greggi in vasti spazi aperti e comuni ed ora costretti a pagare il fitto – spesso erosissimo – ai nuovi proprietari usurpatori: pastori che furono rovinosamente battuti e vinti. Ma non convinti, aggiungerebbe il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala.
Un altro momento e snodo storico di attacco violento soprattutto alle condizioni di vita e di lavoro dei pastori fu rappresentato dalla guerra doganale dello Stato italiano con la Francia, culminata con la rottura dei Trattati doganali nel 1887. L’economia sarda fu colpita a morte. Fino a quel momento la spedizione verso i mercati francesi di alcuni fondamentali prodotti dell’economia sarda aveva, se non scongiurato, almeno contribuito ad allontanare la crisi che gli spiriti più consapevoli paventavano. Dopo i fatti del 1887 l’agro-pastorizia dell’Isola, privata d’un colpo dei suoi mercati tradizionali, precipitò al fondo di un baratro senza precedenti, costringendo i pastori a dipendere ancor di più dai proprietari dei pascoli, i printzipales, e dagli industriali caseari continentali ma soprattutto romani.
Lo denuncia e lo ricorda Gramsci in un articolo del 1919 sull’Avanti, fortemente critico nei confronti della politica italiana postunitaria, dal titolo inequivocabile: ”Gli spogliatori di cadaveri”, Una categoria di questi, che irrompono in Sardegna alla fine dell’800, dopo la rottura dei trattati doganali con la Francia, sono gli industriali caseari. I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (“ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso”) è semplice: al pastore che deve fare i conti con gli affitti del pascolo e con l’esattore, l’industriale concede i soldi per l’affitto in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale. Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo. Non a chi lo produce.
Antonio Simon Mossa, il grande teorico dell’indipendentismo moderno sardo li chiama feudatari del latte, che si comportano da veri e propri strozzini, imponendo solo loro il prezzo. Tanto che uno degli obiettivi del neonato Partito sardo d’azione nel 1921 sarà proprio la battaglia contro sos meres continentales de su latte e la creazione di cooperative di pastori, per gestire loro, in prima persona, il prodotto del proprio lavoro.
Mutatis mutandis, non si sta ripetendo lo stesso meccanismo denunciato da Gramsci?
E la Regione Autonoma (?) della Sardegna che fa? Cosa aspetta Pigliaru e la sua Giunta? Che i pastori vengano annientati? Ma si rendono conto della posta in gioco?
Senza la pastorizia la Sardegna si ridurrebbe a forma di ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato e desertificato: senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate e ancor più inquinate e devastate dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte.
Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, magari da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione.
Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata e sradicata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati (OGM). Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti.
Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe l’odiosa, omogenea unicità mondiale: come l’aveva chiamata David Herbert Lawrence in Mare e Sardegna.
Si avvererebbe la profezia annunciata da Eliseo Spiga, che nel suo potente e suggestivo romanzo Capezzoli di pietra scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato. Una luce fredda. Villaggi campagne altipiani livellati ai miti e agli umori di cosmopolis”.
Sarebbe un etnocidio: una sciagura e una disfatta etno-culturale e civile, prima ancora che economica e sociale.
Apocalittico e catastrofista? Vorrei sperarlo.
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