Monthly Archives: luglio 2017

Oggi domenica 23 luglio 2017

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22-23-24-luglio- La pagina fb dell’evento.
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mani2lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?
di Giacomo COSTA, Aggiornamenti Sociali.
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logo76lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. I piromani, di Raniero La Valle.
- Dietrich Bonhoeffer e la verità. VITO MANCUSO parla di DIETRICH BONHOEFFER.
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Non basta pensare al prodotto
eddyburgdi PAOLO CACCIARI
«Non basta pensare al prodotto e nemmeno al processo, serve un’etica dell’impresa che sia capace di introiettare stabilmente nei suoi comportamenti i principi morali del bene comune». comune.info.net, ripreso da eddyburg, 22 luglio 2017 (p.d.)
———————————Dibattito sul sistema elettorale————————
Weimar, il sistema proporzionale e la sfiducia costruttiva
23 Luglio 2017
democraziaoggiPer favorire la riflessione sulla legge elettorale pubblichiamo un articolo di Daniele Granara sul sistema proporzionale e lo stralcio di uno scritto di Alessandro Pace sulla sfiducia costruttiva.
Daniele Granara (*), ripreso da Democraziaoggi.
L’ opinione delle libertà, 16 marzo 2017
Il dibattito apparentemente sopito sulla legge elettorale di Camera e Senato sembra aver comportato l’accettazione, quantomeno, del principio […]

Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?

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di Giacomo COSTA, Aggiornamenti Sociali,
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Il tema del lavoro attraverserà l’annata 2017 della Rivista “Aggiornamenti Sociali”, per arricchire la riflessione in vista della Settimana sociale dei Cattolici italiani che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre p.v. A partire da un’analisi del contesto attuale, la Rivista con il presente Editoriale e con altri articoli correlati inizia a presentare alcuni spunti per rimettere a fuoco il senso del lavoro stesso. Come Aladinews ci permettiamo riprendere queste importanti riflessioni che costituiscono preziosa documentazione anche per il Convegno sul Lavoro promosso dal Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale Statutaria di Cagliari, che si terrà nei giorni 4 e 5 ottobre 2017 (tra i relatori: Domenico De Masi e Silvano Tagliagambe).
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Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?
Il lavoro, e ancora di più la sua mancanza, sono al centro dell’attenzione collettiva del nostro Paese, dalle preoccupazioni e sofferenze di tante persone e famiglie, al dibattito sulle politiche nazionali ed europee, passando per la rappresentazione mediatica di questi fenomeni. L’interesse si concentra in larga parte sull’andamento del tasso di disoccupazione (generale e giovanile), con l’onnipresente interrogativo se sia o meno effetto del Jobs Act, sulle modifiche delle tutele normative, sulle crisi aziendali e i relativi esuberi, sugli ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro (ad esempio gli “esodati”), sul ruolo del sindacato, la dialettica al suo interno e con le controparti datoriali e governative.

In tutto ciò, il lavoro viene più o meno consapevolmente assunto come sinonimo di occupazione e, conseguentemente, di remunerazione, condizione peraltro essenziale per condurre un’esistenza dignitosa e progettare il proprio futuro. In questo modo però finisce col prevalere un approccio soprattutto economico al lavoro, e si lasciano nell’ombra altri aspetti non meno importanti.

Ad esempio, meno frequentato è il tema dei mutamenti radicali che il mondo del lavoro sta attraversando e che lo allontanano dall’impianto logico e ideologico novecentesco, ancora ben presente nell’immaginario collettivo: il posto fisso, la focalizzazione sul lavoro dipendente, le relazioni industriali e la concertazione. Serve dunque uno sforzo per mettere nuovamente a fuoco le coordinate del mondo del lavoro e capire come declinare al loro interno preoccupazioni antiche, ma non per questo obsolete: tutela dei diritti e della sicurezza di chi lavora, inclusione e protezione di chi un lavoro l’ha perso o non riesce a trovarlo, con un atteggiamento di rispetto per il dramma della disoccupazione che attraversa la vita di molte persone e la società nel suo insieme, in particolare al Sud, ma non solo.

8goals-buona-occupazione-crescita-economicaLa traiettoria evolutiva del lavoro è al centro dell’attenzione internazionale. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) si sta preparando a festeggiare il centenario della propria fondazione nel 2019 con una articolata iniziativa sul futuro del lavoro, che mette a tema i fattori che lo stanno cambiando, a partire da nuove tecnologie e cambiamenti climatici. Inoltre esso è uno dei temi centrali dell’intera Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite nel 2015, e non soltanto dell’Obiettivo n. 8, dedicato esplicitamente a lavoro dignitoso e crescita economica.

In ambito nazionale si sta preparando la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, prevista a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017, intitolata «Il lavoro che vogliamo: “libero, creativo, partecipativo e solidale” (EG 192)» (cfr ). Nell’invito rivolto a tutte le diocesi italiane, il presidente del Comitato organizzatore, l’arcivescovo di Taranto mons. Filippo Santoro, oltre a dettagliare le tappe di preparazione, indica come obiettivo un confronto sul lavoro inteso come vocazione, opportunità, valore, fondamento di comunità e strumento di promozione della legalità, capace di articolare una pluralità di registri comunicativi (denuncia, racconto e condivisione dell’esperienza diretta, raccolta e rilettura delle buone pratiche, elaborazione di proposte innovative).

Aggiornamenti Sociali ha deciso di partecipare a questo processo di riflessione con le modalità proprie di una rivista di approfondimento, accompagnando con un dossier il percorso verso la Settimana sociale di Cagliari. Gli articoli che appariranno via via sulle nostre pagine saranno raccolti in una sezione dedicata del sito [Dossier di Aggiornamenti Sociali], a partire da questo editoriale e dai contributi di questo numero sull’alternanza scuola-lavoro (Daniela Robasto, pp. 14-23), sull’enciclica Laborem exercens che nel 1981 Giovanni Paolo II dedicò al tema del lavoro (Philippe Laurent SJ, pp. 73-77) e sui green jobs (l’infografica alle pp. 64-65). All’interno di questa prospettiva, l’obiettivo di questo editoriale è provare a evidenziare quattro tra gli snodi più significativi per una riflessione sul lavoro: l’impatto dell’innovazione tecnologica, la dimensione sociale del lavoro, le contraddizioni del settore informale, la questione del senso del lavoro. In forma più analitica, questa riflessione si arricchirà dei contributi che andranno man mano a comporre il dossier.

Governare la quarta rivoluzione industriale
Senza dubbio il primo fattore di cambiamento del mondo del lavoro resta il progresso tecnologico. Si parla ormai abbastanza comunemente di quarta rivoluzione industriale o di industria 4.0: dopo quella del carbone e della macchina a vapore (XIX secolo), quella del petrolio, dell’energia elettrica e della produzione di massa (secondo dopoguerra), quella di Internet, delle tecnologie dell’informazione e dell’automazione, questa nuova tappa, di cui non siamo ancora in grado di precisare l’inizio, appare legata agli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale (macchine in grado di apprendere), della stampa 3D, delle nanotecnologie e delle biotecnologie, con la possibilità di creare interfacce di interazione uomo-macchina fino a pochi anni fa considerate fantascienza. Quali cambiamenti provocherà nel lavoro, nella società e nella vita quotidiana?
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Macchine sempre più sofisticate, capaci di apprendere dalla propria esperienza e da quella delle persone, e in grado di analizzare in un batter d’occhio masse di dati che una persona impiegherebbe anni a raccogliere, rivoluzioneranno il rapporto con coloro che le utilizzano, che potrebbero ritrovarsi a diventare semplici “terminali umani” di sistemi interconnessi sempre più sofisticati. Se anche non fosse così, si amplierà lo spazio dell’impiego di macchine al posto dei lavoratori, investendo non solo le mansioni di routine o di fatica, ma anche quelle più sofisticate: i progressi nel campo della traduzione automatica, della guida senza conducente e addirittura delle diagnosi mediche automatizzate e a distanza ne sono un esempio. Anche settori normalmente considerati tradizionali, come quello del commercio e della distribuzione, stanno sperimentando cambiamenti rapidissimi, con effetti occupazionali già piuttosto evidenti [in argomento si segnala il saggio-breve di Fernando Codonesu su Aladinews].

Un altro effetto delle nuove tecnologie è ridurre la necessità della standardizzazione a favore della personalizzazione dei prodotti in base alle esigenze del cliente e della possibilità di produrre on demand. Crescono dunque le pressioni perché anche i lavoratori accettino questa logica, uscendo da un modello basato su prestazioni lavorative continuative, per offrire invece la propria opera quando un’applicazione tecnologica ne trasmette la richiesta. A qualche possibilità di conciliazione tra vita personale e lavorativa, questi scenari accoppiano inquietudini radicali dal punto di vista delle tutele dei lavoratori. Bloccare innovazioni che portano benefici al consumatore è praticamente impossibile nel medio-lungo periodo: quali politiche e quali strutture potrebbero aiutare a gestire il cambiamento e a rendere la transizione sostenibile per tutte le persone coinvolte?

Certamente il massiccio ingresso delle tecnologie digitali nei processi produttivi rende imprescindibile affrontare la questione dell’alfabetizzazione digitale, dato che non padroneggiarle è un fattore potenziale di esclusione. Immaginare però le trasformazioni del rapporto uomo-macchina come un flusso che, senza attriti, conduce all’automazione totale è una rappresentazione con pochi appigli nella realtà. Si tratta piuttosto di chiedersi come orientare e governare questo processo che resta ancora aperto a esiti diversi (papa Francesco ci ricorda che in definitiva «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani» [enciclica Laudato si’, 2015, n. 105] e che «rinunciare a investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società» (LS, n. 128]).

Pur con significative differenze, nasce dall’innovazione tecnologica anche la sharing economy (economia della condivisione). Anch’essa tende a rendere flessibile la frontiera netta tra tempo di lavoro e di non lavoro (ad esempio quando si trasforma un viaggio in auto in una opportunità di guadagno, offrendo un passaggio a pagamento), ma promuove anche modelli di interazione che possono favorire nuove forme di legame sociale. In questo senso, ancora maggiori sono le potenzialità dell’applicazione delle nuove tecnologie a contesti quali il consumo critico: le piattaforme digitali aumentano la possibilità di interazione a distanza tra produttori e consumatori, offrendo una tutela della stabilità lavorativa per i primi e della qualità per i secondi.

Riscoprire la dimensione sociale del lavoro
La fabbrica come luogo simbolo del XX secolo metteva in risalto la dimensione collettiva, immediatamente sociale del lavoro, recepita con chiarezza anche dalla nostra Carta costituzionale. In quell’epoca, il lavoro costituiva la base dell’identità sociale, veicolata dal mestiere esercitato, ma per certi versi ancora di più dalla posizione occupata nelle gerarchie del mondo del lavoro; al suo interno si formava quel tessuto di legami in cui potevano affondare le proprie radici le esperienze di solidarietà da cui traggono origine i sindacati o le mutue cooperative.

La progressiva parcellizzazione della produzione, unita al prevalere di una cultura individualista, spiegano l’indebolimento della percezione del carattere sociale del lavoro. Certo esso non è più la base principale dell’identità sociale, affiancato e talvolta rimpiazzato dal consumo, mentre la crisi delle solidarietà di tipo sindacale risulta evidente nella maggior parte dei Paesi del mondo. Anche il lavoro sembra spinto sempre più nella sfera del privato e alcune tendenze della quarta rivoluzione industriale possono accentuare questo processo.

È in questo scenario che va collocato il ripensamento di alcuni istituti e pratiche della nostra società. Un primo fronte è quello del welfare, il cui modello universalista novecentesco sembra entrato in una crisi irreversibile per ragioni economiche, di fronte alla quale emergono risposte innovative anche interessanti, come il welfare di comunità, proposto da alcuni soggetti del terzo settore, o il welfare aziendale, oggetto di crescente attenzione da parte delle imprese, anche a causa di forme di incentivazione pubblica. Il rischio è di perdere in uguaglianza e inclusione, frammentando la platea dei beneficiari tra ipergarantiti (ad esempio quanti lavorano in grandi imprese o in settori ad alta produttività), poco garantiti (gli occupati di settori più marginali) e per nulla garantiti (gli esclusi dal mercato del lavoro), sulla base di una condizione individuale che non è rappresentativa del contributo che ciascuno reca al bene comune e al benessere collettivo. Perplessità suscitano anche quegli strumenti che sembrano ridurre il welfare a erogazione di sussidi monetari: possono dare risposta a bisogni immediati, ma difficilmente da soli riescono a innescare dinamiche di partecipazione e di attivazione delle capacità personali, in vista di una definitiva uscita dalla condizione di marginalità. Anche nel caso del welfare risulta cruciale trovare forme adeguate di governo delle sperimentazioni e dei processi di innovazione, puntando a identificare attraverso l’ascolto e il dialogo le soluzioni più promettenti nel lungo periodo, e a valorizzarle in quanto generatrici di capitale sociale.

Un secondo cantiere riguarda la costruzione creativa di forme di solidarietà fondate sulla partecipazione alla produzione di ricchezza come sforzo collettivo, a prescindere dalla forma contrattuale con cui ciascuno è ingaggiato: è lo spazio in cui possono rinnovare la propria vitalità il mondo cooperativo e quello associativo, e mettere radici le nuove reti di cittadinanza attiva. Questo interpella anche il sindacato: soltanto vincendo la sfida a diventare plurale esso potrà ritrovare la propria funzione all’interno di un mutato scenario, che peraltro ne mostra un impellente bisogno. Occorre abbandonare una concezione del sindacato come strumento di tutela del lavoro salariato (per di più magari ormai a riposo), per assumere una responsabilità nei confronti della partecipazione ai processi decisionali di tutti coloro che sono coinvolti, nell’ottica di una contrattazione sociale territoriale.

Un terzo ambito, in cui con piacere registriamo un certo fermento innovativo, è quello della promozione di luoghi di lavoro accoglienti e inclusivi, che permettano di dare spazio e valorizzare la ricchezza delle peculiarità e differenze delle persone che vi operano. Ci riferiamo al percorso che, partendo dalla lotta ai divari di genere e passando per la conciliazione tra vita lavorativa e personale, approda via via al diversity management e alla Human Cooperation, su cui già abbiamo avuto occasione di riflettere (cfr Costa G., «Oltre le pari opportunità: valorizzare generi e generazioni», in Aggiornamenti Sociali, 3 [2016] 181-188). Almeno alcune aziende, che svolgono un ruolo di pioniere o di minoranza profetica, hanno ormai scoperto che, quando si investe in questo campo, andando oltre quanto richiesto dalla normativa vigente, diventa possibile stabilire nuove alleanze con i propri lavoratori, a vantaggio del loro benessere e della loro produttività, in una logica di mutuo guadagno. Anche questo è uno dei modi in cui si sperimenta oggi la dimensione originariamente sociale del lavoro.

Ai margini del mercato del lavoro
I mutamenti sociali, economici e tecnologici stanno riconfigurando la tradizionale bipartizione tra lavoro formale e informale, che torna in evidenza anche nei Paesi normalmente considerati sviluppati. Secondo la definizione dell’OIL, appartengono all’economia informale le attività realizzate da lavoratori e unità produttive totalmente o in larga parte prive di coperture formali, perché si situano al di fuori di quanto previsto dalle disposizioni legislative, o perché queste non sono di fatto applicate o ancora perché il rispetto della normativa è disincentivato dalla sua complessità o dagli eccessivi costi che impone. Come è noto, l’informalità lavorativa rappresenta una sfida per la tutela della dignità e dei diritti dei lavoratori, oltre che una minaccia per la solidità delle istituzioni e la sostenibilità economica, sociale e ambientale del sistema produttivo, e un danno per le finanze pubbliche.

La frequente coincidenza tra informalità, precarietà e un certo grado di esclusione non significa però che si tratti di un fenomeno marginale: si stima che operino nel settore informale circa 3 dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, non solo nei Paesi in via di sviluppo (dove il lavoro informale rappresenta oltre la metà dell’occupazione non agricola). Proprio quest’ampia diffusione richiede attenzione alla complessità del fenomeno, accompagnando una transizione graduale verso l’economia formale che preservi e sviluppi il potenziale imprenditoriale, la creatività, il dinamismo e la capacità innovativa che sono spesso una cifra del settore informale.

Probabilmente si può andare oltre, valorizzando il settore informale non come strumento di compensazione delle crisi, una sorta di ammortizzatore sociale a basso costo, ma come punto di osservazione per una rilettura critica del sistema in vista di una sua riprogettazione [in argomento le riflessioni di Gianfranco Sabattini, su Democraziaoggi, riprese da Aladinews]. Il settore informale ha la potenzialità per diventare il laboratorio di una economia morale, solidale e radicata nei diversi contesti territoriali, al cui interno emerge con più facilità l’innovazione sociale, purché non sia circondato da barriere invalicabili verso il settore formale, che lo trasformano invece in una sorta di ghetto per cittadini di seconda categoria (lavoratori poveri e poco qualificati, specie se di sesso femminile, migranti, giovani che non riescono a ottenere un impiego formale, ecc.). Sia gli studi sociologici sul settore informale, sia l’esperienza diretta di chi lo pratica – a cui spesso si richiama anche papa Francesco, ad esempio in occasione degli Incontri con i movimenti popolari – evidenziano come esso costituisca una riserva di valori, capacità e opportunità che risultano invece più scarsi in altri segmenti della compagine sociale. Ne citiamo alcuni a titolo di esempio: la resilienza, come capacità di abitare il limite in modo creativo, aperto al cambiamento attraverso la costruzione di legami; la cura, come atteggiamento di responsabilità verso il mondo che può prendere diverse forme, dal lavoro in ambito domestico al rispetto della natura tipico di molti popoli indigeni, che sempre di più la globalizzazione spinge ai margini e dunque nell’informalità; la solidarietà e la cooperazione, come capacità di generare relazioni che superano l’anonimato dell’individualismo consumista attraverso pratiche di riconoscimento che si traducono in empowerment di tutte le persone coinvolte.

Senza attingere a queste risorse è difficile che il settore formale e gli ordinari strumenti politici e normativi possano dare risposte efficaci alla situazione di coloro che oggi non riescono a trovare un impiego formale e talvolta neppure informale: disoccupati di lunga durata, inattivi per scoraggiamento (persone che hanno perso la speranza di trovare lavoro e quindi nemmeno più lo cercano), NEET (giovani che non hanno un lavoro né frequentano la scuola o corsi di formazione).

Per un lavoro «libero, creativo, partecipativo e solidale»
L’indispensabile attenzione alle forme concrete del lavoro, alle contraddizioni che vi si possono nascondere e alle forme di tutela che richiedono, non deve però occultare la domanda più profonda sul senso del lavoro: a che scopo lavoriamo? A quali criteri e valori si ispira il nostro lavoro e il modo in cui lo svolgiamo? Sono domande rivolte a ciascuno individualmente, alle diverse istanze sociali (impresa, reparto, équipe) al cui interno si opera e alla società nel suo insieme (su scala locale, nazionale, ecc.), che devono trovare risposta su tutti i livelli.

Diamo spesso per scontato che la remunerazione economica rappresenti un elemento costitutivo del lavoro, accettando così di definirlo e misurarlo con un metro monetario e perdendo di vista che merita di essere definita lavoro «qualsiasi attività che implichi qualche trasformazione dell’esistente» (LS, n. 125). Fin dalle prime pagine, la Bibbia non teme di presentare la creazione come un lavoro e Dio come un lavoratore, in evidente assenza di qualunque remunerazione. Senza trascurare il dramma di coloro per i quali mancanza di lavoro equivale ad assenza di reddito e povertà, rimettere a tema il senso del lavoro richiede di tornare a interrogare anche il rapporto tra lavoro, remunerazione e gratuità, per riscoprire sia la dignità di tutti quegli impegni che trasformano la realtà (spesso in meglio) escludendo deliberatamente una retribuzione economica, sia la necessità che la logica della gratuità trovi spazio anche all’interno dei rapporti economici (lavoro compreso), che altrimenti diventano rapidamente inabitabili, secondo la lezione della Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Nel corso della storia, in particolare all’interno della cultura occidentale, il lavoro come trasformazione dell’esistente è diventato strumento di un paradigma di dominio e sfruttamento della natura che oggi mostra tutta la sua inadeguatezza nella complessa e profonda crisi socioambientale che stiamo attraversando. Ne vediamo tutta la necessità, ma la costruzione di un paradigma in cui il lavoro sia invece inserito nella logica della cura della casa comune ha ancora bisogno di avanzare per affermarsi definitivamente. È questo un secondo ambito estremamente fecondo per una ripresa degli interrogativi sul senso del lavoro.

Infine, nell’esperienza storica così come nell’immaginario collettivo, il lavoro è posto sotto il segno del dovere e della necessità, oltre a essere spesso il luogo di forme odiose di sfruttamento e oppressione (schiavitù, tratta, lavoro forzato, ecc.). Tuttavia di tanto in tanto questo telo scuro si squarcia e l’impegno per la trasformazione dell’esistente diventa l’occasione per sperimentare libertà, creatività, realizzazione e pienezza di sé: è quanto accade non solo agli artisti, ma a tutti coloro che portano a termine qualcosa di cui sentono di poter andare fieri. Riflettere sul senso del lavoro è dunque un modo di riattraversare anche il delicato rapporto tra dovere e scelta, tra necessità e libertà.

Prendere sul serio il lavoro, nella concretezza delle sue forme e nel senso umano che lo abita, è dunque un investimento che ci permette di guadagnare, come singoli e come società, in dignità e inclusione, in gratuità, cura e libertà. È questo − come ricorda il titolo della Settimana sociale di Cagliari − il lavoro che vogliamo e che dobbiamo imparare a promuovere in maniera concreta. Ne vale certamente la pena e per questo lungo il 2017 Aggiornamenti Sociali cercherà di accompagnare i suoi lettori in questo cammino.
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Oggi sabato 22 luglio 2017

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CITTÀ E TERRITORIO » CITTÀ OGGI » ALTRE CITTÀ
Sant’Elia, lo spazio urbano si racconta
di GIOVANNA BRANCA
«Intervista a Maurizio Memoli, professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, coautore del webdoc che racconta il quartiere popolare sul mare a sud est di Cagliari». il manifesto, ripreso da eddyburg e da Aladinews, 22 luglio 2017 (c.m.c) . lampadadialadmicromicro1Per correlazione su Aladinews.
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santelia-memoli-unica- Il documentario premiato
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vitobiolchini occhiali microPadre e figlia in curva? 400 euro! Vergogna Giulini, non si lucra sui bambini (l’impietoso confronto con le altre società)
di vitobiolchini su vitobiolchini.it
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———————————————-Da oggi————————————–
speranzaeuropa-cattoliciDiocesi di Cagliari
Ufficio stampa
(COMUNICATO STAMPA) Parteciperà anche il vescovo Nunzio Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana, all’annuale «Summer school» di dottrina sociale della Chiesa che si terrà a Cagliari dal 22 al 24 luglio.
glatino-ceiIl tema di questa edizione è «Una speranza per l’Europa. Un bene possibile per la città». I lavori del 22 (sabato) e del 24 (lunedì) si terranno presso il seminario diocesano di Cagliari, in via monsignor Cogoni. Domenica 23, giorno che vedrà protagonista Galantino, per la santa messa e per una relazione in fine mattinata, sede delle attività sarà la chiesa di sant’Agostino in via Bajlle.
- Particolarmente ricco il programma che vede coinvolti altri tre vescovi. Arrigo Miglio, infatti, aprirà i lavori con la presentazione della prossima Settimana sociale dei cattolici italiani che si terrà in città dal 26 al 29 ottobre p.v. Il vescovo di Faenza-Modigliana, già rettore dell’Università pontificia salesiana, Mario Toso, introdurrà il tema «Il lavoro fondamento della pace». Mauro Maria Morfino, vescovo di Alghero-Bosa, presiederà la santa messa nel pomeriggio del primo giorno.
- Inoltre sono previsti gli interventi padre Francesco Occhetta, scrittore de La Civiltà Cattolica, padre Paolo Benanti dell’Università gregoriana, Gigi De Palo, presidente del Forum delle famiglie, Maurizio Gentile, dell’Univeristà di Verona, Salvatore Martinez, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito, e Savino Pezzotta, segretario generale della Cisl nei primi anni 2000.
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Appello di padre Alex Zanotelli: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
democraziaoggi22 Luglio 2017
Rilanciamo anche noi l’appello che il missionario Comboniano, direttore della rivista Mosaico di Pace, rivolge alla stampa italiana. «Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo», scrive.
Alex Zanotelli*
Scusatemi se mi rivolgo a voi […]
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. I piromani, di Raniero La Valle.
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Newsletter n° 27 del 22 luglio 2017
Torniamo ai giorni di Comiso
Cari amici,
- segue –

La Caritas presenta il Progetto internazionale PIER. Martedì 25 Conferenza Stampa

logo_pierprogramm_smallDiocesi di Cagliari – Ufficio stampa. CONFERENZA STAMPA
Parte da Cagliari un nuovo progetto internazionale per l’accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo
25 luglio 2017 ore 11 – Piazza Palazzo 4, Cagliari. - segue -

Dietrich Bonhoeffer e la verità

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VITO MANCUSO parla di DIETRICH BONHOEFFER

Il 30 gennaio 1933 Hitler sale al potere. Nello stesso anno il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, allora ventisettenne e alle prime armi come docente di teologia all’Università di Berlino, prende apertamente posizione contro la Politica razzista del nuovo governo tedesco, dapprima con una conferenza pubblica sulla questione ebraica nel mese di aprile, poi, in agosto, distribuendo un volantino con una dura critica a chi voleva espellere dalla Chiesa protestante tedesca i cristiani di origine ebraica. E’ l’inizio di un impegno a favore della giustizia per il quale avrebbe pagato con la vita. Nel 1936 gli ritirano l’autorizzazione all’insegnamento universitario, nel 1940 gli vietano di parlare in pubblico obbligandolo a notificare i propri movimenti alla polizia, nel 1941 gli proibiscono ogni forma di pubblicazione, infine il 5 aprile 1943 la Gestapo lo arresta con l’accusa (fondata) di cospirazione. Passerà due anni nel carcere militare di Tegel a Berlino, per essere infine trasportato nel lager di Flossenbùrg dove verrà impiccato la mattina del 9 aprile 1945.
Prima di essere arrestato Bonhoeffer stava lavorando a un libro sull’etica. E in questa prospettiva di ricerca che si inserisce un saggio intitolato Che cosa significa dire la verità?, di cui riporto il seguente brano: “Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre spesso torni a casa ubriaco. E vero, ma il bambino nega [...]. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro, egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un’istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna”. Bonhoeffer dice che una bugia, un’esplicita negazione della verità e come tale un’affermazione falsa (mio padre non è un ubriacone), può contenere più verità di un’affermazione in sé vera (mio padre è un ubriacone). Con ciò egli profila una concezione della verità a più dimensioni, per illustrare la quale mi permetto di proseguire l’esempio. In quella classe ci sono due ragazzi che abitano vicino all’interrogato e sanno perfettamente come stanno le cose. Uno di loro, per dovere di precisione, si alza in piedi e dice di conoscere benissimo qual è la realtà dei fatti ossia che il padre torna spesso ubriaco. L’altro, però, interviene dicendo che non è per nulla così, che il ragazzo che ha appena parlato si sbaglia perché confonde il padre del ragazzo interrogato con un altro uomo, e che lui, che abita proprio li accanto, può garantire che le cose stanno effettivamente così. Chi tra questi due ragazzi dice la verità? Il primo ricorda la figura di “colui che pretende di dire la verità dappertutto, in ogni momento e a chiunque”, ma chi agisce così “è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità”. Il secondo personifica una concezione secondo la quale il rapporto umano è più importante della descrizione oggettiva di come stanno effettivamente le cose, una concezione della vita al vertice della quale c’è la relazionalità dell’essere e che individua il criterio decisivo nell’incremento della qualità delle relazioni. Nel primo caso la verità è qualcosa di statico, è un dato di fatto: il padre è ubriaco punto e basta, poche chiacchiere. Nel secondo caso la verità è qualcosa di dinamico, più esattamente di relazionale, che sa collocare il dato di fatto dell’ubriachezza del padre nel contesto più ampio di un figlio costretto a riconoscerla pubblicamente di fronte al maestro e ai compagni di classe e che per questo, negandola a un primo livello (quello dell’esattezza), la serve a un livello più alto (quello della relazione). Nel primo caso la verità si dice, si riconosce, si dichiara, si professa. Nel secondo caso la verità si fa, si attua, si realizza, si costruisce. Nel primo caso la verità è un dato, una tesi, una dottrina, un dogma. Nel secondo caso la verità è un processo, un evento, una relazione, un sistema. Nel primo caso chi nega la verità dice un’eresia. Nel secondo caso chi nega la verità agisce ingiustamente.
La seconda prospettiva è quella di Bonhoeffer, e anche la mia. Scrive il grande teologo che “la parola veridica non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quando essa si distacca dalla vita e dal rapporto concreto con il prossimo, quando qualcuno dice la verità senza tenere conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza ma non la sostanza della verità”. (da “La vita autentica”)

Così Dietrich Bonhoeffer scriveva dal carcere nazista: «La Chiesa deve uscire dalla sua stagnazione. Dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale col mondo. Dobbiamo anche rischiare di dire cose contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale. Come teologo “moderno”, che tuttavia porta ancora in sé l’eredità della teologia liberale, io mi sento tenuto a mettere sul tappeto tali questioni». (da “Io e Dio”)
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Università di Cagliari, Maria Chiara Di Guardo nuovo prorettore all’innovazione e ai rapporti con il territorio

chiara-di-guardoMaria Chiara Di Guardo nuovo prorettore all’innovazione e ai rapporti con il territorio.
(Unica, Sergio Nuvoli, Cagliari, 21 luglio 2017) – Il Rettore Maria Del Zompo ha comunicato agli organi di governo dell’Università degli Studi di Cagliari – Senato accademico e Consiglio di amministrazione – la nomina della prof.ssa Maria Chiara Di Guardo (nella foto), docente ordinario di Organizzazione aziendale, a Prorettore delegato per il territorio e l’innovazione, in sostituzione della prof.ssa Annalisa Bonfiglio, nominata nei giorni scorsi Presidente del CRS4.
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Oggi venerdì 21 luglio 2017

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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» ITALIANI BRAVA GENTE
eddyburgCome fermare i moltiplicatori dell’odio
di CHIARA SARACENO
«Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole». la Repubblica, ripreso da eddyburg, 20 luglio 2017 (c.m.c)
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democraziaoggiCapo Teulada ‘penisola interdetta’, 500 anni per bonificarla
21 Luglio 2017
Red su Democraziaoggi.
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labsusIL PUNTO DI LABSUS
La cittadinanza attiva, i beni comuni e il destino della democrazia
Antonio Floridia – su Labsus, 17 luglio 2017
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gruppo-inter-giurid-caCari politici, ma che idea avete sul futuro delle coste sarde?
Gruppo d’Intervento giuridico onlus.
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lastampatop2L’onore di Roma svenduto dalla politica per un pugno di voti
Gigantesche calunnie, indignazioni roboanti, danni letali. La mafia non c’era ma è servita a tutti, dal Pd ai Cinquestelle
di Mattia Feltri, su La Stampa.
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I piromani

infernoChe l’Italia sia devastata da un esercito di piromani e di untori è una leggenda metropolitana come quella dell’incendio di Nerone. Ma un tempo è finito

ranierolavalle-fbdi RANIERO LA VALLE

La storia secondo la quale all’Italia sarebbe stato appiccato il fuoco dalle Alpi alla Sicilia (quattordici incendi solo nella città di Messina) da un esercito di piromani, mafiosi, camorristi speculatori e padroncini di Canadair, è come la favola dell’incendio di Roma appiccato da Nerone. Fa comodo a tutti dare la colpa ai piromani quando i piromani sono loro. Il vero piromane è Trump che rompe il timidissimo e solo preliminare accordo mondiale sul clima, piromani sono gli interessi petroliferi e finanziari che hanno bloccato fin qui le tecnologie già pronte per il passaggio alle energie alternative, per le quali già oggi il parco delle automobili potrebbe essere formato da auto elettriche e la motorizzazione su autostrada potrebbe essere sostituita dalle ferrovie, piromani sono le economie speculative che hanno fatto inaridire la terra, rinsecchire il verde, hanno privatizzato le acque, abolito le guardie forestali, burocratizzato le procedure antincendio, messo in ferie forzate guardie ambientali e vigili del fuoco; piromani sono quelli che non battono ciglio quando già intere isole sono sommerse, terre fertili sono diventate un deserto, i tropici avanzano e dalle riserve frigorifere dei poli si staccano iceberg grandi come la Sardegna; piromani sono quelli che non permettono l’immigrazione se non clandestina e ammassano fuggiaschi infelici in campi di detenzione dove basta una bombola, una lite o una spedizione punitiva di difensori dell’identità bianca per scatenare un inferno.
In questa situazione, quando il sole brucia la terra fino a 45 gradi, basta un frammento di vetro, una bottiglia abbandonata, un rifiuto di plastica per concentrare i raggi e accendere il fuoco alle stoppie, ai campi riarsi, ai cigli delle strade inariditi, alle città stesse.
Si può cambiare? Sì, si può cambiare, se torna la grande politica, non solo a mettere a tacere la petulanza dei piccoli arrivisti italiani, ma a mettere insieme i popoli in un nuovo grande patto mondiale come quello che fondò il diritto sovranazionale e mise al bando la guerra e perfino la minaccia dell’uso della forza nel 1945 a San Francisco.
Diritto universale di migrare, apertura delle frontiere e risanamento della terra sono i problemi più urgenti che con tenace speranza papa Francesco ha messo davanti ai potenti riuniti per un loro ennesimo balbettante vertice ad Amburgo nella prima settimana di luglio, con una lettera che pubblichiamo in questo sito.
Ma per cambiare rotta e registro bisogna prendere atto che questa epoca suicida è giunta alla fine, e che un nuovo tempo sta lievitando dal profondo, ed il tempo è questo, come argomenterà la nostra assemblea del prossimo 2 dicembre a Roma.
Quasi a ricordarci che tutto un tempo è finito, si sono accumulati i lutti di questo mese, tra giugno e luglio 2017. A metterli tutti in una luce non di fine, ma di principio, era venuto il 20 giugno scorso la grande rivendicazione papale delle profezia civile e religiosa di don Milani; e le morti dolorose che si sono susseguite dopo quel giorno, quasi a prolungarne il ricordo, sono state evocatrici di un intrico di dolori e speranze, di sconfitte subite e di vittorie annunciate: da quella, il 23 giugno, di Stefano Rodotà, a quelle di Ettore Masina, di Luigi Pedrazzi, fino alla morte il 13 luglio di Giovanni Franzoni. Ed è stato bello che nel commiato funebre dall’ex abate di San Paolo l’attuale abate della basilica lo abbia in qualche modo ricompreso nel mondo monastico, a cui Franzoni comunque apparteneva come “monaco in uscita”.
Messe tutte insieme, queste morti sono un segno dei tempi, che annuncia un passaggio d’epoca, così come nel 1992 avemmo il segno del passaggio da una stagione di progetto e di speranza che si chiudeva a una stagione di tristezza e restaurazione che si annunciava, quando mancarono insieme padre Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Cettina Capocasale, Italo Mancini, e la guerra tornava di moda.
Adesso invece una stagione sembra aprirsi, una novità annunciarsi. I tempi si succedono, a volte scanditi da segni più vistosi, a dirci che la storia va avanti, e nonostante tutto va verso l’aurora e non verso il tramonto.
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logo76I PIROMANI
19 LUGLIO 2017 / EDITORE / DICONO I FATTI/

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UNA NUOVA ERA SENZA INUTILI STRAGI, PROPIZIA PER L’AMBIENTE, CON PROGRESSIVA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE PER TUTTI, E ANZITUTTO PER I POVERI E I FUGGIASCHI
L’agenda del Papa per i potenti
Il 29 giugno 2017 papa Francesco rivolgeva la seguente lettera ai potenti del G20 convocati per il 7 e 8 luglio ad Amburgo sotto la regia della Cancelliera Angela Merkel, che al papa aveva chiesto un messaggio da trasmettere al Vertice.

Dottoressa Angela Merkel
Cancelliere della Repubblica Federale di Germania
In seguito al nostro recente incontro in Vaticano e rispondendo alla Sua opportuna richiesta, desidero trasmetterLe alcune considerazioni che stanno a cuore a me e a tutti i Pastori della Chiesa Cattolica, in vista del prossimo incontro del G20, nel quale sono presenti i Capi di Stato e di Governo del Gruppo delle maggiori economie mondiali e le massime autorità dell’Unione Europea. Seguo così anche una tradizione iniziata da Papa Benedetto XVI, nell’aprile 2009, in occasione del G20 di Londra. Il mio Predecessore scrisse all’Eccellenza Vostra anche nel 2006 nella circostanza della Presidenza tedesca dell’Unione Europea e del G8.
Vorrei innanzitutto manifestare a Lei e ai leader che si incontreranno ad Amburgo il mio apprezzamento per gli sforzi compiuti per assicurare la governabilità e la stabilità dell’economia mondiale, con particolare attenzione ai mercati finanziari, al commercio, ai problemi fiscali e, più in generale, ad una crescita economica mondiale che sia inclusiva e sostenibile (cfr. Comunicato del G20 di Hangzhou, 5 settembre 2016). Tali sforzi, come ben prevede il programma di lavoro del Vertice, sono inseparabili dall’attenzione rivolta ai conflitti in atto e al problema mondiale delle migrazioni.
Nel Documento programmatico del mio Pontificato rivolto ai fedeli cattolici, l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, ho proposto quattro principi di azione per la costruzione di società fraterne, giuste e pacifiche: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; e il tutto è superiore alle parti. E’ evidente che queste linee di azione appartengano alla sapienza multisecolare di tutta l’umanità e perciò ritengo che possano anche servire come contributo alla riflessione per l’incontro di Amburgo e anche per valutare i suoi risultati.
Il tempo è superiore allo spazio. La gravità, la complessità e l’interconnessione delle problematiche mondiali sono tali che non esistono soluzioni immediate e del tutto soddisfacenti. Purtroppo, il dramma delle migrazioni, inseparabile dalla povertà ed esacerbato dalle guerre, ne è una prova. E’ possibile invece mettere in moto processi che siano capaci di offrire soluzioni progressive e non traumatiche e di condurre, in tempi relativamente brevi, ad una libera circolazione e alla stabilità delle persone che siano vantaggiosi per tutti. Tuttavia, questa tensione tra spazio e tempo, tra limite e pienezza, richiede un movimento esattamente contrario nella coscienza dei governanti e dei potenti. Una efficace soluzione distesa necessariamente nel tempo sarà possibile solo se l’obiettivo finale del processo è chiaramente presente nella sua progettualità. Nei cuori e nelle menti dei governanti e in ognuna delle fasi d’attuazione delle misure politiche c’è bisogno di dare priorità assoluta ai poveri, ai profughi, ai sofferenti, agli sfollati e agli esclusi, senza distinzione di nazione, razza, religione o cultura, e di rigettare i conflitti armati.
A questo punto, non posso mancare di rivolgere ai Capi di Stato e di Governo del G20 e a tutta la comunità mondiale un accorato appello per la tragica situazione del Sud Sudan, del bacino del Lago Ciad, del Corno d’Africa e dello Yemen, dove ci sono 30 milioni di persone che non hanno cibo e acqua per sopravvivere. L’impegno per venire urgentemente incontro a queste situazioni e dare un immediato sostegno a quelle popolazioni sarà un segno della serietà e sincerità dell’impegno a medio termine per riformare l’economia mondiale ed una garanzia del suo efficace sviluppo.
L’unità prevale sul conflitto. La storia dell’umanità, anche oggi, ci presenta un vasto panorama di conflitti attuali o potenziali. La guerra, tuttavia, non è mai una soluzione. Nella prossimità del centenario della Lettera di Benedetto XV Ai Capi dei Popoli Belligeranti, mi sento obbligato a chiedere al mondo di porre fine a tutte queste inutili stragi. Lo scopo del G20 e di altri simili incontri annuali è quello di risolvere in pace le differenze economiche e di trovare regole finanziarie e commerciali comuni che consentano lo sviluppo integrale di tutti, per raggiungere l’Agenda 2030 e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (cfr. Comunicato del G20 di Hangzhou). Tuttavia, ciò non sarà possibile se tutte le parti non si impegnano a ridurre sostanzialmente i livelli di conflittualità, a fermare l’attuale corsa agli armamenti e a rinunciare a coinvolgersi direttamente o indirettamente nei conflitti, come pure se non si accetta di discutere in modo sincero e trasparente tutte le divergenze. È una tragica contraddizione e incoerenza l’apparente unità in fori comuni a scopo economico o sociale e la voluta o accettata persistenza di confronti bellici.
La realtà è più importante dell’idea. Le tragiche ideologie della prima metà del secolo XX sono state sostituite dalle nuove ideologie dell’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria (cfr. Evangelii Gaudium, 56). Esse lasciano una scia dolorosa di esclusione e di scarto, e anche di morte. Nei successi politici ed economici, invece, che pure non sono mancati nel secolo scorso, si riscontra sempre un sano e prudente pragmatismo, guidato dal primato dell’essere umano e dalla ricerca di integrare e di coordinare realtà diverse e a volte contrastanti, a partire dal rispetto di ogni singolo cittadino. In tale senso, prego Dio che il Vertice di Amburgo sia illuminato dall’esempio di leader europei e mondiali che hanno privilegiato sempre il dialogo e la ricerca di soluzioni comuni: Schuman, De Gasperi, Adenauer, Monnet e tanti altri.
Il tutto è superiore alle parti. I problemi vanno risolti in concreto e dando tutta la dovuta attenzione alle loro peculiarità, ma le soluzioni, per essere durature, non possono non avere una visione più ampia e devono considerare le ripercussioni su tutti i Paesi e tutti i loro cittadini, nonché rispettare i loro pareri e le loro opinioni. Vorrei ripetere l’avvertenza che Benedetto XVI indirizzava al G20 di Londra nel 2009. Sebbene sia ragionevole che i Vertici del G20 si limitino al ridotto numero di Paesi che rappresentano il 90% della produzione mondiale di beni e di servizi, questa stessa situazione deve muovere i partecipanti ad una profonda riflessione. Coloro – Stati e persone – la cui voce ha meno forza sulla scena politica mondiale sono precisamente quelli che soffrono di più gli effetti perniciosi delle crisi economiche per le quali hanno ben poca o nessuna responsabilità. Allo stesso tempo, questa grande maggioranza che in termini economici rappresenta solo il 10 % del totale, è quella parte dell’umanità che avrebbe il maggiore potenziale per contribuire al progresso di tutti. Occorre, pertanto, far sempre riferimento alle Nazioni Unite, ai programmi e alle agenzie associate e alle organizzazioni regionali, rispettare e onorare i trattati internazionali e continuare a promuovere il multilateralismo, affinché le soluzioni siano veramente universali e durature, a beneficio di tutti (cfr. Benedetto XVI, Lettera all’On. Gordon Brown, 30 marzo 2009).
Ho voluto offrire queste considerazioni come contribuito ai lavori del G20, fiducioso nello spirito di solidarietà responsabile che anima tutti i partecipanti. Invoco perciò la benedizione di Dio sull’incontro di Amburgo e su tutti gli sforzi della comunità internazionale per attivare una nuova era di sviluppo innovativa, interconnessa, sostenibile, rispettosa dell’ambiente e inclusiva di tutti i popoli e di tutte le persone (cfr. Comunicato del G20 di Hangzhou).
Gradisca, Eccellenza, le mie espressioni di alta considerazione e stima.

Vaticano, 29 Giugno 2017

Francesco

Un grido per l’Africa

scalarini-africaUn grido per l’Africa.
Alex Zanotelli il missionario confinato a Napoli, rilancia il suo anatema contro il silenzio sull’Africa.
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Aderiamo con convinzione all’appello di padre Alex Zanotelli ai giornalisti: “Rompiamo il silenzio sull’Africa”. Ha ragione Zanotelli quando indica molti dei mali dell’Africa e invita i Media ad occuparsene, a far conoscere la realtà vera dei problemi che stanno all’origine delle grandi migrazioni. Mi permetto di suggerire anche agli amici insegnanti di fare altrettanto nelle scuole per far conoscere la realtà del mondo e quindi la storia vera dell’Africa. In Italia si fa un gran parlare delle ragioni di chi vorrebbe impedire l’arrivo dei migranti nel nostro paese e, spesso, si perde molto tempo a confutare queste tesi con interlocutori che non meritano il nostro tempo e la nostra attenzione. Rispondiamo invece raccontando la storia dei conflitti, dei problemi e delle contraddizioni dell’Africa per acuire le quai l’Italia e i Paesi coloniali hanno maturato gravi responsabilità. Troviamo il coraggio di raccontare ai giovani che seguono le deliranti farneticazioni di Casa Pound cosa ha fatto l’Italia in Abissinia e in Eritrea. Erano i nostri padri e i nostri nonni, volevano realizzare l’Impero. (V.T.)

Oggi giovedì 20 luglio 2017

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democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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lampadadialadmicromicro1Gli Editoriali di Aladinews. DIBATTITO. SARDEGNACHEFARE? sardegna-comuniunica
La tessitura del nuovo.
di STEFANO PUDDU CRESPELLANI
La difficoltà non consiste nel trovare idee nuove,
ma nel liberarsi dalle vecchie.
Albert Einstein


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democraziaoggi
Il folle sistema locale regionale si sfalda. Qualche idea per riformarlo
20 Luglio 2017

Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
provincia-del-sud-sardegna
(la folle circoscrizione della prov. Sud Sardegna con capoluogo Carbonia…ma sede a Cagliari!)
Non passa giorno che su L’Unione non compaia la richiesta, la protesta o il voto di un comune della Provincia Sud Sardegna che vuole andar via, chi a Cagliari chi a Nuoro.
Ha iniziato Villasimius: “è un tutt’uno con l’area metropolitana di Cagliari, […]

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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» ITALIANI BRAVA GENTE
eddyburgCome fermare i moltiplicatori dell’odio
di CHIARA SARACENO
«Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma anche l’odio non sa fare a meno delle parole». la Repubblica, ripreso da eddyburg, 20 luglio 2017 (c.m.c)

unica

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L’Università (s’Universidadi de Casteddu, de domu de Boreddu)

Migrazioni: un’ipocrisia dopo l’altra

fullsizerender-10di Roberta Carlini, su Rocca

Ancor più che sulla Grecia, sull’indisciplina fiscale dei Paesi del Sud, sul deficit di rappresentanza democratica, sulla più grande crisi economica del dopoguerra, l’Unione europea oggi può naufragare sull’emergenza delle migrazioni. Ma i motivi del naufragio non sarebbero molto diversi da tutti quelli che hanno scosso le fondamenta dell’Unione negli ultimi anni: e hanno a che fare con la mancata cooperazione per problemi che possono risolversi solo con un approccio cooperativo. Da questo punto di vista, l’emergenza dei migranti-rifugiati e quella del debito greco o italiano non sono molto diverse: anche se le fragili istituzioni dell’Unione, sopravvissute ai terremoti economici e finanziari, rischiano stavolta di essere travolte.

il gioco di squadra che non c’è
Un piccolo passo indietro. Quando, qualche estate fa, esplose la crisi del debito greco, in molti dissero che sarebbe stato tutto sommato indolore per i Paesi europei farsi carico dei problemi di quel piccolo Paese, per tenere al riparo le banche degli altri (e anche i bilanci pubblici) dalle ripercussioni di quella crisi. Non lo si volle fare, e alla fine la Grecia e anche l’Europa pagarono un prezzo più alto, poiché si scelse una linea politica: quella di chi non vuole assolutamente far passare il principio per cui dietro il debito di ogni Paese c’è la garanzia o il possibile aiuto degli altri. Alla strada della cooperazione si è preferita quella della competizione – anche tra i governi che vanno a chiedere soldi al mercato – e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: i Paesi «forti» restano tali, quelli «deboli» non sono affatto al riparo del rischio dell’indisciplina fiscale e non sono comunque riusciti a risanare i propri conti né a far ripartire la crescita. A tutti converrebbe un «gioco di squadra», ma questo non c’è, poiché l’Europa non è una squadra e le sue istituzioni politiche sono piccole e debolissime rispetto
allo spazio della moneta e del mercato.

l’urto dell’ondata migratoria
Questa situazione va tenuta presente, quando ci si chiede come mai la zona economica che comunque è la prima al mondo (o seconda, dipende dai criteri di valutazione) non riesce a reggere l’urto di un’ondata migratoria che è sì in aumento, ma è ancora molto al di sotto di quella che preme sui Paesi meno sviluppati. Il 90 per cento dei profughi nel mondo è collocato nei Paesi in via di sviluppo, solo il 10 per cento è giunto nella nostra parte del mondo, quella «sviluppata». Nel suo picco massimo, il 2015, l’Europa ha ricevuto 1.046.599 nuovi arrivi: su una popolazione di 743 milioni di persone, fa l’1,4 per mille. Ma quell’anno – possiamo ricordarlo bene, rivedendo le immagini che ci arrivavano dalla rotta balcanica e poi dalle stazioni di Vienna, Monaco, Berlino – il flusso fu soprattutto via terra e gli arrivi si diressero subito verso i Paesi centrali e nordici dell’Europa: quelli che restano comunque i più ambiti, sia da chi cerca lo status di rifugiato che da chi cerca «solo» lavoro e casa, perché c’è più lavoro, un welfare funzionante, spesso comunità di concittadini già insediate. Cosa è successo da allora? Il 18 marzo del 2016 l’Unione europea e la Turchia hanno firmato l’accordo che ha chiuso la rotta balcanica, e ricacciato tutti i migranti-rifugiati nei campi profughi di Erdogan. Per la Turchia, quella trattativa è valsa un compenso di 3 miliardi di euro. Per la Germania e satelliti, la chiusura dei confini. Per i Paesi del Mediterraneo, soprattutto Italia e Grecia, ha significato la ripresa dei flussi via mare.

emergenza Mediterraneo
Non è vero infatti che nel 2016 e 2017 è aumentata la pressione migratoria: i flussi sono in riduzione ovunque, tranne che sulle coste sud del Mediterraneo. Nel 2016 si sono avuti 362.753 arrivi via mare, e poco più di 25mila via terra. Nei primi mesi del 2017 gli arrivi dal mare sono stati 101.561, e quelli via terra solo 1.206 (dati Unhcr, aggiornati al 10 luglio). Sono saliti, di conseguenza, anche i morti in mare: 5.098 nel 2016, mentre siamo a 2.306 per questo primo scorcio del 2017. Nello stesso periodo, essendo cambiate le regole del soccorso degli Stati alle persone in mare, sono cresciuti anche i numeri di salvataggi effettuati dalle organizzazioni non governative, senza le cui navi nel Mediterraneo ci sarebbero molti più morti. Dunque, non esiste un’emergenza profughi europea, ma un’emergenza nel Mediterraneo e soprattutto verso l’Italia, originata dalle nuove regole europee; all’interno delle quali, l’Italia ha avuto qualche aiuto (molto inferiore al cachet pagato al dittatore turco): 558 milioni originariamente stanziati nei fondi europei, che saliranno di 35 milioni in virtù delle scarsissime concessioni fatte all’Italia nel fallimentare vertice di Tallinn. In più, l’Italia ha fatto «pesare» l’emergenza immigrazione anche nei complicati calcoli sulla flessibilità aggiuntiva nei conti pubblici, per calcolare quanto deficit può fare nelle sue manovre economiche: ma anche qui si tratta di pochi spiccioli, non certo risolutivi (né per gli immigrati né per la spesa pubblica).
Più che sbattere i pugni sul tavolo fuori tempo massimo, o cercare di spostare verso i politici europei il malcontento che si indirizza verso quelli autoctoni, sarebbe bene dunque cominciare a disvelare, una a una, le tante ipocrisie che si accumulano sulla questione dei migranti e dei rifugiati.
La prima ipocrisia è quella dei Paesi dell’Unione europea che hanno originato la crisi nel Mediterraneo, chiudendo con i soldi la rotta balcanica (e anche curandosi poco delle condizioni delle persone che, fuggendo da guerre e carestie, finiscono nei campi in Turchia), e adesso non vogliono occuparsene, considerandolo un problema italiano. Come se fosse una «colpa» dell’Italia – tra le tante reali che ha – quella di trovarsi piazzata come un terminal per traghetti in mezzo al Mediterraneo.

Ma è ipocrita anche la posizione del governo italiano che se la prende con gli altri Paesi per il rispetto di quegli accordi che lui stesso ha firmato, con la missione Triton. Tutti insieme poi si trovano nell’ipocrisia comune, quella di incolpare le organizzazioni non governative perché, soccorrendo i migranti in mare, incentiverebbero i nuovi arrivi: ma quanti morti in più potremmo tollerare ai nostri confini se non ci fosse il lavoro quotidiano delle Ong? E quanti morti di freddo o di caldo o di fame, se non ci fosse poi il volontariato sul territorio? Senza contare l’assistenza sanitaria e anche quella dell’educazione – i corsi di alfabetizzazione – totalmente nelle mani del volontariato, con scarsissima attivazione pubblica, se non in alcuni enti locali virtuosi.

per invertire la rotta
Sotto tutte queste ipocrisie, stiamo in realtà assistendo a una politica di respingimento subdolo, che non ottiene i suoi effetti – la gente continua a partire, dall’Africa subsahariana, dalla Siria, dal Bangladesh – e però costa moltissimo. Costa in termini di vite umane, e anche in termini economici: la gestione dell’emergenza è più onerosa, spesso aperta a infiltrazioni di corruzione (come si è mostrato in parecchi episodi di cronaca, dalla gestione dei centri di accoglienza a Mafia capitale), e politicamente spesso diventa insostenibile. E così assistiamo allo scaricabarile da parte di sindaci anche sedicenti progressisti, mentre una ordinata e ordinaria distribuzione dei profughi tra tutti i Comuni italiani renderebbe molto più facile gestire il loro arrivo. Per invertire la rotta e cercare di fare una politica più efficace, oltre che più umana, è necessario di certo che ciascuno riprenda il suo ruolo, e l’Unione europea accetti di gestire su scala comunitaria un problema che, di per sé, non conosce confini; ma anche che i politici italiani, a livello nazionale come del singolo Comune, non si coprano dietro l’inazione e l’ipocrisia europee, ossia non pensino di cancellare il problema addossandone interamente la colpa a qualcun altro.

Roberta Carlini
MIGRAZIONI
un’ipocrisia dopo l’altra
ROCCA 1 AGOSTO 2017

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rocca-15-2017
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Oggi mercoledì 19 luglio 2017

democraziaoggisardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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costat-logo-stef-p-c_2-2In autunno riparte la campagna per una nuova legge elettorale
19 Luglio 2017
democraziaoggiAlfiero Grandi vice presidente vicario Comitato per il No
Il 2 ottobre i Comitati referendari porranno di nuovo con tutta la forza di cui sono capaci la richiesta di una legge elettorale nuova, coerente per Camera e Senato che chiuda con la fase dei porcellum, degli italicum e consenta agli italiani di eleggere un parlamento credibile, […]
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SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-ESODOXXI
79ca02d00253c9e0fabed49790e3f91b117x83Appello di padre Alex Zanotelli ai giornalisti: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
di ALEX ZANOTELLI
Una forte invettiva contro i mille silenzi dei mass media sulla giungle di delitti che giorno dopo giorno vengono compiuti in Africa. I nostri posteri ci ricorderanno come noi oggi ricordiamo i nazisti?. FNSI (Federazione italiana stampa italiana), ripreso da eddyburg e da Aladinews, 18 luglio 2017 (m.c.g.)

E’ inaccettabile…

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L’appello di Alex Zanotelli
È inaccettabile il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).

Depressione post-maturità e adesso, cosa faccio?

rocca-15-2017di Marco Gallizioli su Rocca

È innegabile che l’esame di Stato costituisca uno dei primi, veri, banchi di prova per i giovani contemporanei. Dopo aver trascorso cinque anni all’interno di una struttura più o meno protetta quale è la scuola, i ragazzi si trovano catapultati davanti ad una commissione, formata in gran parte da sconosciuti, a rispondere ad un fuoco incrociato di quesiti, cercando di dimostrare di aver acquisito conoscenze generali, competenze comunicative e abilità logiche accettabili. Si tratta di un’esperienza importante, perlomeno a livello simbolico, perché assume le forme di un laico rito di passaggio. Ma, accanto a queste considerazioni, l’esame diviene anche un’occasione per riflettere sulle trasformazioni antropologiche che caratterizzano il nostro tempo liquido e accelerato.

dal torpore sonnacchioso al sacro furore
In primo luogo, è oggetto di una sorta di rimozione, soprattutto proprio da parte dei protagonisti: molti allievi dell’ultimo anno di corso realizzano che dovranno affrontare un esame impegnativo solo verso la metà del secondo quadrimestre, quando sono scossi da un vero e proprio risveglio post-traumatico. Solo verso marzo-aprile si rendono conto, infatti, che dovranno dimostrarsi preparati su tutto il programma della maggior parte delle discipline e, in più, che dovranno elaborare una tesina multidisciplinare, da cui partire per dimostrare le loro capacità. Immaginatevi lo shock: su tutto il programma? Di quasi tutte le materie? Il torpore sonnacchioso e indolente, allora, si innerva improvvisamente di un sacro furore, generando vere e proprie reazioni a catena, per lo più positive: i sensi si tendono, lo sguardo si affina, la postura si raddrizza, le creste si abbassano. Compaiono gli occhiali da vista, che fanno tanto intellettuale, le barbe dei ragazzi si infittiscono a mo’ di pasionario sessantottino (se così si può dire, visto che per i ragazzi il ’68 è confinato nella preistoria, avvolto nelle nebbie di un passato perduto per sempre), il make up delle ragazze diviene più sobrio e sfumato. Si palesano, poi, i dubbi amletici sull’argomento della tesina: è preferibile un percorso interdisciplinare, o un approfondimento monotematico? Una semplice mappa concettuale, o una relazione dettagliata? Una presentazione su power point, o su supporto cartaceo, che fa tanto vintage? Poi si sa che i prof tanto svelti con le tecnologie non sono: c’è caso che per caricare un file e video-proiettarlo se ne vada la maggior parte dei minuti a disposizione.

prooof… aiuto!
Il tema dell’approfondimento, poi, diviene una vera e propria vexata quaestio: cosa portare? E così, cominciano le domande agli insegnanti, prima timide e impacciate, poi sempre più pressanti e disperate che comportano vere e proprie richieste di aiuto, appostamenti dietro ogni angolo dei corridoi scolastici, all’uscita dalla toilette insegnanti e dell’aula docenti, incontri «fortuiti» sotto casa, sia quella reale sia quella mediatica, visto che tutti siamo esposti e rintracciabili in rete. «Proooof… non so cosa fare, non ho un’idea valida…», diventa il mantra che i docenti, soprattutto quelli delle discipline umanistiche, si sentono ripetere con insistenza da marzo in avanti. E quando tu, insegnante, li solleciti a partire dai loro interessi, dalle loro letture, dalle loro attese, ti rendi conto che molti ragazzi non sono stati educati a coltivare interessi personali, letture individuali, sogni, per cui faticano a trovare il bandolo della matassa. Eccolo lì, dirà il lettore: anche Gallizioli si è trasformato in uno di quei docenti lagnosi e barbogi, sempre pronti a proiettare sulle giovani generazioni ogni sorta di negatività. Non posso negare di appartenere anch’io alla categoria dei docenti e, in quanto tale, di essere stato contagiato dal virus della «lamentite» acuta, ma, a mia parziale discolpa, vorrei sottolineare che, quando registro che i ragazzi faticano ad elaborare percorsi di approfondimento a partire dai propri interessi, implicitamente pongo in rilievo che è il mondo degli adulti a non aver saputo instillare il gusto della ricerca, a non aver educato alla proiezione verso il futuro. Poi occorre riconoscere che, dopo aver fatto piazza pulita delle prime idee che ci vengono offerte dai ragazzi, quasi tutte tratte dalla frequentazione dei siti per studenti, con itinerari di approfondimento già strutturati e, in quanto tali, insopportabilmente noiosi, e, soprattutto, dopo essersi trangugiati un po’ di banalità e di collegamenti multidisciplinari un po’ fantasiosi, le idee vengono fuori ed alcune sono anche interessanti, originali e belle.
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