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DIBATTITO. LavoroCheFare? «Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà»
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » LAVORO
Il lavoro è un esercizio di libertà, reddito di base senza condizioni»
di ROBERTO CICCARELLI
Roberto Ceccarelli intervista Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, sul senso antropologico del lavoro, una merce sempre più disprezzata dal capitalismo. il manifesto, ripreso da eddyburg e da aladinews, 26 luglio 2017
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«Indagine Ue su occupazione e sviluppi sociali 2017. “Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà”»
Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, secondo l’indagine su occupazione e sviluppi sociali 2017 della Commissione Europea l’occupazione nel continente non è mai stata così alta dall’inizio della crisi.
A cosa è dovuta questa crescita?
«All’aumento dell’età pensionabile, del lavoro degli over 50, del part-time involontario e della precarietà. Il dato complessivo di 234 milioni di persone al lavoro va analizzato in dettaglio. Se guardiano i dati relativi alle unità di lavoro equivalenti, ovvero la quantità di lavoro richiesta dalle imprese, questa cresce a un saggio inferiore rispetto alla crescita degli addetti. Il che significa che la quantità di lavoro resta ancora stagnante, ma aumenta la quota dei precari a scapito dei posti fissi si ha un aumento delle persone occupate ma con un livello reddituale peggiorato. In pratica il lavoro stabile viene sostituito dal lavoro precario.
Mentre in Europa la quota dei Neet diminuisce, in Italia continuano a crescere. Come si spiega questa differenza?
«In Italia il numero dei Neet (Not Engaged Education Employenent Training) è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. In Italia la quota dei cosiddetti scoraggiati, cioè coloro che non fanno nessuna ricerca di lavoro nel periodo della rilevazione, e quindi non vengono contabilizzati nei disoccupati veri e propri, è di gran lunga superiore alla media europea. Teniamo presente che gli scoraggiati sono sopratutto giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio. Una recente ricerca del progetto europeo «Pie news-commonsfare.net» ha evidenziato che i giovani precari sotto i 25-26 anni non cercano effettivamente lavoro. Sono quelli che possiamo chiamare precari di seconda generazione che vivono di «lavoretti» nella «gig economy». Non vedono più nel lavoro la principale forma di realizzazione. Il loro è un rifiuto individuale del lavoro che non assume una dimensione collettiva.
Nel nostro paese si registra anche un aumento record del lavoro autonomo. Per tradizione, siamo sempre stati un paese con tante partite Iva. Oggi la partita Iva è un modo per sfuggire alla precarietà o di essere diversamente precari?
«In Italia la quota di lavoratori non subordinati, detti autonomi, è pari al 23%. Buona parte è composta da partita Iva, in parte sono lavoratori individuali per conto terzi che svolgono prevalentemente un lavoro eterodiretto che spesso è l’unica possibilità immediata per avere un minimo di reddito intermittente. Quest’ultima è una forma di precarietà che ha una storia strutturale nel nostro paese.
Cosa dire ai giovani che non avranno una pensione degna?
«Le riforme pensionistiche in Italia con il passaggio al sistema contributivo hanno risolto il problema della sostenibilità economica della spesa previdenziale, ma hanno innescato una bomba sociale. In presenza di elevata precarietà lavorativa, i contributi versati non permetteranno a molti di godere di un livello di pensione superiore alla povertà relativa. Saranno costretti a lavorare finché moriranno, oppure a sperare di morire prima di andare in pensione. Questo obbligherà, a partire dal 2030, quando il sistema contributivo andrà a regime, a un intervento di sostegno al reddito per coloro che si troveranno in una situazione di povertà.
Come si spiega il boom della povertà nel nostro paese, unico caso in Europa con Romania e Estonia?
«La povertà non riguarda più solo coloro che sono fuori dal mercato del lavoro: i disoccupati e i pensionati con basso reddito. Riguarda sempre più anche coloro che sono all’interno del mercato del lavoro. Questa è la quota di poveri che aumenta di più. Per l’Istat il dato preoccupante è quello degli «operai e assimilati» che hanno un rapporto di lavoro continuato. L’incidenza della povertà sfiora il 20%, uno su cinque, contro il 33% dei disoccupati. Ciò vuol dire che il lieve incremento occupazionale in corso si coniuga con l’ampliamento della «trappola della precarietà» i cui effetti sulla dinamica della domanda e della polarizzazione dei redditi sono ormai evidenti.
Basterà il reddito di inclusione contro la povertà voluto dal governo?
«Assolutamente no. Il reddito di inclusione, finanziato con 700 milioni che saliranno a 1 miliardo e 400 nel 2018 è sottoposto a tali vincoli di accesso da far sì che solo meno del 20 per cento delle famiglie in povertà assoluta potranno goderne.
Il governo promette di aumentare i fondi…
«È difficile che tale promessa possa essere mantenuta nei vincoli di bilancio se il governo decide in modo prioritario di spendere quasi 10 miliardi di euro per vari salvataggi bancari. Bankitalia stima che tale decisione farà aumentare dell’1 per cento il rapporto debito/Pil.
La commissaria Ue all’occupazione Thyssen sostiene che l’Europa è per il reddito minimo, ma lascia ai singoli paesi la possibilità di adottare il reddito di cittadinanza. Qual è la soluzione migliore?
«La discussione sulla scelta tra reddito minimo e di cittadinanza è malposta. Il vero discrimine non è l’universalità ma l’incondizionalità: un reddito dato senza nessuna contropartita. Sarebbe più utile erogare un reddito di base pari alla soglia di povertà relativa di 780 euro al mese partendo da coloro che si trovano al di sotto di questa soglia a livello individuale con un esborso di 15 miliardi netti annui più i 9 miliardi già stanziati per gli ammortizzatori sociali. Con l’accortezza di specificare che tale reddito dev’essere il più incondizionato possibile.
In Italia non c’è né l’uno, né l’altro…
«Nel nostro paese qualsiasi proposta di legge sul reddito minimo, o di base, dev’essere accompagnata da una proposta di salario minimo orario per i non contrattualizzati. Per evitare il rischio di un effetto sostituzione tra il salario e il reddito.
Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli sostengono che le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”. Ritiene che questa impostazione permetta di superare la contrapposizione tra reddito e lavoro?
«La trovo corretta. Nell’attuale contesto capitalistico, che non è quello del secondo Dopoguerra, il lavoro remunerato andrà a diminuire con l’automazione tecnologica, soprattutto nel comparto dei servizi. Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà.
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Verso il Convegno sul Lavoro.
Su questo stesso argomento il precedente Editoriale di Gianfranco Sabattini
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Approfondimenti ulteriori.
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Luigi Ferrajoli: Reddito di cittadinanza, Il diritto universale alla vita
Intervista di Roberto Ciccarelli con il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli [giugno 2011]
Dopo la politiche neoliberiste attuate da governi conservatori e progressisti, la sinistra deve tornare a proporre soluzioni che impediscano la riduzione del lavoro a merce
«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (il manifesto del 25 maggio) e [...] interverrà al meeting sull’«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l’uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un’indennità legata al non lavoro o alla povertà. L’ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».
Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?
«Certamente il reddito costa, ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l’ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell’istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all’introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell’istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti».
Come si possono recuperare le risorse necessarie?
«Dal prelievo fiscale, che tra l’altro dovrebbe essere riformato sulla base dell’articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde».
Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?
«Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un’innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale».
Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?
«No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall’articolo 3, ma addirittura nel secondo comma dell’articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l’articolo 34 della carta di Nizza, l’articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale».
La sinistra crede in questa prospettiva?
«No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l’unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l’impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l’eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell’autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso».
Per quanto riguarda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?
«Esattamente l’opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un’attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d’altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all’estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l’unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?
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APPROFONDIMENTI
Migranti. L’integrazione è al lavoro
Laura Zanfrini, su L’Avvenire di giovedì 20 luglio 2017
Immigrati e rifugiati, il salto di qualità necessario. Gli stranieri possono essere presenza strategica per ridisegnare i sistemi di accompagnamento al lavoro e protezione sociale
L’integrazione è al lavoro
Già altre volte, su questo giornale [L'Avvenire], ho avuto modo di denunciare i limiti e i costi di un modello d’integrazione miope e angusto, sottolineando l’esigenza di un ‘salto di qualità’ capace di valorizzare il potenziale che l’immigrazione porta con sé. I caratteri di questo modello sono noti, ed efficacemente evocati dal luogo comune ‘gli immigrati fanno i lavori che noi non vogliamo più fare’. Senza sottovalutare le esigenze di ricambio demografico delle forze lavoro, ribadite in questi giorni dallo stesso presidente dell’Inps, è evidente che l’occupabilità degli immigrati – addirittura sorprendente, se si guarda ai numeri degli occupati, costantemente in crescita da molti anni – sia in buona misura da ascrivere alla loro elevata adattabilità, alla disponibilità a svolgere qualsiasi lavoro, fino ad accettare ‘regole d’ingaggio’ che rasentano lo schiavismo. Nell’ultimo quarto di secolo, il nostro mercato del lavoro ha conosciuto una trasformazione straordinaria e irreversibile, che l’ha reso sempre più distante dal mito dell’omogeneità etnica, culturale e religiosa.
Dapprima circoscritto ai comparti più etnicizzati, il lavoro immigrato è divenuto via via più consistente, al pari del suo contributo alla creazione del Pil, fino a inaugurare una nuova era: una diversity transition in cui la ‘diversità’ andrà opportunamente riconosciuta e valorizzata, così da massimizzarne l’impatto per lo sviluppo economico e gli equilibri dei sistemi di welfare. Al tempo stesso però, l’eredità di questa imponente trasformazione è una condizione di svantaggio strutturale di cui molti immigrati sono vittime, insieme ai loro figli. Le famiglie straniere si concentrano nelle fasce a reddito più basso, e sono decisamente sovra-rappresentate tra quelle in condizione di povertà relativa e assoluta, nonché tra quelle che dispongono di un solo reddito o sono addirittura prive di alcun reddito. Sono, ancora, proporzionalmente più numerose tra quelle che percepiscono sussidi di sostegno al reddito anche perché a seguito della recessione hanno patito un forte arretramento della condizione reddituale. Infine, complice una dinamica immigratoria continua e sostenuta, negli ultimi anni sono cresciuti tanto gli stranieri inattivi (un dato fisiologicamente associato al processo di stabilizzazione), quanto quelli disoccupati (con la crescita del differenziale negativo nel confronto con gli italiani).
A ben guardare, si tratta di dati del tutto coerenti coi tratti che contraddistinguono il lavoro immigrato in Italia: la concentrazione nei profili manuali e a più bassa qualificazione, la segregazione occupazionale nei settori e nei mestieri meno ambiti, lo svantaggio retributivo, la sovra-qualificazione diffusa, la forte contaminazione con l’economia sommersa. Un quadro che non solo contraddice quei principi di equità e di meritocrazia sui quali si fondano le democrazie europee, ma produce contraccolpi troppo a lungo sottovalutati da una retorica che ha preteso di fondare il diritto ad immigrare proprio sul bisogno di lavoro duttile e a buon mercato. Secondo la consapevolezza che ci consegnano i paesi con una più lunga esperienza d’immigrazione, se un tempo la discriminazione etnica e la condizione di svantaggio delle famiglie immigrate potevano essere liquidati come problemi ‘meramente’ di equità sociale, oggi se ne percepisce l’importanza non solo per la tenuta della coesione sociale, ma per la stessa competitività economica. Nello scenario demografico italiano ed europeo, la popolazione con un background migratorio è infatti divenuta una componente strutturale delle assottigliate fasce d’età più giovani e un fattore cruciale per i processi di turnover della popolazione attiva.
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L’eredità della trasformazione è una condizione di svantaggio strutturale di cui molti immigrati sono vittime, insieme ai loro figli
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La sostenibilità della società e dell’economia (e la stessa possibilità che gli immigrati ‘pagheranno le nostre pensioni’) si misura con la capacità d’accrescere tanto la partecipazione ai processi produttivi, quanto la produttività del lavoro, che a sua volta esige l’innalzamento della qualità complessiva dell’occupazione. In termini ancora più espliciti, il sotto-utilizzo del potenziale e delle capacità lavorative – degli autoctoni e degli immigrati – è un lusso che non potremo più permetterci. Alla luce di questa premessa, la disoccupazione che colpisce gli immigrati è particolarmente istruttiva in ordine a ciò – ovvero al molto – che resta da fare sul fronte delle politiche a sostegno dell’occupabilità e dell’attivazione. Quelle, ad esempio, rivolte alle donne con responsabilità familiari, che scontano ancor più delle italiane le difficoltà della conciliazione, a fronte di una domanda di lavoro che invece accentua le richieste di adattabilità. Ai più giovani, che sebbene abbiano tempi più rapidi di transizione al lavoro rispetto agli italiani – poiché escono prima dal sistema formativo -, incontrano poi maggiori difficoltà a stabilizzare la loro condizione occupazionale e sono più esposti al rischio di perdere il lavoro.
Ai lavoratori in età matura che, in un sistema che penalizza i percettori di basse retribuzioni, devono lavorare più a lungo per raggiungere una pensione dignitosa, dovendosi però confrontare con le discriminazioni che colpiscono i lavoratori ‘anziani’. Ai Neet, assai numerosi tra i giovani stranieri, specie tra le donne (quasi 1 su 2 tra le 1534enni immigrate), per le quali l’esclusione dal mercato del lavoro può significare l’esclusione dalla partecipazione sociale tout court. Le politiche, infine, rivolte ai rifugiati e richiedenti asilo, che costituiscono uno straordinario banco di prova della capacità di governance dei mercati del lavoro e della volontà inclusiva delle imprese. Costoro, più di tutti, riflettono le fondamentali esigenze che interpellano le politiche di sostegno all’occupabilità.
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Gli stranieri possono essere presenza strategica per ridisegnare i sistemi di accompagnamento al lavoro
e protezione sociale
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Vuoi perché più esposti al rischio d’instabilità lavorativa; vuoi perché protagonisti di biografie itineranti e composite, che spesso hanno comportato costosi adattamenti sul fronte degli affetti e delle responsabilità familiari; vuoi, ancora, perché aperti alla possibilità di riconversione e mobilità professionale, rappresentano una sorta di idealtipo del lavoratore contemporaneo, chiamato a costruire il proprio destino professionale, e a dargli un senso, ricolmando quelle cesure – tra socializzazione e lavoro, tra sfera della produzione e sfera della riproduzione, tra appartenenza locale e mercati globali – che così fortemente hanno permeato di sé la società moderna. In virtù degli svantaggi cumulativi che spesso li caratterizzano – ma anche delle loro risorse d’intraprendenza e duttilità – immigrati e rifugiati sono coloro che più decisamente sollecitano istituzioni, imprese e società civile a fornire risposte che permettano a ciascun individuo di convertire le proprie risorse personali – uniche e irripetibili – in effettive opportunità di vita e di lavoro. Sono proprio tali caratteristiche a renderli, inaspettatamente, una presenza strategica nel percorso di ridisegno dei sistemi di accompagnamento al lavoro e protezione sociale.
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Migrazioni: un’ipocrisia dopo l’altra
di Roberta Carlini, su Rocca
Ancor più che sulla Grecia, sull’indisciplina fiscale dei Paesi del Sud, sul deficit di rappresentanza democratica, sulla più grande crisi economica del dopoguerra, l’Unione europea oggi può naufragare sull’emergenza delle migrazioni. Ma i motivi del naufragio non sarebbero molto diversi da tutti quelli che hanno scosso le fondamenta dell’Unione negli ultimi anni: e hanno a che fare con la mancata cooperazione per problemi che possono risolversi solo con un approccio cooperativo. Da questo punto di vista, l’emergenza dei migranti-rifugiati e quella del debito greco o italiano non sono molto diverse: anche se le fragili istituzioni dell’Unione, sopravvissute ai terremoti economici e finanziari, rischiano stavolta di essere travolte.
il gioco di squadra che non c’è
Un piccolo passo indietro. Quando, qualche estate fa, esplose la crisi del debito greco, in molti dissero che sarebbe stato tutto sommato indolore per i Paesi europei farsi carico dei problemi di quel piccolo Paese, per tenere al riparo le banche degli altri (e anche i bilanci pubblici) dalle ripercussioni di quella crisi. Non lo si volle fare, e alla fine la Grecia e anche l’Europa pagarono un prezzo più alto, poiché si scelse una linea politica: quella di chi non vuole assolutamente far passare il principio per cui dietro il debito di ogni Paese c’è la garanzia o il possibile aiuto degli altri. Alla strada della cooperazione si è preferita quella della competizione – anche tra i governi che vanno a chiedere soldi al mercato – e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: i Paesi «forti» restano tali, quelli «deboli» non sono affatto al riparo del rischio dell’indisciplina fiscale e non sono comunque riusciti a risanare i propri conti né a far ripartire la crescita. A tutti converrebbe un «gioco di squadra», ma questo non c’è, poiché l’Europa non è una squadra e le sue istituzioni politiche sono piccole e debolissime rispetto allo spazio della moneta e del mercato.
l’urto dell’ondata migratoria
Questa situazione va tenuta presente, quando ci si chiede come mai la zona economica che comunque è la prima al mondo (o seconda, dipende dai criteri di valutazione) non riesce a reggere l’urto di un’ondata migratoria che è sì in aumento, ma è ancora molto al di sotto di quella che preme sui Paesi meno sviluppati. Il 90 per cento dei profughi nel mondo è collocato nei Paesi in via di sviluppo, solo il 10 per cento è giunto nella nostra parte del mondo, quella «sviluppata». Nel suo picco massimo, il 2015, l’Europa ha ricevuto 1.046.599 nuovi arrivi: su una popolazione di 743 milioni di persone, fa l’1,4 per mille. Ma quell’anno – possiamo ricordarlo bene, rivedendo le immagini che ci arrivavano dalla rotta balcanica e poi dalle stazioni di Vienna, Monaco, Berlino – il flusso fu soprattutto via terra e gli arrivi si diressero subito verso i Paesi centrali e nordici dell’Europa: quelli che restano comunque i più ambiti, sia da chi cerca lo status di rifugiato che da chi cerca «solo» lavoro e casa, perché c’è più lavoro, un welfare funzionante, spesso comunità di concittadini già insediate. Cosa è successo da allora? Il 18 marzo del 2016 l’Unione europea e la Turchia hanno firmato l’accordo che ha chiuso la rotta balcanica, e ricacciato tutti i migranti-rifugiati nei campi profughi di Erdogan. Per la Turchia, quella trattativa è valsa un compenso di 3 miliardi di euro. Per la Germania e satelliti, la chiusura dei confini. Per i Paesi del Mediterraneo, soprattutto Italia e Grecia, ha significato la ripresa dei flussi via mare.
emergenza Mediterraneo
Non è vero infatti che nel 2016 e 2017 è aumentata la pressione migratoria: i flussi sono in riduzione ovunque, tranne che sulle coste sud del Mediterraneo. Nel 2016 si sono avuti 362.753 arrivi via mare, e poco più di 25mila via terra. Nei primi mesi del 2017 gli arrivi dal mare sono stati 101.561, e quelli via terra solo 1.206 (dati Unhcr, aggiornati al 10 luglio). Sono saliti, di conseguenza, anche i morti in mare: 5.098 nel 2016, mentre siamo a 2.306 per questo primo scorcio del 2017. Nello stesso periodo, essendo cambiate le regole del soccorso degli Stati alle persone in mare, sono cresciuti anche i numeri di salvataggi effettuati dalle organizzazioni non governative, senza le cui navi nel Mediterraneo ci sarebbero molti più morti. Dunque, non esiste un’emergenza profughi europea, ma un’emergenza nel Mediterraneo e soprattutto verso l’Italia, originata dalle nuove regole europee; all’interno delle quali, l’Italia ha avuto qualche aiuto (molto inferiore al cachet pagato al dittatore turco): 558 milioni originariamente stanziati nei fondi europei, che saliranno di 35 milioni in virtù delle scarsissime concessioni fatte all’Italia nel fallimentare vertice di Tallinn. In più, l’Italia ha fatto «pesare» l’emergenza immigrazione anche nei complicati calcoli sulla flessibilità aggiuntiva nei conti pubblici, per calcolare quanto deficit può fare nelle sue manovre economiche: ma anche qui si tratta di pochi spiccioli, non certo risolutivi (né per gli immigrati né per la spesa pubblica).
Più che sbattere i pugni sul tavolo fuori tempo massimo, o cercare di spostare verso i politici europei il malcontento che si indirizza verso quelli autoctoni, sarebbe bene dunque cominciare a disvelare, una a una, le tante ipocrisie che si accumulano sulla questione dei migranti e dei rifugiati.
La prima ipocrisia è quella dei Paesi dell’Unione europea che hanno originato la crisi nel Mediterraneo, chiudendo con i soldi la rotta balcanica (e anche curandosi poco delle condizioni delle persone che, fuggendo da guerre e carestie, finiscono nei campi in Turchia), e adesso non vogliono occuparsene, considerandolo un problema italiano. Come se fosse una «colpa» dell’Italia – tra le tante reali che ha – quella di trovarsi piazzata come un terminal per traghetti in mezzo al Mediterraneo.
Ma è ipocrita anche la posizione del governo italiano che se la prende con gli altri Paesi per il rispetto di quegli accordi che lui stesso ha firmato, con la missione Triton. Tutti insieme poi si trovano nell’ipocrisia comune, quella di incolpare le organizzazioni non governative perché, soccorrendo i migranti in mare, incentiverebbero i nuovi arrivi: ma quanti morti in più potremmo tollerare ai nostri confini se non ci fosse il lavoro quotidiano delle Ong? E quanti morti di freddo o di caldo o di fame, se non ci fosse poi il volontariato sul territorio? Senza contare l’assistenza sanitaria e anche quella dell’educazione – i corsi di alfabetizzazione – totalmente nelle mani del volontariato, con scarsissima attivazione pubblica, se non in alcuni enti locali virtuosi.
per invertire la rotta
Sotto tutte queste ipocrisie, stiamo in realtà assistendo a una politica di respingimento subdolo, che non ottiene i suoi effetti – la gente continua a partire, dall’Africa subsahariana, dalla Siria, dal Bangladesh – e però costa moltissimo. Costa in termini di vite umane, e anche in termini economici: la gestione dell’emergenza è più onerosa, spesso aperta a infiltrazioni di corruzione (come si è mostrato in parecchi episodi di cronaca, dalla gestione dei centri di accoglienza a Mafia capitale), e politicamente spesso diventa insostenibile. E così assistiamo allo scaricabarile da parte di sindaci anche sedicenti progressisti, mentre una ordinata e ordinaria distribuzione dei profughi tra tutti i Comuni italiani renderebbe molto più facile gestire il loro arrivo. Per invertire la rotta e cercare di fare una politica più efficace, oltre che più umana, è necessario di certo che ciascuno riprenda il suo ruolo, e l’Unione europea accetti di gestire su scala comunitaria un problema che, di per sé, non conosce confini; ma anche che i politici italiani, a livello nazionale come del singolo Comune, non si coprano dietro l’inazione e l’ipocrisia europee, ossia non pensino di cancellare il problema addossandone interamente la colpa a qualcun altro.
Roberta Carlini
MIGRAZIONI
un’ipocrisia dopo l’altra
ROCCA 1 AGOSTO 2017
DIBATTITO. LavoroCheFare? Il Lavoro è una priorità, ma subito occorre combattere le diseguaglianze distributive con l’introduzione del reddito di base senza condizioni
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » LAVORO
Il lavoro è un esercizio di libertà, reddito di base senza condizioni»
di ROBERTO CICCARELLI
Roberto Ceccarelli intervista Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, sul senso antropologico del lavoro, una merce sempre più disprezzata dal capitalismo. il manifesto, ripreso da eddyburg e da aladinews, 26 luglio 2017
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«Indagine Ue su occupazione e sviluppi sociali 2017. “Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà”»
Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, secondo l’indagine su occupazione e sviluppi sociali 2017 della Commissione Europea l’occupazione nel continente non è mai stata così alta dall’inizio della crisi.
A cosa è dovuta questa crescita?
«All’aumento dell’età pensionabile, del lavoro degli over 50, del part-time involontario e della precarietà. Il dato complessivo di 234 milioni di persone al lavoro va analizzato in dettaglio. Se guardiano i dati relativi alle unità di lavoro equivalenti, ovvero la quantità di lavoro richiesta dalle imprese, questa cresce a un saggio inferiore rispetto alla crescita degli addetti. Il che significa che la quantità di lavoro resta ancora stagnante, ma aumenta la quota dei precari a scapito dei posti fissi si ha un aumento delle persone occupate ma con un livello reddituale peggiorato. In pratica il lavoro stabile viene sostituito dal lavoro precario.
Mentre in Europa la quota dei Neet diminuisce, in Italia continuano a crescere. Come si spiega questa differenza?
«In Italia il numero dei Neet (Not Engaged Education Employenent Training) è sempre stato del 60-70 per cento superiore alla media Ue, intorno a un livello del 20% rispetto alla forza lavoro complessiva. La media europea è dell’11%. In Italia la quota dei cosiddetti scoraggiati, cioè coloro che non fanno nessuna ricerca di lavoro nel periodo della rilevazione, e quindi non vengono contabilizzati nei disoccupati veri e propri, è di gran lunga superiore alla media europea. Teniamo presente che gli scoraggiati sono sopratutto giovani che hanno bisogno di lavorare perché hanno bisogno di reddito. Non sono quindi disoccupati volontari, ma non rientrano nemmeno tra i disoccupati. I Neet sono il bacino degli scoraggiati, oltre che del lavoro nero e grigio. Una recente ricerca del progetto europeo «Pie news-commonsfare.net» ha evidenziato che i giovani precari sotto i 25-26 anni non cercano effettivamente lavoro. Sono quelli che possiamo chiamare precari di seconda generazione che vivono di «lavoretti» nella «gig economy». Non vedono più nel lavoro la principale forma di realizzazione. Il loro è un rifiuto individuale del lavoro che non assume una dimensione collettiva.
Nel nostro paese si registra anche un aumento record del lavoro autonomo. Per tradizione, siamo sempre stati un paese con tante partite Iva. Oggi la partita Iva è un modo per sfuggire alla precarietà o di essere diversamente precari?
«In Italia la quota di lavoratori non subordinati, detti autonomi, è pari al 23%. Buona parte è composta da partita Iva, in parte sono lavoratori individuali per conto terzi che svolgono prevalentemente un lavoro eterodiretto che spesso è l’unica possibilità immediata per avere un minimo di reddito intermittente. Quest’ultima è una forma di precarietà che ha una storia strutturale nel nostro paese.
Cosa dire ai giovani che non avranno una pensione degna?
«Le riforme pensionistiche in Italia con il passaggio al sistema contributivo hanno risolto il problema della sostenibilità economica della spesa previdenziale, ma hanno innescato una bomba sociale. In presenza di elevata precarietà lavorativa, i contributi versati non permetteranno a molti di godere di un livello di pensione superiore alla povertà relativa. Saranno costretti a lavorare finché moriranno, oppure a sperare di morire prima di andare in pensione. Questo obbligherà, a partire dal 2030, quando il sistema contributivo andrà a regime, a un intervento di sostegno al reddito per coloro che si troveranno in una situazione di povertà.
Come si spiega il boom della povertà nel nostro paese, unico caso in Europa con Romania e Estonia?
«La povertà non riguarda più solo coloro che sono fuori dal mercato del lavoro: i disoccupati e i pensionati con basso reddito. Riguarda sempre più anche coloro che sono all’interno del mercato del lavoro. Questa è la quota di poveri che aumenta di più. Per l’Istat il dato preoccupante è quello degli «operai e assimilati» che hanno un rapporto di lavoro continuato. L’incidenza della povertà sfiora il 20%, uno su cinque, contro il 33% dei disoccupati. Ciò vuol dire che il lieve incremento occupazionale in corso si coniuga con l’ampliamento della «trappola della precarietà» i cui effetti sulla dinamica della domanda e della polarizzazione dei redditi sono ormai evidenti.
Basterà il reddito di inclusione contro la povertà voluto dal governo?
«Assolutamente no. Il reddito di inclusione, finanziato con 700 milioni che saliranno a 1 miliardo e 400 nel 2018 è sottoposto a tali vincoli di accesso da far sì che solo meno del 20 per cento delle famiglie in povertà assoluta potranno goderne.
Il governo promette di aumentare i fondi…
«È difficile che tale promessa possa essere mantenuta nei vincoli di bilancio se il governo decide in modo prioritario di spendere quasi 10 miliardi di euro per vari salvataggi bancari. Bankitalia stima che tale decisione farà aumentare dell’1 per cento il rapporto debito/Pil.
La commissaria Ue all’occupazione Thyssen sostiene che l’Europa è per il reddito minimo, ma lascia ai singoli paesi la possibilità di adottare il reddito di cittadinanza. Qual è la soluzione migliore?
«La discussione sulla scelta tra reddito minimo e di cittadinanza è malposta. Il vero discrimine non è l’universalità ma l’incondizionalità: un reddito dato senza nessuna contropartita. Sarebbe più utile erogare un reddito di base pari alla soglia di povertà relativa di 780 euro al mese partendo da coloro che si trovano al di sotto di questa soglia a livello individuale con un esborso di 15 miliardi netti annui più i 9 miliardi già stanziati per gli ammortizzatori sociali. Con l’accortezza di specificare che tale reddito dev’essere il più incondizionato possibile.
In Italia non c’è né l’uno, né l’altro…
«Nel nostro paese qualsiasi proposta di legge sul reddito minimo, o di base, dev’essere accompagnata da una proposta di salario minimo orario per i non contrattualizzati. Per evitare il rischio di un effetto sostituzione tra il salario e il reddito.
Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli sostengono che le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”. Ritiene che questa impostazione permetta di superare la contrapposizione tra reddito e lavoro?
«La trovo corretta. Nell’attuale contesto capitalistico, che non è quello del secondo Dopoguerra, il lavoro remunerato andrà a diminuire con l’automazione tecnologica, soprattutto nel comparto dei servizi. Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà.
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Verso il Convegno sul Lavoro.
Su questo stesso argomento il precedente Editoriale di Gianfranco Sabattini
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Approfondimenti ulteriori.
Oggi giovedì 27 luglio 2017
SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » LAVORO
Il lavoro è un esercizio di libertà, reddito di base senza condizioni»
di ROBERTO CICCARELLI
Roberto Ceccarelli intervista Andrea Fumagalli, economista all’università di Pavia, sul senso antropologico del lavoro, una merce sempre più disprezzata dal capitalismo. il manifesto, ripreso da eddyburg, 26 luglio 2017.
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Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli sostengono che le ragioni del reddito e del salario minimo sono affermate negli articoli 36 e 38 della Costituzione e non contraddicono l’articolo 1 sulla “repubblica fondata sul lavoro”. Ritiene che questa impostazione permetta di superare la contrapposizione tra reddito e lavoro?
«La trovo corretta. Nell’attuale contesto capitalistico, che non è quello del secondo Dopoguerra, il lavoro remunerato andrà a diminuire con l’automazione tecnologica, soprattutto nel comparto dei servizi. Il lavoro va considerato come un esercizio di libertà e auto-determinazione. Conta più il diritto alla scelta del lavoro che il diritto al lavoro qualunque sia. Il reddito di base e senza condizioni è la premessa di questa libertà.
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Gli Editoriali di Aladinews. Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?
di Giacomo COSTA, Aggiornamenti Sociali.
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SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI » 2015-ESODOXXI
Migranti al lavoro per la riconversione ecologica
di GUIDO VIALE
«Nel mondo d’oggi non si può più stare da soli e per questo l’Europa va ricostituita dalle fondamenta». il manifesto, ripreso da eddyburg, 26 luglio 207 (c.m.c.).
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Giuliano, che fai? Sei svitato?
27 Luglio 2017
Amsicora su Democraziaoggi.
Son sincero. A me Pisapia sembra un po’ svitato. Prima fa il senatore con Rifondazione, poi il sindaco di SEL e fin qui tanto di cappello. Poi rinuncia al secondo mandato. Rinuncia candidarsi a Palazzo Marino per il bis. E qui inizio a non capire. Stanchezza, penso. Poi appoggia a Sala, che non è un […]
Oggi mercoledì 26 luglio 2017 – Sant’Anna
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Madonna e il Bambino con sant’Anna, o Madonna dei Palafrenieri (Madonna and Child with St. Anne, or Madonna dei Palafrenieri), 1605, Roma, Galleria Borghese, olio su tela, 292 x 211 cm.
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—–Questa sera alle ore 21, a Stampace, nella scalinata di Sant’Anna—-
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- I festeggiamenti per la festa patronale del quartiere di Stampace-Stampaxi.
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Ma vi pareva! Troppo bello per essere vero!
26 Luglio 2017
Amsicora su Democraziaoggi.
Ma vi pareva! Che l’unità a sinistra andasse avanti. Giuliano Pisapia e Roberto Speranza qualche giorno fa hanno condiviso “la necessità di accelerare il percorso unitario avviato in Piazza Santi Apostoli per la costruzione di una nuova forza politica progressista!” Addirittura già si parlava di “elaborare la Carta del Primo Luglio coi punti fondamentali dell’agenda […]“
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Appello: diritto di voto per tutte le persone che vivono in Italia
26 Luglio 2017, ripreso da Democraziaoggi.
L’associazione “Respirare” di Viterbo è stata promossa da associazioni e movimenti ecopacifisti e nonviolenti, per il diritto alla salute e la difesa dell’ambiente. Ora lancia un appello per una nuova legge elettorale non razzista che inveri la democrazia. Ecco l’appello.
La nuova legge elettorale non sia un vile ed infame compromesso con i razzisti.[…]
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » SINISTRA
Una casa per la sinistra sommersa, ma senza Pd
di TOMASO MONTANARI
«Accanto al realismo un po’ cinico che spinge alle alleanze dentro l’eterno recinto, c’è anche un realismo (forse più lungimirante) che spinge a uscire dal recinto». MicroMega, ripreso da eddyburg, 24 luglio 2017 (c.m.c).
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Il movimento senza direzione
di MASSIMO GIANNINI, ripreso da eddyburg
Un ficcante articolo scritto per chi ritiene che «l’obiettivo fondamentale sia ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese» come ai bei tempi di Monti e Prodi. La Repubblica, ripreso da eddyburg, 24 luglio 2017 .
DIBATTITO. LavoroCheFare? Il Lavoro è una priorità, ma subito occorre combattere le diseguaglianze distributive con l’introduzione del reddito di cittadinanza incondizionato
Disuguaglianza distributiva? Socialmente devastante
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
Esistono molte e giustificate ragioni per ritenere che le disuguaglianze distributive siano dannose, non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale; vi sono, perciò, anche valide ragioni per sostenere, come afferma Maurizio Franzini, docente di Politica economica presso l’università di Roma La Sapienza, in “Combattere la disuguaglianza per tornare crescere” (MicroMega, n. 4/2017), che il loro approfondimento e consolidamento sia dipeso dalle politiche che sono state attuate, soprattutto negli ultimi venticinque anni. Da ciò consegue la necessità che, chi porta la responsabilità di governo, a livello di singoli Paesi ed a livello globale, si impegni per il loro contenimento e la loro riduzione, in considerazione del fatto che si conoscono le cause della loro origine e che non mancano i mezzi materiali da destinare alla soluzione del problema. E’ dunque solo una questione di volontà, quella di voler effettivamente affrontare il problema; ma come tradurre tale volontà politica in utile prassi di governo?
Il mondo economicamente avanzato – afferma Franzini – è oggi “molto diverso rispetto a trent’anni fa, e lo è per molte ragioni e sotto vari aspetti. Tra questi vi è certamente la disuguaglianza, in particolare quella economica che non è l’unica rilevante, ma che certamente è tra le più rilevanti, anche perché influenza la disuguaglianza in altri importanti dimensioni; tra queste dimensioni, merita di essere considerato l’impatto negativo che la disuguaglianza economica esercita sulla capacita di tenuta della coesione sociale dei Paesi che maggiormente ne soffrono.
Nel suo articolo, Franzini fornisce alcuni dati esenziali sulla consistenza e sulla tendenza della disuguaglianza economica in Italia e in alcuni altri Paesi occidentali; egli illustra anche i principali meccanismi che alimentano l’approfondimento e l’allargamento del fenomeno, sostenendo che esso, oltre ad essere “indesiderabile di per sé”, è causa del blocco della crescita e di tutto ciò che dall’interruzione del processo di crescita del prodotto sociale consegue. Franzini, insiste perciò sull’urgenza del contenimento e della riduzione della disuguaglianza, illustrando la possibilità di attuare politiche alternative a quelle realizzate, che sono all’origine del fenomeno indesiderato.
La prima causa del formarsi della disuguaglianza riferita ai soli redditi di mercato (al netto dell’attività ridistribuiva dello Stato), è la riduzione della quota del prodotto nazionale che va a rimunerare il lavoro; tra i primi anni Ottanta e il 2007, nei Paesi economicamente avanzati, la quota è diminuita di 10-15 punti percentuali, variando oggi dal 55% al 70% del reddito nazionale; della riduzione della quota imputabile al lavoro si sono avvantaggiati i percettori di profitti, cioè di coloro il cui reddito origina dall’impiego di capitale nei processi produttivi. Le cause del fenomeno sono molteplici, ma alcune – afferma Franzini – sono dominanti: tali risultano la politica di liberalizzazione a partire dagli anni Novanta dei movimenti di capitali, l’indebolimento della forza contrattuale delle forza lavoro e la proliferazione delle attività speculative sui mercati finanziari.
La seconda causa del formarsi del fenomeno della disuguaglianza è la sua crescita nei redditi da lavoro; nei Paesi avanzati, nel corso degli ultimi due decenni, “le retribuzioni dell’1% più ricco sono cresciute del 20%, mentre il reddito dei lavoratori più poveri è perfino diminuito”. In Italia, ad esempio, nel settore privato, tra il 1990 e il 2013, secondo il coefficiente di Gini, relativo alle retribuzioni annue della forza lavoro, è aumentato del 17,5%. Il coefficiente di Gini è una misura della disuguaglianza di una distribuzione, usato come indice per misurare la concentrazione nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1; valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione omogenea, mentre valori alti indicano una distribuzione più diseguale.
Secondo uno studio dell’OCSE, alla fine della prima decade degli anni Duemila, l’Italia aveva un indice di Gini, relativo alla distribuzione generale dei reddito, pari allo 0,34, superiore allo 0,30, considerato valore indicativo di una disuguaglianza avanzata. Il fatto che la concentrazione del reddito della sola forza lavoro sia aumentato del 17,5% è quindi indicativo della crescita della disuguaglianza tra i percettori della quota del prodotto sociale imputabile al solo lavoro.
Secondo una diffusa interpretazione, le crescenti disuguaglianze che si sono formate nella distribuzione del reddito da lavoro “sarebbero da attribuire all’importanza sempre maggiore del capitale umano (normalmente identificato con l’istruzione)”. Questa interpretazione vuole che, per effetto della globalizzazione e del progresso tecnologico nelle combinazioni produttive prevalenti all’interno delle economie avanzate, sarebbe cresciuta la domanda di lavoratori specializzati, che ha avuto l’effetto di migliorare la loro rimunerazione salariale rispetto a quella dei lavoratori non specializzati. I dati, però, a parere di Franzini, non confermano questa interpretazione.
Al riguardo, molti studi mettono in evidenza che la diversità di salario tra lavoratori specializzati e quelli che non lo sono non è spiegata dalla “differenza di capitale umano” e che il “motore” della disuguaglianza nella distribuzione delle retribuzioni non è la qualità della forza lavoro, essendo quindi deboli “i motivi per considerare decisive le forze ‘naturali’ delle globalizzazione e del progresso tecnologico”. Decisive al riguardo sono state, invece, le politiche adottate negli ultimi decenni, “in particolare quelle della flessibilizzazione – nelle sue diverse accezioni – del mercato del lavoro, che hanno fortemente contribuito a creare differenze retributive in funzione delle forme contrattuali, dei settori d’impiego, della dimensione delle imprese e così via. Se oggi nel mondo del lavoro coesistono i cosiddetti workind poor e working super-rich è anche per questo”.
La terza causa del fenomeno della disuguaglianza è la tendenza dei redditi di mercato a concentrarsi “sempre più in alto”; tendenza questa che ha teso ad “irrobustirsi”, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso; ovunque, infatti, da allora, è cresciuta la quota del prodotto nazionale della quale si sono appropriati i segmenti più ricchi della popolazione. Gli aumenti maggiori si sono avuti nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove l’1% della popolazione ha concentrato nelle proprie mani il 20% del reddito complessivo. Tutte le cause della disuguale distribuzione dei redditi di mercato sin qui descritte sono ascrivibili, a parere di Franzini, alle politiche adottate, e non a forze immodificabili; a determinarle sono state le politiche tributarie e fiscali, ma anche la riduzione delle aliquote d’imposta sui redditi più elevati.
Il fenomeno della disuguaglianza si ripropone anche quando, in luogo dei redditi funzionali, ovvero dei redditi determinati dalle forze di mercato, si considerano i redditi disponibili, derivanti “dall’aggregazione di tutti i redditi guadagnati nei vari mercati dai componenti il nucleo familiare, ai quali si aggiungono i trasferimenti monetari provenienti dallo Stato (pensioni, sussidi eccetera) e dai quali si deducono le imposte dirette”. I rediti familiari così determinati, sulla base di opportune “scale di equivalenza”, sono trasformati in redditi individuali.
La disuguaglianza riferita ai redditi disponibili individuali, calcolata nel 2013 con il coefficiente di Gini, è risultata, in tutti i Paesi avanzati, maggiore di quella registrata nella metà degli anni Ottanta e, quasi dappertutto, molto maggiore rispetto a quella del 2005. In Italia, nel 1985, il coefficiente di Gini, ricorda Franzini, è stato maggiore di 0,28 ed è andato nel 1995 oltre il valore di 0,32, indicativo di un aumento considerevole della disuguaglianza; la responsabilità del peggioramento nella disuguaglianza dei redditi disponibili, verificatosi in Italia tra il 1992 e il 1993, è in gran parte ascrivibile, a parere di Franzini, “alla manovra effettuata dai governi dell’epoca per fare fronte ai rischi di default e per facilitare la partecipazione dell’Italia alla nascente moneta unica”. Pur essendosi conservata costante intorno ai valori raggiunti nel 1995, la disuguaglianza nei redditi disponibili è oggi in Italia tra le più alte rispetto agli altri Paesi europei e a tutti quelli all’area OCSE.
Tuttavia, la comprensione del trend della disuguaglianza e delle caratteristiche delle forze che ne supportano l’intensità si ricava dall’applicazione del coefficiente di Gini, non tanto ai redditi disponibili, quanto ai redditi di mercato, cioè ai redditi che “affluiscono ai componenti del nucleo familiare dalle loro prestazioni nel mercato del lavoro o dal rendimento di beni patrimoniali in loro possesso, calcolati prima di pagare le imposte e senza tener conto dei trasferimenti dello Stato”. Dagli studi dell’OCSE è risultato che il coefficiente di Gini relativamente ai redditi di mercato è passato, nel periodo 1985-2010, da un valore maggiore di 0,38 a un valore maggiore di 0,50; si tratta di un aumento molto consistente che si è conservato sino agli anni più recenti. L’Italia, nota Franzini, è uno dei Paesi con la disuguaglianza più elevata nei redditi di mercato.
La tendenza dei redditi di mercato ad alimentare sempre più un peggioramento della disuguaglianza può essere compresa tenendo conto delle cause, precedentemente indicate, che la determinano; in più, tenendo conto, sia del fatto che lo spostamento del prodotto sociale dal lavoro al capitale ha teso a peggiorare la disuguaglianza, in quanto il reddito da capitale si è distribuito “tra le famiglie in modo più disuguale del reddito da lavoro”; sia del fatto che la “concentrazione dei redditi al top” si è tradotta “quasi automaticamente in maggiore disuguaglianza nei redditi familiari”; sia infine del fatto che la distribuzione della ricchezza è risultata ancora più concentrata di quella del reddito. Quale la conseguenza della crescente concentrazione del prodotto sociale?
Se la sola logica di funzionamento dei mercati produce una crescente concentrazione dei redditi di mercato, che i redditi disponibili non riescono a contenere, la conclusione non può essere che il riconoscimento che il welfare State realizzato non è in grado di contrastare la disuguaglainza. Di ciò occorrerà tener conto se si vorrà realmente affrontare il problema di una più equa distribuzione delle condizioni di benessere tra i componenti delle popolazioni dei Paesi economicamente evoluti e rimuovere tutti gli aspetti negativi che il fenomeno della disuguaglianza produce, per altri versi, sul sistema economico e su quello sociale.
Tutti gli economisti che non condividono l’ideologia neoliberista, ad esempio, sottolineano che la disuguaglianza ha un impatto frenante sulla crescita; essi perciò rifiutano la tesi secondo cui l’ineguale distribuzione del prodotto sociale sarebbe una “sorta di prezzo da pagare” per migliorare il benessere di tutti. Gli stessi economisti, e con loro sociologi, politologi e giuristi, concordano nel ritenere che la disuguaglianza influenzi negativamente la mobilità sociale e la dinamica dei processi decisionali propri della democrazia, o quantomeno renda le istituzioni democratiche inefficaci, trasformandole così in un’ulteriore causa dell’aggravamento della disuguaglianza reddituale.
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In conclusione, Franzini è del parere che, per contrastare la disuguaglianza, non bastino “le politiche tradizionalmente ridistributive”; occorrono anche “politiche che modifichino le regole del gioco”, utili per una riduzione sostanziale del potere economico e per l’affievolimento di quei meccanismi interni al mercato responsabili della disuguaglianza, che il welfare non è in grado di contrastare e, tantomeno, di eliminare.
Franzini non dice quali regole del gioco dovranno essere cambiate; sarà però inevitabile un intervento pubblico ax-ante, finalizzato ad assicurare un contenimento della disuguaglianza delle opportunità; unico modo questo per contrastare i meccanismi di mercato costituenti il motore che origina la disuguaglianza. Le regole del gioco dovranno essere modificate in tal senso, pur in presenza delle potenti resistenze, nell’unico modo possibile, cioè facendo tesoro di quanto un crescente numero di economisti da tempo propone: introdurre il cosiddetto reddito di cittadinanza incondizionato, da finanziarsi con la riorganizzazione del welfare esistente, ma conservare anche un appropriato intervento ridistribuivo ex-post, al solo fine di rendere reale una condizione di equità distributiva.
IL DIBATTITO su Democraziaoggi. […]
24 Luglio 2017 – 18:59
Da Andrea Pubusa
Gli stimoli di Gianfrancio Sabattini alla riflessione sui problemi del nostro tempo sono tanti e sempre centrati. E lo sono anche le soluzioni o i correttivi ch’egli suggerisce. Tuttavia spesso l’analisi e la proposta economica nascondono gli aspetti più spiccatamente politici delle questioni. Nella parabola della redistribuzione, per esempio, non è eludibile lo sfaldamento o autodistruzione dei partiti che avevano sostenuto le istanze dei lavoratori e dei ceti disagiati. Era un ampio fronte e ricomprendeva non solo le forze rappresentative del Movimento operaio, ma anche quelle di ispirazione interclassista intrise di solidarimo, come i partiti democratico-cristiani e non solo. Quei movimenti avevano anche una dimensione internazionale e contrastavano le spinte selvagge del capitale a tutti i livelli. Ora, queste spinte non hanno alcun bilanciamento e dominano incontrastate la scena interna e mondiale.
Sarà, questa mia, una posizione vetero, ma senza una forte dinamica organizzata di segno contrario le diseguaglianze sono destinate ad accentuarsi con effetti negativi impensabili.
Gianfranco Sabattini
25 Luglio 2017 – 13:51
Caro Andrea, hai perfettamente ragione. Se non si sposta sul piano dell’attività politica o su quello delle opportune alleanze e/o apparentamenti delle forze politiche oggi in campo, le buone soluzioni dei problemi che ci assillano sono destinate a rimanere “lettera morta”. Io non mi avventuro sulle “alchimie” delle alleanze, sia perché non sono un “addetto ai lavori” come da tempo mostri di esserlo tu, sia perché avverto che il tema delle alleanze politiche che potrei azzardare di suggerire, perché valutate aderenti agli obiettivi che plausibilmente ritengo che tutti vorremmo fossero perseguiti, può suscitare riserve e discussioni infinite, destinate a non sortire effetto alcuno.
Quello che tu affermi è di fondamentale importanza; ai problemi che ci assillano devono essere contrapposte risposte politiche adeguate. La formulazione di queste proposte dovrebbe costituire il principale motivo per una generalizzata partecipazione al dibattito che tu non manchi di sollecitare; sennonché, consentimi di dire senza riserve che, leggendo gli interventi che tu “ospiti” nel Blog, a parte il tuo impegno e la passione con cui cerchi di animare il dibattito, nessuno si “accoda”. Tutti sembrano privilegiare l’interesse sul come sconfiggere l’avversario di turno, senza che al tanto agitarsi in pro di questo o di quel candidato, o in pro di questa o di quella formazione/alleanza politica, corrisponda l’indicazione di uno specifico obiettivo da perseguire.
Nutro molta fiducia sull’iniziativa da te sponsorizzata che si terrà in ottobre su temi che mostri di avere tanto a cuore [Convegno sul Lavoro promosso dal Comitato d'Iniziativa Costituzionale e Statutaria]. Spero che al termine dei lavori degli incontri possa essere formulata una qualche specifica proposta politica sulla quale chiamare a confronto coloro che, prossimamente, ci chiederanno il voto. Spero tanto che questa mia aspettativa non sia destinata a tradursi in una pia illusione.
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Altri contributi
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Reddito di base: le radici di un’idea
di Cosma Orsi, su Aggiornamenti Sociali, n. 4, aprile 2016
Le crescenti disuguaglianze sociali, aggravate dalla recente crisi economica, hanno riaffermato la necessità di introdurre misure di sostegno al reddito. Questa esigenza non è nuova. Già nei secoli passati illustri studiosi si sono interrogati sul ruolo delle istituzioni pubbliche nella lotta alla povertà. Quali sono i fondamenti filosofici ed economici del reddito di base? In che modo questa idea è stata declinata in passato? A che punto è il dibattito attuale?
allegato_articolo_2752016_151517.pdf
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QUEL 25 LUGLIO 1943 a CAGLIARI
Dall’album dei ricordi di un ultraottuagenario
QUEL 25 LUGLIO 1943 a CAGLIARI
di Paolo Fadda, su fb
Settantaquattro anni or sono, Anno Domini 1943, il 25 luglio non fu un giorno qualsiasi. Cadeva di domenica, ma a Cagliari nessuna campana delle sue 50 chiese avrebbe chiamato i fedeli al rito tradizionale della Santa Messa. Perché la città, per quel che sono i ricordi di allora, abbandonata da gran parte dei suoi abitanti, era divenuta una “nuova Pompei”, con due terzi delle sue abitazioni distrutte o fortemente danneggiate da quella pioggia di fuoco che era giunta dal cielo, lanciata da quelle “fortezze volanti” dell’Air Force americana. Quasi fosse un’eruzione lavica da un vulcano di capacità gigantesche. ed era divenuta, per i miei ricordi, una città di fantasmi, di morti, di sciacalli e …di merdone.
Per la verità, nessuno era in grado di dire che quel giorno – 25 luglio – sarebbe divenuto in seguito una data storica nella storia del nostro Paese. Perché avrebbe segnato la fine di quel regime politico che dal 28 ottobre del 1922 aveva sottratto al popolo italiano le libertà democratiche.
Le cronache ed i ricordi diranno che a Cagliari tutte le autorità civili e religiose s’erano sparpagliate e disperse in diversi paesi della provincia: era rimasto solo un piccolo presidio, composto da pochi funzionari coraggiosi, ospite nella “villa Pernis” sul viale degli ospizi (ora via Don Bosco). Così era divenuta sede di quei “frammenti” d’autorità ancora presenti nella città abbandonata. - segue -
Oggi martedì 25 luglio 2017
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Coordinamento di partitini e di comitati: scongiuriamo le commistioni
25 Luglio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Non passa giorno senza che si abbia notizia di apparati organizzativi in allestimento. Si appropinquano le elezioni e tutti vogliono essere pronti. Così anche Articolo UNO – MDP, dopo la prima iniziativa pubblica con Massimo D’Alema a Sassari lo scorso aprile, procede in Sardegna a strutturarsi. A Sassari ora sono stati formati anche gli […]
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——Domani sera alle ore 21, a Stampace, nella scalinata di Sant’Anna—-
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- I festeggiamenti per la festa patronale del quartiere di Stampace-Stampaxi.
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LAVORO DOCUMENTAZIONE.
Avvenire del 20 luglio 2017 – L’integrazione è al lavoro.
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Reddito di base: le radici di un’idea
di Cosma Orsi, su Aggiornamenti Sociali, n. 4, aprile 2016
Le crescenti disuguaglianze sociali, aggravate dalla recente crisi economica, hanno riaffermato la necessità di introdurre misure di sostegno al reddito. Questa esigenza non è nuova. Già nei secoli passati illustri studiosi si sono interrogati sul ruolo delle istituzioni pubbliche nella lotta alla povertà. Quali sono i fondamenti filosofici ed economici del reddito di base? In che modo questa idea è stata declinata in passato? A che punto è il dibattito attuale?
allegato_articolo_2752016_151517.pdf
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La Caritas presenta il Progetto internazionale PIER per l’accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo
Diocesi di Cagliari – Ufficio stampa
CONFERENZA STAMPA
Parte da Cagliari un nuovo progetto internazionale per l’accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo
25 luglio 2017 ore 11 – Piazza Palazzo 4, Cagliari.
Un nuovo, importante progetto per l’integrazione e l’accoglienza dei richiedenti la protezione internazionale sarà presentato a Cagliari martedì prossimo, 25 luglio nel corso di una conferenza stampa alle 11.00 presso la Sala Vescovile dell’Episcopio, in Piazza Palazzo 4. Si tratta di un’iniziativa di Caritas Italiana, Caritas Austria e l’associazione greca Arsis, che insieme lavoreranno per rafforzare le numerose attività di accoglienza ed integrazione già svolte diffusamente nei rispettivi paesi.
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DIBATTITO sul LAVORO OGGI. Sindacato in trasformazione
Questioni aperte
per il sindacato italiano
di Lorenzo Caselli
Professore emerito di Economia e gestione delle imprese e docente a contratto di Etica economica e responsabilità sociale delle imprese, Università di Genova,
Fra le realtà più in crisi nel mondo del lavoro c’è quella del sindacato, che sembra accerchiato, spiazzato, incapace di cogliere le trasformazioni in atto nella domanda di lavoro e nelle modalità di impiego. Ha ancora senso oggi un sindacato forte e organizzato? Quali sono i suoi punti di forza e gli am- biti di azione? È possibile ipotizzare una partecipazione dei lavoratori nella gestione delle imprese? Quali sono i passi da compiere per una riforma condivisa e realistica dei sindacati?
Traendolo da Aggiornamenti Sociali, pubblichiamo un contributo che affronta queste domande.
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Di fronte alla gravità dei problemi che sono sul tappeto, l’economia richiede di essere profondamente ripensata. Cresce la consapevolezza che efficienza, giustizia e partecipazione non possono più essere separate e che si pongono sempre più come condizioni per la sostenibilità dello sviluppo. Il coinvolgimento dei lavoratori, dei consumatori e dei cittadini è essenziale per il successo delle stesse iniziative economiche. La solidarietà e la sussidiarietà creano le premesse perché abbiano a dispiegarsi le potenzialità di ciascuna persona, perché sia possibile l’accesso più largo ai beni e ai sevizi di base nell’interesse del maggior numero di soggetti e nel rispetto delle generazioni future.
L’economia sociale di mercato, inserita nei principi del Trattato di Lisbona (art. 2, c. 3), si colloca in questa prospettiva. Essa però non è qualcosa di definitivo e di consolidato. I suoi elementi costitutivi – centralità dell’economia reale rispetto alla finanza, occhio di riguardo per il medio-lungo termine, ruolo regolatore dello Stato, equità fiscale, efficienza, competitività ma anche welfare, imprese e sindacati responsabili e partecipativi –, riscontrabili, ad esempio, nell’esperienza tedesca, possono essere variamente declinati e combinati.
Tali elementi sono tutti necessari, ma non sufficienti. Come hanno osservato i vescovi europei, l’economia sociale di mercato è infatti un grande obiettivo ancora da completare ed europeizzare. Il collegamento tra libero mercato e competitività da un lato e principio di solidarietà e giustizia sociale dall’altro non è affatto scontato.
Il mercato non soddisfa tutti i bisogni delle persone, deve essere integrato con la politica sociale e non può fare a meno di gratuità, sostenibilità, inclusività (COMECE 2011).
Tutto ciò vale per l’Europa e per il nostro Paese. In questa prospettiva, il sindacato italiano con la sua storia e il suo radicamento sociale, con le sue contraddizioni ma anche con i suoi punti di forza, può dare un grande contributo. Tra economia sociale di mercato e sindacato è infatti possibile attivare una circolarità virtuosa. Affinché ciò avvenga, occorre un sindacato sempre attento alle condizioni di vita dei lavoratori, sia di quelli che rappresenta sia di quelli che non riesce a rappresentare adeguatamente, che ne difenda gli interessi collettivi specifici e che consideri un ponte tra lavoro e welfare la fornitura di servizi, dalla tutela previdenziale alle problematiche fiscali e abitative, alla difesa dei consumatori, alla cultura e al tempo libero, alla formazione professionale; un sindacato, insomma, che cerchi di promuovere le condizioni favorevoli per l’assunzione di responsabilità partecipative a livello decisionale, finanziario e operativo da parte dei suoi rappresentati nelle diverse realtà della vita economica e sociale 1).
Anche nel nostro Paese può essere sostenuto un progetto di economia sociale di mercato, qualificandone e arricchendone strutture e processi con il concorso di sindacato, imprese, istituzioni e aggregazioni sociali. In questo ambito il sindacato può farsi promotore di un discorso in tema di democrazia economica e più in generale di allargamento delle frontiere della democrazia tout court. Si tratta di aumentare sia il numero dei soggetti che possono prendere la parola sulla scena politica, sociale ed economica (il mercato non appartiene soltanto alle imprese capitalistiche), sia le dimensioni da porre a fondamento delle scelte, definite non solo dal profitto ma anche da valori sociali, ambientali e culturali in vista del bene comune.
Può il sindacato assolvere al ruolo appena descritto? Non ci nascondiamo certamente le difficoltà di tale disegno. I margini di manovra – in Italia ma anche in molti Paesi europei – sono, nell’immediato, oggettivamente modesti. Ma non è soltanto il quadro economico che limita gli spazi di azione dei sindacati. Essi infatti devono fare i conti con un clima sociale, culturale e politico non favorevole alla presenza e all’azione di un soggetto collettivo del loro genere. Ci troviamo in una situazione di “destrutturazione sociale”, che da un lato frammenta la convivenza e dall’altro agevola l’emergere e il consolidarsi di nuovi centri di potere non facilmente controllabili.
Stando così le cose, gli assetti pluralistici, propri della modernità – fatti di istituzioni, associazioni, movimenti, aggregazioni e rappresentanze di interessi molteplici – rischiano di degenerare in differenziazioni fini a se stesse, in chiusure corporative, in una miriade di interessi particolaristici. Si moltiplicano le appartenenze tra loro non comunicanti, mentre l’affievolirsi dell’ethos collettivo rende difficile l’elaborazione di regole condivise con le quali governare le relazioni sociali, economiche, di lavoro. Di fronte a questo scenario, quale ruolo per le associazioni di categoria nel mondo del lavoro?
I punti di forza del sindacato
I rischi che i sindacati hanno di fronte non vanno taciuti. Non sono però tali – questa è la nostra opinione – da cancellare o nascondere le opportunità che il sindacato potrebbe cogliere attraverso l’intelligente valorizzazione e gestione dei suoi punti di forza spendibili nella prospettiva dell’economia sociale di mercato. Si pensi soltanto allo spostamento progressivo della tutela dal singolo posto lavorativo, strettamente inteso, alla gestione del mercato del lavoro, nel suo insieme e nelle sue articolazioni locali, attraverso l’armoniz- zazione dei flussi di domanda e offerta e il loro collegamento con i processi produttivi e formativi. Tutto è collegato, ma in modo nuovo e creativo. «Soltanto vincendo la sfida a diventare plurale il sindacato potrà ritrovare la propria funzione all’interno di un mutato scenario, che peraltro ne mostra un impellente bisogno» (Costa 2017, 9). Quattro punti di forza ci sembrano particolarmente significativi e giocabili dal sindacato.
Il primo è la possibilità di collegare aspetti macro e aspetti micro: da un lato le grandi politiche economiche e sociali, dall’altro le scelte delle imprese e delle istituzioni. Il tutto con particolare attenzione alla dimensione settoriale e territoriale dei problemi che attengono al mercato del lavoro, alla base industriale, alla promozione dei fattori di produttività, innovazione, competitività, alla flessibilità congiunta alla sicurezza.
Il secondo punto di forza è la possibilità per il sindacato di far interagire pubblico, privato e privato sociale nell’ambito di un gioco che non è necessariamente a somma zero, ma a somma potenzialmente positiva. Si pensi in particolare agli assetti di welfare, ove si tratta da un lato di creare le condizioni affinché la domanda di servizi da potenziare diventi effettiva e dall’altro di promuovere la pluralità dei soggetti di offerta, evitando posizioni di monopolio e di rendita tanto pubblica quanto privata, favorendo forme di collaborazione con il coinvolgimento effettivo della società civile. Nel quadro dell’economia sociale di mercato il sistema produttivo e quello amministrativo devono misurarsi con indicatori di efficienza e di efficacia. In particolare, la pubblica amministrazione – e qui il sindacato ha grandi responsabilità, a motivo del suo radicamento associativo – si trova a fare i conti con profonde trasformazioni, nuove esigenze e priorità, nuove domande e competenze professionali, per uscire dal rischio dell’autoreferenzialità, contribuendo attraverso il miglior utilizzo delle risorse disponibili all’innalzamento del livello di competitività e attrattiva del sistema Paese.
Terzo punto di forza è la possibilità di mettere in comunicazione produzione, lavoro, consumo e risparmio superando, nell’ambito di una responsabilità condivisa, separatezze e contraddizioni. A ciò si collega altresì la possibilità di essere presente in spazi vitali della società, come ad esempio i servizi all’impiego e la riforma dello Stato sociale, attraverso la valorizzazione del Terzo settore.
Infine, e questo è il quarto punto di forza, in raccordo con i sindacati degli altri Paesi della UE, esso potrebbe contribuire in misura notevole al rafforzamento dei poteri di intervento della CES (Conferenza europea dei sindacati), indispensabile per affrontare problemi che travalicano i confini dei singoli Stati, come quello occupazionale. Solo nel più ampio contesto comunitario possono infatti individuarsi soluzioni precluse su scala locale, perseguendo altresì, attraverso un dialogo sociale rafforzato, le tre grandi priorità a fondamento della strategia Europa 2020 (crescita intelligente, crescita sostenibile, crescita inclusiva).
Gli ambiti di azione del sindacato
Europa 2020 è la strategia decennale per la crescita definita dalla UE nel 2010. Oltre a uscire dalla crisi, essa mira a colmare le lacune del modello di crescita europeo e creare le condizioni per un tipo di sviluppo economico più intelligente, sostenibile e solidale. Per questo la UE si è data cinque obiettivi da realizzare entro il 2020, che riguardano l’occupazione, l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, l’integrazione sociale e la riduzione della povertà, il clima e l’energia. La strategia indica anche sette settori di intervento su cui concentrare gli sforzi per il raggiungimento degli obiettivi: l’innovazione, l’economia digitale, l’occupazione, i giovani, la politica industriale, la povertà e l’uso efficiente delle risorse (cfr <http://ec.europa.eu/europe2020/europe- 2020-in-a-nutshell/index_it.htm>).
I punti di forza sopra evidenziati possono essere pienamente colti da un sindacato propositivo, non necessariamente “antagonista”, che non rinnega il conflitto ma lo sa usare saggiamente in vista dell’accordo, capace di attivare relazioni contrattuali, concertative, partecipative, che se necessario può essere anche imprenditore sociale; un sindacato cioè che oltre alla tutela diretta dei lavoratori vuole creare le condizioni per il loro benessere e per quello del Paese favorendone lo sviluppo, evitando il rischio tanto di chiusure corporative quanto di pratiche meramente assistenziali e difensive.
Un’azione strategica sindacale – nel quadro dell’economia sociale di mercato – si concretizza in tre passaggi fondamentali, tra loro strettamente collegati e interdipendenti: concertazione, contrattazione, partecipazione. Esaminiamoli distintamente.
La concertazione tra istituzioni e parti sociali, ovvero tra i grandi decisori politici, economici, sociali è condizione indispensabile per il governo di una società sempre più complessa. Ciò è tanto più urgente in una situazione di emergenza, ove occorre da un lato farsi carico di vincoli macroeconomici ai quali non è possibile sottrarsi (il rapporto tra debito e PIL per esempio) e dall’altro rilanciare sviluppo e occupazione.
Con la concertazione tutte le parti in gioco sono chiamate a costruire fiducia in vista di obiettivi condivisi. In quest’ottica, essa può essere l’antidoto sia alle politiche liberiste sia a quelle dirigiste, poiché amplia gli ambiti della democrazia sostanziale, valorizza il pluralismo sociale, impegna i diversi attori a comportamenti coerenti nella reciproca legittimazione. La concertazione può essere strumento sia per governare più efficacemente le relazioni industriali, sia per attivare un percorso riformatore, capace di incidere concretamente sui principali problemi del lavoro e del sistema economico e produttivo.
La questione della produttività si colloca in questa ottica. Essa è sempre più il frutto di un’azione combinata dei diversi fattori che agiscono sull’impresa, ma non soltanto di quelli della produzione tradizionalmente intesi, bensì anche di quelli istituzionali e di contesto (formazione, ricerca, servizi reali, organizzazione territoriale, stato sociale, efficienza della pubblica amministrazione). Il concorso coerente e integrato delle parti sociali e delle istituzioni si rivela condizione sempre più indispensabile per la crescita della produttività, specie nella prospettiva dell’industria 4.0. In altri termini, la capacità propositiva del sindacato in tema di dinamiche salariali e flessibilità organizzativa, connessa all’introduzione massiccia delle nuove tecnologie, si combina con gli investimenti delle imprese, finalizzati sia all’aumento dei livelli di competitività sia alla promozione quantitativa e qualitativa dell’occupazione, mentre il Governo si impegna per una politica economica e fiscale in linea con tali obiettivi. Il passaggio dalla concertazione alla contrattazione sindacale è evidente. Con la prima si creano le condizioni per aggredire gli squilibri più pesanti, con la contrattazione si valorizzano le differenze e le potenzialità esistenti nel tessuto produttivo. Ferma restando la necessità del contratto nazionale, opportunamente riqualificato affinché sia centro regolatore e di governance dei sistemi contrattuali settoriali, modellandolo sulle normative e tutele di carattere generale, a partire dalla difesa del potere di acquisto dei salari, occorre puntare sulla contrattazione di secondo livello (aziendale e territoriale) attraverso un trasferimento organico di competenze, in particolare sulle materie che si generano e si gestiscono in azienda e sul territorio, innalzando nel contempo il tasso di partecipazione dei lavoratori alla vita e alle decisioni dell’impresa.
L’efficacia del legame tra democrazia economica ed economia sociale di mercato presuppone un’ipotesi forte di partecipazione, di coinvolgimento di risorse individuali e collettive, come modo per cogliere e valorizzare le interdipendenze tra le molteplici dimensioni della vita sociale, promuovendo comportamenti più solidali. Tutto ciò, nel contempo, si rivela essenziale anche per il successo e le performance delle stesse iniziative economiche. Pur con tutti i limiti e contraddizioni, non si può sottovalutare il potenziale partecipativo oggi esistente nelle organizzazioni economiche e sociali, che si lega a istanze profonde di giustizia, di sussidiarietà, di democrazia in grado di esprimersi in tutti gli ambiti della vita associata. Tale potenziale partecipativo chiede però di essere, in qualche modo, interpretato, rappresentato, promosso e trasformato, per così dire, in “merce politica” da porre sul piatto della bilancia in vista di trasformazioni più generali, evitando il riflusso nel particolare, nel settoriale, nell’egoistico (cfr Grazzini 2014).
Nell’orizzonte strategico del sindacato, la partecipazione può giocare un ruolo di fondamentale importanza. Com’è noto, in rapporto al sistema delle imprese esistono una versione leggera della partecipazione (informazione, consultazione, quote di salario legate ai risultati, ecc.) e una forte, che può esprimersi tanto nella partecipazione dei lavoratori al governo, alle decisioni e al funzionamento organizzativo dell’impresa quanto nella partecipazione collettiva degli stessi al capitale con la presenza di propri rappresentanti negli organi societari. Questa versione forte può essere assunta come scelta qualificante del sindacato italiano e trovare ambito di sperimentazione nella realtà del nostro Paese, come avviene da tempo altrove 2)?
La partecipazione dei lavoratori all’impresa
Il ragionamento merita un minimo di approfondimento. I dipendenti possono partecipare agli organi societari – e quindi concorrere alla definizione delle scelte strategiche dell’impresa – sia in quanto lavoratori, sulla scorta del modello tedesco sostanzialmente recepito nello statuto della società per azioni europea, sia in quanto azionisti attraverso l’azionariato dei lavoratori. Nell’uno e nell’altro caso la presenza negli organi societari costituisce il punto di innesco per discorsi più puntuali che, muovendo dagli assetti di corporate governance, investono la tematica della democrazia economica a livello di sistema.
Assumendo realisticamente le trasformazioni in atto, la presenza dei rappresentanti dei lavoratori negli organi societari – a prescindere dal possesso di quote azionarie – si caratterizza di grande positività: essa può costituire sia un “collante” rispetto alle altre forme e momenti partecipativi, sia un ponte capace di collegare aspetti micro e macro, interessi individuali e collettivi. Per quanto riguarda il possesso azionario dei lavoratori, questo per poter contare deve essere collettivamente gestito attraverso associazioni che si configurano come investitori pronti a stabilire alleanze con alcuni e ad opporsi ad altri.
Richiamiamo sinteticamente alcune potenzialità connesse al coinvolgimento del lavoro nella governance delle imprese, che per dispiegare pienamente la loro efficacia richiedono alcune condizioni favorevoli: aspettative di crescita, quadro normativo, istituzionale e contrattuale sostanzialmente omogeneo a livello europeo, misure giuridiche e fiscali incentivanti, investimenti formativi e informativi per garantire affidabilità e trasparenza nei comportamenti dei diversi attori, ecc. Tali condizioni – specie nel nostro Paese, che nelle diverse graduatorie internazionali occupa posizioni di retroguardia – non sono di facile realizzazione. Esistono però ambiti di eccellenza su cui far leva a livello territoriale e settoriale ove imprese, istituzioni e sindacati stanno sperimentando modelli di comportamento innovativi, ad esempio in tema di welfare aziendale e di lavoro agile, in un’ottica di responsabilità condivisa. In non pochi casi è proprio il sindacato ad esercitare una funzione di stimolo.
In primo luogo, la partecipazione del lavoro al capitale d’impresa e la sua presenza negli organi societari conferiscono, in qualche misura, stabilità e radicamento all’impresa stessa, evitando le degenerazioni di un capitalismo invisibile e imprendibile, totalmente svincolato dalle esigenze ma anche dagli apporti in termini di cultura, valori, professionalità, relazionalità che possono provenire dalle comunità territoriali di riferimento, produttrici di quel “capitale fisso sociale” che si rivela sempre più fattore di competitività e di successo. Secondariamente, i lavoratori direttamente coinvolti nello sviluppo dell’impresa, attenti a qualità e quantità dell’occupazione, possono rappresentare un antidoto salutare contro la divaricazione tra dinamica reale e finanziaria, ponendo quest’ultima al servizio di un disegno di crescita che, nel creare benessere per tutti gli stakeholder dell’impresa, concorre altresì alla valorizzazione del suo stesso capitale. Il destino delle aziende come istituzioni produttrici di ricchezza e di benessere non può essere abbandonato agli esiti di giochi meramente finanziari, espropriando i luoghi dell’intelligenza e della progettualità reale. La partecipazione dei lavoratori concorre poi a creare un clima di consenso e di fiducia che, contribuendo ad accrescere (nel medio periodo) la redditività dell’impresa, crea risorse addizionali, spendibili anche – secondo una circolarità virtuosa – nella tradizionale attività negoziale e contrattuale. Infine, la presenza del lavoro nel capitale e negli organismi sociali si inserisce a pieno titolo nella prospettiva dell’economia sociale di mercato. Da un lato infatti essa può essere garanzia di stabilità contro il rischio di pressioni speculative di breve termine che nulla hanno a che vedere con lo stato di salute dell’impresa; dall’altro lato non si esclude la contendibilità dell’impresa medesima, nel senso che il management si trova a doversi confrontare con la capacità di iniziativa dei rappresentanti dei lavoratori negli organi societari, specie se i lavoratori sono anche azionisti. In definitiva, per quanto riguarda il nostro Paese, un ruolo attivo dei dipendenti nella governance e nel capitale dell’impresa può concorrere alla riforma e al consolidamento del capitalismo italiano in prospettiva europea. Al riguardo appare necessario un massiccio investimento culturale da parte del sindacato e delle imprese. Lavoratori disinformati, disincentivati, non supportati tecnicamente e culturalmente rischiano l’ininfluenza rispetto alle sorti dell’impresa e del lavoro stesso. Occorre pertanto costruire una strategia forte per la partecipazione e per l’azionariato dei lavoratori, che può diventare un elemento connettivo dell’impresa. Ciò attraverso l’attivazione di una circolarità virtuosa tra proprietà (non totalmente anonima o indistinta, ma facente capo a soggettività – quali i lavoratori – interessate allo sviluppo dell’impresa nel tempo come modo per salvaguardare occupazione e reddito sia in conto salario sia in conto capitale), governo (responsabile nei confronti delle diverse istanze interne ed esterne, di cui i lavoratori e il sindacato sono interpreti di fondamentale importanza), controllo (che il lavoro attraverso i propri rappresentanti negli organi societari può esercitare in maniera vigile, informata e propositiva) e gestione (cui lavoratori motivati e fidelizzati apportano secondo modalità partecipative competenze, professionalità, saperi).
Un patto per il lavoro e la crescita
La modernizzazione del nostro Paese, assunta nel quadro più ampio della costruzione dell’Europa in senso federale, non può essere interpretata né al ribasso né tantomeno in chiave autoreferenziale. Deve accompagnarsi a un disegno di trasformazione reale, traguardato sull’economia sociale di mercato e su assetti generalizzati di democrazia economica. Un disegno nel quale far convergere le politiche di breve, medio e lungo termine, nel quale far interagire il pubblico, il privato e il privato sociale, armonizzando l’insieme e le parti, il mercato e lo Stato, la libertà e la regolazione, la flessibilità e la sicurezza. Un disegno nel quale il sociale e il civile non sono confiscati, ma valorizzati per quanto di originale possono esprimere (cfr Caselli 2012). Un grande patto per il lavoro e per la produttività riveste un’importanza strategica non solo per il nostro Paese ma per tutta l’Unione Europea, che sembra talvolta dimenticare che la crescita costituisce un suo obiettivo prioritario, in quanto senza di essa rischiano di incrinarsi l’economia, il mercato comunitario e la coesione sociale ovvero i fondamenti stessi della democrazia economica. Il passaggio dall’ottica del singolo Stato nazionale a quella europea dovrebbe significare il passaggio da una politica di controllo rigido della domanda a una politica espansiva finalizzata al lavoro e a una migliore qualità della vita. Ciò attraverso un massiccio investimento nelle intelligenze, nella conoscenza e quindi nelle giovani generazioni. Occorre nel contempo la costruzione di reti con le quali diffondere le innovazioni, facendole fruttificare nel territorio. È indispensabile altresì investire in una migliore qualità di vita per tutti. Vi sono bisogni ed esigenze che non possono più essere sacrificati a livello di cultura, salute, lotta all’esclusione, protezione dell’ambiente. Essi costituiscono importanti “giacimenti” dai quali attingere per alimentare la crescita su basi nuove. In questa prospettiva le organizzazioni sindacali potranno assolvere a un ruolo di fondamentale importanza nella misura in cui riusciranno a integrare dimensioni nazionali e dimensione comunitaria anche attraverso – come già osservato – il rafforzamento dei poteri della CES. In definitiva il sindacato, in Europa e in Italia, ha di fronte una grande scommessa: farsi soggetto di modernizzazione e di trasformazione, accettando le sfide dell’innovazione, della flessibilità, dell’allargamento degli orizzonti di riferimento, della crescente complessità del sociale. Per confrontarsi con tali sfide, il sindacato non può stare al di fuori e neppure limitarsi a contrattare con le diverse controparti senza una visione strategica. Occorre viceversa un’assunzione di responsabilità nell’indirizzo, nel controllo e anche, talvolta, nella gestione delle scelte economiche e sociali. È giocoforza per il sindacato passare da una “cultura delle conseguenze” a una “cultura di progetto”, mettendo in comunicazione interessi differenziati, esplicitando e costruendo comuni valori condivisi, dandosi un programma e una speranza di vita buona, o per lo meno dignitosa, per tutti.
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NOTE
1 Nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009) si legge: «Riflettendo sul tema del lavoro, è opportuno anche un richiamo all’urgente esigenza che le or- ganizzazioni sindacali dei lavoratori si aprano alle nuove prospettive che emergono nell’ambito lavorativo. Superando le limitazioni proprie dei sindacati di categoria, le organizzazioni sindacali sono chiamate a farsi carico dei nuovi problemi delle nostre società: mi riferisco, ad esempio, a quell’insieme di questioni che gli studiosi di scienze sociali identificano nel conflitto tra persona lavoratrice e persona consumatrice» (n. 64).
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2 Isabelle Férreras, docente all’Università Cattolica di Lovanio, rilancia il dibattito sulla governance di impresa sulla base di un’idea forte: il “bicameralismo economico”. In quest’ottica viene immaginata una “direzione bicefala”, composta da una camera dei portatori di capitale e da una degli investitori in lavoro. Nessuna decisione potrà essere presa senza l’accordo di almeno il 50% + 1 dei salariati (cfr FérrerAs 2012).
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Caselli L. (2012), La vita buona nell’economia e nella società, Edizioni Lavoro, Roma.
CoMece (coMMission Des ePiscoPATs De lA coMMunAuTé euroPéenne) (2011), Une Communauté Européenne de solidarité et de responsabilité. Déclaration des Évêques de la COMECE sur l’objectif d’une économie sociale de marché compétitive dans le Traité de l’UE, Bruxelles,
CosTA G. (2017), «Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?», in Aggiornamenti Sociali, 1, 5-12 [ripreso da Aladinews].
FérrerAs I. (2012), Gouverner le capitalisme?,
Presses Universitaires de France, Parigi. GrAZZini E. (2014), Manifesto per la democrazia economica, Castelvecchi, Roma.
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PICCOLO GLOSSARIO
L’economia sociale di mercato integra in sé la concorrenza di mercato e l’equità sociale. Nata in Germania durante il periodo della Repubblica di Weimar, è una risposta soddisfacente contro le storture del liberalismo puro, in quanto cerca di garantire i singoli individui anche dal lato della giustizia sociale, della solidarietà, delle pari opportunità. L’autorità statale, considerata con un ruolo regolatore, individua alcune “condizioni quadro” da far rispettare: un severo ordinamento monetario; un credito conforme alle norme di concorrenza e una regolamentazione per scongiurare monopoli; una politica tributaria e fiscale che non sia elemento di disturbo alla libera concorrenza e che eviti sovvenzioni che la possano alterare; la protezione dell’ambiente; la tutela dei consumatori finalizzata a minimizzare i comportamenti opportunistici.
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Europa 2020 è la strategia decennale per la crescita definita dalla UE nel 2010. Ol- tre a uscire dalla crisi, essa mira a colmare le lacune del modello di crescita europeo e creare le condizioni per un tipo di sviluppo economico più intelligente, sostenibile e solidale. Per questo la UE si è data cinque obiettivi da realizzare entro il 2020, che riguardano l’occupazione, l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, l’integrazione so- ciale e la riduzione della povertà, il clima e l’energia. La strategia indica anche sette settori di intervento su cui concentrare gli sforzi per il raggiungimento degli obiettivi: l’innovazione, l’economia digitale, l’occu- pazione, i giovani, la politica industriale, la povertà e l’uso efficiente delle risorse (cfr
L’industria 4.0 scaturisce dalla quarta rivoluzione industriale. In estrema sintesi, la si può intendere come un processo che porterà alla produzione industriale del tutto automatizzata e interconnessa.
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Oggi lunedì 24 luglio 2017
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- La pagina fb dell’evento.
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Gli Editoriali di Aladinews. Migrazioni: un’ipocrisia dopo l’altra Roberta Carlini su Rocca.
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SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2017
Fermare la ratifica del Ceta
di MARCO BERSANI
«L’obiettivo del CETA è quello di accelerare nel passaggio dallo stato di diritto allo stato di mercato, relegando diritti e democrazia a variabili dipendenti dagli interessi delle grandi multinazionali e delle lobby finanziare». il manifesto, ripreso da eddyburg e aladinews, 22 luglio 2017 (c.m.c)
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Disuguaglianza distributiva? Socialmente devastante
. 24 Luglio 2017
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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Appello di padre Alex Zanotelli ai giornalisti: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
di ALEX ZANOTELLI
Una forte invettiva contro i mille silenzi dei mass media sulla giungle di delitti che giorno dopo giorno vengono compiuti in Africa. I nostri posteri ci ricorderanno come noi oggi ricordiamo i nazisti?. FNSI (Federazione italiana stampa italiana), ripreso da eddyburg e da Aladinews, 18 luglio 2017 (m.c.g.)
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Basta con le fake news sul popolo rom
Domani – lunedì 24 luglio ore 11.00 – conferenza stampa ASCE:
Basta con le fake news sul popolo rom.
L’ASCE, l’associazione sarda contro l’emarginazione ha convocato una conferenza stampa a Cagliari domani – lunedì 24 luglio alle ore 11:00 nella sala riunioni dell’Hostel Marina nelle scalette San Sepolcro per spiegare le proprie ragioni sugli esiti del processo sulla propaganda razzista e antirom per le false notizie sulle “ville con piscina agli zingari”.
Alla conferenza stampa interverranno Antonello Pabis, presidente dell’ASCE, l’avvocato Enrico Marcello e una delegazione delle Comunità Rom della Sardegna.
Saranno inoltre presenti le organizzazioni sarde aderenti alla rete Ero Straniero che hanno deciso di sostenere l’ASCE nelle iniziative antirazziste e contro l’intolleranza che vivono le comunità rom.
Sant’Elia: frammenti di uno spazio quotidiano
«Penso che ci sia qualcosa di molto prezioso nella forma del frammento,
che indica gli scarti, gli spazi e i silenzi tra le cose»
Susan Sontag, 1979
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- Il documentario premiato
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Il servizio giornalistico su eddyburg, ripreso da aladinews.
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Appello di padre Alex Zanotelli: «Rompiamo il silenzio sull’Africa»
Rilanciamo anche noi di Aladinews l’appello che il missionario Comboniano, direttore della rivista Mosaico di Pace, rivolge alla stampa italiana. «Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo», scrive.
Padre Alex Zanotelli (Foto: centrobanchi.it)
di Alex Zanotelli*
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo come missionario uso la penna (anch’io appartengo alla vostra categoria) per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani.
Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che vorrebbe. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli stanno vivendo.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. (Sono poche purtroppo le eccezioni in questo campo!)
È inaccettabile il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.
Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell’Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace.
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